Codici a specchio: fra certezza scientifica e verità
di W. FORMENTON M. FARINA, G. SALGHINI, L. TONELLO, F. ALBRIZIO
Nell’ultimo dei tanti articoli pubblicati 1, G. Amendola e M. Sanna ritornano sulla problematica della classificazione dei rifiuti con “codici a specchio” con il programma preciso di fare finalmente chiarezza sulla metodica da adottare, anche come risposta a un nostro precedente articolo 2 che aveva posto una diversa visione del problema, enucleando gli argomenti scientifici da quelli metafisici.
Nell’articolo citato, gli autori ritornano sulla loro ormai classica suddivisione in due orientamenti in materia di classificazione dei rifiuti, chiamati della certezza e della probabilità. Essi si pongono, come ben noto, fra i sostenitori della certezza, nel senso che la procedura da adottare per la classificazione dei rifiuti con codici a specchio, secondo quanto da loro interpretato della legge, deve essere tale da fornire la prova certa che tutte le sostanze pericolose presenti in un rifiuto siano identificate attraverso la caratterizzazione qualitativamente e quantitativamente precisa del rifiuto, in modo che la non pericolosità sia dimostrata in concreto. Il classificatore deve, in altre parole, fornire la prova inoppugnabile che il rifiuto non sia pericoloso.
Al contrario i sostenitori della probabilità ritengono che la norma, nel caso di rifiuti di cui si conosca l’origine e la loro formazione, permetta di caratterizzarli limitatamente alle sostanze pericolose ritenute presenti sulla base della conoscenza del rifiuto, trascurando tutte le altre sostanze pericolose la cui di presenza è molto improbabile 3. I sostenitori della certezza rimarcano che, in tal modo, si corre il rischio che alcune sostanze pericolose non siano individuate e obiettano inoltre che la scelta delle sostanze da scartare sia aleatoria, in ciò equivocando sul concetto di probabilità, assimilando la classificazione a una lotteria. Invece non è così poiché le sostanze da scartare sono scelte razionalmente in base alla conoscenza possibile del rifiuto e al fatto che le sostanze presenti sono tipiche del rifiuto stesso e si possono dedurre logicamente dalla conoscenza del medesimo. In pratica non ci sono ragioni perché altre sostanze siano presenti e se lo fossero, sarebbe solo per un caso accidentale non prevedibile. Se per alcune sostanze ci fosse anche solo un dubbio ragionevole della loro presenza, esse sarebbero controllate.
E’ chiaro che alla base dell’orientamento probabilistico vi deve essere la conoscenza del rifiuto, se questa non ci fosse mancherebbero i presupposti per scegliere logicamente le sostanze pericolose presenti e quindi non sarebbe possibile alcuna scelta razionale. E’ vero che nella pratica alcuni classificatori si avventurano comunque nel tentativo di classificazione, controllando un elevato numero di sostanze scelte a caso sulla base dei pacchetti standard disponibili, ma si tratta di un comportamento certamente criticabile e, in tal caso, la classificazione si può assimilare a una “lotteria” e la probabilità non è quella riguardante la presenza o meno delle sostanze ma quella di indovinarle 4.
Se con orientamento probabilistico s’intende il caso della “lotteria” e con “certezza” la deduzione logica delle sostanze presenti in base alla conoscenza del rifiuto e la verifica della loro presenza, allora anche noi condividiamo l’orientamento della certezza. Se al contrario con certezza s’intende quella assoluta (verità), cioè di essere certi che nessuna sostanza pericolosa presente possa essere trascurata, allora non possiamo condividere tale posizione perché impossibile da rispettare scientificamente, essendo sottesa a una credenza metafisica come quella del moto perpetuo. In sostanza perché, almeno in questo campo, crediamo nella fisica e non nella metafisica. Se la classificazione fosse paragonata alla misura di una grandezza, i sostenitori della certezza assoluta pretenderebbero che la misura sia esatta e il grado di precisione del 100%, perché solo questa è la verità.
Nella classificazione dei rifiuti, l’incertezza della misura non è contemplata dai seguaci della certezza, da cui discende l’obbligatorietà di fornire la prova certa che un rifiuto non sia pericoloso. Tale orientamento utopico è stato seguito anche da sentenze della Corte di Cassazione che, almeno sino a questo momento, sembrano propendere per la certezza, cioè la dimostrazione in concreto della non pericolosità del rifiuto, probabilmente influenzate dall’autorevolezza riconosciuta ai sostenitori di tale dottrina per i loro notevoli contributi nel campo giuridico-ambientale, riconosciuti anche da noi, escluso questo qui in discussione.
