Consiglio di Stato Sez. II n. 1648 del 25 febbraio 2025
Urbanistica.Misure ripristinatorie
In materia edilizia le misure ripristinatorie, cui l’ingiunzione a demolire deve essere ricondotta, quale che ne sia la natura (che la giurisprudenza EDU ha riconosciuto come sostanzialmente penale laddove sopraggiungano a distanza di parecchio tempo dalla commissione dell’abuso), si caratterizzano per il fatto che attengono al bene e non al reo. Per tale ragione, esse si applicano anche a chi si trovi, casualmente, in una data relazione giuridica con la cosa, in qualità di attuale proprietario dell’immobile. Proprio in ciò si diversificano dalle sanzioni intrinsecamente afflittive, che si applicano solo nei confronti dell’autore della violazione, in considerazione della loro funzione general e special preventiva, richiedendo pertanto anche l’accertamento dell’elemento psicologico nel relativo autore.
Pubblicato il 25/02/2025
N. 01648/2025REG.PROV.COLL.
N. 08573/2022 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8573 del 2022, proposto dalla Società -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Paolo Fiorilli, Andrea Rossato e Claudio Arria, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Claudio Arria in Mantova, via Poma, n. 15;
contro
il Comune di San Giovanni Lupatoto, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Donata Paolini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
della Società Terminal Service s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore e del signor -OMISSIS-, non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione Seconda, -OMISSIS-, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di San Giovanni Lupatoto;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 4 febbraio 2025, il Cons. Antonella Manzione e uditi per le parti l’avvocato Andrea Rossato e l’avvocato Donata Paolini;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Oggetto del giudizio sono il provvedimento n. 312 del 23 ottobre 2020, con cui il Comune di San Giovanni Lupatoto ha ingiunto alla Società -OMISSIS- la demolizione di una serie di strutture abusive e il successivo, prot. n. 8577 del 1° marzo 2021, di rigetto dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria riferita ad uno di tali manufatti, ovvero il fabbricato a uso ufficio, di superficie pari a mq. 100, ubicato sul fianco est di un deposito/officina.
1.1. Per una più agevole comprensione della vicenda in fatto va detto che le opere abusive consistono complessivamente, oltre che nel richiamato locale ad uso ufficio, in tre capannoni con struttura in ferro e copertura in nylon di dimensione pari a m. 33 per m. 17 e in un muro in calcestruzzo dell’altezza di circa m. 2 corrente lungo il confine ovest della proprietà, il tutto su terreni identificati al catasto al foglio 15, particelle 782, 124, 125 e 798. La Società -OMISSIS- ne è divenuta proprietaria a seguito di rogito notarile del 25 novembre 2015, ma non ne ha mai avuto la materiale disponibilità in quanto l’intera area è da sempre ceduta in locazione ad imprese operanti nel settore dei trasporti e della logistica, da ultimo la Terminal Service s.r.l., giusta contratto del 31 ottobre 2015 siglato con i danti causa dell’appellante. Il terreno è destinato dal vigente Piano degli interventi ad attività produttiva fuori zona, ai sensi dell’art. 67 delle Norme tecniche operative (NTO), ed è oggetto di “scheda puntuale” n. 3 che non consente ampliamenti delle edificazioni in essere.
1.2. L’atto sanzionatorio conseguiva a sopralluogo di personale tecnico del Comune di San Giovanni Lupatoto effettuato in data 11 marzo 2020 a seguito di esposto di un terzo controinteressato in quanto residente nella medesima via sede dell’impresa.
1.3. All’esito della ricezione della comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio, prot. n. 29401 del 27 luglio 2020, la -OMISSIS-, con osservazioni in controdeduzione del 27 agosto 2020, oltre a rivendicare la propria estraneità all’abuso – la cui commissione la locataria aveva a sua volta sostanzialmente ammesso, giustificandolo come mero spostamento di capannoni già presenti su terreno confinante - invocava l’applicabilità della legge regionale del Veneto 31 dicembre 2012, n. 55, al fine di legittimare la presenza di manufatti in ampliamento (l’ufficio) a corredo di attività produttiva già in essere, ancorché su area agricola.
1.4. Con istanza del 18 dicembre 2020 la medesima Società presentava, esclusivamente per il locale ad uso ufficio, domanda di permesso di costruire in sanatoria ai sensi degli artt. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 3 della già richiamata legge regionale del Veneto n. 55 del 2021. Nello specifico, chiariva come nella specie non si trattasse di una costruzione ex novo, ma dell’ampliamento di un’area ipogea a servizio dell’attività produttiva già esistente, seppur limitata a ripostiglio, vano tecnico e servizi igienici. Essa pertanto sarebbe stato avallabile sulla base della legge regionale che consente ridetti ampliamenti di insediamenti produttivi preesistenti, anche in difformità dallo strumento urbanistico, purché contenuti entro il limite massimo dell’80 % del volume e/o della superficie lorda esistente e comunque in una misura non superiore a mq. 1.500 (nella specie, tale percentuale avrebbe consentito addirittura l’edificazione di mq. 400, quale misura corrispondente all’80 % della superficie coperta del deposito-ricoveri automezzi autorizzato).
