Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 223, del 15 gennaio 2013
Urbanistica. Legittimità diniego condono per opere in violazione delle distanze dai confini catastali e dalla strada.

E’ legittimo il diniego alle richieste di condono per opere abusive consistenti in: tettoia sorretta da sei colonne in mattoni con destinazione cucina aperta; annesso con struttura portante in mattoni e copertura in cemento; fabbricato di tre piani; muro in cemento armato con recinzione; altro muro in cemento armato con recinzione, realizzate in violazione delle distanze dai confini catastali, dalla strada, all’altezza, alla distanza dalla strada. Infatti, la mancata utilizzazione di una strada pubblica, tuttora esistente giuridicamente sulla base della sua iscrizione nell’elenco delle strade vicinali di uso pubblico, non può costituire di per sé circostanza dirimente per escludere l’obbligo per il costruttore di rispettare il limite di distanza dal ciglio stradale, poiché, ai fini della condonabiltà dell’abuso non viene in rilievo il problema della minaccia alla sicurezza del traffico, ma soltanto il profilo della conformità urbanistica dell’opera alle norme vigenti. In tema di distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione, soltanto quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima Con riferimento alla nozione di "costruzione", rilevante ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall'articolo 873 del c.c. o da norme regolamentari integrative, si è stabilito che tale "concetto" comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità e immobilizzazione rispetto al suolo. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 00223/2013REG.PROV.COLL.

N. 06543/2009 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6543 del 2009, proposto da: 
Maria Carmela Zappala', rappresentato e difeso dall'avv. Federico Mannucci, con domicilio eletto presso Federico Mannucci in Roma, via G. Mazzini, 11;

contro

Comune di Marsciano, rappresentato e difeso dall'avv. Maurizio Pedetta, con domicilio eletto presso Goffredo Gobbi in Roma, via Maria Cristina, 8;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. UMBRIA - PERUGIA: SEZIONE I n. 00036/2009, resa tra le parti, concernente diniego istanza di condono.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Marsciano;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 gennaio 2013 il Cons. Sergio De Felice e uditi per le parti gli avvocati Federico Mannucci e Maurizio Pedetta;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

Con cinque distinti ricorsi (nn. 23, 24, 25, 26 e 27 dell’anno 2008), proposti innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria, l’attuale appellante agiva per l’annullamento di cinque distinti dinieghi di condono emessi dal Comune di Marsciano tutti in data 9 ottobre 2007, con numeri di prot. 26122, 26120, 26121, 26119, 26123.

Le istanze erano state chieste con riguardo a lavori abusivi realizzati negli anni 2000-2002 in zona agricola sottoposta a vincolo idrogeologico.

Tali opere consistevano in: tettoia sorretta da sei colonne in mattoni con destinazione cucina aperta; annesso con struttura portante in mattoni e copertura in cemento; fabbricato di tre piani; muro in cemento armato con recinzione; altro muro in cemento armato con recinzione.

I motivi di diniego erano in parte simili e in parte differenti; per tutti il Comune faceva riferimento alla novità e alla non conformità urbanistica delle opere edilizie nonché al carattere unitario degli abusi.

I ricorsi esponevano la condonabilità dell’opera, secondo relazioni tecniche prodotte, lamentando violazione delle norme del regolamento edilizio ed eccesso di potere e in subordine l’illegittimità costituzionale della legge regionale umbra n.21 del 2004 in relazione all’art. 117 Costituzione.

