Rifiuti. Codici a specchio: nasce il partito della “incertezza” scientifica
di Marcello FRANCO
È da tempo che seguo, in particolare su lexambiente e su industrieambiente, il dibattito tra autorevoli Autori – Gianfranco Amendola, Mauro Sanna, Stefano Maglia, il Presidente dell’Ordine dei chimico del Lazio, Umbria, Abruzzo e Molise, Walter Formenton ed altri – sul tema della classificazione dei rifiuti con cosiddetto “codice a specchio”.
Premetto che non mi trovo d’accordo con alcuno degli Autori citati: non condivido l’opinione di Amendola e Sanna, ma non mi convincono nemmeno le argomentazioni di Maglia, né del tutto quelle del Presidente dei chimici e neppure quelle di Formenton.
La tesi del Dottor Sanna – e del Dottor Amendola – mi è nota da anni, ma mi sembra che negli ultimi mesi nei quali, per i contingenti eventi processuali, il dibattito si è particolarmente infervorato, nel pensiero dei due Autori vi sia stata una tutt’altro che trascurabile evoluzione culminata, al momento, con l’ultimo breve, ma pregnante articolo pubblicato l’11 luglio su lexambiente con il significativo titolo «Rifiuti. Codici a specchio: cresce il partito della certezza (scientifica)».
Nei loro precedenti articoli, ad opera più del Dottor Amendola che del Dottor Sanna, le opposte correnti di pensiero erano state catalogate come “tesi probabilistica” e “tesi (o partito) della certezza”, con una breve incursione del “partito della scopa” i cui adepti sono comunque annoverabili tra i sostenitori della “tesi probabilistica” e non costituiscono pertanto un tertium genus (1).
Al tertium genus invece, eventualmente, appartengono i presunti nuovi “tesserati” del partito della certezza “in crescita”, in onore dei quali, essendo cinque chimici, la “certezza” è divenuta, sia pur tra parentesi, «(scientifica)».
Avendo letto con attenzione l’articolo dei cinque chimici al quale fanno eco Gianfranco Amendola e Mauro Sanna con il loro «Rifiuti. Codici a specchio: cresce il partito della certezza (scientifica)» (2), francamente non mi sembra che Formenton, Farina, Salghini, Tonello ed Albrizio aderiscano e nemmeno diano un “appoggio esterno” al partito della certezza. Al contrario la loro trasparente intenzione è di dimostrare «pacatamente e garbatamente», come dicono Amendola e Sanna, che la non adesione a quel partito non significhi affatto affidare la classificazione dei rifiuti alla probabilità o alla lotteria.
La realtà mi sembra tutt’altra: il partito della certezza non sta crescendo, ma (forse) sta cambiando, avendo scopeto cos’è la scienza, avendo cioè scoperto che riporre nella scienza le proprie aspettative di certezza è una pia illusione; è “pia” perché solo la fede può dare certezze, non la scienza. La cosiddetta “certezza scientifica” si ha solo nel rigore del metodo, non nell’indubitabilità del risultato e l’aspettativa popolare di avere una verità senza incognite si scontra con il perenne dubbio che nello scienziato è il “motore” della ricerca.
Oggi i due autorevoli Autori espressamente riconoscono che la caratterizzazione di un rifiuto completa al 100% è impossibile: «Che l’incertezza sia insita in ogni misura è un dato scontato», scrivono. Ma ciò non mi sembrava altrettanto – da loro – scontato nei loro precedenti articoli e soprattutto nell’impostazione originaria della loro tesi.
In ogni caso, una volta ammesso, riconosciuto e dato per scontato che non sia tecnicamente possibile la caratterizzazione completa dei rifiuti, ovvero «Che l’incertezza sia insita in ogni misura», mi chiedo come si possa (continuare a) sostenere che «per classificare un rifiuto a specchio si deve partire dalla sua caratterizzazione, provvedendo ad individuare puntualmente le sostanze in esso contenute per poi verificare, senza che permangano zone d’ombra o addirittura incognite [la sottolineatura è di chi scrive], se tra queste vi siano o meno sostanze pericolose».
