Consiglio di Stato Sez. II n. 3645 del 22 aprile 2024
Urbanistica.Regola della doppia conformità e disciplina antisismica
La regola della doppia conformità vale anche per la normativa antisismica, costituendo, per gli interventi in zona sismica, un principio fondamentale delle materie “governo del territorio” e “protezione civile”. A ciò consegue che in linea generale ove il richiedente non è in possesso dello specifico titolo di cui è causa la sanatoria non può essere concessa per mancanza del requisito della doppia conformità, ma non vale necessariamente il reciproco, ovvero la carenza del titolo sismico preventivo non si risolve necessariamente in un rigetto, ove la parte dimostri di poterlo conseguire e di averlo in concreto richiesto, seppure in maniera postuma. Quanto detto purché, evidentemente, si rispetti la connotazione di abuso “formale” anche di quello strutturale. Il che implica in primo luogo e quale inevitabile conseguenza che trattandosi, appunto, di doppia conformità, deve comunque escludersi ogni possibilità di sanatoria “condizionata”, che comunque preveda l’esecuzione di interventi di adeguamento (segnalazione Ing. M. Federici)
Pubblicato il 22/04/2024
N. 03645/2024REG.PROV.COLL.
N. 09241/2023 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9241 del 2023, proposto dalla signora -OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati Giovanni Malinconico e Toni De Simone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,
contro
il Comune di Latina, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Anna Caterina Egeo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione staccata di Latina, Sezione Prima, -OMISSIS-, resa tra le parti, avente ad oggetto diniego di sanatoria e ingiunzione a demolire.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Latina;
Visti tutti gli atti della causa;
Vista l’ordinanza del 14 dicembre 2023, n. 5034;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 12 marzo 2024, il Cons. Antonella Manzione e uditi per le parti gli avvocati Giovanni Malinconico e Anna Caterina Egeo;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. È appellata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sede di Latina, con la quale è stato respinto il ricorso proposto dalla signora -OMISSIS- avverso il diniego di sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, datato 15 dicembre 2020, riferito ad una serie di interventi su un fabbricato di proprietà facente parte di un complesso immobiliare composto da otto villini a schiera, ubicato nel quartiere “Q4”, Lotto “E14”, nel territorio del Comune di Latina, autorizzato con concessione edilizia n. 155 del 17 novembre 1995. Sono stati altresì respinti i motivi aggiunti riferiti all’ingiunzione a demolire (n. 4 del 5 gennaio 2022) le opere non sanate. Oggetto della richiesta di accertamento di conformità erano la modifica di destinazione d’uso da garage/cantina ad abitazione dei locali seminterrati, la realizzazione di una scala di collegamento tra questi ultimi e il piano terra e di una tettoia/porticato, interventi tutti già fatti oggetto di comunicazioni inizio lavori asseverate (CILA), rispettivamente del 24 ottobre 2017, peraltro in sanatoria, per la scala e il porticato e del 10 gennaio 2019, per il cambio di destinazione d’uso. La sua presentazione era stata dichiaratamente indotta dalle comunicazioni del Comune prot. n. 136823 del 20 novembre 2019, prot. n. 45228 del 22 aprile 2020 e prot. n. 54823 del 18 maggio 2020, con le quali si evidenziava la inadeguatezza del procedimento dichiarativo utilizzato, nonché, con riferimento alla CILA del 2019, prot. n. 86790 del 31 luglio 2020, la sua «improcedibilità e incapacità di produrre effetti».
1.1. Il diniego è motivato dando puntuale riscontro alle osservazioni presentate dall’interessata all’esito della ricezione del relativo preavviso (prot. 119557 del 3 novembre 2020) e segnatamente:
- quanto al cambio di destinazione d’uso, comprovato dalla presenza di un servizio igienico completo di tutti i sanitari e rivestimenti maiolicati alle pareti, nonché di ambienti pluriuso quale quello adibito a cucina, esso pure con maiolicatura alle pareti, per contrasto con i contenuti della delibera di Consiglio comunale n. 69 del 1991, recante la «Nuova normativa per la realizzazione degli interrati negli edifici», che nei seminterrati consente solo la destinazione a garage o cantina;
- quanto alla scala, in ragione dell’affermata violazione dell’art. 65 del d.P.R. n. 380 del 2001, non essendo stato depositato il preventivo calcolo strutturale riferito anche alla stessa, sicché il precedente non corrisponde allo stato dei luoghi;
- quanto al porticato-tettoia, in quanto costruzione accessoria realizzata in dispregio dell’art. 13 delle norme tecniche di attuazione (N.T.A.) del piano particolareggiato esecutivo (PPE) del Piano regolatore generale (PRG) riferito al quartiere “Q4”, che le vieta.
2. Il Tribunale adito ha ritenuto corretta la declaratoria di improcedibilità delle CILA nonché il profilo di contrasto con la disciplina urbanistica richiamata in relazione a ciascuno degli interventi realizzati, sì da escludere il requisito della doppia conformità.