Il giudice di primo grado provvedeva nel modo seguente: riuniva i ricorsi per connessione sia soggettiva che oggettiva; rigettava le questioni preliminari di inammissibilità, anche quella per asserita acquiescenza; rigettava, in quanto manifestamente infondata, la questione di illegittimità costituzionale della legge regionale umbra in materia di condono, che limita la condonabilità per le opere nuove solo a determinate condizioni e con precisi limiti volumetrici e quindi esclude la condonabilità delle opere nuove non conformi. Specificando l’analisi del merito dei ricorsi, il primo giudice rigettava tutte le censure, vagliate comunque anche complessivamente per il carattere unitario della costruzione abusiva in questione, sulla base della legittimità dei motivi di diniego, attinenti alla violazione delle distanze dai confini catastali, dalla strada, all’altezza, alla distanza dalla strada (ricorso n.23/2008), non potendosi avere riguardo alla mancata utilizzazione di fatto di una pubblica strada; si ravvisava la violazione dalle distanze minime dalle strade pubbliche (ric. 24/2008); veniva rigettato anche il ricorso relativo al diniego di condono per la tettoia, ritenuta costruzione edilizia per le caratteristiche strutturali e funzionali, anche per violazione delle distanze; veniva rigettato pure il ricorso relativo all’annesso destinato al ricovero, in quanto per lo stesso, sia pure volume tecnico, dovevano rispettarsi le norme sulle distanze.

Avverso tale sentenza propone appello la stessa ricorrente di prime cure, Zappalà Maria Carmela, che, in primo luogo, descrive i fatti procedimentali, rappresentando i diversi provvedimenti impugnati con i cinque distinti ricorsi, esponendo come si tratterebbe soltanto in parte di motivi di diniego simili (giustificati con la natura non di ampliamenti di edifici preesistenti, ma di nuove costruzioni, non conformi a strumenti urbanistici e in violazione delle distanze); in realtà, tuttavia, ogni diniego ha avuto diverse motivazioni (per esempio, in relazione al limite di distanza violato, a volte dai confini, a volte dalla strada, a volte oppure con riguardo al limite di altezza violato).

Con un primo motivo di appello relativo a tutti i cinque ricorsi originari (da pagina 8 a pagina 11 dell’appello) si lamenta l’erroneo utilizzo, da parte del primo giudice, del potere di riunione, in quanto in sentenza si è affermato erroneamente trattarsi di un abuso unitario e si sostiene che si è fatta una valutazione complessiva della vicenda; al contrario, assume tale motivo di appello, con la indebita riunione dei cinque ricorsi per cinque provvedimenti basati su motivazioni diverse, si è leso il diritto di difesa, costringendo la parte a proporre un unico appello.

Con altro motivo di impugnazione (da pagina 11 a pagina 13) si sostiene l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117 comma 3 Costituzione, della legge regionale umbra n.21 del 2004, nel punto in cui limita la sanabilità delle opere nuove rientranti nella tipologia II (ossia solo se realizzate in assenza di titolo ma conformemente agli strumenti urbanistici), ciò che irragionevolmente, nel non consentire la condonabilità di opere nuove difformi, determinerebbe una disparità di trattamento.

Con altri motivi, l’appellante:

A.- relativamente al ricorso n. 23 del 2008 deduce quanto segue:

A.a.- omessa pronuncia sul dedotto difetto di motivazione per l’indicazione della violazione dell’art. 46 delle NTA al PRG all’epoca vigente, che impone una distanza dalle costruzioni dai confini di mt. 7,5 e in sostanza difetto di idonea motivazione;

A.-b.- che le norme sulle distanze dai confini catastali di altra proprietà sono norme di relazione; e poiché l’autorizzazione edilizia fa comunque salvi i diritti dei terzi, non poteva per ciò solo negarsi il condono;

B.- relativamente al ricorso n. 24 del 2008 deduce quanto segue:

B.a.- erroneità della ritenuta violazione delle distanze, perché non vi è una vera minaccia alla sicurezza del traffico, come sembra pretendere l’art. 32 della legge n.47 del 1985, e anche nel caso di violazione dell’obbligo di rispetto si tratta di strada non effettivamente utilizzata;

B.b.- in ogni caso non è vero che il limite di distanza sia di metri 15, in quanto la variante adottata di recente prevede un limite minore, cioè di dieci metri; e doveva farsi riferimento alle normative vigenti al momento dell’esame della domanda di condono;

B.c.- errerebbe la sentenza appellata nel punto in cui non ammette di doversi fare riferimento al successivo reinterro, al fine di valutare l’altezza del fabbricato.