1.5. Con comunicazione del 15 gennaio 2021 il Comune di San Giovanni Lupatoto preannunciava il rigetto dell’istanza evidenziandone finanche contraddizioni di natura formale, stante che essa pare riferirsi al rilascio di un vero e proprio permesso di costruire “ordinario”, ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, mentre la relazione tecnica di accompagnamento evoca invece l’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del medesimo Testo unico. Per tale seconda ipotesi, evidenziava altresì la mancanza del requisito della doppia conformità.
1.6. Con ordinanza prot. n. 8577 del 1° marzo 2021 il Dirigente dell’area tecnica del Comune respingeva definitivamente l’istanza, dopo averla qualificata come sanatoria sulla base delle osservazioni fornite dalla -OMISSIS- in riscontro al preavviso. Ciò in quanto nella specie non avrebbe potuto trovare applicazione l’invocato art. 3 della l.r. Veneto n. 55 del 2012, essendo la procedura ivi prevista estranea alle c.d. zone improprie, per le quali non può valere alcun parametro incrementale, sicché «[...] una qualsiasi modifica dello stato in essere necessiterebbe di una variante al PAT (non percorribile attraverso l’art. 3 della L.R. 55/2012) […]». Quanto detto dopo avere altresì ricordato che l’area di cui è causa è pure inserita nell’ambito naturalistico dell’Adige e in ambito naturalistico di pianura, nonché di livello regionale.
2. Con un primo ricorso al T.a.r. per il Veneto (n.r.g. 23/2021) la -OMISSIS- impugnava l’ingiunzione demolitoria ritenendola affetta da plurimi vizi, ivi compresa la circostanza di averla coinvolta quale destinataria, pur essendo essa palesemente estranea all’abuso.
3. Con un successivo e autonomo ricorso (n.r.g. 462/2021) censurava il rigetto della domanda di sanatoria del fabbricato ad uso ufficio.
4. Il Tribunale adito, dopo avere riunito i due ricorsi per evidente connessione soggettiva e oggettiva, con sentenza n. 522 del 2022, li respingeva entrambi, sul rilievo che l’ingiunzione a demolire non sarebbe affetta da nessuno dei vizi ascrittile dalla parte, e il rigetto della sanatoria sarebbe adeguatamente motivato in relazione alla mancanza del requisito della doppia conformità. Le norme della legge regionale del Veneto n 55 del 2012, infatti, «come condivisibilmente affermato dalla circolare del Presidente della Giunta regionale n. 1 del 20 gennaio 2015, non possono essere fondatamente invocate per ottenere la sanatoria degli abusi edilizi. Si tratta, infatti, di norme che per la loro operatività presuppongono proprio la non conformità agli strumenti urbanistici vigenti dell’intervento edilizio da sanare, tant’è vero che prevedono entrambe una deroga agli strumenti urbanistici che deve ritenersi ammissibile nei soli casi e negli stretti limiti dalle stesse previsti, in quanto si tratta di disposizioni che hanno carattere eccezionale e derogatorio».
5. La Società ha interposto appello deducendo l’erroneità della sentenza sulla base di tre distinti motivi.
5.1. Con il motivo rubricato sub a), contesta la sentenza nella parte in cui distingue tra sanzione demolitoria e acquisizione al patrimonio ai fini della rilevanza della colpevolezza nell’abuso, e nel contempo non stigmatizza il richiamo alla seconda contenuto nel provvedimento di irrogazione della prima. Lamenta altresì la mancata valutazione della pendenza del contenzioso avente ad oggetto la sanatoria dell’abuso cui essa si riferisce, almeno in parte.
5.2. Con il motivo sub b), ripropone la censura di omessa motivazione in ordine all’interesse pubblico sotteso alla demolizione, che in questo caso sarebbe stato necessario esplicitare per superare la possibilità di un accordo ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990, di fatto consentendo la conservazione di un intervento legittimabile all’attualità, come un tempo previsto dalla c.d. “sanatoria giurisprudenziale”.
5.3. Con l’ultimo, e più articolato motivo (sub c), infine, lamenta un’errata lettura del combinato disposto degli artt. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 3 della legge regionale n. 55 del 2012, che avrebbero dovuto portare ad una diagnosi di doppia conformità del fabbricato del quale ha richiesto la sanatoria. Il Comune di San Giovanni Lupatoto avrebbe introdotto una incomprensibile distinzione tra «contrasto» e «difformità» dallo strumento urbanistico, ritenendo sussistente il primo, sì da escludere in toto l’applicazione della legislazione regionale invocata (art. 3 della l.r. n. 55 del 2012, di fatto corrispondente all’analoga previsione contenuta nella previgente l.r. n. 4 del 2008), come confermato dai lavori preparatori della stessa. Ha evocato la possibilità di una variante semplificata al Piano industriale ai sensi dell’art. 8 del d.P.R. n. 160 del 2010. Con riferimento all’esatta lettura da attribuire alla dizione di inadeguatezza delle aree industriali già presenti, ha ricordato gli indirizzi applicativi in tema di c.d. “varianti SUAP” dettati dalla Giunta regionale con la Circolare 31 luglio 2001, n. 16, che al punto 3 ricorda come: «La verifica circa la sussistenza del requisito della insufficienza delle aree non è necessaria nei soli casi di interventi consistenti nell’ampliamento, nella cessazione/riattivazione o nella ristrutturazione dell’attività produttiva». In sintesi, la sentenza avrebbe sbagliato ad applicare solo la disciplina della sanatoria di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, senza tenere conto della singolare normativa regionale che non esclude situazioni improprie o deroghe giustificate.
