CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE J. MAZÁK
presentate il 22 marzo 2007 
Causa C‑195/05
Commissione delle Comunità europee
contro
Repubblica italiana

«Inadempimento di uno Stato – Ambiente –Direttiva 75/442/CEE come modificata dalla direttiva 91/156/CEE – Nozione di “rifiuti” – Scarti alimentari»

I –    Introduzione

1.        Con il presente ricorso la Commissione chiede di constatare che la Repubblica italiana,

–        avendo adottato indirizzi operativi validi su tutto il territorio nazionale, esplicitati in particolare per mezzo della circolare del Ministero dell’Ambiente del 28 giugno 1998 e della circolare del Ministero della Salute del 22 luglio 2002, tali da escludere dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti gli scarti alimentari originati dall’industria agro-alimentare destinati alla produzione di mangimi;

–        avendo per mezzo dell’art. 23 della legge 31 luglio 2002, n. 179, escluso dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti i residui derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione;

è venuta meno agli obblighi che ad essa incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva 15 luglio 1975, 75/442/CEE sui rifiuti (2), come modificata dalla direttiva91/156/CEE (3) (in prosieguo: la «direttiva 75/442» o la «direttiva»).

2.        Ancora una volta dinanzi alla Corte di giustizia viene portato un caso riguardante la nozione di rifiuti nell’ordinamento comunitario. Dal momento che una definizione omnicomprensiva di rifiuti non esiste, né potrebbe esistere, e, di conseguenza, la questione se una determinata sostanza rientri o meno nella nozione di rifiuti deve essere risolta caso per caso, in base a tutte le circostanze della fattispecie, la Corte avrà certamente un’ampia opportunità di riflettere sul significato di tale termine anche in futuro.

3.        La presente causa è direttamente connessa con la causa C‑194/05 – nella quale, oggi, presento del pari le mie conclusioni – nel senso che in entrambi i casi si tratta di stabilire in che misura ed in quali circostanze una sostanza che viene destinata a determinate operazioni di riutilizzo possa essere esclusa dalla definizione di rifiuti ai sensi della direttiva. Perciò entrambe le cause vertono sulla distinzione che deve essere operata tra il concetto di recupero dei rifiuti ed il normale trattamento industriale di un prodotto, o – più precisamente – di un sottoprodotto, che non costituisce un rifiuto.

II – Contesto normativo

A –    Direttiva 75/442

4.        L’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442, recita:

«Ai sensi della presente direttiva, si intende per:

a)      “rifiuto”: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi.

La Commissione, conformemente alla procedura di cui all’articolo 18, preparerà, entro il 1° aprile 1993, un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all’allegato I. Questo elenco sarà oggetto di un riesame periodico e, se necessario, sarà riveduto secondo la stessa procedura».

L’allegato I alla direttiva 75/442, intitolato «Categorie di rifiuti», comprende, al punto Q14 i «[p]rodotti di cui il detentore non si serve più (ad esempio articoli messi fra gli scarti dall’agricoltura, dalle famiglie, dagli uffici, dai negozi, dalle officine, ecc.» e, al punto Q16 «[q]ualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate».

5.        La versione attualmente vigente di tale elenco di rifiuti, adottato dalla Commissione in conformità dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442 (4), menziona, all’interno del capitolo 02 (uno dei capitoli che elencano le fonti di produzione dei rifiuti) i «rifiuti provenienti da produzione, trattamento e preparazione di alimenti in agricoltura, orticoltura, caccia, pesca ed acquicoltura».

B –    Normativa nazionale

6.        In Italia, la disciplina dello smaltimento dei rifiuti è contenuta nel decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (5) (di seguito, il «D. Lgs. 22/97»).

7.        L’art. 6, n. 1, lett. a) del D. Lgs. 22/97 definisce i rifiuti come segue:

«Ai fini del presente decreto si intende per:

a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi».

8.        L’art. 8, n. 1, di tale decreto esclude dal campo di applicazione di quest’ultimo determinate sostanze e materiali, in quanto disciplinati da specifiche disposizioni di legge, tra i quali, alla lett. c), figurano «le carogne e i seguenti rifiuti agricoli: materie fecali ed altre sostanze naturali non pericolose utilizzate nell’attività agricola».

9.        L’art. 23 della legge 31 luglio 2002, n. 179 (in prosieguo: la «legge n. 179») ha inserito un nuovo punto (c-bis) all’art. 8, comma 1, del D. Legs. 22/97. Di conseguenza sono escluse dall’ambito di applicazione di tale decreto le seguenti sostanze, specificate in tale punto:

«i residui e le eccedenze derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione di cui alla legge 14 agosto 1991, n. 281 e successive modificazioni, nel rispetto della vigente normativa».