C.- Con riguardo al ricorso 25 del 2008 (da pagina 24 in poi dell’appello), avente ad oggetto il locale tecnico si deduce quanto segue:

C.a.- sarebbe errata la conclusione della sentenza secondo cui l’abuso non sarebbe condonabile perché in contrasto con le norme relative alla distanza dai confini, dalla strada e da altro fabbricato:

.- in primo luogo la strada non è esistente;

.- in secondo luogo non vi sarebbe minaccia per la sicurezza del traffico;

C.b.- si sostiene inoltre che si tratta di pertinenza e che la distanza va calcolata in modo ortogonale e non radiale, anche in applicazione delle norme sopravvenute del regolamento edilizio (art. 49), più favorevoli al privato.

D.- Con riguardo al ricorso n. 26 del 2008, avente ad oggetto il diniego di condono sulla tettoia-gazebo, si deduce quanto segue:

D.a.- la sentenza è errata, in quanto è vero che l’intervento è urbanisticamente rilevante (altrimenti non sarebbe stato chiesto condono), ma per esso non deve aversi riguardo al calcolo della distanza dalla strada e da altro fabbricato, dovendosi considerare le distanze tra pareti finestrate;

D.-b.- relativamente alla distanza dalla strada, si deduce di nuovo trattarsi di strada non esistente con assenza di minaccia alla sicurezza del traffico; e in ogni caso sarebbe rispettato il limite di metri dieci;

D.c.- doveva tenersi conto dello strumento urbanistico di variante adottato, anche se non approvato, esistendo il diritto ad ottenere il condono in caso di intervento per opere che siano conformi al momento dell’esame della sanatoria.

E.- Con riguardo al ricorso di primo grado n.27 del 2008 (da pagina 34 in poi dell’appello) si deduce quanto segue:

E.a.- in primo luogo la sentenza avrebeb omesso di motivare sul punto, avendo fatto cenno ad esso solo al paragrafo 4;

E.b.- sussisteva condonabilità, perché, ancora una volta, la strada rispetto alla quale sarebbe violata la distanza sarebbe strada vicinale non più esistente, mentrel’abuso non costituirebbe minaccia alla sicurezza del traffico;

E.c.- il limite di dieci metri (l’assunto è ripetuto) è comunque rispettato;

E.d.- deve aversi riguardo alla variante più favorevole, adottata con delibera del Consiglio comunale n.69 del 3 giugno 2003 e approvata con delibera di C.C. n.62 del 27 aprile 2004, essendo dunque consentita la sanatoria di opere dapprima vietate;

E.e.- in subordine è riproposta la questione di illegittimità costituzionale della legge regionale umbra, come sopra già esposta.

Si è costituito il Comune di Marsciano, concludendo per l’inammissibilità e comunque l’infondatezza dell’appello.

Alla udienza pubblica dell’8 gennaio 2013 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1.E’ del tutto infondato il primo motivo di appello, con il quale si lamenta l’esercizio indebito del potere di riunione da parte del primo giudice.

In disparte la considerazione assorbente che la vicenda è unitaria, trattandosi di un unico intervento, costituito da diverse parti del medesimo fabbricato in zona agricola (per cui sono state presentate tre istanze di condono), oltre tettoia-gazebo e annesso tecnico (e la stessa parte appellante ha sostenuto la natura di pertinenza almeno per uno dei due interventi staccati), il primo giudice ha valutato che si trattava di giudizi tra le stesse parti, aventi oggetti simili (dinieghi di condono) riguardanti l’intervento abusivo, che questo giudice giudica unitario (ma ciò può anche essere superfluo) e con motivi e censure almeno in parte analoghi.

