Presidente: De Maio G. Estensore: Sensini MS. Imputato: P.M. in proc. Emili.
(Rigetta, Gip Trib. Como, 26 Gennaio 2006)
REATI CONTRO L'ECONOMIA PUBBLICA, L'INDUSTRIA E IL COMMERCIO - DELITTI CONTRO L'INDUSTRIA E IL COMMERCIO - VENDITA DI PRODOTTI INDUSTRIALI CON SEGNI MENDACI - Prodotti fabbricati all'estero - Commercializzati con formule che fanno risalire il prodotto al solo stile italiano - Configurabilità del reato - Esclusione - Fondamento e condizioni.
In tema di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, di cui agli artt. 517 cod. pen. e 4, comma 49, L. 24 dicembre 2003 n. 350 (mod. dal D.L. 14 marzo 2005 n. 35, conv. in L. 14 maggio 2005 n. 80), con l'espressione origine e provenienza del prodotto si è inteso fare riferimento alla provenienza di un prodotto da un determinato produttore e non da un determinato luogo, con la conseguente non integrabilità del reato de qua allorchè il prodotto, presentato con la dicitura "Italian design" sia stato prodotto all'estero su progetto italiano.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. DE MAIO Guido - Presidente - del 24/01/2007
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - SENTENZA
Dott. MARMO Margherita - Consigliere - N. 00186
Dott. IANNIELLO Antonio - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. SENSINI Maria Silvia - Consigliere - N. 015354/2006
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA/ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
PUBBLICO MINISTERO PRESSO G.I.P. TRIBUNALE di COMO;
nei confronti di:
EMILI ROBERTO, N. IL 02/07/1968;
avverso SENTENZA del 26/01/2006 G.I.P. TRIBUNALE di COMO;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott.
SENSINI MARIA SILVIA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. FAVALLI Mario, che
ha concluso per annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Udito il difensore Avv.to FLAMINIO Antonio (Camerino).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza in data 26/1/2006, pronunciata a seguito di giudizio
abbreviato, il Giudice dell'Udienza Preliminare presso il Tribunale
di Como mandava assolto con la formula "perché il fatto non
sussiste" Emili Roberto dal reato di cui all'art. 517 c.p. in
relazione alla L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49 per
avere - nella sua qualità di rappresentante legale della s.r.l.
"Sclock" con sede in Senigallia - detenuto per la vendita,
presentandoli in dogana per l'importazione, n. 1949 orologi da polso
fabbricati per suo conto da un produttore di Hong Kong, recanti
indicazioni di provenienza fallaci. In particolare, detti orologi
recavano tutti incisa sul retro della cassa la dicitura "Officina del
Tempo - Italy", nonché, la maggior parte di essi, la dicitura
"Italian design", impressa sulla parte inferiore del quadrante. Il
Tribunale mandava assolto l'Emili sul presupposto che, nel caso di
specie, le diciture di cui sopra si limitavano ad indicare che il
produttore (inteso come soggetto giuridico) era italiano e che la
progettazione era opera di designer italiani: circostanze
assolutamente veritiere. Il fatto che la fabbricazione fosse
delocalizzata all'estero - osservava il primo Giudice - non rilevava
ai fini della sussistenza del delitto, secondo la prevalente
giurisprudenza di legittimità.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore
della Repubblica di Como, argomentando che la pronuncia impugnata era
allineata con le prime sentenza in tema di questa Corte, ritenendo,
tuttavia, che tale orientamento meritasse di essere riconsiderato
alla luce della genesi storica e della ratio della L. n. 350 del
2003, art. 4, comma 49. In particolare - assumeva il ricorrente -
l'orientamento giurisprudenziale in base al quale l'imputato era
stato assolto tendeva a privare le definizioni di "falsa" e "fallace
indicazione di provenienza" di un reale coefficiente innovativo
rispetto alla generale disposizione di cui all'art. 517 c.p.. Si
chiedeva, pertanto, l'annullamento della sentenza con rinvio al
Giudice dell'Udienza Preliminare per una nuova decisione.