In precedenza tale approccio era noto come quello della completezza al 100% della caratterizzazione, l’unica a fornire la certezza della corretta classificazione. Tale posizione sembrava fosse stata apparentemente abbandonata poiché l’argomento non era stato più ripreso. Purtroppo, lo vediamo ora risorgere sotto altre spoglie, quelle della certezza, con un cambiamento di fatto solo nominale. Proclamare, infatti, la certezza nella classificazione del rifiuto, equivale, a tutti gli effetti, a richiedere la completezza al 100% della caratterizzazione. Da questo punto di vista i sostenitori di tale orientamento sono rimasti coerenti.
Tale utopica visione era stata rapidamente e facilmente smontata dal fatto che una caratterizzazione completa al 100% è impossibile a causa degli errori analitici che non permettono l’approssimarsi alla precisione maggiore del 99,9%, richiesta per avere la certezza di aver identificato tutte le sostanze pericolose e non pericolose presenti in un rifiuto.
Già da questo fatto si dovrebbe desumere che il partito della certezza, presentatosi sotto altre spoglie, ha basi ben poco solide, poiché un’incertezza è sempre insita nell’analisi chimica 5 e impedisce che la certezza sia raggiungibile.
Nel nostro precedente articolo abbiamo inoltre fatto presente che, oltre all’incertezza analitica, è presente un’altra incertezza dovuta al campionamento con il quale si preleva solo una piccola parte del rifiuto per sottoporlo alle procedure di classificazione, porzione certamente rappresentativa, ma che è inficiata da un errore ineliminabile di rappresentatività, 6 tanto più elevata quanto più il rifiuto è eterogeneo, come lo è la maggior parte dei rifiuti. Il campionamento riduce la quantità di rifiuto e scarta quindi una parte rilevante del materiale da esaminare. Se condotto opportunamente secondo regole codificate, basate su metodi statistici, la rappresentatività può esser elevata ma non sarà mai del 100% a meno, per assurdo, di non prelevare e sottoporre ad analisi tutto il materiale. Per non parlare poi del fatto che da tale campione prelevato, solo una piccolissima frazione sarà sottoposta ad analisi in laboratorio, con un campionamento sul campionamento, che aumenta ancor più la già compromessa certezza di rappresentatività 7. Tuttavia, con operazioni ben condotte si possono raggiungere rappresentatività di oltre il 90%, ma ciò significa che esiste una probabilità del 10% che alcune sostanze non siano presenti nel campione prelevato, pur essendo presenti nel rifiuto. Anche riuscendo a scoprire tutte le sostanze presenti nel campione, tuttavia alcune sostanze presenti nel rifiuto potrebbero sfuggire al controllo.
Questo fatto, incontrovertibile, fa entrare necessariamente, nella classificazione dei rifiuti, l’incertezza e quindi la possibilità di scoprire tutte le sostanze pericolose presenti in un rifiuto non è mai certa ma solo probabile. Nella realtà la certezza non esiste e anche gli utopici che credono di far parte di tale orientamento in realtà adottano un metodo probabilistico. In altre parole, anche riuscendo a dimostrare in concreto che nel campione non sono presenti sostanze pericolose, ciò non escluderebbe che nel rifiuto alcune di esse siano presenti e quindi è impossibile dimostrare in concreto che un rifiuto non sia pericoloso. Si dirà, allora, che il rifiuto va comunque classificato pericoloso; certamente, ma quindi è inutile sobbarcarsi l’arduo lavoro di dimostrare in concreto che il campione prelevato non è pericoloso. Seguendo questo schema tutti i rifiuti con codice a specchio sarebbero pericolosi. In concreto si può dimostrare che un rifiuto è pericoloso ma non si può dimostrare che non è pericoloso 8.
Tale irragionevole posizione deriva proprio dall’approccio della certezza che non fa parte del metodo scientifico, il quale raggiunge una verità accettabile anche agendo nell’incertezza, anzi sfruttando la stessa. Se si fa entrare la probabilità come calcolo dell’intervallo di validità di un’affermazione, allora è possibile trarre informazioni utili anche dall’incertezza. E’ per questo motivo che la norma ha stabilito, prima dell’analisi, l’uso della conoscenza del rifiuto che fa escludere le sostanze che hanno una piccola probabilità di essere presenti, perché assenti nei materiali di origine dei rifiuti e perché non si formano nel corso del processo. Tali sostanze vanno scartate perché, anche inserendole, comunque non si raggiungerebbe una maggior certezza nella conoscenza della pericolosità del rifiuto.