Soprattutto, però, vanno ribaditi i principi generali in materia di riunione, secondo i quali:

.- i provvedimenti di riunione e di separazione costituiscono espressione tipica del potere discrezionale del giudice, hanno natura ordinatoria e si fondano su valutazioni di mera opportunità, con la conseguenza che essi non comportano, per gli effetti che ne discendono nello svolgimento dei processi, alcuna nullità (Consiglio Stato sez. IV, 10 luglio 2007,n. 3893);

.- la valutazione in ordine all'opportunità della trattazione congiunta di più cause connesse fra di loro è rimessa esclusivamente alla discrezionalità del giudice innanzi al quale le cause pendono e il mancato esercizio del potere di riunione (dunque anche l’esercizio del medesimo potere) non è sindacabile in sede di appello (salvo che, in caso di omessa riunione, fra esse sussista un rapporto di pregiudizialità tale da non poterne consentire la decisione separata, caso differente dalla fattispecie; Consiglio Stato sez. IV, 16 gennaio 2008 n. 74);

.- il potere di riunione dei ricorsi è ampiamente discrezionale, non è in alcun modo sindacabile in appello e quindi le parti non hanno alcun interesse a censurare né il contenuto della scelta, né le modalità attraverso cui la decisione di riunione sia stata formata, sempre che, in concreto siano state rispettate tutte le garanzie difensive riguardanti i singoli procedimenti riuniti (Consiglio Stato sez. V, 6 luglio 2007, n. 3868).

Ora il rispetto delle garanzie difensive è stato pienamente assolto nella fattispecie processuale in esame, in cui tutti i motivi di censura proposti e dedotti con i vari ricorsi sono stati attentamente esaminati e vagliati, sia pure nella valutazione comune di taluni di essi. D’altronde, laddove, per ipotesi, o anche per tesi difensiva, vi fosse stata una omessa pronuncia, con il motivo d’appello e per l’effetto devolutivo il motivo verrebbe trattato compiutamente dal giudice dell’impugnazione; e in ogni caso il vizio di omessa pronuncia, laddove esistente, non è consequenziale alla scelta della riunione dei processi.

2. E’ del tutto infondato l’altro motivo di appello, pur esso esteso a tutti i ricorsi di primo grado, con cui l’appellante deduce l’illegittimità costituzionale della legge regionale, che sarebbe eccessivamente limitativa laddove ammette a sanatoria le sole opere abusive di ampliamento di edifici già esistenti ultimate entro il 31 marzo 2003 e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti alla data del 2 ottobre 2003, con esclusione delle opere edilizie abusive nuove non conformi alla stessa data alle stesse norme, così come l’asserita disparità di trattamento che si avrebbe da Regione a Regione.

Secondo il Giudice delle leggi (Corte costituzionale, 10 febbraio 2006, n. 49), che quindi si è già espresso sul punto proprio in termini, non è fondata la q.l.c., in riferimento agli art. 3, 81, 117 commi 2 lett. a), e) ed l) e 3 e 119 cost., dell'art. 21 comma 1 lett. d) l. reg. Umbria 3 novembre 2004 n. 21, il quale, escludendo dal condono edilizio straordinario i «nuovi edifici, salvo quanto previsto dall'art. 20 comma 1 lett. b)», della medesima legge regionale, ridurrebbe l'ambito delle fattispecie passibili di sanatoria, in contrasto con i principi fondamentali posti dall'art. 32 comma 25 d.l. n. 269 del 2003.

Per la Corte Costituzionale non sono quindi fondate, le q.l.c. dell’art. 20 comma 1 lett. a) e c), che limita il condono di opere difformi solo al caso di ampliamenti di edifici già esistenti, non ammettendoli per le nuove costruzioni; e dell’art. 21 comma 1, lett. c), d), e), h) l. reg. Umbria n. 21 del 3 novembre 2004.