3. La signora -OMISSIS- ha articolato un unico motivo di gravame, rubricato «Error in iudicando per violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 in relazione agli artt. 2.2 delle NTA del PRG, 13 delle NTA del PPE “Q4”, 65 e 94 del d.P.R. n. 380/2001». In generale, ha ritenuto erronea la asserita carenza del requisito della doppia conformità che il legislatore richiede a fini di sanatoria.
3.1. In maggior dettaglio:
- con riferimento alla tettoia, non ne sarebbero state verificate le caratteristiche in concreto, sicché mancherebbe una effettiva prova della violazione dell’art. 13 delle n.t.a. del piano particolareggiato, letto in combinato disposto con l’art. 5, che comprova la possibilità di creare a condizioni date volumetrie aggiuntive;
- con riferimento al piano interrato, perché o non vi sarebbe stata alcuna modifica di destinazione d’uso, stante che il locale è e rimane una pertinenza dell’abitazione, come tale ammessa dall’art. 2.2. delle NTA al PRG nel rispetto dei limiti di altezza (inferiore a m. 2,40) e di mancanza di abitabilità ex d.m. 5 luglio 1976, ovvero non avrebbe rilevanza urbanistica. La presenza del bagno, peraltro, non sarebbe di per sé indice di alcunché, ben potendo conciliarsi con utilizzi non strettamente residenziali, come riconsociuto anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (v. Cons. Stato, sez. VI, 14 novembre 2022, n. 9954, che ha ritenuto irrilevante il mutamento della destinazione accessoria da “legnaia” a “vano hobby”, pur in presenza di un vano wc);
- con riferimento infine alla scala, la circostanza che essa poggi sul piano di fondazione di un fabbricato già collaudato, escluderebbe l’ulteriore applicabilità dell’art. 65 del d.P.R. n. 380 del 2001, e comunque la mancanza dell’autorizzazione sismica non potrebbe giustificare il rigetto della sanatoria, a maggior ragione alla luce dell’art. 16 del Regolamento regionale del 26 ottobre 2020, n. 26, che prevede espressamente la possibilità di regolarizzare l’opera inserendo la richiesta nell’apposito applicativo informatico.
4. Si è costituito in giudizio il Comune di Latina, con memoria in controdeduzione nella quale ha ribadito le ragioni a sostegno della legittimità degli atti impugnati.
5. Con l’ordinanza n. 5034/2023, segnata in epigrafe, è stata accolta l’istanza cautelare, ai soli fini di cui all’art. 55, comma 10, c.p.a.
6. In vista della discussione del merito della causa, entrambe le parti hanno depositato memoria e l’appellante anche memoria di replica.
6.1. Il Comune di Latina ha altresì versato in atti la sentenza del Tribunale civile di Latina, sez. I, dell’8 febbraio 2024, con la quale, su ricorso presentato dalla proprietaria di un villino facente parte del medesimo complesso immobiliare di cui è causa, ubicato a confine con quello dell’appellante, è stata intimata a quest’ultima la rimozione del portico in legno, ritenendo, sulla base di apposita consulenza tecnica d’ufficio, che esso, oltre a non rispettare le distanze tra edifici, sia stato realizzato in violazione dell’art. 13 delle N.T.A. del P.P.E.
7. Alla pubblica udienza del 12 marzo 2024 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
8. L’appello è infondato.
9. Il Comune di Latina ha motivato il rigetto di sanatoria evidenziando le ragioni ostative singolarmente per ciascuno degli interventi effettuati, di fatto segmentando l’esito complessivo degli stessi sì da evitare finanche di ricondurli, isolatamente o cumulativamente, ad uno dei paradigmi definitori di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001. Quanto detto malgrado la stessa parte abbia, al contrario, qualificato le opere, sia nella CILA del 2017 che in quella del 2019, come manutenzione straordinaria ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera b), del richiamato decreto (v. le dichiarazioni rese con riferimento, appunto, alla tipologia di intervento realizzato, nella specifica parte del modulo utilizzato allo scopo). Ne è risultato un atto a contenuto plurimo, ovvero caratterizzato dalla concentrazione delle finalità che normalmente connotano atti distinti - nella specie, più dinieghi di sanatoria - in un unico contesto, reso possibile dalla stretta interconnessione fra le (diverse) scelte operate dall’Amministrazione. Una simile esplicazione dell’agire amministrativo, avverso la quale non esiste alcuna pregiudiziale sistemica, risponde, quanto meno astrattamente, ai fondamentali canoni di economicità e di efficacia di cui all’art. 1, comma 1, della l. 7 agosto 1990, n. 241, potendosi per tale via – analogamente a quanto avviene attraverso la conferenza di servizi – tramite unico ed organico provvedimento sintetizzare valutazioni e incidere su situazioni tra loro funzionalmente intrecciate, ancorché teleologicamente distinte.