La contraddizione non mi sembra superabile con le “argomentazioni” addotte dai due autorevoli Autori che vale la pena di rileggere con la massima attenzione.
«Questa misura sarà sempre affetta da una incertezza e quindi, quando si esprime in modo astratto un valore, appare del tutto superfluo sottolineare anche la incertezza del medesimo.
Premesso che non mi è chiaro cosa si intenda per valore espresso «in modo astratto», non mi sembra «del tutto superfluo sottolineare» – rectius: precisare – l’incertezza del valore riportato nel rapporto di prova. Al contrario, un rapporto di prova correttamente redatto dovrebbe sempre riportare l’incertezza stimata da chi ha eseguito la prova stessa.
Fatte queste considerazioni che si ritengono del tutto banali e scontate,
Ma forse tanto «banali e scontare» non lo erano fino a non molto tempo fa, e comunque ciò dovrebbe valere anche per l’incertezza del campionamento, della quale non si rinviene ancora alcun riscontro nei loro scritti e i cui effetti non si risolvono in un mero incremento dell’incertezza di misura, ma si riverberano sul grado di affidabilità dell’intera prova, il che comporta che, salvo casi che possiamo considerare marginali (rifiuti chimicamente omogenei, e, ricordo a me stesso, in chimica e fisica è omogeneo, il corpo, solido o liquido, ed il miscuglio che in ogni suo punto presenta proprietà chimico-fisiche identiche), la caratterizzazione dei rifiuti non può risolversi nella sola analisi chimica di laboratorio.
è però anche evidente che perché vi sia una incertezza nella misura vi dovrà essere la misura stessa.
E questo, come si suol dire, “non fa una piega”: è evidente che non posso stimare l’incertezza di una misura che non ho fatto.
Perciò se si deve conoscere la composizione di un rifiuto è prima di tutto necessario che si proceda alla individuazione ed alla misura delle sostanze in esso contenute.
Ed è questo il nocciolo della questione. Facciamo un esempio: ho un rifiuto, un miscuglio, una “cosa” che pesa 100 e che so per certo che è costituita da tre sostanze – A, B e C – perché l’ho formulata io. Prelevo un campione e l’analizzo. Troverò che A è in quantità X più o meno l’incertezza analitica, che B è in quantità Y più o meno l’incertezza analitica e che C è in quantità Z più o meno l’incertezza analitica. Faccio la somma e, salvo – qui sì – la “lotteria”, ottengo che X + Y + Z non è uguale a 100, ma anche se lo fosse, l’analista dovrebbe comunque concludere che X + Y + Z = 100 più o meno l’incertezza analitica: scientificamente la mia “cosa” – trascurando per semplicità esplicativa l’incertezza di campionamento – è costituita per circa il 100% da A, B e C, ma non c’è alcuna certezza assoluta che non contenga altro, e ciò anche non considerando l’effetto incrementale della di norma inevitabile incertezza di vampionamento. Con la sola analisi, quindi, si può dimostrare, se si trovano, che il rifiuto contiene sostanze pericolose, ma se non si trovano non si può dimostrare che non le contenga: «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato.» (Albert Einstein).
Se si rinuncia a priori a tale misura e ci si attesta sulla conoscenza del 50% della sua composizione non si potrà certo sostenere che il residuo 50% è costituito dalla incertezza della misura.»
Premesso che il Dottor Sanna ha pubblicamente dichiarato di non aver mai visto, in quarant’anni di onorata carriera, un’analisi “esaustiva” come da lui ritenuta necessaria e che, salvo casi particolari che di norma si verificano solo nell’industria chimica o per i depositi di prodotti chimici, le analisi correntemente eseguite sono ben lungi dal raggiungere il 50% della composizione del rifiuto, chi ha mai detto che ciò che non è stato ricercato sarebbe «costituito dalla incertezza di misura»? Solo chi non sa cosa sia l’incertezza di misura può fare un’affermazione simile. La realtà è che “tutti”, in Italia e negli altri Paesi dell’UE, per caratterizzare i rifiuti in laboratorio ricercano solo i contaminanti o comunque le sostanze pericolose: nessuno, ad esempio, per classificare come pericolosi o meno gli stracci sporchi di oli, solventi od altro ricerca anche il cotone e le fibre tessili!.