La disciplina del condono straordinario da parte delle regioni è riconducibile alla materia “governo del territorio”, di competenza concorrente, sicché, da un lato, ben possono aversi discipline diverse da quanto previsto dall'art. 32 d.l. n. 269 del 2003, quale conv. dalla l. n. 326 del 2003, non potendosi certo ritenere incoerente rispetto al disegno costituzionale che siano adottate legislazioni diversificate da Regione a Regione, con tutto ciò che ne consegue per gli interessati e per le pronunce giurisdizionali che facciano applicazione di tale disciplina, e, dall'altro, si deve riconoscere in materia al legislatore regionale un ampio potere discrezionale nella possibilità di definire i confini entro cui modulare gli effetti sul piano amministrativo del condono edilizio straordinario, tanto più che i commi 25 e 26 dell'art. 32 d.l. n. 269 del 2003 sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte in cui, rispettivamente, non prevedevano «che la l. reg. di cui al comma 26 possa determinare limiti volumetrici inferiori a quelli ivi indicati» e «che la l. reg. possa determinare la possibilità, le condizioni e le modalità per l'ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio di cui all'allegato 1», potere che, nella specie, non risulta esercitato in modo irragionevole.

D’altra parte, occorre rilevare, al fine di concludere per la sicura legittimità dell’intervento legislativo regionale e sul suo ambito, come proprio la Corte costituzionale (con la precedente sentenza 28 giugno 2004, n. 196) avesse dichiarato l'incostituzionalità, per contrasto con gli art. 117 e 118 cost.:

.- dei commi 14, 25, 26, 32, 55, 57, 55, dell'art. 32 d.l. 30 settembre 2003 n. 269, nel testo originario e in quello risultante dalla l. conv. n. 326 del 2003, proprio nella parte in cui era escluso il legislatore regionale da ambiti materiali che invece ad esso spettano, sulla base delle disposizioni costituzionali e statutarie;

.- dell'intero art. 32 d.l. 30 settembre 2003 n. 269, nel testo originario e in quello risultante dalla l. conv. n. 326 del 2003, nella parte in cui non prevede che la l. reg. di cui al comma 26 debba essere emanata entro un congruo termine da stabilirsi dalla legge statale;

.- dell'allegato 1 d.l. n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla l. conv., n. 326 del 2003, nella parte in cui determina la misura dell'anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento;

- del comma 49 ter dell'art. 32 d.l. n. 269 del 2003, introdotto dalla l. conv. n. 326 del 2003.

In sostanza, secondola Corte, sono affetti da illegittimità costituzionale parziale i commi 14, 25, 26, 32, 33, 37, 38, 49 ter e l'Allegato 1 dell'art. 32 d.l. 30 settembre 2003 n. 269, conv. dalla l. 24 novembre 2003 n. 326, in quanto gli stessi violano l'art. 117 comma 3 cost., poiché escludono il legislatore regionale, in materia rimessa alla legislazione concorrente, da ambiti materiali che invece a esso spettano, sulla base delle disposizioni costituzionali e statutarie.

3. In ordine alle censure svolte riguardanti il ricorso r.g. n. 23 del 2008 dinanzi al Tar, l’appellante deduce: a) omessa pronuncia sul dedotto difetto di motivazione per l’indicazione della violazione dell’art. 46 delle NTA al PRG all’epoca vigente, che impone una distanza dalle costruzioni dai confini di mt. 7,5 e in sostanza difetto di idonea motivazione; b) che le norme sulle distanze dai confini catastali di altra proprietà sono norme di relazione e fanno salvi i diritti dei terzi, sicché non poteva per ciò negarsi il condono.

I motivi sono infondati.

L’istanza di sanatoria riguardava la parte posteriore dell’edificio principale, descritta come “unità abitativa composta di un piano interrato ad uso fondo, un piano terra ad uso abitazione”.

Il diniego è stato motivato in quanto “l’intervento non costituisce ampliamento di un edificio esistente ma una nuova costruzione; in contrasto con l’art. 20 della l.r. 21 del 2004 (anche con la lettera b) del primo comma) l’opera non è conforme agli strumenti urbanistici vigenti alla data del 2 ottobre 2003; Distanza dai confini di altra proprietà inferiore al consentito”.

Come si desume dall’analisi del provvedimento impugnato, la motivazione è stata pienamente espletata nel contenuto del diniego; inoltre, è chiaro come la difformità andasse individuata rispetto alle norme urbanistiche vigenti alla data prevista per il condono. Non può considerarsi vizio di pronuncia (né di ultrapetizione o extrapetizione) la circostanza che, per completezza, il primo giudice avrebbe indicato in sentenza, con precisione, l’articolo della norma di piano che si intendeva violata (l’art. 46).

