Regimi nazionali di sostegno alle energie rinnovabili: l’Avvocato generale suggerisce alla Corte come conciliare ambiente e commercio

di Maria Grazia BOCCIA

A più di un decennio dalla sentenza “PreussenElektra” i, la Corte di giustizia è nuovamente chiamata a pronunciarsi sulla conformità, con il diritto comunitario, di una legislazione di uno Stato membro che, al fine di promuovere l’impiego di energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili, limita il regime di sostegno ai soli produttori nazionali di energia verde.

Nell’ambito delle odierne controversie, l’Avvocato generale Ives Bot, nelle conclusioni presentate, rispettivamente, l’8 maggio 2013 ii e lo scorso 28 gennaio iii, se da un lato considera come dato ormai acquisito - in sintonia con la giurisprudenza PreussenElektra - l’irrilevanza dell’applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato a simili fattispecie iv, dall’altro lato suggerisce che l’evoluzione normativa in materia di energie rinnovabili impone di procedere ad un riequilibrio tra le contrapposte esigenze del mercato e della tutela ambientale.

Per affrontare con maggiore cognizione la tesi sostenuta dall’Avvocato generale, si pone, in primo luogo, l’esigenza di esaminare le argomentazioni svolte dalla Corte nel giudizio reso nel 2001, messe in discussone nelle presenti conclusioni.

 

L’applicazione delle norme sulla libera circolazione delle merci nella sentenza PreussenElektra

 

Prendendo atto che l’energia costituisce una “merce”, ai sensi delle norme del Trattato in materia di libera circolazione delle merci, il giudice del rinvio chiedeva essenzialmente alla Corte di chiarire se una misura che ha come effetto di limitare la domanda di energia elettrica prodotta in altri Stati membri, imponendo ai fornitori di acquistare una determinata quantità di energia elettrica prodotta da fonti di energia rinnovabile (FER) nella rispettiva zona, debba essere qualificata come una misura di effetto equivalente alle importazioni, vietata dall’art. 30 del Trattato CE (ora, art. 34 TFUE) v.

La Corte, pur evidenziando come l’obbligo in questione sia atto ad ostacolare il commercio intracomunitario, ne afferma il ruolo quale strumento idoneo ad incoraggiare lo sviluppo delle energie rinnovabili.

La liceità della misura si fonda sul riconoscimento, da parte del giudice comunitario, della rilevanza che la dimensione ambientale - in termini di riduzione delle emissioni di gas serra nell’ambito degli impegni finalizzati alla lotta ai cambiamenti climatici – è venuta ad assumere nel contesto della politica energetica comunitaria.

La Corte non manca, d’altra parte, di sottolineare il rilievo sempre maggiore che il concetto di integrazione della dimensione ambientale, nella definizione ed attuazione delle varie politiche comunitarie (e, fra queste, la politica energetica), è venuto ad assumere nel corso degli anni, fino ad essere inscritto, ad opera del Trattato di Amsterdam, tra i principi chiamati a guidare il diritto dell’Unione.

 

Passando ad alcuni rilievi critici, si osserva come la sentenza si caratterizzi per una lettura non certo ‘ortodossa’ della dottrina delle esigenze imperative vi, dando prova, ancora una volta, dei limiti che una rigida ponderazione tra le ragioni del mercato, da un lato, e dell’ambiente, dall’altro, incontra in settori particolarmente sensibili dell’economia.

Ripercorrendo la giurisprudenza comunitaria relativa alla libera circolazione di una merce altrettanto peculiare, come i rifiuti, non ci si può esentare dal rilevare che le controversie aventi ad oggetto misure ‘distintamente’ applicabili (ossia, che riservano un trattamento differenziato alle merci nazionali rispetto a quelle importate; ad esempio, le limitazioni e o i divieti unilaterali di importazione) hanno rappresentato un terreno estremamente fertile per colmare importanti lacune insite nella legislazione vigente.

Ci riferiamo alla sentenza “rifiuti della Regione Vallonia”, emessa il 9 luglio 1992 vii, con la quale la Corte giudicava per la prima volta ammissibili misure distintamente applicabili, abbandonando in tal modo i precedenti criteri di valutazione della legittimità di misure nazionali restrittive del commercio, la cui adozione sia giustificata sulla base di motivazioni ambientali. Il giudizio all’epoca espresso sulla liceità del divieto di importazione dei rifiuti nella regione belga della Vallonia, sarebbe stato successivamente trasporto all’art. 4, par. 3, del regolamento n. 259/93 viii.

Se cerchiamo di tracciare un parallelo tra la sentenza in materia di rifiuti e la sentenza PreussenElektra, rimarchiamo che, mentre nelle prima, la difesa dei motivi ambientali induceva il giudice comunitario ad anticipare l’azione legislativa, nel campo delle energie rinnovabili, gli stessi motivi hanno trattenuto l’organo giurisdizionale dall’accelerare l’opera normativa di costruzione di un mercato comune delle FER.

Nella sentenza del 2001, la Corte non omette, infatti, di precisare che “allo stato attuale del diritto comunitario” nel campo dell’elettricità prodotta da FER, si deve procedere ad una dichiarazione di conformità dell’obbligo tedesco di acquisto con l’art. 30 del Trattato.

