Cass.Sez. III n. 39093 del 23 settembre 2013 (Cc 24 apr 2013)
Pres.Teresi Est.Andronio Ric.Benigni
Tutela Consumatori.Prodotti non realizzati in Italia con indicazione "Made in Italy"

Integra il reato previsto dall'art. 517 cod. pen. la vendita di oggetti realizzati con materie prime italiane, ma completamente rifiniti all'estero e corredati dalla dicitura "Made in Italy" per la potenzialità ingannatoria dell'indicazione sul luogo di fabbricazione del prodotto. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro di portafogli confezionati in Romania con pelle italiana, e recanti stampigliatura "Genuine Leather - Made in Italy").

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Camera di consiglio
Dott. TERESI Alfredo - Presidente - del 24/04/2013
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - SENTENZA
Dott. ROSI Elisabetta - Consigliere - N. 1107
Dott. GRAZIOSI Chiara - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. ANDRONIO A. M. - rel. Consigliere - N. 37533/2011
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
BENIGNI SILVANO N. IL 21/11/1953;
avverso l'ordinanza n. 7/2011 TRIB. LIBERTÀ di GORIZIA, del 18/07/2011;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ALESSANDRO MARIA ANDRONIO;
sentite le conclusioni del PG Dott. GAETA Pietro, per l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata;
udito il difensore avv. ZANUGINI Gabriele.
RITENUTO IN FATTO
1. - Con ordinanza del 18 luglio 2011, il Tribunale di Gorizia ha confermato il decreto di convalida di sequestro probatorio emesso il 18 maggio del 2011 dal Gip dello stesso Tribunale, avente ad oggetto portafogli, in relazione al reato di cui all'art. 517 cod. pen.. 2. - Avverso l'ordinanza l'indagato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento. 2.1. - Con un primo motivo di impugnazione, si rileva l'erronea applicazione dell'art. 517 cod. pen. e della normativa nazionale comunitaria sul concetto di origine dei prodotti. Premette la difesa che il Tribunale ha ritenuto sussistenti indizi del reato affermando che, laddove sulla merce risulti la dicitura "Made in Italy", reato può ritenersi configurato, perché, a differenza delle ipotesi nelle quali non vi è alcuna specifica indicazione del luogo di origine del prodotto, la suddetta scritta fornisce al consumatore un'indicazione normalmente atta ad essere intesa nel senso che il prodotto è stato integralmente fabbricato in Italia. Rileva la difesa, sul punto, che i portafogli oggetto di sequestro recavano la dicitura "Genuine Leather Made in Italy" e che tale dicitura significava semplicemente che la pelle con la quale portafogli erano confezionati era proveniente dall'Italia e non che gli stessi erano stati confezionati in Italia. A sostegno della prosperità insussistenza del reato, il ricorrente richiama la sentenza Cass., sez. 3, n. 37818 del 2010, la quale ha affermato che non sussiste alcun obbligo dell'imprenditore che produce, importa o commercializza di indicare sul prodotto il luogo in cui è stato fabbricato; vi è solo l'obbligo, qualora decida di indicare il luogo di fabbricazione, di non dare una falsa indicazione. Tale sentenza si attaglierebbe, secondo la prospettazione difensiva, al caso di specie perché aveva per oggetto la spedizione all'estero di pelli recanti la dicitura "Vera pelle made in Italy". Del resto, l'apposizione del marchio Made in Italy - prosegue la difesa - è corretta qualora la fase di lavorazione in un paese terzo di un prodotto italiano non sia sostanziale e non sia tale da conferire l'origine al prodotto, come sarebbe avvenuto nel caso di specie, in cui portafogli, interamente realizzati in Italia, erano stati inviati all'estero per ivi essere semplicemente assemblati, confezionati ed etichettati.
2.2. - Con un secondo motivo di doglianza, si rileva la violazione dell'art. 309 c.p.p., commi 5 e 10, perché il Tribunale del riesame avrebbe ricevuto gli atti il 10 luglio 2011, ovvero più di emessa dopo la convalida del sequestro, fissando l'udienza del 15 luglio 2011.
2.3. - Si rileva, in terzo luogo, la violazione dell'art. 253 c.p.p. e art. 125 c.p.p., comma 3, in relazione all'obbligo di motivazione del provvedimento di sequestro, sul rilievo che il pubblico ministero, nel convalidare in data 18 maggio 2011 il sequestro, si era limitato a porre in calce al verbale di sequestro della Guardia di Finanza la dicitura: visto si convalida, riconoscendone i presupposti di legge per il reato ex art. 517 cod. pen., trattandosi peraltro di corpo del reato.
3. - La trattazione del processo è stata rinviata in attesa della pronuncia delle sezioni unite di questa Corte sulla questione di diritto prospettata con il secondo motivo di ricorso e relativa al carattere ordinatorio o perentorio del termine per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame nel caso di riesame avente ad oggetto sequestri.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. - Il ricorso è infondato.
4.1. - Il primo motivo di impugnazione è inammissibile, perché, al di là della sua qualificazione formale, ha per oggetto esclusivamente la valutazione dei fatti operata dal Tribunale e non è, perciò, riconducibile alla categoria della violazione di legge di cui all'art. 325 c.p.p., comma 1.