Si ritiene per esempio in materia che sia adeguatamente motivato il parere negativo alla sanabilità di un'opera edilizia abusivamente realizzata nel caso in cui l'Amministrazione abbia richiamato semplicemente norme di piano che precludano nell'area la realizzazione di nuove costruzioni estranee alla destinazione agricola.

Con riguardo alla completezza nel merito del motivo di diniego per violazione del limite di distanza dai confini, è evidente, come bene controdeduce il Comune appellato, che è logico riferirsi alla distanza dell’edificio nella sua interezza dai confini di proprietà di terzi, non potendosi certo aderire alla pretesa della parte di considerare, a tali fini, la frazione di unità abitativa a sé stante quasi a ritenerla edificio separato, contrariamente alla realtà.

E’ infondato anche il motivo con il quale si pretende che la regola della distanza dai confini sia norma di relazione e non di rilievo pubblicistico, tanto da non poter giusto costituire, nell’erronea ottica della appellante, giusto motivo di diniego.

Infatti, se è vero che la sanatoria edilizia regola i rapporti tra privato ed ente pubblico senza incidere sui diritti dei terzi pregiudicati dall'opera abusiva (i quali potranno comunque chiedere all'autorità giudiziaria la demolizione o il risarcimento del danno), è altrettanto vero che rilasciare il titolo edilizio per opere costituenti violazione certa di norme sulle distanze o sul diritto di veduta, e quindi ingiustamente lesive, significherebbe esperire un'azione amministrativa contrastante con i principi di correttezza e buona amministrazione ex art. 97 cost., nonché col principio di economia dei mezzi giuridici, in quanto il terzo leso sarebbe di certo legittimato ad opporsi all'opera assentita, chiedendo al g.o. la demolizione e rendendo così sostanzialmente inutile il titolo edilizio abilitante.

Né possono avere valutazione positiva i rilievi di parte appellante che, con riguardo ad una particella confinante, sostiene di averla poi acquistata e, quanto ad altra particella, sostiene che la violazione sarebbe di minima entità e quindi irrilevante.

Il primo motivo è infondato perché la violazione va valutata alla data del 2 ottobre 2003, mentre l’acquisto è avvenuto in data 21 settembre 2007; quanto al rilievo che l’abuso sarebbe irrilevante in quanto non di grandi dimensioni, al di là della irrilevanza giuridica del rilievo, è sufficiente osservare come in sostanza vi sia una ammissione completa della riscontrata difformità, sicché non è dato né all’amministrazione, né al giudice discostarsi dalla affermazione della violazione della norma urbanistica di riferimento con riguardo alla entità di misura dell’abuso.

4. In ordine ai motivi di appello proposti relativamente al ricorso di primo grado n. 24 del 2008 va osservato che: l’istanza era presentata come avente ad oggetto “unità abitativa composta di un piano interrato ad uso fondo, un piano terra e primo ad uso abitazione”; si tratta della parte dell’edificio frontale rispetto alla strada vicinale.

Il diniego è stato motivato perché trattasi di nuova costruzione, difforme dagli strumenti urbanistici vigenti al 2 ottobre 2003; in violazione della distanza dalla strada, inferiore al minimo consentito, e con altezza in gronda superiore al consentito.

Con i motivi di appello si sostiene che la violazione della strada non sussisterebbe, perché tale strada sarebbe inutilizzata e perché non sussiste la minaccia alla sicurezza del traffico; inoltre si fa illegittimamente riferimento, da parte della sentenza, al limite di 15 metri, mentre la nuova variante adottata ha abbassato il limite a dieci metri e dovrebbe aversi riferimento alle norme vigenti al momento dell’esame della domanda di condono.

I rilievi sono tutti infondati.