La probabilità, in tal caso, non è quella di una lotteria per indovinare le sostanze presenti ma la probabilità della presenza delle sostanze che fornisce indicazioni utili per un’economia dei processi della conoscenza ed è un’euristica che evita operazioni inutili che non comporterebbero maggior certezza nella conoscenza.
Essa è utilizzata, senza alcuna critica, nel caso delle acque di scarico o delle emissioni in atmosfera. In entrambi i casi, i controlli imposti nelle autorizzazioni non riguardano tutti i parametri di tutte le tabelle dei limiti di legge ma solo i parametri specifici del ciclo produttivo.
Volendo sintetizzare, i seguaci del metodo probabilistico adottano nell’indagine il metodo scientifico, quelli della certezza credono in un metodo ideale metafisico, ma in pratica, dovendo anch’essi utilizzare il metodo scientifico d’indagine, sono essi stessi condizionati dalla probabilità, anche quando estendono l’indagine irrazionalmente a dismisura 9.
Naturalmente, se con la parola “certezza” gli autori dell’articolo intendessero la “certezza scientifica” cioè una certezza che si avvicina alla verità, senza mai raggiungerla, allora la differenza fra i due orientamenti sarebbe solo una questione nominale, e anche noi, proclamati probabilisti, ma non lo siamo nel senso della lotteria, non avremmo difficoltà a iscriverci al partito della certezza (scientifica).
Se con il termine “dimostrare in concreto” s’intende la dimostrazione con certezza scientifica, allora la dimostrazione della non pericolosità di un rifiuto si può fare dimostrando di avere ben applicato la conoscenza del rifiuto oltre che con le analisi chimiche, che si integrano vicendevolmente. Ovviamente una classificazione effettuata scientificamente ha validità sino a che non si dimostrerà il contrario, cioè, come è prassi nel metodo scientifico, deve essere concessa l’inversione dell’onere della prova10.
Ciò premesso, il divario fra i due orientamenti raggiunge il suo apice quando i sostenitori della certezza affermano che aderire all’orientamento probabilistico significa affidarsi alla lotteria, come se il classificatore cercasse di indovinare quali sostanze siano presenti in un rifiuto, quasi fosse un lettore di tarocchi.11 La conoscenza del rifiuto orienta secondo criteri razionali di scelta verso le sostanze presumibilmente presenti ed esclude sostanze che molto difficilmente potrebbero essere presenti. La scelta è fatta razionalmente e non a caso e discende dalla conoscenza della formazione del rifiuto.
Solo nel caso che il rifiuto non sia conosciuto, allora la scelta delle sostanze da controllare sarebbe aleatoria e solo in tal caso si potrebbe parlare di “lotteria” se fossero controllate solo alcune sostanze e non altre. Infatti, ben diversa è la situazione in cui si deve operare con rifiuti di provenienza ignota. Secondo gli autori menzionati, la caratterizzazione di un rifiuto dovrebbe procedere con una metodologia di separazione delle sostanze organiche. Su questo punto siamo perfettamente d’accordo perché il rifiuto ha una provenienza sconosciuta. Se quanto riportato dall’articolo alla procedura analitica illustrata (sistematica di Staundinger o metodiche analoghe più moderne alla luce del fatto che oggi possiamo utilizzare strumentazioni più moderne a sostegno dei metodi di separazione 12), si riferisce ad un rifiuto sconosciuto del quale non si sappia nulla, allora siamo in perfetto accordo con gli autori.
Tale approccio richiede però tempi lunghi di analisi e quindi costi elevati. Il detentore del rifiuto, a fronte dei costi elevati per la caratterizzazione del rifiuto sconosciuto potrà sempre propendere di classificare il rifiuto come pericoloso evitando quindi la costosa caratterizzazione. Resterebbe aperti il problema delle classi di pericolosità che, in tan caso, dovrebbero essere tutte.