10.      La circolare del Ministro dell’Ambiente 28 giugno 1999, n. 3402/V/IMIN (in prosieguo: la «circolare del giugno 1999») ha dato una definizione più precisa del termine «rifiuto» ai sensi del D. Lgs. 22/97 e, nell’ultimo paragrafo, sub b), indica che:

«i materiali, le sostanze e gli oggetti originati dai cicli produttivi o di preconsumo, dei quali il detentore non si disfi, non abbia l’obbligo o l’intenzione di disfarsi e che quindi non conferisca a sistemi di raccolta o trasporto dei rifiuti, di gestione di rifiuti ai fini del recupero o dello smaltimento, purché abbiano le caratteristiche delle materie prime secondarie indicate dal D.M. 5.2.1998 e siano direttamente destinate in modo oggettivo ed effettivo all’impiego in un ciclo produttivo, sono sottoposti al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti».

11.      Inoltre, nell’ultimo paragrafo, lett. c) della medesima circolare ministeriale, si legge:

«non sono sottoposti altresì al regime dei rifiuti i beni di consumo dei quali il detentore non si disfi, non abbia l’obbligo o l’intenzione di disfarsi, in quanto possono essere utilizzati e siano effettivamente utilizzati per la loro funzione originaria».

12.      Un’interpretazione autentica della definizione del termine «rifiuto» di cui al D. Lgs. 22/97 è stata elaborata con l’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito in legge 8 agosto 2002, n. 178 (in prosieguo: la «legge n. 178»). Infine, alcune linee guida in materia sono state fissate con la circolare del Ministro della Salute del 22 luglio 2002 (in prosieguo: la «circolare del 2002»).

13.      La circolare del 2002 stabilisce, inter alia:

«I materiali ed i sottoprodotti derivanti dalle lavorazioni dell’industria agro-alimentare sono “materie prime per mangimi” ove, in presenza dei requisiti igienico-sanitari, esista la volontà del produttore di volerli utilizzare nel ciclo alimentare zootecnico.

In In tal caso, i suddetti materiali non sono assoggettati alla normativa sui rifiuti, bensì alle disposizioni relative alla produzione e commercializzazione degli alimenti per animali e, nel caso di prodotti di origine animale e contenenti costituenti di origine animale, anche alle norme sanitarie vigenti in materia.

(…).

In assenza delle suddette garanzie sull’effettiva destinazione all’alimentazione animale, i materiali e i sottoprodotti derivanti dal ciclo produttivo e commerciale dell’industria agroalimentare dovranno essere sottoposti al regime giuridico dei rifiuti».

III – Fase precontenziosa e procedimento dinanzi alla Corte

14.      Con lettere 11 e 19 giugno 2001, 28 agosto 2001, 6 novembre 2001 e 10 aprile 2002, le autorità italiane rispondevano alla lettera di diffida inviata dalla Commissione il 22 ottobre 1999 e al parere motivato dell’11 aprile 2001. In tali atti la Commissione sosteneva che la Repubblica italiana, avendo adottato indirizzi operativi vincolanti per l’applicazione della normativa italiana sui rifiuti i quali escludevano gli scarti alimentari – provenienti dalle industrie agroalimentari, da mense o ristoranti, destinati ad essere utilizzati per l’alimentazione degli animali – dall’ambito di applicazione della normativa nazionale sui rifiuti, era venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva 75/442.

15.      Alla luce delle informazioni comunicate dalle autorità italiane, la Commissione concludeva che l’adeguamento della legislazione italiana ai requisiti del parere motivato consisteva essenzialmente in adattamenti formali piuttosto che in modifiche sostanziali.

16.      Per tale motivo, la Commissione inviava in data 19 dicembre 2002 una lettera di diffida complementare, alla quale le autorità italiane replicavano con lettera 13 febbraio 2003. La Commissione allora emetteva un ulteriore parere motivato, in data 11 luglio 2003, concedendo all’Italia un termine di due mesi per conformarvisi.

17.      Dal momento che, con lettera del 4 novembre 2003, le autorità italiane insistevano nel contestare la fondatezza della tesi della Commissione, quest’ultima decideva di introdurre il presente ricorso, che perveniva nella cancelleria della Corte il 2 maggio 2005.

IV – Analisi dell’inadempimento contestato

A –    Principali argomenti delle parti

18.      Con il suo ricorso, che è diviso in due parti, la Commissione adduce, sostanzialmente, che la normativa italiana sui rifiuti esclude a priori dal suo ambito di applicazione alcuni scarti alimentari, sulla base di talune presunzioni. Pertanto, ai sensi della normativa italiana, determinati materiali derivanti da un processo di produzione non sono considerati rifiuti anche se dovrebbero esserlo in base ad una corretta applicazione della nozione di rifiuti – che deve essere intesa estensivamente – secondo l’interpretazione della Corte.