6. Il Comune di San Giovanni Lupatoto si è costituito con memoria in controdeduzione in data 15 gennaio 2025.
6.1. La Società appellante ha eccepito la tardività sia della costituzione che della memoria, chiedendone lo stralcio in quanto inammissibile.
7. In data 24 gennaio 2025 la Società appellante ha formalizzato istanza di rinvio, a suo dire avallata dal Comune di San Giovanni Lupatoto con specifica deliberazione della Giunta municipale, motivandola con il richiamo ad «intese, giunte in fase di conclusione». Ha allegato in atti la comunicazione mail della difesa civica nel senso della mancata opposizione ad eventuale istanza di rinvio.
8. All’udienza pubblica del 4 febbraio 2024, esaurita la discussione orale, nel corso della quale la difesa dell’appellante ha reiterato la propria istanza di rinvio, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
9. In via preliminare il Collegio ritiene di respingere la richiesta di rinvio, nuovamente presentata all’odierna udienza dall’appellante, come da verbale. La pendenza di imprecisate trattative comunque afferenti la regolarizzazione di un abuso edilizio mediante la concessione di sanatoria, da tempo richiesta, non può, infatti, integrare uno di quei «casi eccezionali» cui l’art. 73, comma 1-bis c.p.a. subordina la possibilità di differire la trattazione della causa. Ciò in ragione anche della natura indisponibile della materia sanzionatoria, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge e fatta evidentemente salva la possibilità di accordi più ampi al fine di regolare l’assetto edificatorio dell’area.
10. Va egualmente respinta l’eccezione di tardività della costituzione in giudizio del Comune di San Giovanni Lupatoto, giusta la ritenuta ordinatorietà del relativo termine, nel contempo disponendo tuttavia lo stralcio della memoria, effettivamente tardiva.
11. Il Collegio ritiene l’appello infondato.
12. Occorre innanzi tutto evidenziare come benché la Società riproponga anche le censure afferenti l’asserita illegittimità dell’ingiunzione a demolire, obiettivo della stessa è da un lato scongiurare l’effetto ablatorio della proprietà che consegue all’eventuale inottemperanza, dall’altro assicurarsi la conservazione in loco del solo manufatto che, in quanto a destinazione ufficio, appare svincolato dalla tipologia di attività all’attualità svolta sul terreno dall’impresa locataria. Da qui l’insistito riferimento alla propria estraneità all’abuso, cristallizzata nella richiesta di archiviazione del procedimento penale conseguito alla vicenda (1° ottobre 2020), motivata con riferimento all’estinzione del reato per prescrizione in quanto «dalle immagini tratte da Google maps risulta che le opere sono antecedenti al 2015», ovvero si collocano prima del proprio subentro nella titolarità del bene.
13. A tale riguardo il Collegio ricorda che le misure ripristinatorie, cui l’ingiunzione a demolire deve essere ricondotta, quale che ne sia la natura (che la giurisprudenza EDU ha riconosciuto come sostanzialmente penale laddove sopraggiungano a distanza di parecchio tempo dalla commissione dell’abuso), si caratterizzano per il fatto che attengono al bene e non al reo. Per tale ragione, esse si applicano anche a chi si trovi, casualmente, in una data relazione giuridica con la cosa, in qualità di attuale proprietario dell’immobile. Proprio in ciò si diversificano dalle sanzioni intrinsecamente afflittive, che si applicano solo nei confronti dell’autore della violazione, in considerazione della loro funzione general e special preventiva, richiedendo pertanto anche l’accertamento dell’elemento psicologico nel relativo autore.
14. Per contro la sanzione ablatoria, proprio in ragione della sua incidenza su un diritto di rilievo costituzionale, quale la proprietà, “recupera” tale momento soggettivo, in quanto presuppone che il proprietario incolpevole sia stato messo a parte della situazione e non si sia adoperato per evitarla. Proprio a tutela di tale momento di imputazione soggettiva dell’illecito il meccanismo procedimentalizzato di tale fattispecie acquisitiva prevede una parentesi accertativa dell’eventuale spontanea ottemperanza all’ordine di demolizione da parte dell’ingiunto, i cui esiti devono essergli previamente comunicati. L’ordine di demolizione e l’atto di acquisizione al patrimonio comunale costituiscono dunque inconfutabilmente due distinte sanzioni, che rappresentano «la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi dapprima esegue un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di demolirla» (Corte cost., n. 140 del 2018, § 3.5.1.1.).
14.1. In tale cornice, la “minaccia” che in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio «si procederà a norma di legge», oltre a costituire oggetto di un motivo di censura non avanzato in primo grado, altro non è che un’avvertenza, che si palesa neutra sotto il profilo della legittimità dell’atto, e tuttavia utile proprio nella richiamata ottica garantista e di correttezza dei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione.