Infatti, quanto alla strada, la mancata utilizzazione di una strada pubblica, tuttora esistente giuridicamente sulla base della sua iscrizione nell’elenco delle strade vicinali di uso pubblico, non può costituire di per sé circostanza dirimente per escludere l’obbligo per il costruttore di rispettare il limite di distanza dal ciglio stradale, poiché, ai fini della condonabiltà dell’abuso non viene in rilievo il problema della minaccia alla sicurezza del traffico, ma soltanto il profilo della conformità urbanistica dell’opera alle norme vigenti.

D’altronde, le norme invocate dalla parte appellante non pretendono che la violazione sia accompagnata dalla minaccia di sicurezza al traffico; ma anzi, al contrario, richiedono che gli stessi interventi, devono comunque non essere posti in violazione delle norme, sulle strade, al che si aggiunge la specifica che in ogni caso “sempre che le opere stesse” non debbono costituire “minaccia alla sicurezza del traffico”; tale requisito è un quid pluris che deve sussistere ai fini del condono (l’assenza di minaccia…) e non già una ulteriore condizione al fine di poter ravvisare la violazione ai fini del diniego, come pretende l’appello (si legga in tal senso l’art. 32 l.47 del 1985, comma 1 lett. c) “.. ( non debbono essere)…in contrasto con le norme del decreto ministeriale 10 aprile 1968, n.1404, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13 aprile 1968, e con agli articoli 16, 17 e 18 della legge 13 giugno 1991, n.190, e successive modificazioni, sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico…”.

E’ parimenti infondata la pretesa di doversi fare riferimento alle nuove più permissive norme soltanto adottate, perché si deve avere riguardo alle norme vigenti alla data del 2 ottobre 2003, come più volte già sottolineato, e ciò è sufficiente; inoltre, come noto, non è approvata e vigente sotto tutti gli effetti (e certo non ai considerati effetti della conformità o difformità ai fini delle distanze) la variante solo adottata e successivamente approvata.

E’ del tutto infondata anche la pretesa dell’appellante volta a far constare l’illegittimità del motivo di diniego relativo all’altezza dell’edificio, che andrebbe commisurata dal piano di campagna e non dalle fondamenta, che verrebbero ricoperte a seguito di interventi futuri da realizzare. E’ evidente che non può valutarsi la conformità se non con riguardo alla situazione esistente, non potendo valere né successivi interventi, né tantomeno promesse di interventi, inidonei come tali a concretare una conformità smentita dai fatti e anzi ammessa dalla stessa parte.

5. Sono infondati anche i motivi di appello relativi al ricorso di primo grado n. 27 del 2008.

La parte appellante deduce l’omissione di motivazione effettuata dalla sentenza, che avrebbe fatto cenno a detto ricorso solo al paragrafo 4.

In realtà la sentenza ben motiva (a pagina 7 quinto rigo) come si tratti di tre ricorsi (23, 24 e 27) aventi argomenti analoghi (simili, come visto, motivi di diniego e di censura).

Infatti, anche i motivi di appello, infondati, deducono (sul ricorso n. 27 del 2008) la condonabilità, perché la strada rispetto alla quale sarebbe violata la distanza è strada vicinale non più esistente e non costituisce minaccia alla sicurezza del traffico; il limite sarebbe comunque rispettato; deve aversi riguardo, si ripete dalla Zappalà, alla variante più favorevole, adottata con delibera del Consiglio Comunale n.69 del 3 giugno 2003 e approvata con delibera di C.C. n.62 del 27 aprile 2004, essendo consentita la sanatoria di opere dapprima vietate; in subordine viene riproposta la questione di illegittimità costituzionale della legge regionale umbra, come sopra già esposta.

I motivi sono tutti infondati per le ragioni che sono state esposte in precedenza, in occasione dell’esame di precedenti analoghe censure, analogamente respinte.

6. Anche con riguardo ai motivi di appello relativi al ricorso n. 25 del 2008 (riguardante il locale tecnico), si richiamano le ragioni già esposte della loro infondatezza sulla distanza dai confini, sulla distanza dalla strada, sulla esigenza o meno anche di minaccia per la sicurezza del traffico.