Viene nondimeno prevista la possibilità di un mutamento di rotta, in funzione dell’evoluzione normativa nel settore considerato. Il giudice si riferisce, in particolare, all’instaurazione di un sistema di certificati di origine, reciprocamente riconosciuti dagli Stati membri, dell'energia elettrica prodotta da fonti di energia rinnovabile; elemento “indispensabile per rendere sia affidabili sia praticamente possibili gli scambi di tale tipo di energia”.

Ed è sulla base di tali premesse che prendono avvio le conclusioni dell’Avvocato generale Bot nell’ambito delle odierne controversie.

 

Valutazione dei regimi nazionali di sostegno alle FER mediante sistemi di certificati verdi

 

Entrambe le cause vertono su un’identica questione pregiudiziale: il grado di compatibilità con il principio della libera circolazione delle merci, di regimi di sostegno (belga per la causa 204/12 e svedese nell’ambito della causa 573/12) alla produzione nazionale di elettricità a partire da fonti di energia rinnovabile, mediante un sistema di certificati verdi rilasciati ai soli produttori nazionali.

Data l’identità delle questioni proposte dai giudici del rinvio, ci concentreremo sulle conclusioni presentate lo scorso gennaio, rivestendo le stesse una maggiore attualità in relazione al quadro legislativo sulla cui base la disciplina nazionale deve essere valutata. Non mancheremo, tuttavia, di richiamare i punti salienti delle conclusioni del maggio 2013, cui lo stesso Avvocato generale opera più di un rinvio.

Il regime svedese contestato accorda, a titolo gratuito, ai soli produttori di elettricità da fonti rinnovabili stabiliti nel territorio svedese, un determinato numero di certificati verdi, per la produzione ammissibile. La domanda dei certificati è generata dall’obbligo, posto a carico dei distributori di elettricità ed alcuni consumatori, di presentare ogni anno un numero di certificati corrispondente ad una quota della quantità totale di elettricità dagli stessi fornita o consumata. Il sistema conferisce, pertanto, un vantaggio economico ai produttori di elettricità da FER, in quanto la vendita dei certificati consente loro di usufruire di entrate supplementari rispetto a quelle derivanti dalla vendita di elettricità.

Il caso, portato all’attenzione del giudice del rinvio, concerne il rifiuto di accesso al regime nazionale dei certificati verdi, da parte dell’Agenzia energetica svedese, ad un produttore di energia eolica situato sul territorio finlandese, i cui impianti sono connessi alla rete di distribuzione svedese.

Ritenendo che la causa ponesse un problema di interpretazione del diritto comunitario, la Corte amministrativa di Linköping rimetteva gli atti in via pregiudiziale alla Corte di giustizia per alcuni chiarimenti in merito alle norme contenute nella nuova direttiva sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili nonché al diritto primario sulla libera circolazione delle merci.

 

Volgendo la nostra attenzione alle conclusioni in esame, il primo elemento che riteniamo importante evidenziare è come la causa costituisca motivo, per l’Avvocato generale Bot (come già a suo tempo per l’Avvocato generale Jacobs, nel caso PreussenElektra), di chiedere alla Corte, alla luce di un percorso interpretativo tutt’altro che lineare, di fissare definitivamente i parametri di giudizio di misure che, nel perseguire obiettivi di tutela ambientale, riservano un trattamento differenziato alle merci importate rispetto a quelle nazionali.

In effetti, se da un lato, nei casi sopra citati, il giudice comunitario ha ammesso che anche misure ambientali ‘distintamente’ applicabili possano essere sottoposte ad un esame di legittimità (equiparando, in tal senso, gli obiettivi di protezione ambientale con gli obiettivi menzionati all’art.36 del Trattato), dall’altro lato, il carattere non discriminatorio della misura continua a rappresentare, come regola, il presupposto per potere invocare l’ ‘esigenza imperativa’ relativa alla protezione dell’ambiente.

Benché non si possa che concordare con l’Avvocato generale Bot che esigenze di certezza del diritto (nei confronti non solo delle autorità nazionali chiamate ad elaborare le suddette misure ma anche dei giudici che devono tutelare i diritti dei singoli a fronte di una norma cui è stata attribuita efficacia diretta ix) impongono una chiara presa di posizione a livello giurisprudenziale, i motivi che hanno fino ad ora frenato il giudice comunitario dal procedere in questa direzione sono, se non condivisibili, quantomeno comprensibili.

Sebbene le modifiche ai Trattati istitutivi abbiano progressivamente ampliato e rafforzato le competenze dell’Unione europea in campo ambientale, il rapporto tra ambiente e commercio è a tutt’oggi regolato da un impianto normativo che, rimasto invariato nel tempo, non ha in alcun modo recepito i mutati equilibri tra le due contrapposte istanze.

Ed è in rapporto a tali limiti posti al giudice dalle fonti primarie – e, soprattutto, in presenza di una norma derogatoria che non sembra concedergli alcun margine di manovra x – che si è innestata la giurisprudenza relativa alle esigenze imperative.