19.      Il ricorso si riferisce anzitutto al fatto che alcune istruzioni ministeriali effettivamente escludono dal regime di gestione dei rifiuti gli scarti alimentari dell’industria agroalimentare destinati alla produzione di alimenti per animali. In base a tali indirizzi interpretativi è sufficiente che un residuo alimentare sia destinato alla produzione di mangimi – in forza di una volontà manifesta del detentore – , e che presenti determinate caratteristiche tecniche, affinché sia sempre e comunque escluso dal regime dei rifiuti.

20.      Tuttavia, a parere della Commissione, il fatto che sia possibile riutilizzare un residuo di produzione senza effettuare alcun intervento preventivo di trattamento non può essere considerato decisivo al fine di escludere che il produttore/detentore se ne disfi o abbia l’intenzione oppure abbia l’obbligo di disfarsene.

21.      La Commissione evidenzia, in particolare, che, secondo una consolidata giurisprudenza, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale il detentore non ha intenzione di «disfarsi», ai sensi della direttiva 75/442, solo nel caso in cui il riutilizzo di tale materiale sia certo, senza trasformazione preliminare, e avvenga nel corso del processo di produzione (6).

22.      Di conseguenza, occorre verificare il grado di probabilità che un materiale venga riutilizzato, e soprattutto valutare se esso sia riutilizzato o meno all’interno del medesimo processo di produzione. Il trasferimento di uno scarto alimentare dal produttore di alimenti all’utilizzatore del medesimo presuppone una serie di operazioni che dimostrano l’esistenza di differenti processi che la direttiva mira specificamente a controllare.

23.      Al riguardo, la Commissione fa valere che la legge n. 178 esclude dalla disciplina italiana sui rifiuti anche i residui di produzione, qualora siano o possano essere riutilizzati nello stesso o in un diverso ciclo di produzione.

24.      In replica all’argomento del governo italiano secondo cui gli scarti in questione sarebbero disciplinati da una serie di regolamenti italiani in materia di alimenti, la Commissione rileva che nessuno di tali regolamenti ha come scopo la tutela dell’ambiente, poiché essi hanno il solo fine di preservare la salute pubblica. Né si può sostenere che tali regolamenti soddisfino le condizioni necessarie per costituire un’«altra normativa» ai sensi dell’art. 2, n. 1, lett. b), della direttiva.

25.      In secondo luogo, la Commissione censura il fatto che l’art. 23 della legge n. 179 ha l’effetto di escludere dall’ambito di applicazione della normativa italiana sui rifiuti, di cui al D. Lgs. 22/97, i residui e le eccedenze derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione. La Commissione sostiene che, in tal modo, l’art. 23 della legge n. 179 estende l’esclusione ad alcune sostanze che non possono essere automaticamente escluse dalla definizione dei rifiuti prevista dalla direttiva.

26.      La Commissione respinge l’argomento del governo italiano secondo cui l’accoglimento dell’interpretazione da essa suggerita, in quanto impedisce il riutilizzo degli scarti alimentari di cui è causa, condurrebbe ad un aumento della produzione e dello smaltimento dei rifiuti. Secondo la Commissione, il problema relativo al fatto che sostanze alimentari avrebbero dovuto essere trasportate su mezzi appositamente autorizzati per i rifiuti è stato creato dalla normativa italiana.

27.      Il governo italiano sostiene che, in presenza dei pertinenti requisiti igienico-sanitari, i materiali ed i sottoprodotti derivanti dalle lavorazioni dell’industria agroalimentare sono «materie prime per mangimi», ove esista la volontà del produttore di utilizzarli nel ciclo alimentare zootecnico. Tale volontà, associata al riutilizzo certo dei sottoprodotti stessi, non sottoposti a trasformazioni preliminari – o assoggettati unicamente alle trasformazioni previste dalla normativa vigente in ambito comunitario o nazionale – costituisce una prova sufficiente della volontà del produttore/detentore di non disfarsi del materiale in questione.

28.      Secondo il governo italiano, nella fattispecie non si tratterebbe di un’esclusione «a priori», poiché la stessa è condizionata non solo alla volontà manifesta di utilizzare tali materie prime nel ciclo alimentare zootecnico, ma anche al riutilizzo certo dei sottoprodotti.

29.      Il governo italiano sostiene che i suddetti materiali non sono assoggettati alla normativa sui rifiuti, bensì alle disposizioni relative alla produzione e alla commercializzazione degli alimenti per animali. Al riguardo, esso cita numerosi regolamenti in materia adottati a livello comunitario e nazionale (7). Tali regolamenti in materia di alimenti, al pari della direttiva, mirano a controllare le operazioni di magazzinaggio, trasformazione e trasporto e nel garantire un’adeguata tutela della salute, sono in grado di assicurare la tutela dell’ambiente. In particolare, la normativa nazionale in materia di alimenti e mangimi consente la rintracciabilità dei prodotti e delle materie prime destinate alla produzione di mangimi a partire dallo stabilimento di produzione attraverso tutte le fasi di trasporto.