9.1. Come la Sezione ha già avuto modo di rilevare (Cons. Stato, sez. II, 4 aprile 2024, n. 3105), con riferimento a tale tipologia di atti il giudice amministrativo, nell’esercizio del sindacato giurisdizionale, è chiamato a valutare innanzi tutto la possibilità di coesistenza di tali molteplici e distinte determinazioni nel provvedimento che le compendia, ovvero la capacità che ciascuna delle stesse conservi, pur se inserita in un unico contenitore, l’idoneità ad esplicare la finalità che vi è sottesa, ex se e in relazione con le altre, ai cui contenuti non può attingere, a fortiori quante volte le stesse risultino eterogenee nei presupposti. Il che deve avvenire anche con riferimento al principio della necessaria chiarezza e intellegibilità degli atti amministrativi, che trova nel combinato disposto in particolare degli artt. 1, 2 e 3, della l. n. 241 del 1990, la sua espressione più tipica. L’applicazione del principio di trasparenza, quale strumento di verifica del rispetto dell’obbligo di motivazione, impone infatti all’Amministrazione di rendere una pronuncia non solo espressa (ex art. 2 della l. n. 241 del 1990) e motivata, ma pure conoscibile, ovvero, in un’accezione più caratterizzante, comprensibile, sia per il suo contenuto (positivo o negativo), che in relazione alle ragioni che lo hanno determinato.
9.2. Nella specie, la sintesi motivazionale ben si giustifica in ragione della sintesi -recte, lacunosità- descrittiva della richiedente, che ha confezionato, come già chiarito, un’istanza da integrare per relationem mediante richiamo ad atti inesistenti. In termini di metodo, ciò impone soltanto che, in analogia con quanto effettuato dal primo giudice, il provvedimento impugnato venga esaminato separatamente in ragione dei tre distinti atti che lo compongono, accomunati soltanto dall’unico denominatore motivazionale comune costituito dalla ritenuta mancanza per tutti del requisito della doppia conformità.
10. Sempre ai fini di un corretto inquadramento dei fatti di causa, va altresì sgombrato il campo da aree chiaroscurali ingenerate dall’appellante laddove insiste sul “collegamento” delle opere con le CILA a suo tempo presentate (n. 909 del 24 ottobre 2017 e n. 3615 del 10 gennaio 2019), sia allo scopo di individuarne la consistenza, sia, a maggior ragione, per indicare il presunto stato assentito dell’immobile.
11. Come la Sezione ha già avuto modo di affermare, infatti, l’utilizzo di un modulo semplificato -recte, di uno strumento di liberalizzazione- per interventi che chiaramente richiedono un titolo diverso, in particolare il permesso di costruire, lo rende tamquam non esset, sicché l’attività realizzata sulla sua base non può che configurare un abuso edilizio. Con riferimento ai procedimenti dichiarativi in ambito edilizio, infatti, altro è il controllo sulla completezza di una pratica, ovvero sulla compatibilità dell’intervento con il vigente regime urbanistico, che il Comune è tenuto ad effettuare nei termini stabiliti dal legislatore per l’adozione dei provvedimenti interdittivi, sospensivi o conformativi, altro il potere di vigilanza, che consente in ogni momento di reprimere quanto realizzato travalicando totalmente l’ambito di riferimento del modello prescelto, cioè edificando di fatto sine titulo. Tale distinzione consente di conciliare le esigenze di certezza sottese alla stringente tempistica imposta dal legislatore per l’esercizio dei controlli, con quelle di tutela del territorio, che intersecano sovente altri interessi pubblici connotati da ancor maggiore sensibilità (si pensi all’ambiente, al paesaggio o al patrimonio culturale). Da qui la previsione contenuta sia nell’art. 19, comma 6-bis, ultimo periodo, proprio con riferimento alla s.c.i.a. in ambito edilizio, che richiama le «disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e dalle leggi regionali», sia nell’art. 21, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990, che in maniera analoga si riferisce alle «attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti, anche se è stato dato inizio all’attività ai sensi degli articoli 19 e 20».
12. La inidoneità della CILA a produrre effetto con riferimento alla realizzazione di “nuove costruzioni” quali quelle di cui è causa, tali peraltro da incidere, a seco0nda dei casi, su volumetria, sagoma, prospetti e superficie dell’immobile, rende finanche ultronea la sua esplicitazione, comunque denominata, da parte del Comune di Latina. Quella inoltrata nel 2017 addirittura è stata presentata in sanatoria, laddove la disciplina di cui all’articolo 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (T.U.E.), che prevede un procedimento a domanda di parte, è stato sostituito in alcune Regioni al più dalla presentazione di una S.C.I.A., ma non consente in alcun caso la C.I.L.A. postuma. Privi di pregio si palesano dunque i riferimenti alla circostanza che le comunicazioni fossero state «istruite positivamente» (v. § 4 della parte in fatto del ricorso in appello), sia in quanto non appare chiaro in cosa si sarebbe concretizzato ridetto vaglio positivo da parte del Comune di Latina, sia perché comunque, trattandosi di CILA, appunto, neppure è certa l’applicabilità della tempistica dei controlli individuati per la SCIA, giusta la diversa declinazione finanche dei contenuti degli obblighi dichiarativi rispetto alla segnalazione riveniente dalla formulazione letterale dell’art. 6-bis del T.u.e. (in senso favorevole all’assimilazione, v. Cons. Stato, sez. II, 24 aprile 2023, n. 4110; sez. IV, 23 aprile 2021, n. 3275). Dirimente, infine, per quello in esame come per gli altri due interventi edilizi di cui è causa, è la circostanza che l’interessata ha autonomamente proposto istanza di sanatoria ordinaria, seppure a suo dire compulsata al riguardo dal Comune, che ben avrebbe potuto limitarsi ad attivare il procedimento sanzionatorio: sicché il richiamo agli elaborati grafici allegati alle CILA non può avere altro valore che quello di consentire all’Amministrazione di attingere alle stesse documentazione che, in quanto già in suo possesso, non era necessario chiedere nuovamente al privato di produrre, in un’ottica di economicità del procedimento e leale collaborazione tra le parti. Ciò che è espressamente riportato nel provvedimento impugnato con riferimento alla scala, per la quale il Comune di Latina non ha inteso chiedere i (precedenti) calcoli alla regione avendoli già quali allegati a pratiche precedenti.