A maggior ragione, infatti, laddove il proprietario, che la norma (art. 31, comma 2 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) individua espressamente quale destinatario dell’ingiunzione a demolire unitamente al responsabile dell’abuso, sia estraneo allo stesso, mediante informazione delle conseguenze dell’inottemperanza, lo si mette da subito in condizione di attivarsi per scongiurarle. Ridetto avvertimento, dunque, spesso dequotato a mera formula di stile che compare in tutti gli atti sanzionatori di tale tipologia, finisce per costituire una sorta di trait d’union tra la natura reale o propter rem della misura ripristinatoria e quella sanzionatoria (di secondo livello) dell’ablazione della proprietà (sul punto v. Cons. Stato, sez. II, 25 gennaio 2024, n. 806; id., 20 gennaio 2023, n. 714; C.G.A.R.S., 25 marzo 2022, n. 373; sull’automatismo del meccanismo acquisitivo, v. Cons. Stato, A.P., 11 ottobre 2023, n. 16). A seguito di tale “informativa”, infatti, che anticipa la «previa notifica» dell’accertamento di inottemperanza (art. 31, comma 4), il proprietario, in quanto sicuramente anche «interessato» a che le conseguenze di quest’ultimo non si producano, potrà interloquire col Comune al fine di evidenziare la difficoltà, e in casi eccezionali anche l’impossibilità di dare seguito all’ordine impartito, specificandone le motivazioni. A tale riguardo rileva il Collegio come tra le stesse difficilmente potranno farsi rientrare problematiche di temporanea indisponibilità del bene, risolvibili accedendo a tutto lo strumentario giuridico messo a disposizione dei privati sul piano civilistico al fine di consentire al proprietario di provvedere in danno del proprio locatario. Ma trattasi di questione estranea al perimetro dell’odierna controversia in quanto afferente un segmento successivo del procedimento sanzionatorio, al sopravvenire del quale la parte potrà far valere le sue ragioni, se del caso impugnando gli atti che alle stesse non diano il giusto rilievo. Solo in tal senso può essere inteso il sintetico richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, alla circostanza che «la condizione di estraneità o di buona fede soggettiva al momento della commissione dell’illecito può assumere rilievo unicamente ai fini della successiva acquisizione gratuita al patrimonio comunale».
14.2. Né può ritenersi che l’avvenuta presentazione di istanza di sanatoria – peraltro riferita ad uno solo dei manufatti abusivi oggetto di ingiunzione a demolire – infici la validità dell’atto sanzionatorio in sé. Come la giurisprudenza, anche della Sezione, ha ormai definitivamente chiarito, infatti, essa non ha un effetto caducante dell’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi, ma ne determina solo la temporanea inefficacia e ineseguibilità fino al suo eventuale rigetto, a seguito del quale riprende a decorrere il termine per l’esecuzione e, in caso d’inottemperanza, può essere disposta l’acquisizione dell’opera abusiva senza necessità dell’adozione di una nuova ingiunzione o concessione di un nuovo termine di 90 giorni (ex multis cfr. Cons. Stato, sez. II, 18 dicembre 2024, n. 10180; id., 28 marzo 2024, n. 2952; 20 gennaio 2023, n. 714; sez. VII, 2 aprile 2024, n. 2990; id., 2 novembre 2023, n. 9404).
Nella specie, peraltro, consta in atti che con determina dirigenziale del 15 gennaio 2021 il Comune ha spontaneamente sospeso l’ingiunzione a demolire n. 312 del 23 ottobre 2020 fino alla conclusione del procedimento di esame della domanda di permesso di costruire depositata il 18 dicembre 2020, con ciò dando piena applicazione ai principi sopra richiamati.
14.3. Per tali ragioni va respinto il primo motivo di ricorso.
15. Il secondo motivo di gravame àncora la necessità di motivazione aggiuntiva sull’interesse pubblico alla evenienza di utilizzare, per scongiurare l’intimata demolizione, l’istituto giuridico di cui all’art. 11 della l. n. 241 del 1990. La Società appellante, cioè, sembra riconnettere sillogisticamente alla astratta possibilità (ammesso che nel caso di specie ne sussistessero i presupposti) di trovare una definizione dell’assetto degli interessi in gioco per via pattizia, l’illegittimità di soluzioni alternative a ridetto accordo. Con ciò perdendo di vista da un lato la connotazione volontaristica di qualsivoglia scelta negoziale, anche quando ad attuarla è una pubblica amministrazione nell’esercizio della sua capacità di diritto civile; dall’altro, quella necessitata del procedimento sanzionatorio, che fatti salvi i casi specifici previsti dal legislatore ( si pensi, da ultimo, al meccanismo della previa diffida quale elemento costitutivo degli illeciti minori di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 103 del 2024), non consente mai di scongiurarne l’esito mediante atipiche forme di patteggiamento.
15.1. In generale, quindi, in ordine alla non necessità di esplicitare l’interesse pubblico alla base della sanzione demolitoria, è sufficiente richiamare quanto affermato dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, A.P., 17 ottobre 2017, n. 9). L’ingiunzione a demolire, cioè, «[…] per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’buso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino».
15.2. Nello specifico, del tutto inconferente ai fini della valutazione della completezza motivazionale appare poi, per quanto già anticipato, il richiamo all’art. 11 della legge n. 241 del 1990, peraltro evocato per il tramite della “opportunità”, nel caso di specie, di ridare vigore alla c.d. “sanatoria giurisprudenziale”.
