Cass. Sez. III n. 44361 del 20 ottobre 2016 (Ud 30 giu 2016)
Pres. Ramacci Est. De Masi Ric. Cammarata
Urbanistica.Violazioni urbanistiche e paesaggistiche e particolare tenuità del fatto
Ai fini della applicabilità della speciale causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo - data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive - costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell'intervento
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 21/2/2014 la Corte di Appello di Catania ha confermato la sentenza del Tribunale di Catania, in composizione monocratica, emessa in data 17 ottobre 2011, nei confronti di C.S., che aveva dichiarato l'imputato responsabile dei reati di cui all'art. 36, L.R. Sic. n. 71 del 1978, art. 3, comma 1, lett. e), art. 1 e art. 10, comma 1, lett. a), D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b) e D.P.R. n. 380 del 2001, art. 93, comma 1, art. 94 comma 1 e art. 95, trattandosi di lavori in zona sismica, e lo aveva condannato alla pena di mesi 2 di arresto ed Euro 20.000,00 di ammenda, con sospensione della pena subordinata all'immediata demolizione delle opere e beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Il C., tramite difensore fiduciario, ricorre per cassazione e chiede l'annullamento della sentenza impugnata, per quattro motivi di doglianza.
Con il primo motivo deduce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), violazione della legge penale, in relazione alla L.R. Sicilia n. 4 del 2003 e D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 e art. 45, comma 3, per avere la Corte di Appello omesso di motivare in ordine all'intervenuta sanatoria della costruzione mediante oblazione. Evidenzia la difesa del ricorrente di aver sottoposto al giudice di appello la questione concernente la regolarizzazione delle opere abusivamente realizzate e che la corretta applicazione della normativa regionale in materia avrebbe condotto, con riferimento al reato urbanistico di cui al capo a) della rubrica, ad una pronuncia assolutoria.
Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), manifesta illogicità della motivazione per avere la Corte di Appello affermato l'applicabilità della sospensione del procedimento penale, ai sensi della L. n. 326 del 2003, art. 32 trattandosi di opere astrattamente suscettibili di sanatoria anche in presenza di vincoli, e ciò non di meno respinto la doglianza proposta sul punto dall'appellante, senza neppure considerare la documentazione prodotta in atti, comprovante l'intervenuta sanatoria ed il pagamento dell'oblazione, circostanza peraltro escludente la necessità di una sospensione del processo.
Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), mancanza di motivazione in relazione all'intervenuta sanatoria ed all'assenza di vincoli ostativi, per non avere la Corte di Appello tratto le dovute conseguenze, quanto al reato contestato al capo a), dalla prodotta attestazione del Comune di Catania di avvenuta presentazione della richiesta di permesso in sanatoria ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, nonchè della intervenuta demolizione del precedente manufatto (veranda), sostituito da altro avente superficie totale di mq. 47, inferiore al limite di mq. 50 previsto dalla L.R. Siciliana n. 4 del 2003, art. 20. Quanto al reato contestato al capo b) della rubrica, la difesa del ricorrente evidenzia il tenore della deposizione resa da A.M.L., Dirigente pro-tempore del Servizio Attuazione della Pianificazione della Direzione Urbanistica del Comune di Catania, secondo cui la zona interessata dall'intervento non necessitava di parere della Sovrintendenza, in quanto non previsto.
Con il quarto motivo deduce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), mancanza di correlazione tra imputazione e sentenza, violazione della legge penale, in relazione agli artt. 157 e 161 c.p., per non avere la Corte di Appello considerato, ai fini del computo della prescrizione, che nei capi d'imputazione la commissione dei reati è riferita a data antecedente e prossima al 5 settembre 2007, che le sospensioni sono pari a giorni 397 (e non giorni 710), sicchè il relativo termine quinquennale, trattandosi di contravvenzioni, è irrimediabilmente maturato il 7 ottobre 2013, e cioè ben prima della pronuncia della sentenza di secondo grado.
Con memoria depositata il 21/6/2016 il ricorrente insiste nella applicazione della causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 131 bis c.p. e nell'eccezione di intervenuta estinzione per prescrizione dei reati contestati nei capi d'imputazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di ricorso sono inammissibili per manifesta infondatezza e perchè volti a riproporre questioni - peraltro in termini generici rispetto al complessivo giudizio espresso nella sentenza impugnata - relative a valutazioni di merito, motivate correttamente.