Non ci resta, pertanto, che attendere il giudizio nella presente causa, al fine di sapere se sarà accolto l’appello rivolto dall’Avvocato generale Bot, il quale, rinvenendo nel principio di integrazione la ragione teorica atta a giustificare la prevalenza delle ragioni ambientali rispetto ad obiettivi di diversa natura, chiede alla Corte di “elevare esplicitamente la protezione dell’ambiente al rango di ragione imperativa di interesse generale che può essere invocata per giustificare misure restrittive delle libertà di circolazione, quand’anche discriminatorie” xi, a condizione che le misure in questione superino un test di proporzionalità ‘rinforzato’ xii.

In attesa che la Corte si pronunci, l’Avvocato generale non esita a vagliare la legittimità del regime svedese di sostegno alle energie rinnovabili, sulla base di tale metodologia valutativa.

 

Muovendo dal presupposto che la sentenza PreussenElektra rappresenta un precedente ormai superato, in ragione della “duplice evoluzione del quadro normativo degli scambi di elettricità, caratterizzata da una dinamica di liberalizzazione e di riconoscimento reciproco” delle garanzie di origine xiii, l’Avvocato generale rivela, fin dalle prime battute, il proprio intento: ottenere dalla Corte una dichiarazione di invalidità dell’art. 3, par. 3, della direttiva 2009/28/CE, nei limiti in cui la norma concede agli Stati la facoltà di vietare l’accesso, ai rispettivi regimi di sostegno alle energie rinnovabili, ai produttori i cui impianti sono situati in un altro Stato membro.

A fronte dell’inerzia del legislatore - che, pur avendo liberalizzato gli scambi di elettricità mediante l’istituzione di un sistema di reciproco riconoscimento delle garanzie di origine, non ha poi conferito alle stesse alcun ruolo ai fini del conseguimento degli obiettivi nazionali obbligatori - lo scopo dell’Avvocato generale appare quello di ricorrere alla via giurisprudenziale per dare una scossa ad un mercato delle energie rinnovabili estremamente frammentato, a causa, anche, delle restrizioni territoriali insite nei regimi nazionali di sostegno alle FER, instaurati sulla base del sopraindicato fondamento normativo.

Dopo avere riconosciuto il peso strategico che la direttiva affida a siffatti meccanismi di sostegno, ai fini della realizzazione degli obiettivi obbligatori nazionali dalla stessa posti xiv, l’Avvocato generale procede a dimostrare che il regime svedese dei certificati verdi costituisce una misura di effetto equivalente all’importazione, ai sensi dell’art. 34 del Trattato, non giustificabile dall’obiettivo di tutela ambientale.

Sul punto è opportuno osservare che, in assenza di un’armonizzazione esaustiva ad opera della direttiva comunitaria dei regimi di sostegno alle energie rinnovabili, la legittimità della misura nazionale deve essere valutata in relazione alle norme del diritto primario sulla libera circolazione delle merci e non a quelle del diritto derivato xv.

Per quanto attiene all’interazione tra i diversi livelli di diritto, l’Avvocato generale ci ricorda che, data la conformità della restrizione posta in atto dal governo svedese alle prescrizioni della direttiva 2009/28/CE, il vaglio della misura nazionale alla luce dell’art. 34 TFUE, dovrà “essere effettuato tenendo conto del principio del primato del diritto primario sulle altre fonti del diritto dell’Unione”.

Il regime svedese viene, quindi, sottoposto ad un ‘rigoroso’ test di proporzionalità. Mediante un’articolata ed accorata difesa a favore della completa liberalizzazione a livello europeo dell’elettricità prodotta da FER, l’Avvocato generale intende dimostrarci non solo che la restrizione territoriale imposta dal regime di sostegno svedese non sarebbe idonea a garantire lo scopo prefissato della tutela ambientale – eccedendo quanto necessario al suo conseguimento – ma che il mantenimento di queste restrizioni rischierebbe altresì di andare a detrimento di tale tutela.

Viene, al contrario, evidenziato il ruolo che l’apertura dei regimi di sostegno nazionali alle produzioni degli altri Stati membri, “consentendo una ripartizione ottimale della produzione fra gli Stati membri in funzione dei loro rispettivi potenziali”, potrebbe esercitare ai fini del conseguimento di uno dei principali obiettivi dell’azione comunitaria in campo ambientale: l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali.

Avendo appurato che le restrizioni territoriali oggetto del procedimento principale contravvengono al principio della libera circolazione delle merci, è giocoforza per l’Avvocato generale concludere che,  “poiché mi sembra che la direttiva 2009/28 possa essere interpretata soltanto nel senso che essa autorizza siffatte restrizioni, ritengo che la stessa debba considerarsi invalida sul punto xvi”.

 

Alcune conclusioni provvisorie

 

La Corte è, dunque, chiamata ad operare scelte precise in merito a due problematiche estremamente sensibili. Le soluzioni a cui la stessa perverrà, potrebbero non solo incidere sul delicato rapporto tra ambiente e commercio ma anche influire sulle proposte di riforma della politica europea in materia di elettricità da fonti rinnovabili, attualmente in fase di discussione nell’ambito del pacchetto clima e energia 2020-2030.

 

In relazione al primo aspetto, reputo assai remota l’eventualità che il giudice comunitario aderisca alla richiesta dell’Avvocato generale Bot, di pronunciarsi esplicitamente a favore della legittimità di misure ambientali ‘distintamente’ applicabili, purché proporzionate.