13. Chiarito quanto sopra, può ora procedersi allo scrutinio in dettaglio dei singoli motivi di appello.
14. Con il primo motivo di gravame, la signora -OMISSIS- rivendica la compatibilità urbanistica della “tettoia”, che in ragione della sua esigua consistenza non si porrebbe in contrasto con l’art. 13 delle NTA al PPE. L’insistito utilizzo, peraltro, del termine -“tettoia”, appunto, in luogo di quello “porticato”, cui invece si riferiscono gli atti comunali- ha la dichiarata finalità di renderne percepibile la mancanza di impatto in termini urbanistici.
14.1. Rileva il Collegio come le diversificate denominazioni degli elementi architettonici -“porticato” o “tettoia”, per quanto qui di interesse- sono state compiutamente declinate nel Regolamento edilizio-tipo approvato in sede di Intesa Stato-Regioni, siglata in attuazione dell’art. 4, comma 1-sexies del d. P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e pubblicato sulla G.U. n. 268 del 16 novembre 2016, proprio allo scopo di omogeneizzarne gli ambiti definitori, ponendo ordine nel variegato linguaggio utilizzato nella prassi degli uffici, ovvero consacrato in maniera divergente nei singoli provvedimenti regolatori comunali. Il riferimento alle stesse, peraltro, seppur innegabilmente utile ad inquadrare descrittivamente la tipologia dell’intervento realizzato, non ne consente anche la diversificazione di regime giuridico, a parità di risultato finale. Attingendo al regolamento, dunque, per “tettoia” deve intendersi un «elemento edilizio di copertura di uno spazio aperto sostenuto da una struttura discontinua, adibita ad usi accessori oppure alla fruizione protetta di spazi pertinenziali» (voce 41); per “porticato” invece un «elemento edilizio coperto al piano terreno degli edifici, intervallato da colonne o pilastri aperto su uno o più lati verso i fronti esterni dell’edificio».
14.2. Quand’anche ciò non basti a qualificare l’opera in concreto come “porticato”, piuttosto che “tettoia”, sia per la presenza dei pilastri o piedritti, sia per l’ubicazione in sviluppo del fronte del villino, ne è chiaro l’impatto sulla sagoma dello stesso. Esso dunque non solo costituisce una “nuova opera” per la quale è l’appellante, come già detto, ad aver chiesto il permesso in sanatoria, ma a maggior ragione rientra nella più generica dizione di «costruzione accessoria», vietata dall’art. 13 delle N.T.A. del piano particolareggiato operante nella zona. Né si comprende in che modo tale assunto possa essere confutato attingendo alle previsioni derogatorie contenute nell’art. 5 delle medesime N.T.A., che consentono la creazione di volumi da computare nell’indice di fabbricabilità fondiaria, solo ove «relativi ai servizi per le eventuali attrezzature per gioco e sport», ovvero situazioni completamente estranee alla tipologia di manufatto di cui è causa.
14.3. Va infine ricordato che ai sensi dell’art. 3, lett. e.6), del d.P.R. n. 380/2001, a certe condizioni le pertinenze sono sottratte al genus della nuova costruzione. La pertinenza urbanistico-edilizia, tuttavia, per consolidata giurisprudenza, è cosa ben diversa da quella civilistica, in quanto è ravvisabile solo allorquando sussista un oggettivo nesso che non consente altro che la destinazione della cosa ad un uso servente durevole rispetto al bene principale, ferma restando la dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa a cui inerisce e sempreché non comporti un maggiore carico urbanistico (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 19 agosto 2021, n. 5948; id., 13 gennaio 2020, n. 309; sez. II, 22 luglio 2019 n. 5130). A differenza, cioè, da quella di cui all’art. 817 del codice civile («cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa»), la pertinenza de qua presuppone che il manufatto sia non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche sfornito di un autonomo valore di mercato, proprio in quanto esaurisce la sua finalità nel rapporto funzionale con quest’ultimo. Rapporto di asservimento necessario non giustificabile certo con la rappresentata necessità di salvaguardare l’immobile dalle avverse condizioni metereologiche, stante che attingendo a tale generico concetto si finirebbe per giustificare qualsivoglia superfetazione della facciate, a prescindere dal suo impatto sull’aumento di superficie utile e sui prospetti del fabbricato cui accede.