Il Giudice d'appello, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa, ha correttamente esposto la ricostruzione dei fatti e ritenuto la sussistenza di elementi sufficienti per confermare la responsabilità dell'odierno ricorrente sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento, ed in particolare delle risultanze della istruttoria dibattimentale, essendo risultato accertato, secondo quanto riportato nella sentenza di primo grado, che il C., nella qualità di proprietario e committente dei lavori, ha effettuato sulla terrazza di copertura del secondo piano dell'edificio (c.d. lastrico solare), alla quale si accedeva dal preesistente casotto di copertura del vano scala mediante una preesistente scala costruita per accedere alla terrazza, l'intervento edilizio consistito nella realizzazione di una sopraelevazione di mq. 58 circa, con strutture orizzontali verticali in legno, con muri perimetrali in muratura piena e con copertura con tetto a due falde inclinate, avente altezza al colmo di mt. 3, 20 circa ed altezze alla gronda di mt. 2, 60 (lato est) e mt. 2, 75 (lato ovest), per il quale intervento era necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire (ex concessione edilizia).
La ricostruzione dei fatti è stata ampiamente ed analiticamente descritta nella sentenza del Tribunale di Catania, che viene richiamata dal giudice d'appello anche per la chiarezza dimostrativa delle ragioni per le quali è stata affermata la responsabilità dell'imputato e la complessiva struttura argomentativa delle convergenti pronunce di primo e di secondo grado, che danno luogo a una c.d. doppia conforme, non possono che indurre questo Collegio a ritenere che entrambi i giudici di merito abbiano proceduto ad una valutazione critica e argomentata delle fonti di prova, singolarmente passate in rassegna.
Le doglianze contenute nei primi tre motivi di ricorso, che possono essere scrutinate congiuntamente attesa la omogeneità delle questioni, vanno disattese proprio perchè si limitano ad una generica censura della motivazione della impugnata sentenza e mirano a sollecitare una incursione nel fatto non consentita in questa sede di legittimità.
La Corte territoriale ha evidenziato che le opere realizzate dall'imputato non possono certamente qualificarsi quali strutture precarie, come dedotto dalla difesa, trattandosi di vera e propria costruzione realizzata in sopraelevazione a preesistente fabbricato, con destinazione permanente ad usi abitativi, come peraltro si evince dalla predisposizione degli impianti idrico ed elettrico, determinando una modificazione permanente dell'assetto del territorio, sicchè trattandosi di veri e propri interventi di nuova costruzione, era necessario il permesso a costruire che nella specie manca, non potendo applicarsi il disposto di cui alla L.R. n. 4 del 2003, art. 20.
Il Giudice di appello ha rilevato che il manufatto realizzato sulla terrazza di copertura dell'immobile de quo, anche se si avesse riguardo alla sola normativa regionale, non presenta alcuno dei requisiti e delle condizioni espressamente richiesti dalla L.R. n. 4 del 2003, art. 20 ai fini dell'ammissione al regime semplificato da tale norma previsto, trattandosi di opere che, oltre a non essere rimovibili senza distruzione di elementi, avevano di fatto comportato la trasformazione della superficie non residenziale della terrazza di copertura (c.d. lastrico solare) in superficie utile e, quindi, la sostanziale immutazione dell'immobile principale sia nella superficie che nella volumetria (in assenza degli oneri concessori previsti dalla L. n. 10 del 1977, art. 3).
Ha quindi concluso che la sopraelevazione realizzata dall'imputato non era evidentemente finalizzata a soddisfare esigenze transeunti o improvvise, ma a fornire una utilità prolungata nel tempo e, di conseguenza, produceva quegli effetti sul territorio che la normativa urbanistica è rivolta a regolare, risultando, come si legge nella sentenza di primo grado, superato il limite ben evidenziato nella stessa rubrica dell'art. 20 (intitolata opere interne) e chiaramente risultante dall'utilizzazione del termine chiusura atteso che l'intervento edilizio deve risolversi appunto nella chiusura di una struttura aperta, che deve essere necessariamente preesistente all'intervento medesimo, ossia nello sfruttamento di uno spazio esistente e non può consistere in un ampliamento ossia nella creazione di nuovi spazi e che, inoltre, ai sensi della Reg. Sic. 16 aprile 2003, n. 4, art. 20 siccome modificato dalla L. Reg. Sic. 14 aprile 2006, n. 15, art. 12, non può essere superiore a 50 mq.
La decisione è senz'altro in linea con la giurisprudenza di questa Corte Suprema secondo cui, nelle regioni a statuto speciale, pur spettando alla Regione una competenza legislativa esclusiva in materia di legislazione edilizia (nella specie, la Regione Sicilia), la relativa legislazione deve non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, ma deve anche essere interpretata in modo da non collidere con i medesimi (Sez. 3, n. 28560 del 26/372014, Alonzo, Rv. 259938).
E con riferimento alla normativa nazionale, per consolidata giurisprudenza/ la trasformazione di un balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, nè intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia/permesso di costruire (Sez. 3, n. 33039 del 15/6/2006, P.M. in proc. Moltisanti, Rv. 234935).