Oltre ai limiti di carattere normativo, precedentemente evidenziati (che costringono l’organo giudicante a gestire le controversie come quella all’esame, sulla base di una fonte primaria che non è stata in grado di recepire i mutati equilibri tra i due obiettivi), la Corte non può, a mio parere, non avere preso atto che il riconoscimento ufficiale di una revisione radicale dei parametri di valutazione della legittimità di misure nazionali palesemente discriminatorie, la cui adozione sia giustificata da esigenze ambientali, implica necessariamente una rivisitazione dell’intera giurisprudenza sulle esigenze imperative; anche in relazione ad ulteriori obiettivi, altrettanto meritevoli di tutela.

Non va, inoltre, sottovalutato il rischio che il più ampio spazio di azione concesso agli Stati membri in ragione di tale riconoscimento, possa tradursi in una proliferazione incontrollata di regolamentazioni con chiari effetti protezionistici xvii.

Per quanto l’approccio fino ad oggi seguito dalla Corte, a fronte di norme direttamente efficaci, sia ben lungi dal garantire la certezza del diritto, le precedenti riflessioni sembrano suggerirci che i giudici di Lussemburgo continueranno plausibilmente a muoversi su un doppio binario:

- come regola generale, applicazione dei canoni ormai classici, fissati dalla giurisprudenza, in materia di esigenze imperative;

- in casi eccezionali, individuati sulla base di una valutazione discrezionale da parte degli stessi, esame della legittimità di misure ‘distintamente’ applicabili alla luce degli artt. 34 e 35 del Trattato. In tali ipotesi, l’effetto discriminatorio potrà essere, a discrezione del giudice, annullato (come insegna la sentenza ‘rifiuti della Regione Vallonia’) o giustificato (come nel caso della sentenza ‘PreussenElektra’) dal perseguimento di un obiettivo di tutela ambientale.

 

Gli effetti di una eventuale inclusione, come proposto dall’Avvocato generale, nella sfera di applicazione dell’art. 34 del Trattato, di tutte le misure ambientali ‘distintamente’ applicabili, sarebbero tutt’altro che marginali – incidendo, in definitiva, sulle competenze residue degli Stati membri in campo ambientale. L’attesa è, tuttavia, concentrata sulle risposte che la sentenza fornirà in merito alle restrizioni territoriali insite nei regimi nazionali di sostegno alla produzione di elettricità da fonti rinnovabili.

La Corte è, in sostanza, chiamata a determinare – sulla base di un contesto normativo che rispecchia gli oltre dieci anni di progressi dalla causa PreussenElektra, in termini di rafforzamento e sviluppo del mercato interno dell’energia – se un’apertura generalizzata dei regimi nazionali di sostegno ai produttori stabiliti negli altri Stati membri, possa comportare effetti destabilizzanti su strumenti, quali i certificati verdi, che consentono ai produttori di FER di beneficiare di una domanda garantita di energie rinnovabili.

E’ indubbia la valenza politica della decisione. L’esame della proporzionalità della misura va, di fatto, a toccare i temi cruciali dell’azione nel campo delle energie rinnovabili: competitività dei mercati, sostenibilità nonché sicurezza dell’approvvigionamento.

Si deve, inoltre, prendere atto che la valutazione in merito alla ‘necessità’ o alla ‘proporzionalità’ dei mezzi rispetto all’obiettivo – nell’ambito del complesso lavoro di ricerca di un equilibrio tra ambiente e commercio – implica comunque un giudizio di natura soggettiva xviii, a seconda del diverso peso attribuito a ciascuno dei due interessi.

Non dimentichiamo, infine, che la norma di cui si contesta la validità si fonda sull’art. 175, par. 1, CE (ora art. 192, par. 1, TFUE); base giuridica formale per l’adozione di atti destinati a realizzare specificamente obiettivi di politica ambientale.
Nell’opera giurisprudenziale tesa a contemperare le ragioni della tutela ambientale con quelle del libero commercio, il test di proporzionalità della disposizione controversa andrà, dunque, effettuato alla luce dei principi, degli obiettivi nonché dei limiti posti all’azione comunitaria dalle norme primarie sulla tutela ambientale.

I più recenti indirizzi dell’Unione europea sui regimi di sostegno alle rinnovabili

 

Un accenno alla posizione assunta del legislatore comunitario nei confronti delle limitazioni territoriali dei regimi di sostegno alle FER, nel quadro sia dei recenti orientamenti in materia di intervento pubblico sui mercati dell’energia elettrica, sia delle future politiche dell’Unione europea in materia di energia e clima.

 

Relativamente alla Comunicazione della Commissione del novembre 2013, che esamina le caratteristiche principali delle misure di intervento pubblico, al fine di ridurne al minimo gli effetti distorsivi xix, l’Avvocato generale Bot sottolinea come l’esecutivo comunitario, nell’esprimere il rammarico per la scarsa attenzione da parte degli Stati membri verso i meccanismi di cooperazione istituiti dalla direttiva, rilevi “ che lo sviluppo di energie verdi nell’ambito di regimi di sostegno transnazionali può ridurre i costi di conformità alla direttiva 2009/28(…) e può concorrere a eliminare eventuali distorsioni del mercato unico derivanti da approcci nazionali diversi”.