Riassumendo, il problema che si presenta a noi, leggendo l’articolo citato, è: gli autori intendono che debba sempre essere utilizzata tale metodica (per semplicità denominiamola Staudinger) anche per caratterizzare rifiuti di cui si conosce la provenienza e la formazione? Escludono che si possano avanzare ipotesi cautelative sulle sostanze pericolose sicuramente presenti o anche presenti con sospetto, con possibilità di eliminare dalla ricerca analitica ampie classi di sostanze perché praticamente impossibile che possano essere presenti o la cui probabilità di presenza è sicuramente inferiore agli errori di campionamento e di analisi?
Secondo noi, la caratterizzazione riguarderà solo la conferma delle sostanze ipotizzate presenti e la successiva comparazione con i limiti. Tale approccio è chiaramente previsto dalla norma, al punto a) dell’allegato D ove s’individuano i composti presenti attraverso la scheda informativa del produttore, la conoscenza del processo chimico, il campionamento e l’analisi del rifiuto. Se fosse sempre necessario, indipendentemente dalla conoscenza del rifiuto, l’analisi sistematica ipotizzata dai sostenitori della certezza, allora la norma non avrebbe avuto necessità di enumerare le fonti di dati 13.
Del resto, se abbiamo capito bene, gli stessi sostenitori della certezza, in un precedente articolo 14, hanno affermato: a tal fine, qualora non sia possibile conoscerne la composizione in base al processo di produzione e alla scheda del produttore, sarà necessario procedere alla caratterizzazione chimica del rifiuto .
Sembra quindi che gli autori concordino con noi e che nei casi nei quali il rifiuto è conosciuto si possa procedere con un approccio più semplice e meno costoso della complessa sistematica analitica ipotizzata.
Che tale approccio sia corretto è ulteriormente confermato da Guidance Document on the classification and assessment of waste, Draft version from 08 june 2015, European Commission. Chapter 3.2.1, citato dagli stessi autori:
Knowing the composition of the waste is an important precondition for determining if the waste displays hazardous properties. There are several possibilities to examine which substances can be found in the waste and whether they are hazardous:
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information from the original producer of the substance or object before it became waste, e.g. Safety Data Sheets (SDS), GHS pictograms (see in more detail Annex B);
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extensive knowledge of ’waste-generating’ manufacturing process/chemistry and its input substances and intermediates;
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database on waste analyses available on MS level;
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analysis and sampling of the waste (see Annex D).
If the composition of the waste cannot be determined by using aforementioned data sources, a further analysis and sampling of the waste is necessary .
Nel testo chiaramente si esprime che se non si possono utilizzare altre fonti di dati, come quelle menzionate, un ulteriore campionamento ed analisi è richiesto, il che significa che se si possono utilizzare altre fonti di dati, analisi parziali saranno sufficienti, cioè le fonti di dati e le analisi si integrano e non si sovrappongono.
Quindi ,riassumendo e sperando di aver fatto completa chiarezza:
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Se un rifiuto è sconosciuto, solo una caratterizzazione spinta e sistematica, come quella ipotizzata dagli autori citati, sarà necessaria e se questa fosse troppo costosa per il detentore questi potrà sempre classificare il rifiuto come pericoloso in base alla legge evitando i costi e i lunghi tempi necessari;
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Se invece il rifiuto è conosciuto, l’analisi chimica riguarderà esclusivamente le sostanze che sono potenzialmente presenti in base alle fonti dei dati e del processo di formazione del rifiuto. Facciamo presente che la scelta delle sostanze non è aleatoria ma discende dalla conoscenza delle materie prime che hanno concorso alla formazione del rifiuto e del processo di formazione dello stesso, applicando metodi razionali di deduzione. Ove questo non fosse possibile, come in alcuni casi citati dagli autori, allora si dovrà necessariamente passare al punto 1.
Poiché anche attraverso queste scelte razionali o comunque anche nel caso del punto 1, la certezza non sarà mai raggiunta, la prova certa che il rifiuto non contenga sostanze pericolose non sarà mai possibile, nemmeno dopo aver applicato la sistematica più estesa, perché l’incertezza è insita nel metodo (incertezza radicale) ed è per questo che nel nostro precedente articolo abbiamo parlato di probatio diabolica e richiesto l’inversione dell’onere della prova.
Contrariamente a quanto sostengono gli autori, si opera in modo analogo anche nelle analisi cliniche, nel senso che il medico formula un’ipotesi di diagnosi e in base alla stessa sono effettuati i controlli di alcuni parametri, che non sono scelti a caso ma razionalmente. La diagnosi in base ai sintomi è l’equivalente della conoscenza del rifiuto e del processo di formazione, dai quali si deducono i parametri che si debbono verificare per confermare o no la diagnosi.