In sintesi, a mio modesto avviso, una volta riconosciuto che qualunque misura è “affetta” da un più o meno ampia incertezza, che per giunta non è pre-codificata, né in alcun modo calcolabile, ma è “stimata” dall’analista stesso, anche senza la parimenti necessaria considerazione dell’incertezza di campionamento, ne discende necessariamente che se «per classificare un rifiuto a specchio si deve partire dalla sua caratterizzazione, provvedendo ad individuare puntualmente le sostanze in esso contenute per poi verificare, senza che permangano zone d’ombra o addirittura incognite [la sottolineatura è sempre di chi scrive], se tra queste vi siano o meno sostanze pericolose» non c’è alternativa alla ricerca di tutte le circa 8.000 sostanze che possono conferire al rifiuto una caratteristica di pericolo, ricerca che, in precedenti articoli, il Dottor Amendola ha ammesso essere impercorribile.
Restano, o resterebbero, a favore del “partito della certezza” non ancora «(scientifica)» gli argomenti addotti in precedenti articoli del Dottor Amendola e del Dottor Sanna relativi alla ventilata possibilità di un’indagine esaustiva della composizione del rifiuto applicando sistematiche note fin dagli anni trenta del secolo scorso ed alla conformità di quanto da loro asserito con quanto previsto in linee guida predisposte da organizzazioni governative di altri Paesi, agenzie dei quattro Stati del Regno Unito in primis, e in corso di predisposizione da parte della Commissione UE.
Senza entrare nel merito, mi limito ad invitare i due autorevoli Autori ad indagare come negli altri Paesi europei, nel Regno Unito, in primo luogo, ma anche in Germania, Austria, ecc., in rifiuti vengano sottoposti ad analisi. Scoprirebbero cose molto interessanti; in particolare scoprirebbero come negli altri Paesi si fanno molte meno analisi che in Italia, scoprirebbero che molti rifiuti con codice a specchio sono pacificamente classificati come non pericolosi anche senza analisi, ma soprattutto il Dottor Sanna potrebbe confermare di non aver visto alcuna analisi con i requisiti da lui ritenuti necessari.
In alternativa, li invito a prendere visione delle procedure di esportazione tramite notifica di rifiuti dall’Italia alla Germania, all’Austria, alla Danimarca ed alla Svezia o in qualunque altro Paese dell’UE; scopriranno che le analisi inserite in tali notifiche sono tutte perfettamente equiparabili, né potrebbe essere altrimenti, a quelle eseguite per classificare e smaltire i rifiuti in Italia – nessuna delle quali, è bene ripeterlo, soddisfa il Dottor Sanna – e vengono ritenute del tutto idonee dalle autorità tedesche, austriache, danesi e svedesi. Ed è appena il caso di ricordare come la “notifica” di cui al regolamento (CE) n. 1013/2006 sia sostanzialmente una domanda di autorizzazione; sulla base della notifica la spedizione di un rifiuto da un Paese all’altro è autorizzata (o denegata) da quello di destinazione: Amburgo, Vienna, Copenaghen e Stoccolma quando autorizzano la spedizione di un rifiuto dall’Italia ad un impianto della loro giurisdizione prendono atto e “convalidano” l’analisi che correda la notifica-domanda di autorizzazione e che caratterizza il rifiuto oggetto dell’autorizzazione stessa!
Personalmente, non ritengo che su questioni tecniche si possano applicare le regole della democrazia e sono abbastanza abituato a sostenere posizioni di minoranza, ma, quando tutti gli altri la pensano in modo diverso da me, mi metto in discussione, anche perché, fedele all’insegnamento di Einstein, so che potrebbe essere sempre dimostrato che ho torto, ma non potrò mai dimostrare che ho ragione.
Marcello Franco – Venezia