Si osserva che nel documento in esame, la Commissione – pur auspicando un coordinamento a livello europeo del sostegno pubblico alle energie rinnovabili, mediante la localizzazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili nei luoghi in cui la stessa è più efficace in termini di offerta e domanda – non ha inteso in alcun modo mettere in discussione il potere discrezionale che la direttiva 2009/28/CE concede agli Stati membri in sede di elaborazione dei rispettivi meccanismi di sostegno (inclusa la facoltà per gli stessi di riservare l’aiuto ai soli produttori nazionali). Il proposito dall’esecutivo è piuttosto quello di incoraggiare le autorità pubbliche a sfruttare al meglio il potenziale offerto dei meccanismi facoltativi di cooperazione previsti dalla direttiva xx.

 

Il 22 gennaio scorso, la Commissione ha presentato un documento di natura programmatica per orientare il dibattito in merito alla politica climatica ed energetica per il periodo 2020-2030 xxi.

Viene evidenziato il ruolo primario dei regimi di sostegno nazionali allo sviluppo delle energie rinnovabili, ma si sottolinea, al contempo, che la presenza di una pluralità di meccanismi di supporto alle FER, imperniati sulla produzione nazionale, rischia di ostacolare l’integrazione del mercato energetico e ridurre l’efficienza sotto il profilo dei costi xxii.

Al fine di attuare la transizione verso un sistema “il più possibile orientato al mercato”, la Commissione propone di abbondare la disciplina attualmente in vigore, che ripartisce tra i diversi Stati membri l’obiettivo complessivo comunitario di energie da fonti rinnovabili del 20% xxiii e definire un unico target del 27%, vincolante a livello dell’Unione europea xxiv.

Poiché si suppone che l’attuazione di una politica tesa a rafforzare la dimensione europea del mercato delle energie rinnovabili, implichi inevitabilmente un certo grado di rinuncia, da parte delle autorità nazionali, di quell’autonomia decisionale che ha consentito loro di modellare i regimi di sostegno in base alle situazioni locali e specifiche, suscita non poche perplessità la più totale libertà accordata agli Stati membri sia nella fissazione degli obiettivi sia nella scelta degli strumenti per il loro conseguimento.

In effetti, nell’ambito di quello che la Commissione non esita a definire come un “forte quadro di governance a livello europeo, al fine di realizzare gli obiettivi fissati dall’UE in materia di energie rinnovabili”, l’esecutivo comunitario svolgerà un semplice ruolo di orientamento in merito al contenuto dei piani nazionali nonché di coordinamento tra i diversi piani. Nella Comunicazione non si tralascia, tra l’altro, di sottolineare che nel caso in cui, in sede di valutazione, il piano nazionale sarà ritenuto ‘insufficiente’, ne saranno rafforzati i contenuti attraverso un approccio cooperativo con la Commissione stessa xxv.

Rileviamo, inoltre, che se i motivi della riforma appaiono chiari, nulla invece ci viene spiegato sulle modalità concrete in cui i futuri regimi di sostegno dovranno essere progettati.

In particolare, sembra sia stata esclusa l’opzione presa in considerazione nel documento di lavoro dei servizi della Commissione, che accompagna la Comunicazione, di affiancare ad un unico obiettivo a livello dell’Unione europea meccanismi di sostegno di portata unionale.

La scelta di tale approccio avrebbe richiesto un indubbio compromesso a favore delle ragioni del mercato. Dall’altro lato, la soppressione dei singoli regimi nazionali di sostegno avrebbe potuto comportare una drastica riduzione della “flessibilità necessaria allo Stato membro per adattare le misure alle circostanze specifiche, decidendo autonomamente come finanziare o sostenere lo sviluppo delle energie rinnovabili” xxvi.

E’ lecito, dunque, domandarsi se nello scenario che si prospetta oltre il 2020 (in cui conviveranno una molteplicità di meccanismi nazionali) saranno ancora ammesse restrizioni territoriali analoghe a quelle di cui stiamo discutendo. Oltre al richiamo ai recenti orientamenti in materia di intervento pubblico sui mercati dell’energia elettrica, si rimarca che tra gli strumenti atti a “razionalizzare i diversi regimi nazionali di sostegno affinché siano più coerenti con il mercato interno e più efficienti sotto il profilo dei costi, oltre che in grado di rafforzare la certezza del diritto per gli investitori”, non è, di fatto, contemplata alcuna misura di natura regolamentare volta a ridurre gli ostacoli alla libera circolazione dell’energia elettrica da fonti rinnovabili (il sostegno alla produzione di un altro Stato membro sarà, quindi, ancora affidato a meccanismi facoltativi di cooperazione?).

In realtà, sebbene nella Comunicazione della Commissione, la necessità di procedere all’integrazione del mercato, costituisca l’espressione più ricorrente in relazione alle energie rinnovabili, non si rinviene nel documento alcun riferimento all’osservanza delle norme sulla libera circolazione delle merci xxvii.

 

Il Consiglio europeo del 20 e 21 marzo scorso, ha deciso di rinviare ogni decisione sul quadro strategico proposto dalla Commissione, incluso un accordo sull’obiettivo vincolante in materia di energie rinnovabili, “al più presto, e comunque non oltre ottobre 2014”.