15.2.1. Ricorda il Collegio come con tale espressione si intendeva in passato un istituto di creazione pretoria in forza del quale la conformità alla disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento dell’istanza, senza comprendere/rispettare anche quella vigente all’epoca dell’ultimazione dell’illecito, sarebbe stata sufficiente a regolarizzare l’abuso. Esso aveva tratto un qualche fondamento nel parere - disatteso nella stesura finale del testo unico - reso dalla Sezione atti normativi del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. atti normativi, Ad. gen., 29 marzo 2001, parere n. 3/2021), ove si evidenziava appunto che «pur non potendosi, in astratto, contestare la necessità del duplice accertamento di conformità, nella prassi l’applicazione del principio viene disattesa, ritenendosi illogico ordinare la demolizione di un quid che, allo stato attuale, risulta conforme alla disciplina urbanistica vigente e che, pertanto, potrebbe legittimamente ottenere, a demolizione avvenuta, una nuova concessione. Al riguardo valuti l’Amministrazione se non sia opportuno, in casi del genere, prevedere una forma di sanatoria che, ferma restando la sanzione penale per l’illecito commesso, sia subordinata al pagamento di un’oblazione maggiore rispetto a quella che si richiede nell’ipotesi di duplice conformità».
15.2.2. La ricostruzione tuttavia è stata da tempo abbandonata sia dalla giurisprudenza amministrativa, che da quella di legittimità, che richiedono ormai pacificamente per la sanatoria degli abusi edilizi la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che a quello della presentazione della domanda di permesso in sanatoria (Cass. pen., sez. III, 4 ottobre 2023, n. 43823; id., 14 dicembre 2022, n. 2357; Cons. Stato, Sez. IV, 2 novembre 2009, n. 6784; sez. V, 11 giugno 2013, n. 3220; id., 17 marzo 2014, n. 1324; 27 maggio 2014, n. 2755).
15.2.3. L’ orientamento ha peraltro da tempo trovato conferma nella decisione con cui la Corte costituzionale (sent. 22-29 maggio 2013, n. 101), esaminando la compatibilità costituzionale della legislazione adottata dalla Regione Toscana in materia di governo del territorio e rischio sismico, ha affermato che il principio fondamentale della legislazione statale in materia di provvedimento di sanatoria delle opere abusive ricavabile dall’art. 36 T.u.e., che esige il requisito della doppia conformità, «risulta finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità». Per gli abusi di maggior rilievo, ovvero quelli consistiti nell’edificazione senza permesso di costruire, tale regola è rimasta intatta anche dopo le più recenti novelle (il diverso regime previsto dall’art. 36-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 si riferisce infatti ai casi di parziali difformità o di variazioni essenziali).
16. Sfugge dunque al Collegio il passaggio logico, prima ancora che giuridico, in base al quale parte appellante vorrebbe rendere addirittura cogente il meccanismo di cui all’art. 11 della l. n. 241 del 1990 ai fini della valutazione della doppia conformità, innestandovi i contenuti di una sostanziale variante, generale o puntiforme, come meglio chiarito nel prosieguo. L’argomentazione, al pari di quella sviluppata nel motivo successivo, sembra risentire della scarsa chiarezza di impostazione che ha trovato riscontro nella originaria contraddittorietà tra oggetto dell’istanza presentata dalla Società il 18 dicembre 2020 (il rilascio di un permesso ex art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001) e relazione di accompagnamento, orientata verso la sanatoria, seppure ipotizzando una previa demolizione, ovvero un’attività incompatibile con la legittimazione postuma di un intervento ormai cristallizzato nella sua consistenza finale. Quello che se ne evince è un anelito alla regolarizzazione, piuttosto che la chiarezza del percorso per addivenirvi, così finendo per sovrapporre indebitamente momenti procedurali e aspetti sostanziali, al fine di adattare il regime pianificatorio all’intervento ove non fosse possibile ottenere l’inverso (ovvero la riconosciuta conformità di quest’ultimo al primo).
16.1. L’art. 11 della l. n. 241 del 1990, è relativo, come noto, ad un modulo decisionale consensuale comunque soggetto al vincolo funzionale dell’interesse pubblico. Esso prevede due tipologie di accordi, ovvero quello integrativo (o preliminare) del contenuto di un provvedimento e quello integralmente sostitutivo dello stesso. In entrambi i casi l’Amministrazione che vi addiviene esercita un potere discrezionale che presuppone sempre l’interesse pubblico a “sottrarre” ambiti più o meno ampi alla decisione autoritativa. Il rispetto di tale vincolo funzionale costituisce in realtà la causa dell’accordo, che non può evidentemente divenire strumento di scelte ed obiettivi differenti.
Lo strumento pattizio invocato, dunque, e che il Comune avrebbe dovuto applicare, o quanto meno valutare, sol perché compulsato in tal senso dalla Società -neppure è chiaro con quale specifica proposta - presuppone una valutazione di convenienza (per la tutela e/o perseguimento dell’interesse pubblico) particolarmente accurata, il cui contenuto non è in alcun modo esplicitato dalla Società. Esaltando la maggiore duttilità dello strumento negoziale rispetto alle rigidità proprie della decisione unilaterale, si sarebbe dovuto comunque raggiungere un obiettivo di interesse per il Comune, non (solo) per il privato, addivenendovi in modo più conveniente sia sotto il profilo economico, sia per quanto concerne l’assetto complessivo delle posizioni in gioco. Niente di tutto questo è dato cogliere nel caso di specie, non potendo certo l’interesse pubblico identificarsi con il risparmio del futuro e ipotetico dispendio di tempo e risorse per l’eventuale demolizione in danno, ovvero per istruire ex novo la pratica edilizia eventualmente (ri)presentata dalla Società.