14.4. D’altro canto, la consistenza per nulla minimale della tettoia/porticato di cui è causa è stata da ultimo ben cristallizzato nella sentenza del Tribunale civile di Latina versato in atti dalla difesa civica, che lo descrive come un «manufatto, costituito essenzialmente da una copertura sostenuta da piedritti in un lato e ancorata a parte muraria per un altro lato» che «ha un perimetro sostanzialmente rettangolare con il lato parallelo alla strada di m. 6,15, e quello ad essa ortogonale, e parallelo ai confini laterali, di m. 3,1, quindi una superficie totale di mq 19,06»; l’area «è costituita, a partire dalla sinistra, da una prima fascia vetrata trasparente larga circa m 1,7, da una parte centrale larga circa m. 2,6, con tavolato e sovrastante manto di tegole piane, e la rimanente parte a destra, larga circa m. 1,5, è priva di elementi di copertura; la struttura portante è costituita da un travetto in legno ancorato stabilmente al frontalino della soletta del balcone del piano primo dell’abitazione -OMISSIS- e da altra piccola porzione di ancoraggio a parte muraria, e da un’altra trave in legno, parallela alla prima, sorretta da due piedritti, anch’essi in legno, ancorati stabilmente al suolo, e da un’orditura secondaria di travetti in legno fissati ortogonalmente a dette travi principali; l’intera struttura è spiovente verso il lato parallelo alla strada, a partire da un’altezza di circa m. 2,8 fino a circa m 2,1 al termine che risulta in aggetto rispetto alla ubicazione del “portale” trave/piedritti». Esso dunque è riconosciuto anche come contrastante con il disposto dell’art. 13 delle NTA, seppure tale aspetto sia per così dire recessivo rispetto al petitum di causa, ovvero l’accertamento della violazione (anche) delle regole sulla distanza tra fabbricati.
15. La seconda censura ha ad oggetto il cambio di destinazione d’uso dei locali ubicati al livello interrato del villino. L’argomentazione dell’appellante si basa sulla rivendicata natura di «pertinenza dell’abitazione» dell’intero piano, sicché da un lato, in punto di fatto, l’avvenuta realizzazione al suo interno di un servizio igienico non sarebbe idonea a mutarne la destinazione (v. Cons. Stato, sez. VI, 14 novembre 2022, n. 9954); dall’altro, in diritto, ove si ritenga che un cambiamento sia in effetti intervenuto, esso non avrebbe comunque rilevanza sotto il profilo urbanistico, in quanto riferito ad un’area che era e resta a servizio della casa. Ai sensi dell’art. 7 della legge regionale del Lazio n. 36 del 1987 non vi sarebbe stata pertanto alcuna violazione del requisito della doppia conformità.
15.1. La tesi è priva di pregio.
15.2. La modifica di destinazione d’uso non costituisce di regola una tipologia di intervento edilizio ex se, bensì piuttosto l’effetto dello stesso. Non a caso la relativa dizione non figura nell’elenco delle definizioni contenuto nell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma nelle singole declinazioni delle stesse, ora quale limite negativo (si pensi al concetto di manutenzione straordinaria di cui al comma 1, lettera b), che non può comportare «mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico», ovvero, più in generale, della destinazione d’uso originaria ove si concretizzi in frazionamenti o accorpamenti di unità immobiliari); ora, al contrario, come possibile esemplificazione contenutistica (come per il restauro e risanamento conservativo di cui alla successiva lettera c) che può determinare anche il mutamento delle destinazioni d’uso, purché compatibile con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso che i relativi interventi devono comunque rispettare).
L’art. 10 del Testo unico, tuttavia, nel declinare gli interventi subordinati a permesso di costruire, demanda alle leggi regionali il compito di stabilire «quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività», con ciò conferendo dignità di autonomo intervento anche a quello meramente funzionale, o senza opere, nei casi di astratta rilevanza dello stesso.