30.      Inoltre, il governo italiano sottolinea che, contrariamente all’interpretazione della nozione di rifiuti data dalla Commissione, è corretto considerare che il detto ciclo di produzione costituisce un unico processo di produzione. Al riguardo, tale governo fa riferimento alla recente giurisprudenza della Corte, secondo cui è possibile che una sostanza non sia considerata un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442, qualora esista la certezza che la stessa verrà utilizzata per soddisfare il fabbisogno di operatori economici diversi dall’impresa che l’ha prodotta (8).

31.      Il governo italiano afferma che, paradossalmente, se venisse accolta la richiesta della Commissione, si otterrebbe il risultato di impedire l’utilizzo di sottoprodotti dell’industria alimentare nella produzione di mangimi, poiché, in base alla normativa italiana, essi non potrebbero più essere consegnati ad un’industria mangimistica, proprio perché trasportati su un mezzo autorizzato per i rifiuti. Pertanto, l’interpretazione della Commissione comporterebbe un aumento della produzione e dello smaltimento di scarti alimentari impedendone il riutilizzo come alimenti per animali.

32.      Per quanto riguarda la seconda parte del ricorso della Commissione, il governo italiano sostiene che il detentore o produttore deve dimostrare alle autorità competenti – mediante la prova dell’effettiva destinazione, come un contratto con l’utilizzatore dei materiali o, eventualmente, la documentazione fiscale – la volontà di non disfarsi dei residui di porzioni o delle eccedenze alimentari, ma di volerli riutilizzare nei modi consentiti dalla normativa nazionale. Inoltre, l’effettiva destinazione dei sottoprodotti alimentari è garantita dalla disciplina in materia di sicurezza degli alimenti e dei mangimi.

33.      Inoltre, il governo italiano fa presente che nella fattispecie si tratta in effetti di eccedenze alimentari e non di «residui» di produzione.

B –    Valutazione

34.      La Commissione contesta, sostanzialmente, alla normativa italiana sui rifiuti – così come deve essere interpretata in base ad un certo numero di istruzioni ministeriali – il fatto che tale disciplina consente in termini troppo generali un’esenzione dal suo ambito di applicazione per alcune sostanze, segnatamente, scarti alimentari dell’industria agroalimentare e residui o eccedenze derivanti dalla preparazione dei cibi nelle cucine, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione e destinati alla produzione di mangimi o direttamente utilizzati come alimenti nelle strutture di ricovero degli animali di affezione.

35.      Il punto di dissenso tra la Commissione e il governo italiano riguarda sia l’esatta interpretazione della nozione di «rifiuto» contenuta nella direttiva stessa sia la questione se, con riguardo alle sostanze oggetto del presente procedimento, la normativa italiana sia conforme a tale definizione. Pertanto, in primo luogo tratterò più in generale la questione relativa all’interpretazione del termine «rifiuto», per poi esaminare se la censura formulata dalla Commissione in tale causa relativamente alla violazione della direttiva sia fondata.

1.      Osservazioni preliminari riguardanti la definizione di rifiuti di cui alla direttiva 75/442 come precisata dalla giurisprudenza della Corte

36.      Il problema connesso con il tentativo di definire il termine «rifiuti» nasce dal fatto che si tratta di una nozione molto relativa. Consideriamo comunemente «rifiuti» le sostanze o i materiali che non vogliamo più perchè hanno perduto la loro utilità o, più in generale, il loro valore, ovvero che, per qualche ragione, non hanno mai avuto un valore per noi. In ogni caso, proprio perché il valore dei materiali e degli oggetti non è «intrinseco» ad essi ma, per così dire, dipende dalle considerazioni di chi li detiene, non esiste in pratica una sostanza che possa essere considerata generalmente ed in ogni circostanza un rifiuto.

37.      La natura soggettiva di tale nozione si deduce anche dal modo in cui la direttiva 75/442 costruisce la propria definizione di «rifiuto», termine con il quale intende «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi» (il corsivo è mio).

38.      È perciò il fatto che il detentore si disfi, o abbia deciso o sia obbligato a disfarsi che contraddistingue le sostanze e gli oggetti in quanto rifiuti, essendo inteso che nessun materiale è intrinsecamente un rifiuto. Difatti, la Corte ha già stabilito che l’allegato I della direttiva ed il CER specificano ed illustrano tale definizione, proponendo elenchi di sostanze ed oggetti che possono essere qualificati come rifiuti, ma tali elenchi hanno tuttavia solo carattere indicativo e non determinano in maniera assoluta che una determinata sostanza debba essere considerata un rifiuto ai sensi della direttiva (9).