16.1. L’inserimento di condizioni nel rilascio della sanatoria, ovvero l’ampliamento del contenuto della stessa ad aspetti che non coincidono con la fotografata sussistenza del requisito della doppia conformità, rischia di diventare una modalità surrettizia per introdurre un modello atipico della stessa, il che non è in alcun modo ammesso dall’ordinamento. La sanatoria “condizionata”, o “con prescrizioni”, contraddice infatti sul piano logico la previsione di legge nella misura in cui contiene in sé proprio la negazione della “doppia conformità”.
Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi qualora gli interventi volti a conformare gli abusi alla disciplina urbanistico-edilizia vengano effettuati preliminarmente su iniziativa dello stesso richiedente il titolo in sanatoria - tanto più che le opere realizzate su manufatti abusivi partecipano della medesima natura di questi ultimi (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13 gennaio 2021, n. 423; id., 12 ottobre 2020, n. 6060).
Come la Corte costituzionale ebbe a dire nella già ricordata sentenza n. 101 del 2013 l’ordinamento non ammette infatti casi atipici di sanatoria, in quanto diversamente dal condono essa «è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi “formali”, ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, ‘anche di natura preventiva e deterrente’, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture ‘sostanzialiste’ della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità». Ed è evidente che la necessità di “negoziare” l’adeguamento ovvero la sua realizzazione, altro non è che uno strumento per legittimare una sanatoria condizionata.
16.2. Anche il secondo motivo di gravame va pertanto respinto.
17. Rileva il Collegio come egualmente priva di pregio si palesi anche l’ultima censura avanzata dalla Società appellante, che seppure non sempre chiara nella sua ricostruzione narrativa, evidenzia taluni aspetti di innegabile suggestione.
Afferma la Società che erroneamente il Comune avrebbe ritenuto non sussistente la doppia conformità in relazione al fabbricato ad uso ufficio, essendo lo stesso stato realizzato nel rispetto delle previsioni di cui all’art. 3 della legge regionale n. 55 del 2012 che consente gli ampliamenti di attività produttive già allocate in zona impropria. Quanto detto anche in relazione alla esatta accezione da attribuire al concetto di insufficienza di aree destinate ad insediamenti produttivi nella pianificazione urbanistica, che costituisce il presupposto per ricorrere alla particolare procedura di variante di cui all’articolo 8 del d.P.R. n. 160 del 2010.
18. La tesi necessita di un sintetico richiamo del quadro normativo di riferimento.
19. La necessità di riformare profondamente e (ovviamente) di semplificare l’attività della pubblica amministrazione rappresenta un’esigenza autonomamente sentita da tempo, sia dagli utenti che dalle singole Amministrazioni centrali e periferiche. Per dare risposta alla stessa sono stati creati ormai da epoca risalente gli Sportelli unici delle attività produttive (SUAP), ovvero specifiche articolazioni organizzative istituite presso tutti i Comuni con il d.lgs. n. 112/1998, cui hanno fatto seguito, in chiave attuativa, il d.P.R. n. 447/1998 e il d.P.R. n. 440/2000, successivamente sostituiti dal d.P.R. n. 160/2010, qui di interesse, tutti emanati per disciplinarne in concreto il funzionamento.
Il SUAP – cui ha fatto seguito la creazione di un omologo per le attività edilizie, c.d. S.U.E. – costituisce, nell’intenzione del legislatore, l’interlocutore “unico” presso la pubblica amministrazione dei soggetti interessati all’apertura di un’attività per la produzione di beni e servizi, incluse quelle agricole, artigianali e commerciali: non si tratta, cioè, di un organo comunale (o consortile, nel caso di uno sportello unico costituito da più comuni in forma associata) che incentra su di sé competenze e funzioni sottratte ad altre Autorità, bensì di un “facilitatore” in grado di coinvolgere tutte le componenti interessate ad esprimersi caso per caso, coordinandone e sollecitandone le risposte attraverso gli istituti generali, in particolare la conferenza di servizi.
19.1. Il d.P.R. n. 160 del 2010, tuttavia, al pari di quanto in parte già fatto dai regolamenti che lo hanno preceduto, contiene anche norme che attengono agli aspetti della gestione procedurale delle pratiche, in tal modo finendo per incidere, più o meno direttamente, su talune normative di settore.
Mentre l’art. 7, dunque, si limita ad indicare la modalità “ordinaria” di approccio all’ufficio valorizzandone la funzione di accentratore di pratiche a referenti variegati, che peraltro, dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 127/2016, finisce per identificarsi nel ricorso alla conferenza di servizi (esclusa solo ove non siano coinvolte diverse amministrazioni pubbliche), assai più complessa si palesa la previsione di cui al successivo art. 8, che attinge l’attività di governo del territorio.