Sono infondati, in aggiunta, i motivi con cui si sostiene che la distanza andava calcolata in modo ortogonale e non radiale, anche in applicazione delle norme sopravvenute più favorevoli del nuovo regolamento edilizio .

Infatti, nella specie, come rilevato pure dal primo giudice, si tratta di una struttura edilizia vera e propria, avente la sua autonomia, di oltre quattro metri per tre e circa due metri e trenta di altezza, realizzata in laterizio di mattoni, tetto in latero, cemento ricoperto di coppi e pertanto soggetto alle norme sulle distanze tra fabbricati; inoltre il regolamento comunale vigente alla data del 2 ottobre prevedeva che si dovesse fare riferimento al metodo di misurazione radiale e non a quello ortogonale.

In tema di distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione, soltanto quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima (così da ultimo, Cassazione civile sez. II, 3 febbraio 2011 n. 2566).

Secondo tale giurisprudenza, in vero, ai fini del calcolo delle distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione, solo quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima: in sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici in relazione a quelle parti del fabbricato che ne costituiscono parte integrante.

7. Con riguardo ai motivi di appello esposti, relativi al ricorso di primo grado r.g.n. 26 del 2008, avente ad oggetto il diniego di condono sulla tettoia-gazebo aperto, vale quanto sopra esposto per: a) distanze dalla strada; b) strada esistente anche se di fatto non del tutto utilizzata; c) minaccia della sicurezza al traffico; d) nuove norme della variante soltanto adottata e non ancora approvata al momento di riferimento della conformità o difformità e cioè al 2 ottobre 2003.

Inoltre, con riguardo alla limitata rilevanza dell’intervento, tanto che per esso dovrebbe considerarsi la distanza tra pareti finestrate e non dalla strada o da altro fabbricato, va osservato che, al contrario, si ritiene costituire a tal fine "costruzione" anche un manufatto che, seppure privo di pareti, realizzi una determinata volumetria, sicché - al fine di verificare l'osservanza o meno delle distanze legali - la misura deve esser effettuata assumendo come punto di riferimento la linea esterna della parete ideale posta a chiusura dello spazio esistente tra le strutture portanti più avanzate del manufatto stesso (nella specie, tettoia) (Cassazione civile sez. II, 14 marzo 2011, n. 5934).

Con riferimento alla nozione di "costruzione", rilevante ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall'articolo 873 del c.c. o da norme regolamentari integrative, si è stabilito che tale "concetto" comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità e immobilizzazione rispetto al suolo (Cass. 18 febbraio 2011, n. 4008; Cass. 1 luglio 1996, n. 5956).

Nella specie, basti considerare che, in fatto, si tratta di struttura edilizia di dimensioni notevoli (quasi 90 metri quadrati e la circostanza non viene smentita, né contestata), realizzata in muratura, con pilastri che misurano 50 cm per 50, copertura in cemento, telaio in ferro e manto in coppi, con un lato interamente tamponato.

Il concetto di costruzione cui fanno riferimento gli art. 873 e 907 c.c. ai fini del rispetto della distanza minima comprende qualsiasi manufatto avente caratteristiche di consistenza e di stabilità e in tal senso non può essere negata tale caratteristica alla tettoia in parola.

8. Per le considerazioni sopra svolte, l’appello va respinto.

La condanna alle spese del presente grado di giudizio segue il principio della soccombenza; le spese sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), sezione quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, così provvede:

rigetta l’appello, confermando la impugnata sentenza;

condanna la parte appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, liquidandole in complessivi euro settemila e cinquecento, di cui duemila per spese, anche tenendo conto che in primo grado sono stati riuniti cinque ricorsi aventi distinti oggetti, anche se in parte con questioni identiche.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 gennaio 2013 con l'intervento dei magistrati:

Paolo Numerico, Presidente

Sergio De Felice, Consigliere, Estensore

Fabio Taormina, Consigliere

Raffaele Potenza, Consigliere

Fulvio Rocco, Consigliere

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 15/01/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)