39.      Sulla stessa linea, la Corte ha dichiarato che l’esecuzione di un’operazione menzionata nell’allegato II A o nell’allegato II B della detta direttiva non permette, di per sé, di qualificare una sostanza o un oggetto come rifiuto e, inversamente, la nozione di rifiuto non esclude sostanze ed oggetti che hanno un valore commerciale o sono suscettibili di riutilizzo economico (10).

40.      Di conseguenza, l’ambito di applicazione della nozione di «rifiuti» dipende, in ultima analisi, dal significato del termine «disfarsi» (11); a sua volta, tale verbo dev’essere interpretato alla luce della finalità della direttiva che consiste nella tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti, nonché alla luce dell’art. 174, n. 2, CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell’azione preventiva. Inoltre da queste finalità ed obiettivi consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo (12).

41.      Ovviamente, per determinare la sussistenza dell’azione del disfarsi o della volontà di disfarsi da parte del detentore, non si può, per fini giuridici, far ricorso alla «effettiva volontà» del detentore o far riferimento alle dichiarazioni di quest’ultimo circa le proprie intenzioni (13). La questione di stabilire se una determinata sostanza sia un rifiuto deve essere piuttosto risolta alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della sopramenzionata finalità della direttiva e della necessità di assicurare che non ne sia pregiudicata l’efficacia (14).

42.      Per tale determinazione, la Corte ha fornito un certo numero di criteri ed indicazioni che possono permettere di individuare la volontà del detentore (15). Così facendo, tuttavia, la Corte ha messo in luce il marcato carattere «scolastico» del concetto di rifiuto in quanto, sebbene le circostanze cui essa si riferisce possano indicare che il detentore si è disfatto di una sostanza o di un oggetto, o ha l’intenzione o l’obbligo di disfarsene, ai sensi della direttiva, tale elemento di per sé non è sempre e comunque determinante (16).

43.      Pertanto, in ultima analisi, la qualificazione di una sostanza o di un oggetto come rifiuto è una questione di indizi. Di conseguenza, la Corte ha cercato di definire, con la giurisprudenza, le circostanze in cui si possa legittimamente presumere una volontà del detentore di disfarsi di una sostanza o di un oggetto.

44.      È particolarmente difficile determinare la volontà del detentore nei casi in cui i prodotti, i materiali o le materie prime risultanti da un processo di fabbricazione o di estrazione vengano usati in un modo o nell’altro in un processo successivo. In via di principio, tali materiali possono essere considerati, vuoi come residui di produzione che vengono recuperati in un momento successivo come rifiuti, attraverso un’operazione di riutilizzo ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. b) e dell’allegato II B della direttiva, vuoi come prodotti autentici, che non costituiscono rifiuti e che vengono sottoposti ad un normale trattamento industriale (17).

45.      Al riguardo, la Corte ha dichiarato che il fatto che una sostanza utilizzata sia un residuo di produzione – cioè un prodotto che il produttore non ha cercato di ottenere in via principale né ha perseguito come tale – costituisce, in via di principio, un indizio dell’esistenza di un’azione o di un’intenzione di disfarsene da parte del detentore (18). La stessa valutazione si impone per quanto riguarda i residui di consumo (19).

46.      Tuttavia, secondo una giurisprudenza consolidata, è ugualmente ammissibile che un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo possa costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l’impresa non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, ma che la stessa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per essa favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari (20).

47.      Tenuto conto dell’obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuti, per limitare gli inconvenienti o i danni inerenti alla loro natura, la Corte ha precisato che il ricorso a tale argomentazione relativa ai sottoprodotti dev’essere circoscritto alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza previa trasformazione, e avvenga nel corso del processo di produzione. Di conseguenza, la Corte ha considerato che il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza costituisce un criterio valido al fine di valutare se essa sia o meno un rifiuto (21).

48.      Al fine di illustrare le implicazioni di tale approccio, è opportuno richiamare la giurisprudenza più rilevante in materia.

49.      Nella sentenza AvestaPolarit, la Corte ha effettuato una distinzione tra residui provenienti dall’estrazione che, senza trasformazione preliminare nel processo di produzione, sono utilizzati per assicurare un necessario riempimento delle gallerie, e altri residui. Nel classificare i primi come sottoprodotti di cui il detentore non si disfa o non intende disfarsi, la Corte ha dato rilevanza al fatto che il riempimento delle gallerie costituisce una fase necessaria dell’attività mineraria vera e propria e che, quindi, il detentore di tali residui ne ha bisogno per la sua attività principale (22).

50.      Nella sentenza Saetti e Frediani, la Corte ha dichiarato che il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzato con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie, non costituisce un rifiuto ai sensi della direttiva (23). Essa ha sottolineato che la produzione di coke appare come il risultato di una scelta tecnica in vista del ricorso ad un preciso combustibile (24).