20. La partecipazione dei cittadini all’attività di governo del territorio è stata da sempre considerata come un imprescindibile momento di dialogo delle collettività locali con i propri amministratori, tanto da far includere le osservazioni collaborative al progetto di piano regolatore generale di cui all’art. art. 9 della l. n. 1150 del 1942 come imprescindibile livello essenziale di prestazione (LEP), a valere su tutto il territorio nazionale.
20.1. L’art. 8 del d.P.R. n. 160 del 2010, non a caso rubricato «Raccordi procedimentali con strumenti urbanistici», si inserisce nel medesimo solco, rendendo tuttavia il “contatto” più stringente ed incisivo, in quanto in chiave propulsiva e non di critica/suggerimento modificativo. La norma stabilisce innanzi tutto (primo comma), che nei comuni in cui lo strumento urbanistico non individua aree destinate all’insediamento di impianti produttivi, od individua aree insufficienti, il soggetto interessato può chiedere al responsabile del SUAP la convocazione della conferenza di servizi ai sensi della legge generale o delle altre normative di settore, in seduta pubblica. Si enuclea così un’atipica (nel nostro ordinamento) ipotesi di “istruttoria pubblica”, funzionale alla natura di “procedimento di massa” della localizzazione degli impianti produttivi, che anticipa in qualche maniera il futuro “dibattito pubblico”, di derivazione francese, sulle opere di interesse nazionale di cui alla futura legislazione sulla contrattualistica pubblica. Qualora l’esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, ove sussista l’assenso della Regione espresso in seno alla stessa, il verbale è trasmesso al Sindaco od al Presidente del Consiglio comunale che lo sottopone alla votazione del Consiglio nella prima seduta utile. Quale che sia la portata effettiva del parere dell’organo consiliare - di mera ratifica di un provvedimento di variante urbanistica, ovvero di valutazione nel merito della stessa – il procedimento non consente evidentemente di prescinderne. Gli interventi relativi al progetto in tale modo approvato seguono le disposizioni in tema di efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire.
La seconda ipotesi, “minore”, di raccordo del procedimento unico con la disciplina urbanistica è contemplata al comma 2 del medesimo art. 8, che prevede la facoltà degli interessati di chiedere, sempre tramite il SUAP, all’ufficio comunale competente per materia di pronunciarsi entro trenta giorni sulla conformità, allo stato degli atti, dei progetti preliminari sottoposti al suo parere con i vigenti strumenti di pianificazione paesaggistica, territoriale ed urbanistica; in caso di pronuncia favorevole, il responsabile del SUAP dispone per il seguito del procedimento con dimidiazione dei termini previsti.
20.2. Benché si tratti di procedimenti diversi, essi possono confluire l’uno nell’altro, o meglio può accadere che l’attivazione del SUAP in relazione ad una progettualità specifica sfoci nella variante accelerata prevista dalla norma. In tali casi, la conferenza di servizi dovrà esaminare, unitamente alla variante urbanistica, anche il progetto esecutivo dell’opera, in quanto la variante è espressamente finalizzata a consentire l’insediamento di “quella” precisa impresa, che si propone di svolgere “quella” specifica attività produttiva.
È altresì possibile che, dal confronto con le parti intervenute, emerga la necessità di apportare modifiche al progetto o addirittura che il progetto non venga autorizzato, tanto più che la difformità del progetto rispetto alla pianificazione sovraordinata o alla pianificazione paesaggistica o a quella di bacino o delle aree naturali protette non consente l’applicabilità del procedimento, in quanto i vincoli posti da dette pianificazioni non sono superabili con la pianificazione urbanistica comunale. In termini più generali, inoltre, siccome la pianificazione urbanistica ha il suo fondamento nel perseguimento degli interessi dell’intera collettività di riferimento, l’istruttoria finalizzata all’avviamento del procedimento ex art. 8 del d.P.R. n. 160/2010 dovrà anche argomentare in merito alla convergenza tra l’interesse dell’impresa e gli altri interessi pubblici coinvolti, tra cui quello ad un corretto utilizzo del suolo e allo sviluppo dell’imprenditorialità, quale fattore di sviluppo complessivo dei luoghi.
21. Per dare concretezza a tali previsioni è stata emanata la legge regionale Veneto 31 dicembre 2012, n. 55, che non a caso all’art. 1, recante la «Finalità e oggetto», lo identifica nella individuazione di procedure urbanistiche semplificate che possono fruire dei meccanismi agevolati di cui al ricordato d.P.R. n. 160 del 2010.
L’art. 3, invocato dall’appellante, riconduce al procedimento ordinario assegnato al SUAP il rilascio di titoli autorizzatori per interventi di ampliamento di attività produttive, consentito anche in difformità dallo strumento urbanistico, purché entro il limite massimo dell’80 per cento del volume e/o della superficie netta/lorda esistente e comunque in misura non superiore a mq. 1500. L’art. 5 della medesima legge subordina la realizzazione di tali interventi alla stipula di una convenzione con il Comune nella quale sono definiti le modalità e i criteri di intervento, le eventuali opere di urbanizzazione e mitigazione necessarie, nonché indicato l’obbligo di mantenimento della destinazione d’uso per due anni a far data dal rilascio dell’agibilità.