Tra le future azioni che dovranno essere poste in atto per un contenimento dei costi dell'energia che gravano sugli utenti finali, gli Stati membri sono ‘invitati’ ad attuare una “più stretta convergenza dei regimi di sostegno nazionali oltre il 2020”. Tali azioni dovranno “essere conformi alle norme sugli aiuti di Stato e a quelle relative al mercato interno”.

Le conclusioni del Vertice europeo di marzo segnano il primo passaggio della discussione politica sul pacchetto clima-energia. Le diverse proposte della Commissione attendono ora di essere sottoposte ad una valutazione approfondita, da parte della Commissione e del Consiglio, che ne individui le implicazioni per le singole economie.

Poiché uno dei principali motivi della riforma che si intende attuare nel campo delle energie rinnovabili risiede nell’esigenza di ridisegnare i regimi di sostegno nazionali, il corso che seguirà il dibattito dipenderà in larga misura dal giudizio che la Corte di giustizia esprimerà nella causa da noi trattata.

 

 

 

i

 Sentenza della Corte del 13 marzo 2001, in causa C- 379/98; domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Landgericht di Kiel (Germania), PreussenElektra AG e Schleswag AG.

 

ii

 Conclusioni presentate l’8 maggio 2013, cause riunite da C‑204/12 a C‑208/12, Essent Belgium NV c. Vlaamse Reguleringsinstantie voor de Elektriciteits- en Gasmarkt; domande di pronuncia pregiudiziale proposte dal Rechtbank van eerste aanleg te Brussel (Belgio).

 

 

iii Conclusioni presentate il 28 gennaio 2014, causa C‑573/12, Ålands Vindkraft AB c. Energimyndigheten; domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dal Förvaltningsrätten i Linköping (Svezia).

 

 

iv La Corte concludeva che l’obbligo prescritto dalla legislazione tedesca a carico dei distributori di elettricità, di acquistare a prezzi minimi prefissati l’energia elettrica prodotta da fonti di energia rinnovabile, non integra la nozione di aiuto di Stato, ai sensi dell’art. 92, par. 1, del Trattato (ora art. 107 TFUE), non determinando tale imposizione “alcun trasferimento diretto o indiretto di risorse statali alle impresi produttrici di tale tipo di energia”. Nel caso di specie, le imprese di distribuzione, benché vincolate dalla legislazione statale ad un obbligo di acquisto, non erano incaricate di gestire una risorsa statale, bensì risorse finanziarie proprie.

 

vLe condizioni necessarie affinché il requisito dell’impiego di “risorse pubbliche”, richiesto dalle norme in materia di aiuti di Stato, possa ritenersi soddisfatto, venivano ulteriormente sviluppate in un serie di giudizi successivi (v., in tal senso, sentenze del 16 maggio 2002, causa C-482/99, Repubblica francese c. Commissione; del 17 luglio 2008, causa C-206/06, Essent Netwerk Noord; del 19 dicembre 2013, causa C-262/12, Association Vent de Colère).

 

 Gli artt. 34 e 35 del Trattato vietano le restrizioni quantitative e le misure di effetto equivalente all’importazione (art.34) e all’esportazione (art.35). Mentre le nozione di restrizione quantitativa è facilmente intuibile – divieto totale o parziale di importazioni ed esportazioni, inclusi i contingenti – la definizione di ‘misura di effetto equivalente’ ha richiesto il ricorso alla giurisprudenza della Corte. Nella sentenza ‘Dassonville’, dell’11 luglio 1974, leggiamo che per tale misura deve intendersi “ogni normativa commerciale atta ad ostacolare, direttamente o indirettamente, attualmente o potenzialmente, gli scambi intracomunitari”.

 

 

vi L’espressione “esigenze imperative” si riferisce a quegli interessi che, pur non essendo ricompresi tra i motivi di deroga al principio della libera circolazione delle merci, elencati all’art. 36 del Trattato, sono stati riconosciuti dalla giurisprudenza come degni di tutela ed il cui perseguimento può , in presenza di determinate condizioni, giustificare restrizioni al principio in questione.

Il termine è stato coniato nella sentenza ‘Cassis de Dijon’, del 20 febbraio 1979 (causa C-120/78), nella quale si dichiarava che, in assenza di una normativa comune o armonizzata in sede comunitaria, una restrizione nazionale alla libera circolazione delle merci, ‘indistintamente’ applicabile ai prodotti nazionali e ai prodotti importati, deve essere accettata nella misura in cui sia giustificata da ‘esigenze imperative’ attinenti, per esempio, alla protezione dei consumatori, alla lealtà dei negozi commerciali o all’efficacia dei controlli fiscali.

Il riconoscimento, con sentenza del 7 febbraio 1985 (causa C-240/83), che la tutela dell’ambiente costituisce uno degli obiettivi essenziali della Comunità, induceva il giudice comunitario ad includere questa tutela tra le esigenze imperative che possono limitare l’applicazione degli artt. 34-36 del Trattato.