51.      Infine, nelle cause C‑416/02 e C‑121/03, la Corte ha ammesso che gli effluenti di allevamento possono sfuggire alla qualifica di rifiuti, se vengono utilizzati come fertilizzanti dei terreni nell’ambito di una pratica lecita di spargimento su terreni ben individuati e se lo stoccaggio del quale sono oggetto è limitato alle esigenze di queste operazioni di spargimento (25). Perciò, in tali cause, la Corte, dal fatto che, secondo i documenti del fascicolo, il liquame prodotto dagli impianti di allevamento in causa veniva utilizzato come fertilizzante agricolo, ha dedotto che chi dirigeva i detti impianti non cercava di disfarsene (26).

52.      L’elemento che accomuna i suddetti casi consiste sostanzialmente nel fatto che le circostanze sottostanti indicano che, per il detentore, il materiale considerato rappresenta più un vantaggio o un valore economico che non un peso del quale vuole disfarsi, in termini di fabbisogno o, perlomeno, di utilità del prodotto nell’ambito dell’attività principale, che si tratti di un materiale di riempimento, di un fertilizzante o di un combustibile utilizzato per soddisfare il fabbisogno di energia di una raffineria (27).

53.      In tale contesto, occorre rilevare che la giurisprudenza richiede che i sottoprodotti vengano riutilizzati nel corso di un medesimo processo di produzione o di utilizzazione (28).

54.      Tuttavia, nella sentenza Saetti e Frediani e nelle cause C‑416/02 e C‑121/03, la Corte, dopo aver confermato tale requisito, ha dichiarato che una sostanza può non essere considerata un rifiuto ai sensi della direttiva se viene utilizzata con certezza per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l’ha prodotta (29). Sembra perciò che, al fine di accertare la sussistenza del requisito relativo alla certezza del riutilizzo, è fondamentale che la sostanza considerata venga riutilizzata dal detentore nel corso di uno stesso processo di produzione senza trattamento previo, mentre non è necessario che tale sostanza debba essere riutilizzata – come nella causa AvestaPolarit (30) – per soddisfare il fabbisogno del produttore medesimo.

55.      Effettivamente, può essere difficile, nel caso concreto, definire in cosa consiste uno «stesso processo» di produzione o di utilizzazione. Ma dopo tutto, dietro a tali nozioni, lo ripeto, rimane sempre la questione se esistano indizi del fatto che il detentore intende sfruttare o commercializzare la sostanza considerata in condizioni per lui vantaggiose in un processo successivo alla produzione della sostanza stessa, cosicché quest’ultima rappresenta un valore economico per il detentore piuttosto che un onere di cui si voglia liberare.

2.      Sussistenza dell’inadempimento contestato

56.      Per quanto riguarda i materiali di cui trattasi nella presente causa, ritengo, anzitutto che, in base ad un esame più approfondito, non tutti gli scarti alimentari di cui trattasi possano, nel loro insieme, essere considerati «residui di produzione». Gli scarti alimentari dell’industria agroalimentare, di mense o ristoranti costituiscono, almeno in parte, residui di consumo, vale a dire, residui che non risultano in quanto tali da un processo di fabbricazione o di produzione, ma derivano dal fatto che il prodotto originario non è stato consumato interamente. Tale ragionamento è valido a maggior ragione in quanto l’art. 23 della legge n. 179 si riferisce alle «eccedenze» derivanti dalle preparazioni nelle cucine.

57.      Al riguardo, nella sentenza Niselli, la Corte ha dichiarato che l’analisi relativa ai sottoprodotti di cui il detentore non intende disfarsi «non è valida per quanto riguarda i residui di consumo, che non possono essere considerati “sottoprodotti” di un processo di fabbricazione o di estrazione idonei ad essere riutilizzati nel corso del processo produttivo (31)».

58.      Trovo pertanto difficile considerare fin dall’inizio tali materiali come «sottoprodotti» di un processo di fabbricazione o di estrazione.

59.      In ogni caso, che si tratti di residui di consumo o, eventualmente, dei «classici» scarti di cucina, rimane il fatto che i residui alimentari in oggetto, come emerge dal fascicolo di causa, derivano dalla preparazione di alimenti – o da cibi preparati – per il consumo umano. Tali residui sono poi utilizzati per la produzione di mangimi o direttamente come alimenti per animali nei ricoveri per animali di affezione.

60.      Concordo con la Commissione sul fatto che la fattispecie deve essere distinta dalla situazione descritta in precedenza (32), in cui la Corte ha accolto la tesi secondo cui un materiale derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione costituisce un sottoprodotto di cui il detentore non intende disfarsi.

61.      Ovviamente, non si potrebbe ritenere, in termini generali, che i residui alimentari di cui trattasi siano ricercati in quanto tali, almeno come sottoprodotti, né che essi siano comunque necessari o utili per l’attività principale, che consiste chiaramente nella produzione e nella preparazione di alimenti per il consumo umano.