L'imputato ripropone la questione dell'intervenuta regolarizzazione del manufatto a seguito di pagamento dell'oblazione e dalla sentenza del Tribunale di Catania si evince che effettivamente il C. aveva dapprima presentato istanza di autorizzazione in sanatoria ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 e successivamente istanza per la regolarizzazione di una veranda con struttura precaria ai sensi della L. Reg. Sic. n. 15 del 2006, art. 12 ed ancora, che aveva in parte demolito il manufatto riducendone l'estensione a mq. 47 circa.
Ancora una volta è sufficiente richiamare la giurisprudenza di questa Corte secondo cui è illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, lett. b), il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 51013 del 5 novembre 2015, Carratù e altro, Rg. 266034).
Non è superfluo evidenziare, avuto riguardo specificamente al secondo motivo di doglianza, che l'affermazione della Corte territoriale secondo cui alla stregua del disposto di cui alla L. n. 326 del 2003, art. 32 trattasi di opere astrattamente suscettibili di sanatoria deve essere rettamente letta in stretta correlazione con la disposta sospensione del procedimento penale, avuto riguardo all'eccezione di estinzione dei reati contestati al C. proposta dalla difesa, e pertanto non si pone in contrapposizione logica con l'affermazione circa l'insussistenza dei requisiti e delle condizioni richiesti dalla L.R. n. 4 del 2003, art. 20 e dunque con l'esclusione della invocata sanatoria.
Anche il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Il ricorrente deduce che il termine massimo di cinque anni ex artt. 157 e 161 c.p., atteso il tempus commissi delicti ((OMISSIS)) e che si tratta di reati contravvezionali, sarebbe irrimediabilmente spirato il 5/9/2012 e che, ai fini della sospensione considerata dalla Corte territoriale ex art. 159 c.p., pari a complessivi giorni 710, non andrebbero computati taluni dei rinvii disposti dal Tribunale e che quindi sarebbero da considerare soltanto 397 giorni di sospensione, con conseguente consumazione del termine prescrizionale il 7 ottobre 2013, ben prima cioè della pronuncia della sentenza di appello.
Giova premettere che il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 45, comma 1, allo stesso modo della L. n. 47 del 1985, art. 22, dispone che qualora venga richiesto l'accertamento di conformità ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 (già L. n. 47 del 1985, art. 13), l'azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finchè non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria.
La norma ricollega la durata della sospensione all'esaurimento dei soli procedimenti amministrativi di sanatoria, limitandola temporalmente alla decisione degli organi comunali sulla relativa domanda, manifestata anche nella forma del silenzio-rifiuto prevista dall'art. 36, comma 4 e detta sospensione non può estendersi fino alla definizione dell'eventuale procedimento giurisdizionale originato dal ricorso avverso il diniego del rilascio del titolo abilitativo sanante (Sez. 3, n. 36902 del 13/5/2015, Milito, Rv. 265085).
A tale interpretazione ha aderito anche la Corte Costituzionale con la sentenza n. 370/1988 e con l'ordinanza n. 247/2000) e l'emissione del provvedimento sospensivo, inoltre, resta pur sempre condizionata al previo accertamento del giudice penale in ordine alla effettiva sussistenza dei presupposti necessari per il conseguimento della sanatoria (Sez. 3, n. 563 del 17 novembre 2005, Martinico, Rv. 233011, Sez. 3, n. 9670 del 26/1/2011, Rizzo e altro, Rv. 249606, Sez. 3, 7.3.1997, n. 2256, Tessari ed altro).
La sospensione del processo disposta d'ufficio, in forza di tale disciplina ed in pendenza di procedimento di sanatoria, non può andare oltre i sessanta giorni, termine di durata massima del relativo procedimento, alla scadenza del quale si perfeziona il silenzio-rifiuto dell'amministrazione, sicchè gli ulteriori rinvii del procedimento devono essere ritenuti irrilevanti ai fini della sospensione della prescrizione, a meno che siano stati disposti su richiesta della difesa.
Ed infatti, questa Corte ha chiarito che un tale tipo di richiesta ben può essere causa di sospensione del procedimento penale per un tempo superiore alla durata della procedura amministrativa per la definizione della sanatoria, ai sensi del richiamato art. 159 c.p., n. 3), nel testo introdotto dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6, comma 3, per il quale il corso della prescrizione rimane sospeso nel caso di sospensione del procedimento o del processo penale su richiesta dell'imputato o del suo difensore (Sez. U. n. 15427 del 31/3/2016, Cavallo, non ancora massimata, Sez. 3, n. 41349 del 28/5/2014, Zappalorti e altro, Rv. 260753).