15.3. In linea di massima, la modifica di destinazione d’uso che si risolve in una trasformazione urbanistica costituisce nuova costruzione (art. 3, comma 1, lett. e). In passato, l’individuazione degli indici della trasformazione urbanistica veniva basata dalla giurisprudenza sul criterio dell’incidenza incidenza e del pregiudizio in concreto agli standard urbanistici e alle dotazioni territoriali. Con l’introduzione delle categorie di destinazione urbanistica ad opera del c.d. decreto legge “Sblocca Italia” (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164) tramite l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo unico per l’edilizia, si è cercato di precostituire a monte le situazioni con riferimento alle quali il carico urbanistico si presuppone omogeneo, indirettamente suggerendo anche una certa uniformità terminologica nella declinazione delle funzioni da parte degli Enti locali nei vari strumenti di governo del territorio. La disposizione, dunque, le riduce a cinque (residenziale, turistico-ricettiva, produttiva e direzionale, commerciale e rurale), all’interno di ciascuna delle quali, almeno in termini astratti e generali, il carico urbanistico si presume analogo, sicché assume rilevanza solo il passaggio dall’una all’altra, quand’anche non accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie. La legislazione regionale e ancor più in dettaglio gli strumenti urbanistici comunali dettano indicazioni esplicative, che tuttavia, come precisato dal giudice delle leggi, non possono mai risolversi nella soppressione di talune categorie, riducendone il numero (v. Corte cost., 23 gennaio 2018, n. 68, ove si è ricordato che l’accorpamento delle categorie funzionali determina l’esclusione della “rilevanza urbanistica” dei mutamenti di destinazione d’uso interni alle stesse e, quindi, della loro assoggettabilità a titoli abilitativi, in contrasto con la normativa statale di principio e con conseguente incisione dell’ambito di applicazione delle sanzioni previste dal legislatore statale nell’esercizio della competenza esclusiva in materia di «ordinamento civile e penale», di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione).
15.4. L’introduzione delle categorie, per la sua portata assorbente della valutata incidenza sul carico urbanistico, ha fatto perdere un po’ di significatività alla già cennata distinzione, tradizionalmente operata in dottrina e giurisprudenza, tra modifiche di destinazione d’uso funzionali o senza opere e modifiche di destinazione d’uso realizzate tramite le stesse. Ciò che conta, infatti, è non tanto la modalità di realizzazione del cambio, ma gli effetti che produce.
15.5. Rileva tuttavia il Collegio che laddove l’individuazione di elementi sintomatici si renda necessaria a stabilire se in concreto cambio c’è stato o meno, essi vadano individuati caso per caso, a partire proprio da quelle dotazioni che, a maggior ragione ove consistite non in elementi di arredo ma in fattori strutturali, tradizionalmente connotano un determinato utilizzo del bene, in quanto necessarie allo scopo. Quand’anche, dunque, in singoli casi la realizzazione del servizio igienico o di un mero vano wc può non assumere rilevanza ex se, come nel caso in cui il manufatto “pertinenziale” - nell’accezione chiarita- non fa parte della medesima unità abitativa (v. la fattispecie oggetto della sentenza del Consiglio di Stato n. 9954 del 2022, richiamata dall’appellante), lo stesso non è a dire laddove, oltre a tale circostanza “logistica”, allo stesso si aggiungano altre dotazioni strutturali tipicamente riconducibili all’uso abitativo, quali la presenza di locali c.d. “pluriuso”, e segnatamente della cucina. Di ciò la parte è pienamente consapevole, stante che da un lato incentra la propria analisi solo sul servizio igienico, dall’altro ne valorizza la necessità sull’assunto della migliore fruibilità rispetto a quello ubicato agli altri piani per il figlio, dichiaratamente affetto da gravi problematiche allergiche che gli imporrebbero di lavarsi più volte le mani.
15.6. Vero è che non esiste una autonoma collocazione negli atti di governo del territorio per i locali garage o cantina, accessori ad abitazioni. Essi infatti, proprio in quanto privi di autonoma rilevanza, accedono alla categoria residenziale cui sono asserviti, costituendo effettivamente pertinenze nell’accezione civilistica cui si è fatto già cenno (v. § 14.3).
La disciplina urbanistica, tuttavia, si connota, o quanto meno dovrebbe connotarsi, per la necessaria commisurazione delle dotazioni territoriali all’impatto in termini di carico prodotto da una determinata destinazione, la cui ampiezza è evidentemente calcolata avuto riguardo alla assentita fruibilità funzionale. La fruibilità funzionale all’uso residenziale è data cioè dalla superficie e dalla volumetria abitabile, ovvero rispondente ai requisiti minimi di vivibilità contenuti, nel loro nucleo originario successivamente integrato anche da regolamenti comunali di settore, nel d.m. 5 luglio 1975. In altre parole, la volumetria assentibile su cui si basa il calcolo degli indici edificatori è quella “abitabile”, perché consente di individuare l’estensione anche potenziale dell’insediamento umano e la pressione che lo stesso è necessariamente destinato a produrre sul contesto inteso come necessità di fruire delle opere di urbanizzazione, primaria o secondaria; le volumetrie di servizio, pur latamente intese, in quanto strutturalmente inidonee a incrementare ridetta pressione da parte della popolazione residenziale, che rimane immutata, sono inserite al solo scopo di migliorare la qualità della vita della zona anche in relazione al singolo complesso immobiliare. Esse si connotano, cioè, per una compatibilità con la categoria generale di riferimento, pur ricevendo una finalizzazione “mirata” a servizio, non convertibile in una qualunque delle altre tipizzate dal legislatore, ivi compresa quella cui accede, senza che il mutamento venga considerato “rilevante”. In sintesi, l’art. 23-ter del T.u.e. non individua un’autonoma categoria “pertinenziale”, essendo la stessa, proprio in quanto tale, quella della zona in cui si inserisce, ma mantenendo una finalizzazione d’uso diversa e mirata. Da qui il condiviso orientamento giurisprudenziale che, non a caso senza soluzione di continuità rispetto all’introduzione della norma nel d.P.R. n. 380 del 2001, ha da sempre ricondotto il cambio di destinazione d’uso da cantina o garage a civile abitazione tra gli interventi edilizi per i quali è necessario il rilascio del permesso di costruire (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2018, n. 551; sez. VII, 21 agosto 2023, n. 7835). Diversamente opinando, si addiverrebbe alla paradossale conclusione che l’introduzione delle categorie urbanistiche omogenee, necessariamente espressa in termini di macro organizzazione sistemica e non di disciplina di dettaglio, si sarebbe risolta in una sostanziale liberalizzazione delle trasformazioni di tutti i locali lato sensu di servizio in residenziali.