62.      Inoltre, secondo me, dal fatto che le esenzioni previste dalla normativa italiana controversa si riferiscano ai residui o alle eccedenze alimentari che vengono riutilizzati – anche in forza di un contratto –come alimenti per animali o per la produzione di mangimi, non si può dedurre automaticamente che il detentore commercializza tali sostanze come «materie prime per la produzione di mangimi» in condizioni per lui vantaggiose. Infatti, né da questa disposizione nazionale, né dalle informazioni contenute nel fascicolo di causa risulta che il riutilizzo comporta per il detentore un vantaggio superiore alla semplice possibilità di disfarsi in tal modo delle sostanze considerate.

63.      Pertanto, adottando un approccio più realistico, mi sembra che l’analisi più corretta al riguardo debba pervenire alla conclusione che in determinate condizioni come quelle del caso di specie, di norma, il detentore di residui alimentari si disfa o intende disfarsi delle dette sostanze, ed esse vengono successivamente sottoposte ad operazioni di recupero come rifiuti mediante riciclo o riutilizzo, ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. b), della direttiva 75/442. Si può aggiungere che l’allegato II B della direttiva che elenca le operazioni di recupero indica, tra gli altri, il riciclo e il recupero di sostanze organiche.

64.      Tale analisi sembra inoltre più conforme all’obbligo di interpretare estensivamente la nozione di rifiuto ai sensi della direttiva (33).

65.      Ad ogni modo, anche qualora, in determinati casi, i residui alimentari cui si riferiscono gli indirizzi ministeriali italiani e l’art. 23 della legge n. 179 dovessero essere considerati come sottoprodotti piuttosto che come sostanze di cui il detentore si disfa o intende disfarsi, rimane pur sempre il fatto che, come sostiene la Commissione, non si può ammettere che tale valutazione valga in generale ed a priori.

66.      Occorre perciò concludere che la normativa italiana sui rifiuti comporta l’esclusione dalla qualificazione come rifiuti di residui di produzione o di consumo che, invece, ricadono nella definizione di «rifiuto» ai sensi della direttiva 75/442.

67.      In quanto le esenzioni previste dalla normativa italiana relativamente ai residui alimentari destinati al riutilizzo equivalgono, in realtà, ad una presunzione che tali materiali non costituiscono rifiuti ai sensi della direttiva, occorre rilevare che l’efficacia dell’art. 174 CE e della direttiva verrebbero pregiudicate, se il legislatore nazionale utilizzasse modalità di prova, come le presunzioni iuris et de iure, che abbiano l’effetto di restringere l’ambito di applicazione della direttiva escludendone sostanze, materie o prodotti che rispondono alla definizione del termine «rifiuti» ai sensi della direttiva (34).

68.      Il governo italiano ha inoltre rilevato che i residui alimentari destinati all’utilizzo per la produzione o la preparazione di mangimi sono già contemplati da una serie di disposizioni dell’ordinamento sia nazionale che comunitario, riguardanti la sicurezza degli alimenti e la produzione e la commercializzazione di alimenti per animali (35).

69.      Occorre notare, al riguardo, che, anzitutto, siffatti residui possono essere esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva solo qualora appartengano ad una delle categorie di rifiuti elencate nell’art. 2, n. 1, della direttiva.

70.      Ed a mio parere non vi rientrano. Tra le sostanze elencate nella summenzionata disposizione, la voce che più si avvicina ai residui alimentari in oggetto sono le «carogne», figuranti alla lett. b), sub iii). Ma anche nei casi in cui i detti residui alimentari contengano sostanze di origine animale, non si potrebbe validamente sostenere che si tratta di «carogne», ai sensi della disposizione medesima.

71.      In secondo luogo, occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza consolidata, il termine «altra normativa», ai sensi dell’art. 2, n. 1, lett. b), della direttiva, contempla una normativa comunitaria o nazionale, nei limiti in cui essa riguardi la gestione dei rifiuti in quanto tali e porti ad un livello di protezione dell’ambiente almeno equivalente a quello previsto dalla detta direttiva (36).

72.      I vari regolamenti citati dal governo italiano, invece, con tutta evidenza non riguardano la gestione dei rifiuti in quanto tale, ma mirano piuttosto a garantire la sicurezza degli alimenti e, in particolare, ad assicurare il rispetto di determinati requisiti igienico-sanitari nella produzione e nella commercializzazione degli alimenti per animali. Di conseguenza, sebbene gli scopi perseguiti da tali disposizioni, unitamente agli interessi giuridici tutelati, possano parzialmente sovrapporsi a quelli della direttiva, essi rimangono tuttavia notevolmente diversi.

73.      Inoltre, e proprio per questo motivo, ritengo che, in generale, l’applicazione del sistema di controllo e di protezione previsto dalla direttiva 75/442 e l’applicazione della normativa sulla sicurezza degli alimenti per animali non si escludano a vicenda, ma che, al contrario, in via di principio, possano intervenire cumulativamente.