In data 8/1/2007 la difesa dell'Emili presentava una memoria
rilevando come, del tutto correttamente, la sentenza di primo grado
avesse aderito al prevalente indirizzo giurisprudenziale, che nega al
concetto di "provenienza" o "origine" delineato dall'art. 517 c.p.
qualunque valenza geografica. Andava altresì considerato che il
fatto era stato commesso in data 22/7/2004, quando, cioè, la
formulazione letterale del precetto penale si limitava alle "fallaci
indicazioni di provenienza", senza alcun riferimento alla "origine".
L'inciso "o di origine" era stato, infatti, inserito circa un anno
dopo con il D.L. 14 marzo 2005, n. 35. In ogni caso - argomentava la
Difesa - anche l'introduzione di tale inciso non sembrava aver
introdotto un riferimento "geografico" al concetto di provenienza.
Nel caso specifico, la "Sclock s.r.l.", avvalendosi di stilisti
italiani, redigeva i progetti ed i modelli ornamentali degli orologi
di sua esclusiva proprietà: i suoi dirigenti controllavano
costantemente il processo di assemblaggio e le operazioni finali di
verifica e collaudo venivano eseguite in Italia. Pertanto, l'unica
fase della produzione delegata doveva ritenersi l'assemblaggio,
operazione da sola non sufficiente a negare l'origine italiana di un
prodotto. Si chiedeva il rigetto del ricorso. Il proposto ricorso
deve ritenersi infondato e, come tale, va rigettato.
La motivazione adottata dal Tribunale di Como è perfettamente
allineata con l'indirizzo di questa Corte, secondo cui, con
l'espressione origine e provenienza del prodotto, il Legislatore ha
inteso fare riferimento alla provenienza del prodotto da un
determinato produttore e non già da un determinato luogo (cfr., ex
multis, Cass. Sez. 3, sent. 24043 del 2006, Dewar; conf. Sez. 3,
19/4/2005, Tarantino). Invero, secondo la più accreditata dottrina e
giurisprudenza, il marchio rappresenta il segno distintivo di un
prodotto siccome proveniente da un determinato imprenditore e
contenente determinate caratteristiche qualitative in quanto
risultato di un processo di fabbricazione del quale il suddetto
imprenditore, titolare del segno distintivo, coordina economicamente
e giuridicamente i vari momenti e fattori del procedimento di
produzione. Nell'interpretazione del precetto penale, dunque, non
può trascurarsi la funzione che il marchio ha nella attuale realtà
economica, in cui numerose imprese, multinazionali o nazionali, si
avvalgono, ai fini della produzione, della attività di altre imprese
in vario modo controllate. Questo tipo di organizzazione produttiva
è pacificamente ritenuto lecito, proprio perché la garanzia che
l'art. 517 c.p. ha inteso assicurare al consumatore riguarda
l'origine e la provenienza del prodotto, non già da un determinato
luogo (ad eccezione delle ipotesi espressamente previste dalla
legge), bensì da un determinato produttore, vale a dire da un
imprenditore che ha la responsabilità giuridica, economica e tecnica
del processo di produzione. Non può, invero, negarsi che
l'imprenditore, nel campo dell'attività industriale, ben può
affidare a terzi sub - fornitori l'incarico di produrre materialmente
un determinato bene e può imprimervi il proprio marchio con i suoi
segni distintivi. La disposizione di cui all'art. 517 c.p. è volta a
tutelare la fiducia dell'acquirente. A tal fine, la induzione in
inganno di cui all'art. 517 c.p. riguarda l'origine, la provenienza o
qualità dell'opera o del prodotto. Ma, a ben vedere, i primi due
elementi sono funzionali al terzo, che, in realtà, è il solo
fondamentale, giacché, normalmente, il luogo o lo stabilimento in
cui il prodotto è confezionato è del tutto indifferente alla
qualità del prodotto stesso. Del resto, la disciplina generale del
marchio non esige che venga pure indicato il luogo di produzione del
prodotto e, dal punto di vista giuridico, il marchio non garantisce
la qualità del prodotto, ma rappresenta solo il collegamento tra un
determinato prodotto e l'impresa, non nel senso della materialità
della fabbricazione, ma della responsabilità del produttore il quale
ne garantisce la qualità, essendo il solo responsabile verso
l'acquirente. Da questi principi è stata fatta derivare la
conseguenza che "anche una indicazione errata o imprecisa relativa al
luogo di produzione non può costituire motivo di inganno su uno dei
tassativi aspetti considerati dall'art. 517 c.p., in quanto deve
ritenersi pacifico che l'origine del prodotto deve intendersi in
senso esclusivamente giuridico, non avendo alcuna rilevanza la
provenienza materiale, posto che origine e provenienza sono indicate,
a tutela del consumatore, solo quali origine e provenienza dal
produttore" (cfr. Cass. Sez. 3, 7/7/1999, Thum).