15.7. Non a caso, dunque, nell’esplicitare il diniego di sanatoria in parte qua l’atto impugnato fa riferimento alla mancanza di disponibilità volumetrica, «atteso che la Concessione edilizia n. 155/1995 è unica per tutto il complesso delle n. 8 villette residenziali a schiera, senza attribuzione a ciascuna unità immobiliare della specifica volumetria». L’art. 2.2 delle N.T.A. a sua volta, dopo avere ammesso che alle costruzioni residenziali può essere annesso un piano interrato, ne individua la destinazione d’uso «esclusivamente a garage, cantine e depositi», ovvero anche, più genericamente, a «pertinenza dell’abitazione», purché «di altezza inferiore a ml. 2,40 e quindi non abitabile ai sensi del D.M. Ministero della sanità del 05.07.1976 [rectius, 1975]», ovvero purché comunque non lo si renda anche solo in fatto “abitabile”. La disposizione prevede altresì che nel caso sia computata la volumetria, tali vani possono avere altezze superiori, senza che se ne legittimino in ogni caso destinazioni d’uso diverse.
15.8. D’altro canto, che modifica di destinazione d’uso vi sia stata è comprovato dall’avvenuto inoltro della CILA riferita alla stessa. La comunicazione del 2019, infatti, aveva ad oggetto la «diversa utilizzazione di alcuni locali posti al piano interrato», oltre che la costruzione di un servizio igienico, qualificando il tutto come manutenzione straordinaria ex art. 3, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001. Interventi tutti per i quali non a caso l’appellante ha poi chiesto la sanatoria che il Comune di latina non ha inteso accordarle.
16. Resta da dire dell’avvenuta realizzazione della scala di congiunzione tra piano interrato e piano terra.
16.1. Sostiene l’appellante che la stessa, in quanto poggia sul piano di fondazione dell’interrato, nello spazio dello sfalso fra gli appartamenti contigui e l’intercapedine, attingerebbe dal fabbricato preesistente la regolarità anche sotto il profilo del rispetto della normativa tecnica. La ricostruzione non può essere condivisa, anche perché priva di qualsivoglia motivazione ovvero semplice esplicitazione a supporto.
16.2. La rilevanza dell’intervento, tale cioè da escluderne la pericolosità per la pubblica incolumità in ragione delle caratteristiche intrinseche e della destinazione d’uso, è oggi valutabile sulla base dell’art. 94-bis, introdotto nel T.u.e. dal decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32 («Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici»), convertito, con modificazioni, nella legge 14 giugno 2019, n. 55, quindi modificato dalla legge 12 dicembre 2019, n. 156. Tale norma, coerentemente con le finalità di semplificazione dei procedimenti amministrativi in ambito edilizio, che connotano il complessivo contenuto del decreto, ha introdotto una distinzione fra le diverse categorie di interventi edilizi sulla base del fatto che gli stessi siano, appunto, «rilevanti», «di minore rilevanza» o «privi di rilevanza» nei riguardi della pubblica incolumità, esonerando dall’autorizzazione preventiva le ultime due categorie, la cui individuazione è avvenuta con apposite linee guida, approvate con d.m. 30 aprile 2020. Ad essa tuttavia l’appellante non fa alcun richiamo, salvo riportare nelle “Note” dattiloscritte nel corpo dell’istanza di permesso di costruire, l’indicazione che «come richiesto dal Comune di Latina ai sensi dell’art. 94-bis del d.P.R. 380/01, viene depositato presso la regione Lazio contestualmente alla presente la necessaria documentazione ai fini del rilascio dell’autorizzazione sismica».
16.3. L’atto di appello, dunque, al pari del ricorso di primo grado e della sentenza impugnata, richiamano sia la violazione dell’art. 65 che dell’art. 94 del T.u.e.; il diniego di sanatoria, invece, menziona solo la prima di tali norme. Non vi è dubbio tuttavia che le disposizioni violate attengono alla disciplina tecnica e a quella sismica.