74.      Per quanto riguarda gli argomenti del governo italiano relativamente al fatto che verrebbe impedito il riutilizzo di residui alimentari come alimenti per animali, poiché tali residui dovrebbero essere trasportati su mezzi autorizzati al trasporto di rifiuti che non rispondono ai necessari requisiti di igiene, la Commissione ha giustamente fatto presente che tale problema sorge dalla normativa italiana e non dalla direttiva.

75.      La direttiva non richiede che tutti i rifiuti siano trasportati a bordo dei medesimi mezzi, ma piuttosto, che gli stabilimenti o le imprese che si occupano della raccolta o del trasporto di rifiuti siano debitamente autorizzati o registrati e che le operazioni di smaltimento e di recupero dei rifiuti vengano effettuate in conformità delle sue disposizioni. In particolare, i residui alimentari potrebbero essere trasportati tanto dal precedente detentore o dal produttore, quanto dall’impresa che procede al loro recupero, semprechè il trasportatore interessato sia registrato o, se del caso, abbia ottenuto un’autorizzazione (37).

76.      Quanto precede mi porta a concludere che il ricorso della Commissione è fondato.

V –    Conclusione

77.      Propongo pertanto alla Corte di

1)      dichiarare che la Repubblica italiana,

–        avendo adottato indirizzi operativi validi su tutto il territorio nazionale, esplicitati in particolare per mezzo della circolare del Ministero dell’Ambiente del 28 giugno 1998 e della circolare del Ministero della Salute del 22 luglio 2002, tali da escludere dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti gli scarti alimentari originati dall’industria agro-alimentare destinati alla produzione di mangimi; e

–        avendo, per mezzo dell’art. 23 della legge 31 luglio 2002, n. 179, escluso dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti i residui derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione,

è venuta meno agli obblighi che ad essa incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva 75/442/CEE sui rifiuti, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE;

2)      condannare la Repubblica italiana alle spese.


1 – Lingua originale: l'inglese.


2 – GU 1975 L 194, pag. 39.


3 – GU 1991 L 78, pag. 32.


4 – Decisione della Commissione, del 3 maggio 2000, 2000/532/CE, che sostituisce la decisione 94/3/CE che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi (GU L 226, pag. 3) (in prosieguo: il «catalogo europeo dei rifiuti» o il «CER»).


5 – GURI n. 38 del 15 febbraio 1997, Supplemento ordinario n. 33.


6 – V., in particolare, sentenze 18 aprile 2002, causa C‑9/00, Palin Granit (Racc. pag. I‑3533) e 11 novembre 2004, causa C‑457/02, Niselli (Racc. pag. I‑10853).


7 – V., in particolare, regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 28 gennaio 2002, n. 178, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l'Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare (GU L 31, pag. 1); regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 3 ottobre 2002, n. 1774, recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano (GU L 273, pag. 1) e i principi del sistema HACCP («analisi dei pericoli e dei punti critici di controllo») stabiliti nei regolamenti: (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, n. 852, sull’igiene dei prodotti alimentari (GU L 139, pag. 1); (CE) del Parlamento europeo e del Conisglio 29 aprile 2004, n. 853, che stabilisce norme specifiche in materia di igiene per gli alimenti di origine animale (GU L 139, pag. 55), e (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, n. 854, che stabilisce norme specifiche per l'organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano (GU L 139, pag. 206); regolamento (CE) 12 gennaio 2005, n. 183, che stabilisce requisiti per l’igiene dei mangimi (GU L 35, pag. 1), infine, regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, n. 882, relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali (GU L 165, pag. 1).


8 – Sentenze 8 settembre 2005, causa C‑416/02, Commissione/Spagna (Racc. pag. I‑7487) e 8 settembre 2005, C‑121/03, Commissione/Spagna (Racc. pag. I‑7569).


9 – V., inter alia, sentenza Palin Granit, cit. supra, alla nota 6 (punto 22).


10 – V. inter alia, sentenza Palin Granit, cit. alla nota 6 (punti 27 e 29).


11 – V. in tal senso, sentenze Palin Granit, cit. alla nota 6 (punto 22) e causa C‑121/03, Commissione/Spagna, cit. alla nota 8 (punto 57).


12 – V., inter alia, sentenze Palin Granit, cit. alla nota 6 (punti 22 e 23), e Niselli cit. alla nota 6 (punto 33).


13 – V. in proposito, le conclusioni dell’avvocato generale Alber dell’8 giugno 1999 nelle cause riunite C‑418/97 e C‑419/97, ARCO Chemie Nederland e a. (Racc. 2000 pag. I‑4475, punto 59).


14 – V., inter alia, sentenza Palin Granit, cit. alla nota 6 (punto 24).