Il medico non impone il controllo di tutti i parametri clinici possibili in generale, che richiederebbe costi enormi, ma solo di quelli sospetti. Solo se il medico non fa una diagnosi, oppure se la stessa non è fattibile, solo allora sarà necessario un check-up completo. Se un malato richiede un controllo ortopedico il medico non gli prescriverà anche un elettrocardiogramma a meno che non sospetti che sia anche malato di cuore o un elettroencefalogramma se il malato non presenta disturbi neurologici.
A nostro giudizio, l’analogia è valida e proprio per tale motivo avevamo parlato in una nota del nostro precedente lavoro di “chimica protettiva”, in analogia alla “medicina protettiva” che aumentano a dismisura i costi dei controlli.
Per concludere, speriamo di aver unificato le due visioni, nel senso che la “certezza” è la certezza scientifica e quindi non vi è divisione fra i due approcci e la sistematica estesa si applica solo ai rifiuti sconosciuti, mentre per quelli noti le analisi si restringono solo alle sostanze presenti inizialmente in origine o che si possono formare, se note da fonti razionali e non sono scelte aleatoriamente.
Nel caso si scegliessero i parametri da controllare sulla base del “tirare a indovinare” e non su basi razionali, siamo d’accordo con gli autori citati. Come siamo anche in accordo su quanto riportato che la prassi attuale di riportare decine di pagine di sostanze ricercate e non presenti non fa certo onore a chi compila quei certificati. Un certificato di classificazione con quindici pagine di sostanze analizzate fa capire che l’analizzatore non aveva ben presente la provenienza del rifiuto e ha cercato di “indovinare” le sostanze presenti, sulla base dei pacchetti standard di commercio disponibili. In tal caso si tratta effettivamente di una lotteria e quindi di probabilità di indovinare 15 che non ha niente a che fare con la probabilità inerente il metodo scientifico. Se un certificato riporta centinaia di sostanze controllate significa che il produttore analizzatore non conosce il rifiuto e quindi dovrebbe riportare, per coerenza, non centinaia di sostanze ma tutte quelle presenti nel CLP, oppure utilizzare la sistematica riportata dagli autori menzionati. Si deve, giustamente, denunciare tale approccio poiché contraddittorio dal punto di vista scientifico oltre che come pratica commerciale ingannevole.
In tal caso, entriamo in un dibattito più delicato e cioè come deve essere compilato un certificato di classificazione. Esso certamente deve avere due parti: una che ipotizza e giustifica, su base documentale, le sostanze pericolose presenti e la loro scelta su basi razionali e, in un successivo allegato, il certificato di analisi quantitativa delle sostanze pericolose confermate presenti. Nel caso di rifiuti sconosciuti la relazione deve giustificare quale percorso sistematico si è utilizzato per identificare le sostanze pericolose presenti.
Sarebbe necessario che il Ministero o APAT intervenissero emanando linee guida precise su come stilare un certificato di classificazione dei rifiuti e rendesse obbligatoria la metodica da adottare basata sulla duplice certificazione: conoscenza del rifiuto e analisi chimica. La classificazione dei rifiuti non dovrebbe essere un certificato di analisi ma una relazione tecnica in cui il produttore, sulla base della sua conoscenza del rifiuto ipotizza razionalmente e precauzionalmente le sostanze pericolose presenti e fa una verifica se le stesse siano effettivamente presenti, attraverso la caratterizzazione qualitativa e con la determinazione quantitativa verifica il superamento dei limiti. I certificati delle analisi chimiche qualitative e quantitative sono allegati alla relazione. Se il rifiuto è sconosciuto, si allegherà la metodica utilizzata per riconoscere le sostanze pericolose presenti, in modo che possa essere condivisa o criticata dagli organi di controllo (in analogia del peer review del metodo scientifico).
1 G. Amendola, M. Sanna, Codici a specchio: basta confusione, facciamo chiarezza, IndustrieAmbiente.it, giugno 2017
2 W. Formenton, M. Farina, G. Salghini, L. Tonello, F. Albrizio, La classificazione dei rifiuti con codici a specchio e la “probatio diabolica” , lexambiente.it, 26 Aprile 2017.