Deve infatti rilevarsi che il ricorrente non prospetta un'interpretazione della disposizione incriminatrice (art. 517 cod. pen.) diversa da quella adottata dal Tribunale, ma si limita a proporre una ricostruzione alternativa del quadro probatorio e a ribadire, a tal fine, una serie di circostanze smentite in punto di fatto dallo stesso Tribunale.
Quest'ultimo ha, infatti, chiarito - con argomentata valutazione di fatto insindacabile in questa sede - che i portafogli sequestrati provenivano dalla Romania completamente rifiniti e recanti la stampigliatura Made in Italy. Il fatto che a questa stampigliatura si accompagnasse l'ulteriore stampigliatura "Genuine Leather" non esclude la potenzialità ingannatoria della apposizione del marchio d'origine, perché in nessun modo la dicitura "Made in Italy" può essere intesa come relativa alla sola provenienza della pelle, non essendo riferibile il verbo "to make" alla provenienza del materiale, ma solo al confezionamento del prodotto.
Ne può valere, sul punto, richiamare la sentenza di questa Corte, sezione 3, 23 settembre 2010, n. 37818. Da tale pronuncia si desume, infatti, il principio - puntualemte applicato dal Tribunale ed evidentemente sfavorevole alla posizione dell'indagato - secondo cui, ai sensi della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, non sussiste alcun obbligo dell'imprenditore che produce o importa o commercializza di indicare sul prodotto il luogo in cui esso è stato fabbricato. Vi è solo l'obbligo, qualora decida di indicare il luogo di fabbricazione (da individuarsi ai sensi del codice doganale europeo) in Italia, di non dare una falsa o fallace indicazione. Quanto alla pretesa analogia, prospettata dalla difesa, tra la fattispecie decisa con tale sentenza e la fattispecie qui in esame, è sufficiente rilevare che, dalla stessa sentenza emerge che in quel caso si controverteva della valenza ingannatoria della scritta "Vera Pelle Italy", rispetto alla quale si era affermato che se corrispondente al vero, apposta su merce prodotta all'estero non integra alcun illecito penale, dato che non costituisce una indicazione relativa al luogo di fabbricazione della merce stessa. Mancava, dunque, in quella fattispecie un riferimento al luogo di produzione, non essendo utilizzato nella scritta apposta sulla merce e il verbo "to make" ("made") che ha, appunto, il significato di "produrre", o un suo equivalente.
4.2. - Il secondo motivo di impugnazione è infondato e deve essere rigettato. Come affermato dallo stesso Tribunale, non vi è dubbio che nel caso di specie la trasmissione degli atti sia avvenuta dopo che era ampiamente spiegato il termine di 5 giorni di cui all'art. 309 c.p.p., commi 5 e 10, decorrente dalla presentazione della richiesta di riesame.
Quanto al carattere perentorio o ordinatorio di detto termine, le sezioni unite di questa Corte hanno di recente risolto il contrasto intervenuto fra le sezioni semplici, con un'ampia e articolata motivazione - che non risulta necessario replicare in questa sede - giungendo ad enunciare il seguente principio di diritto, cui anche questa sezione intende uniformarsi: La riforma dell'art. 309 c.p.p., operata dalla L. n. 332 del 1995, non ha inciso sull'art. 324 c.p.p. e, dunque, il rinvio che tale ultimo articolo fa all'art. 309 deve inevitabilmente essere inteso come rinvio al testo previgente; dunque come un rinvio statico-recettizio. Ne consegue che unico termine perentorio nella procedura di riesame delle misure cautelari reali rimane quello originario di 10 giorni entro i quali la decisione deve essere assunta dal Tribunale (sez. un., 28 marzo 2013, n. 26268). Il mancato rispetto del termine per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame non determina, dunque la perdita di efficacia della misura, che deve intendersi prevista dal successivo dell'art. 309, comma 10 limitatamente alle misure cautelari personali. 4.3. - Del pari infondato è il terzo motivo di ricorso, con cui si lamenta che il pubblico ministero, nel convalidare in data 18 maggio 2011 il sequestro, si era limitato a porre in calce al verbale di sequestro della Guardia di Finanza la dicitura: visto si convalida, riconoscendone i presupposti di legge per il reato ex art. 517 cod. pen., trattandosi peraltro di corpo del reato.
Come correttamente rilevato dal Tribunale, tale sintetica motivazione si integra con il tenore generale del provvedimento di sequestro e con il richiamo, da questo operato, alla normativa in materia. Ne emerge un adeguato riferimento all'esplicita necessità ai fini probatori della permanenza del vincolo in ragione delle caratteristiche specifiche dei beni e del fatto che sugli stessi si impone una verifica delle diverse fasi del processo produttivo di cui costituiscono il risultato. A ciò si deve aggiungere - come puntualmente evidenziato dallo stesso Tribunale - che nel caso di specie è necessario svolgere un apprezzamento diretto della potenzialità ingannatoria ipotizzata; apprezzamento che non può che avere per oggetto le merci sulle quali la dicitura asseritamente decettiva è stata posta.
5. - Il ricorso, conseguentemente, deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 24 aprile 2013.
Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2013