Questa Corte ha anche più volte ribadito che il richiamato
orientamento interpretativo non può ritenersi superato per effetto
della L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, (anche come modificato
dal D.L. 14 marzo 2005, art. 1, comma 9, convertito nella L. 14
maggio 2005, n. 80), in quanto le nuove disposizioni non possono
essere interpretate nel senso che con esse il Legislatore abbia
voluto implicitamente stravolgere la costante interpretazione
dottrinale e giurisprudenziale, rendendo applicabile l'art. 517 c.p.
anche ai casi di prodotti fabbricati o fatti fabbricare in
stabilimenti esteri da un produttore italiano che si assume la piena
responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di
produzione e che rechino solo il marchio o l'indicazione della
impresa italiana e non anche l'indicazione del fatto che la
fabbricazione materiale è avvenuta in uno stabilimento estero.
Conferma di questa conclusione si ha anche dalla considerazione che,
se il Legislatore avesse voluto effettivamente modificare la portata
precettiva dell'art. 517 c.p., la normativa richiamata dal
Procuratore della Repubblica ricorrente avrebbe imposto agli
imprenditori italiani, che commercializzano in Italia beni da essi o
per essi prodotti all'estero, un obbligo di positiva indicazione del
luogo in cui i beni importati sono materialmente prodotti. La tesi
seguita da questa Corte trova anche conferma nella necessità di dare
alle disposizioni in esame la dovuta interpretazione adeguatrice,
giacché, se dovesse ritenersi che le nuove disposizioni abbiano
davvero imposto agli imprenditori italiani un obbligo siffatto,
sorgerebbero seri dubbi di contrasto con alcuni principi comunitari e
costituzionali. Sotto il primo profilo, può rammentarsi che gli
organi dell'Unione Europea si sono più volte espressi con disfavore
in ordine alla marcatura di origine dei prodotti in applicazione dei
principi sulla libera circolazione delle merci; sotto il secondo
profilo, potrebbe prospettarsi, in riferimento agli artt. 3 e 41
Cost., una ingiustificata disparità di trattamento tra gli
imprenditori nazionali. Invero, sarebbe consentito solo agli
imprenditori nazionali, che si rivolgono per la realizzazione dei
propri prodotti ad altri produttori nazionali, di omettere
l'indicazione della origine e provenienza, mentre tale indicazione
sarebbe obbligatoria qualora i prodotti fossero realizzati - a
parità di condizioni qualitative - all'estero. Inoltre, poiché in
ambito comunitario vige il principio che il prodotto legalmente
commercializzato in uno Stato membro deve poter essere
commercializzato negli altri Stati membri e poiché non risulta
l'esistenza di norme comunitarie che impongano l'indicazione della
origine e provenienza del prodotto in casi come quello in esame,
l'operatore nazionale potrebbe trovarsi discriminato rispetto
all'operatore di altro Stato membro, poiché solo al primo sarebbe
imposto l'obbligo della indicazione della origine del prodotto.
Il ricorso proposto deve essere conseguentemente rigettato.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso del Pubblico
Ministero.
Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2007