Per riassumere, in assenza di una regolamentazione armonizzata a livello comunitario, spetta agli Stati membri, nel rispetto dei principi sanciti dal Trattato, fissare il livello di protezione ambientale. Gli ostacoli alla libera circolazione delle merci che derivano dalle disparità fra le normative nazionali possono essere accettati soltanto qualora le misure di tutela ambientale si applichino ‘indistintamente’ ai prodotti nazionali e ai prodotti importati. Inoltre, un provvedimento nazionale, indistintamente applicabile, può essere giustificato da un’esigenza imperativa (attinente, nel nostro caso, alla protezione dell’ambiente) a condizione che siano rispettati una serie di criteri - applicati, peraltro, con un ampio grado di flessibilità da parte della Corte:

- il criterio di ‘necessità’: i mezzi scelti devono essere limitati a quanto effettivamente necessario per garantire la tutela dell’esigenza imperativa in questione. Ne consegue, che fra le diverse misure idonee a raggiungere l’obiettivo ricercato, uno Stato membro è tenuto a scegliere il mezzo che crei minori turbative agli scambi;

- il criterio di ‘adeguatezza’: gli strumenti utilizzati devono essere adeguati rispetto all’obiettivo perseguito. Per comprendere se sussiste un adeguato rapporto tra la misura e l’obiettivo, si dovrà analizzare se lo stato attuale dell’ambiente o un potenziale pericolo di danno ambientale richiedano un intervento da parte delle autorità pubbliche;

- il criterio di ‘proporzionalità’: la disciplina nazionale deve essere proporzionata e non eccessiva rispetto al fine perseguito. In altre parole, la misura non deve provocare ostacoli agli scambi sproporzionati rispetto al livello di protezione ambientale che si intende conseguire.

 

 

vii In causa C-2/90; Commissione delle Comunità europee c. Regno del Belgio.

 

viii

 Come si può leggere all’art. 4, par. 3, del regolamento 259/93, sulle spedizioni transfrontaliere di rifiuti: “Al fine di attuare i principi della vicinanza, della priorità al recupero e dell’autosufficienza a livello comunitario e nazionale …. gli Stati membri possono, nel rispetto del Trattato, adottare misure per vietare del tutto o in parte le spedizioni di rifiuti o per sollevare sistematicamente obiezioni nei loro confronti”.

 

 

ix V. sentenza del 22 marzo 1977, in causa 74/76 (Iannelli), in cui la Corte stabiliva che “il divieto delle restrizioni quantitative e delle misure di effetto equivalente sancito dall'art. 30 del trattato è assoluto ed esplicito, e non richiede alcun ulteriore provvedimento di attuazione da parte degli Stati membri o delle istituzioni comunitarie. Esso ha pertanto efficacia diretta ed attribuisce ai singoli diritti che i giudici nazionali devono tutelare”. Su richiesta dei singoli, i giudici nazionali sono, quindi, tenuti a non applicare le norme nazionali che ritengono in contrasto con gli articoli 34 e 35 TFUE, valutando, altresì, se l’eventuale barriera agli scambi possa essere giustificata sulla base di esigenze imperative relative alla protezione dell’ambiente.

 

x

 Ricordiamo che l’art. 36 TFUE si riferisce a misure ‘distintamente’ applicabili, consentendo agli Stati membri di mantenere divieti o restrizioni alle importazioni ed esportazioni, per le ragioni indicate dalla norma, a condizione che questi non costituiscano un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra Stati membri. Tali deroghe sono tassative e non possono prestarsi ad una interpretazione estensiva. Poiché la tutela dell’ambiente, come valore a sé stante, non è menzionata all’art. 36, questa tutela può essere invocata, nel contesto della disposizione in esame, nelle sole ipotesi in cui sia strettamente correlata alla “tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali”.

 

xi

 V. il punto 96 delle conclusioni di cui alle cause riunite 204-208/12.

 

 

xii Ci domandiamo se con il termine ‘test di proporzionalità rinforzato’, l’Avvocato generale abbia voluto evidenziare che la valutazione deve tenere conto non solo dei criteri di ‘necessità’ e di ‘adeguatezza’ ma anche del criterio di ‘proporzionalità’ strettamente inteso.

 

 

xiii Punto 91 delle conclusioni.

 

xiv

 Come si legge al punto 50 delle conclusioni: “La strutturazione a livello nazionale dell’obiettivo della promozione dell’impiego di energia verde e l’accento posto sulla produzione sembrano legittimare la decisione di uno Stato membro di riservare il suo sostegno unicamente alla propria produzione nazionale, che è quella che gli consentirà di realizzare i suoi obiettivi”.

 

 

xv In base ad una giurisprudenza costante (v., tra le altre, la sentenza della Corte di giustizia del 13 dicembre 2001, in causa C-324/99, Daimler-Chrysler), le norme del Trattato relative alla libera circolazione delle merci trovano applicazione unicamente in quelle ipotesi in cui non sia stata raggiunta una completa armonizzazione a livello comunitario. Pertanto, qualsiasi misura nazionale in un settore che costituisce oggetto di un’armonizzazione esaustiva, deve essere valutata in rapporto alle prescrizioni contenute nella misura di armonizzazione e non a quelle del diritto primario.

 

 

xvi L’’Avvocato generale Bot propone alla Corte di differire di due anni gli effetti della sentenza, affinché possano essere apportati i dovuti emendamenti alla direttiva 2009/28/CE.

 

 

xvii Si tratta dei settori non ancora oggetto di un’armonizzazione completa a livello dell’Unione europea.