3 Volendo semplificare con un esempio limite: se un rifiuto si origina da materie prime che non contengono sostanze pericolose e non reagiscono fra loro per formare sostanze pericolose, secondo i probabilisti non è necessaria alcuna analisi per classificare il rifiuto non pericoloso. Secondo i seguaci della certezza, cioè del non si sa mai, si dovrà procedere ad un’analisi sistematica estesa per dimostrare in concreto che, effettivamente, non c’è alcuna sostanza pericolosa.
4 In realtà la scelta dei pacchetti standard non è fatta a caso ma si usano, per quanto possibile, tutte le sostanze che sono presenti nella maggior parte dei processi produttivi. Certamente però, in questo modo, alcune sostanze presenti in produzioni specifiche e poco diffuse potrebbero sfuggire al controllo. Si deve aggiungere però che alcune tecniche analitiche (spettrometro di massa) dispongono di database di riconoscimento con oltre centomila sostanze, se si riesce a separarle.
5 Come in generale in tutte le misure ed è strutturale al metodo scientifico, che procede per successive approssimazioni. La scienza evolve proprio perché incerta e si adatta, momentaneamente, a quanto conosce con approssimazione, pronta però a superarlo a fronte di nuovi riscontri. “La scienza sa di non sapere per questo funziona”, suggeriamo la lettura di quest’ ottimo testo di Maria Luisa Villa.
6 incertezza radicale, poiché una parte non è il tutto.
7 Basta pensare che da tonnellate di rifiuti solo qualche milligrammo arriva allo strumento di analisi.
8 Probatio diabolica.
9 Alla domanda: “Si deve cercare il cromo(VI) in un’acqua di scarico di una latteria?” Risponderanno: “perché no? Non si sa mai!”.
10 Dicono gli autori: f rancamente, per quanto ci sforziamo, non riusciamo a capire su quali basi poggiano queste affermazioni. L’affermazione si basa su un semplice assioma che prescinde da aspetti giuridici o dalla recente sentenza della Cassazione: se a un produttore di un rifiuto si contesta d’aver fatto eseguire un’analisi parziale, come fa l’Organo di Controllo ad accertarlo? Semplicemente basterebbe che eseguisse quelle determinazioni che dimostrano la presenza di sostanze non presenti nel certificato, ma in realtà presenti e superiori ai limiti previsti. E perché questo non viene fatto? Sarebbe una prova schiacciante. In realtà, da un lato l’Organo di Controllo in un gran numero di casi non saprebbe cosa cercare. Facciamo un esempio concreto. Quali sostanze andrebbero cercate in un rifiuto (da inviare a un impianto di depurazione) costituito da acque di lavaggio e cottura di pomodori da inscatolare? A voler essere ipercautelativi, le uniche sostanze pericolose che andrebbero cercate potrebbero essere i fitofarmaci usati nella coltivazione dell’ortaggio (e sarebbe comunque una cautela eccessiva). Cosa altro cercherebbero, in questo caso, i fautori della certezza? I metalli? Gli organoclorurati? I pcb? (Albrizio).
11 Oppure di un misuratore si dicesse che cerca di indovinare la misura. In effetti, il misuratore “indovina” la misura ma non sparando numeri a caso ma sapendo entro quale intervallo si trova la misura che cerca.
12 Ringraziamo gli autori per averci risparmiato di nominare la sistematica qualitativa ad umido di analisi dei cationi e degli anioni, caro ricordo dei tempi passati all’università, la cui applicazione non è più necessaria alla luce della presenza di strumentazioni più moderne, più rapide ed efficaci.
13 La premessa all’allegato D è stata sostituita dal D.L. 20 giugno 2017, n. 91 da: Art. 9 - Misure urgenti ambientali in materia di classificazione dei rifiuti
1. I numeri da 1 a 7 della parte premessa all’introduzione dell'allegato D alla parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, sono sostituiti dal seguente: «1. La classificazione dei rifiuti è effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente
codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella decisione 2014/955/UE e nel regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione, del 18 dicembre 2014».
E’ sparita l’indicazione del punto a), facendo venire meno un riferimento preciso. Tuttavia, in attesa di ulteriori precisazioni, riteniamo che tale riferimento resti ancora valido, quantomeno perché riportato anche in Guidance Document on the classification and assessment of waste, Draft version from 08 june 2015, European Commission. Chapter 3.2.1.
14 G. Amendola, Codici a specchio. Arriva il partito della scopa, Industrie-Ambiente, aprile 2017.
15 Che è ben diversa dalla probabilità della presenza.