Si tratta di una sospensione del corso della prescrizione rispetto alla quale operano i principi generali fissati dal c.p.p. e che ha la stessa durata della sospensione del processo, a differenza della sospensione per impedimento delle parte dei difensori che può essere, invece, computata per un massimo di sessanta giorni (ex plurimis, Sez. 3, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, Rv. 256463, Sez. 3, n. 45968 del 27 ottobre 2011, Diso, Rv. 251629, Sez. 3, n. 28166 del 6/6/2012, Petroia e altro, Rv. 253168).
Va ribadito, pertanto, il principio - che il Collegio condivide - secondo cui il provvedimento di rinvio del processo, disposto dal giudice su istanza e per esigenze della parte richiedente, dà sempre luogo alla sospensione dei termini di prescrizione per l'intera durata del rinvio ex art. 159 c.p., a prescindere dalle ragioni che la stessa parte ha posto a fondamento della richiesta, salvo che esse consistano in un legittimo impedimento della parte o del difensore poichè, in tal caso, la sospensione ha una durata massima di sessanta giorni.
Orbene, come già visto, l'accertamento dei reati risale al (OMISSIS), sicchè la scadenza del termine ultimo di prescrizione per le fattispecie contravvenzionali (cinque anni) coinciderebbe effettivamente con il 25/7/2012.
Va tuttavia computata una sospensione del corso della prescrizione per complessivi giorni 675 in seguito ai rinvii disposti su richiesta del difensore dal 22/9/2009 al 23/2/2010 (per n. 154 giorni - Il difensore chiede rinvio), dal 23/2/2010 al 26 ottobre 2010 (per n. 249 giorni - Rinvio al 26 ottobre 2010. sospesi i termini di prescrizione. La difesa deposita note), dal 26 ottobre 2010 al 21/2/2011 (per 118 giorni - La difesa chiede rinvio e produce documentazione) e dal 16/5/2011 al 17 ottobre 2011 (per n. 154 giorni - Su richiesta della difesa rinvia per la discussione).
Ne deriva che computando i rinvii per complessivi 675 giorni disposti su richiesta difensiva, anche in vista di una sanatoria mai ottenuta, la prescrizione quinquennale è maturata il 31/5/2014, data comunque successiva alla pronuncia della sentenza impugnata.
E, com'è noto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p., ivi compresa la prescrizione, è preclusa dall'inammissibilità del ricorso per cassazione, anche se dovuta alla genericità o alla manifesta infondatezza dei motivi, che non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione (ex multis, Sez. 3, n. 42839 del 8 ottobre 2009, Imperato F., Rv. 244999, Sez. 1, n. 24688 del 4/6/2008, Rayyan, Rv. 240594).
Quanto, infine, alla dedotta applicabilità della disciplina di cui all'art. 131 bis c.p., va richiamata una recente decisione di questa Corte che, nel suo più autorevole consesso, ha chiarito che l'istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, previsto dall'art. 131-bis c. p., avendo natura sostanziale, è applicabile, per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, anche ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione e solo per questi ultimi la relativa questione, in applicazione dell'art. 2 c.p., comma 4 e art. 129 c.p.p., è deducibile e rilevabile d'ufficio ex art. 609 c.p.p., comma 2, anche nel caso di ricorso inammissibile, specificando, in motivazione, che, quando, invece, non si discute dell'applicazione della sopravvenuta legge più favorevole, la inammissibilità del ricorso preclude la deducibilità e la rilevabilità d'ufficio della questione (Sez. U. n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266593).
Pertanto, nei casi in cui la sentenza impugnata sia anteriore alla novella, come nel caso di specie, l'applicazione dell'istituto nel giudizio di legittimità è possibile, anche d'ufficio e pure nel caso di ricorso originariamente inammissibile, quando dalla motivazione della sentenza di merito risultino già apprezzati, espressamente o in guisa implicita, come esistenti tutti i presupposti di fatto che la norma sostanziale prevede.
La Corte di cassazione, in altri termini, non valuta con proprio apprezzamento se quei presupposti sussistono, ma prende atto della loro presenza o della loro esclusione alla luce della motivazione del giudice del merito.
Ciò premesso, va richiamata la giurisprudenza di questa Sezione secondo cui, ai fini della applicabilità della speciale causa di non punibilità nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive - costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell'intervento (Sez. 3, n. 19111 del 10/3/2016, Mancuso, Rv. 266586, Sez. 3, n. 47039, del 8 ottobre 2015, P.M. in proc. Derossi, Rv. 265450).
In applicazione del suesposto principio, deve quindi escludersi la ricorrenza della predetta causa di non punibilità stante la concorrente violazione della legge urbanistica ed antisismica, con riguardo a nuova costruzione ad uso residenziale di non trascurabile superficie e volume, non potendo certo parlarsi di particolare tenuità avuto riguardo alla complessiva offensività delle condotte dell'autore di plurime violazioni.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 1.500,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 30 giugno 2016.