 

 

xviii Ci riferiamo, ad esempio, all’opposta valutazione effettuata dalla Corte, in relazione a regolamentazioni nazionali intese ad incentivare l’uso di imballaggi riutilizzabili. Mentre nella sentenza del 20 settembre 1988 (causa C-302/86), la Corte giudicava sproporzionata, rispetto allo scopo di tutela ambientale perseguito, una limitazione del quantitativo di birra e bibite, in imballaggi non autorizzati, che poteva essere posto in commercio annualmente da ciascun produttore, con sentenza del 14 dicembre 2004 (causa C-309/02), la regolamentazione tedesca che aveva come effetto di limitare le importazioni di imballaggi non riutilizzabili, superava agevolmente il test di proporzionalità.

I contrapposti parametri di giudizio nelle due cause in oggetto possono essere a nostro avviso spiegati ove si consideri che il regime obbligatorio di restituzione e riutilizzazione degli imballaggi per birre e bibite istituito dalla Danimarca ha costituito il primo caso di applicazione della ‘dottrina delle esigenze imperative’ al settore ambientale.
La Corte ha in effetti più volte ‘rivisitato’ il rapporto tra le esigenze connesse, da un lato, alla protezione dell’ambiente e, dall’altro, alla libera circolazione delle merci, riconoscendo progressivamente la prevalenza delle prime rispetto alle seconde

xix

 Comunicazione della Commissione del 5 novembre 2013: “Realizzare il mercato interno dell’energia elettrica e sfruttare al meglio l’intervento pubblico”; C(2013) 7243 final.

xx

 Come si legge al 25° considerando della direttiva, vengono introdotti “meccanismi facoltativi di cooperazione tra Stati membri che consentono loro di decidere in che misura uno Stato membro sostiene la produzione di energia in un altro e in che misura la produzione di energia da fonti rinnovabili dovrebbe essere computata ai fini dell’obiettivo nazionale generale dell’uno o dell’altro”. I meccanismi previsti dalla direttiva, che incidono sul calcolo degli obiettivi e sul loro rispetto, possono assumere la forma di ‘trasferimenti statistici tra Stati membri’ (art. 6), ‘progetti comuni’ (artt. 7 e 8) e ‘regimi comuni di sostegno’ (art. 11).

xxi

 Cfr. Comunicazione della Commissione del 22 gennaio 2014: “Quadro per le politiche dell’energia e del clima per il periodo dal 2020 al 2030”, in COM (2014) 15 final.

La Comunicazione costituisce, inoltre, la base di discussione al fine di definire la posizione dell’Unione europea alla 21ª sessione della Conferenza delle parti che si svolgerà a Parigi nel 2015, per la conclusione di un accordo globale sul clima.

 

xxii
 E’ invece annunciata una graduale riduzione, fino alla loro completa abolizione entro il 2030, delle sovvenzioni a favore delle energie rinnovabili considerate più mature.

xxiii

 L’obiettivo globale del 20% di energia da fonti rinnovabili nel consumo finale lordo di energia della Comunità, da realizzare entro il 2020, è stato suddiviso tra gli Stati membri in funzione del rispettivo PIL, modulato in modo da tenere conto della loro situazione di partenza; i calcoli sono stati effettuati in termini di consumo finale lordo di energia, tenuto conto dell’impegno precedentemente speso dai diversi Stati membri in merito all’uso dell’energia da fonti rinnovabili. L’allegato 1, punto A, della direttiva 2009/28/CE riporta, nella colonna 3, i singoli obiettivi nazionali. Per l’Italia tale obiettivo corrisponde al 17%.

 

xxiv
 Nel documento di lavoro dei servizi della Commissione, che accompagna la Comunicazione del 22 gennaio 2014, si sottolinea che, benché un obiettivo di portata unionale abbia l’indubbio vantaggio di contribuire al potenziale sviluppo delle energie rinnovabili laddove le risorse sono più abbondanti, migliorando l’efficienza in termini di costo in tutta l'Unione, “allo stesso tempo, senza obiettivi specifici, gli Stati membri sarebbero meno incentivati a ridurre gli ostacoli amministrativi e ad agevolare la diffusione delle energie rinnovabili attraverso lo sviluppo della rete e il rilascio delle necessarie licenze. Gli obiettivi nazionali offrirebbero inoltre maggiori garanzie di uno sviluppo equilibrato delle energie rinnovabili in tutta l’economia e la società dell’UE”.

Cfr. Commission staff working document. Impact assessment accompanying the document Communication from the Commission: A policy framework for climate and energy in the period from 2020 up to 2030, SWD/2014/015 final.

xxv

 Se l’approccio cooperativo previsto non dovesse dimostrasi efficace, la Commissione valuterà se definire per legge la struttura della governance, in una fase successiva (e, quindi, si presume non prima del 2030).

xxvi

 V. Sintesi della valutazione di impatto, cit. alla nota 24, p. 16.

 

xxvii
 A pagina 8 della Comunicazione, la Commissione rileva: “Ogni Stato membro dovrebbe indicare chiaramente il proprio impegno in materia di energie rinnovabili, specificando in che modo intende conseguire gli obiettivi fissati tenendo conto della necessità di rispettare le norme in materia di aiuti di Stato e di concorrenza per evitare distorsioni del mercato e garantire l’efficacia sotto il profilo dei costi, come descritto nella sezione 2.5”.