22. Chiarito quanto sopra, da un punto di vista contenutistico la Società appellante individua il nucleo essenziale della divergenza interpretativa con gli uffici comunali nell’esatta accezione da attribuire al concetto di incompatibilità urbanistica previsto dalla norma regionale, ovvero sulla sua riferibilità all’insediamento preesistente ovvero al solo nuovo intervento. Nel primo caso, che in verità parrebbe più logico e coerente con la lettera della norma, è evidente che l’assentibilità verrebbe a ricomprendere anche ampliamenti su immobili “fuori zona”, ovvero “tollerati” in ambiti incompatibili con il regime urbanistico generale. La specificità del regime edificatorio successivamente imposto con il sistema “a schede”, infatti, non necessariamente deve assumere valenza privilegiata, sì da rendere l’ampliamento (futuro) in contrasto e non in deroga, per parafrasare la terminologia distintiva utilizzata dal Comune.
23. L’errore di fondo nel quale incorre la Società appellante, tuttavia, sta proprio nell’avvenuta valorizzazione di tale aspetto di ipotetica ammissibilità dell’intervento, ove realizzato ex novo, pretermettendo che lo stesso, proprio in quanto oggetto di sanatoria, già insiste sul territorio e non ne è possibile l’avallo della previa demolizione e ricostruzione mediante una legittimazione postuma. La circostanza che la legge regionale n. 55 del 2012 si riferisce, in astratto, a interventi edilizi in zone a regime urbanistico incompatibile con gli stessi, presuppone ridetta valutazione di incompatibilità, che osta in maniera per così dire ontologica con lo stesso concetto di sanatoria, in quanto presuppone la mancanza di doppia conformità. Il regime semplificato introdotto dalla legge regionale, cioè, proprio perché riferito a interventi in contrasto con la pianificazione territoriale, vuoi che accedano ad immobile a sua volta incompatibile, vuoi che lo siano essi stessi autonomamente, non può che fare riferimento a un titolo preventivo, non postumo. Diversamente opinando, esso si tradurrebbe in una sorta di condono, anziché di sanatoria ordinaria, consentendo cioè l’avallo postumo di interventi che sostanzialmente, non solo formalmente, sono in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti.
23.1. Tale ultima considerazione consente di respingere il motivo di ricorso anche da una diversa angolazione. La nozione di “doppia conformità” richiesta dalla norma ai fini dell’applicabilità dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, è, per così dire, a valenza statico-ricognitiva, nel senso che presuppone una mera verifica formale da parte degli uffici, in quanto solo formale e non sostanziale è la natura dell’illecito di riferimento. Nel regime di cui all’art. 3 della legge regionale n. 55 del 2012, invece, oltre alla procedura semplificata tramite SUAP di cui all’art. 7 del d.P.R. n. 160 del 2010, si rende necessario l’avallo del Consiglio comunale, chiamato comunque a valutare l’impatto della proposta e la sua ricaduta sullo strumento urbanistico. Di fatto, cioè, attraverso tale norma si è andata ad introdurre, come già chiarito in sede di descrizione del modello procedimentale, una sorta di “variante puntiforme” agevolata, che resta comunque soggetta alla discrezionalità valutativa del Comune, dapprima attraverso gli esiti della conferenza dei servizi, indi con il parere, quale che ne sia l’effettiva incidenza, dell’organo deliberativo del Comune. La astratta possibilità, quindi, che si addivenga a una valutazione positiva, una volta dato avvio al procedimento, non corrisponde a certezza della stessa e dunque non consente di stabilire per tabulas la conformità dell’intervento al regime urbanistico vigente.
23.2. Di ciò è del resto pienamente consapevole la Società ricorrente nel momento in cui richiama – riportandosi a note d’udienza versate in atti del procedimento di primo grado – l’art. 8 del d.P.R. n. 160 del 2010, riferito, appunto, alla “variante semplificata “ o partecipata che dir si voglia, ovvero ad uno strumento agevolato di condivisione di talune scelte di governo del territorio, che tuttavia restano evidentemente incardinate nelle opzioni programmatorie del governo cittadino, anche in termini di valutazione della adeguatezza o meno del tessuto industriale già esistente.
24. In sintesi, la disinvolta oscillazione tra potere autoritativo e potere negoziale della p.a., costituisce il denominatore comune di tutte le argomentazioni svolte dalla Società appellante, il cui principale profilo di infondatezza emerge proprio nel tentativo di asservire l’utilizzo del secondo alla propria finalità e non alla valutazione degli interessi pubblici richiesta per accedere a qualsivoglia tipologia di strumento contrattuale, sia nel modello generale di cui all’art. 11 della l. n. 241 del 1990, sia in quello specificamente previsto per gli interventi in deroga dall’art. 5 della legge regionale n. 55 del 2012.
25. Per tutto quanto sopra detto, l’appello deve essere respinto.
26. La complessità delle materie trattate, la parziale novità di talune delle questioni affrontate, nonché la documentata pendenza di interlocuzioni costruttive tra le parti giustificano la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’art. 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 febbraio 2025 con l’intervento dei magistrati:
Oberdan Forlenza, Presidente
Giovanni Sabbato, Consigliere
Antonella Manzione, Consigliere, Estensore
Francesco Guarracino, Consigliere
Carmelina Addesso, Consigliere