16.4. L’art. 65 del d.P.R. n. 380 del 2001, nella versione conseguita alla richiamata legge n. 55 del 2019, stabilisce che «le opere realizzate con materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme tecniche in vigore, prima del loro inizio, devono essere denunciate dal costruttore allo sportello unico tramite posta elettronica certificata (PEC)», con ciò ampliando la platea dei fabbricati soggetti al relativo adempimento. La norma, cioè, pur conservando, per un evidente difetto di coordinamento, la rubrica antecedente alla revisione («Denuncia dei lavori di realizzazione e relazione a struttura ultimata di opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica») introduce in realtà nuovi obblighi di denuncia da parte del costruttore da effettuare prima dell’inizio dei lavori, riferendoli a « materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme tecniche in vigore» e non solo a sistemi costruttivi realizzati in conglomerato cementizio armato, normale e precompresso, come previsto in precedenza dagli artt. 4 e 6 della legge n. 1086 del 1971. La disciplina interseca proprio gli interventi «privi di rilevanza» da un punto di vista sismico, di cui al comma 1, lett. c), dell’art. 94-bis del T.u.e., che pertanto rientrano comunque in tale regime di denuncia preventiva. Il combinato disposto delle due norme, cioè, caratterizzate da un rinvio reciproco (l’art. 65, comma 8-bis, prevede infatti che agli interventi privi di rilevanza non si applichino le disposizioni sugli adempimenti successivi all’ultimazione delle opere, così come l’art. 94-bis, a sua volta, al comma 6 sancisce che «Restano ferme le procedure di cui agli articoli 65 e 67, comma 1»), introduce un regime semplificato che tuttavia non pretermette del tutto l’informativa, estesa piuttosto, nella modalità di cui all’art. 65 del d.P.R. n. 380 del 2001, a tutte le opere realizzate con materiali e sistemi costruttivi disciplinati dalle norme tecniche in vigore inclusi gli interventi di riparazione e gli interventi locali sulle costruzioni esistenti e quelli che, per caratteristiche intrinseche e destinazioni d’uso, non costituiscono pericolo per la pubblica incolumità. In sintesi, anche laddove non trova applicazione l’art. 94, comma 1, che prevede che nelle località sismiche «non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione», permane l’obbligo di denuncia preventiva dell’opera, che assolve anche alla finalità di garantire il rispetto delle regole a tutela della pubblica incolumità dalla minaccia sismica.
17. Ciò detto, la questione posta all’esame del Collegio attiene al raccordo, per quanto riguarda le zone soggette alla normativa tecnica e segnatamente (anche) alla tutela antisismica, tra le disposizioni che regolano la sanatoria ex art. 36 e quelle di settore di cui agli artt. 83 e ss. (ovvero, per quanto di più specifico interesse, 65 del T.u.e.). Trattasi di tematica di estrema complessità e delicatezza, che sconta le difficoltà derivanti da innegabili lacune normative, a fronte delle quali l’interprete è chiamato ad individuare una lettura che contemperi l’effettività del regime delle sanatorie con la necessità di non abbassare minimamente la soglia della tutela dell’incolumità pubblica in un Paese il cui territorio si connota notoriamente per l’estensione delle zone vulnerabili da un punto di vista sismico.
18. Va innanzi tutto ricordato come il d.P.R. n. 380 del 2001 non contempla espressamente alcuna procedura di sanatoria c.d. strutturale, ovvero riferita alla mancata denuncia preventiva o alla mancata richiesta di autorizzazione sismica di cui agli artt. 65, 93 e 94. A ben guardare, anzi, il controllo esercitato dall’amministrazione competente per gli interventi in zone sismiche è costruito dal legislatore in maniera preventiva, come si ricava da una serie di indici testuali contenuti nelle norme di riferimento. L’art. 65 del Testo unico, ad esempio, prevede che le opere siano denunciate «prima del loro inizio»; l’art. 93, a sua volta, impone a chiunque intenda procedere ad interventi nelle zone sismiche, di darne «preavviso» scritto allo sportello unico, che provvederà alla trasmissione al competente ufficio tecnico regionale; il successivo art. 94 infine si riferisce ad una «preventiva autorizzazione», sicché la procedura deve essere inequivocabilmente completata prima dell’esecuzione dell’intervento, nel rispetto delle formalità richieste.
18.1. Al riguardo, la Corte costituzionale ha già ricondotto in più occasioni tali regole procedurali a principi fondamentali cui le Regioni possono dare solo attuazione di dettaglio, non in deroga, in quanto rispondono ad esigenze di unitarietà di regime, particolarmente pregnanti di fronte al rischio sismico, che «non tollera alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali» (ex multis, sentenze n. 264 del 2019; n. 232 e n. 60 del 2017, n. 282 del 2016 e n. 300 del 2013). In tal modo infatti si garantisce infatti un capillare controllo sulle tecniche costruttive sul territorio caratterizzato da vulnerabilità sismica.
19. Sul rapporto tra titolo edilizio e assenso sismico la giurisprudenza in passato non è stata univoca, tanto da ammettere che quest’ultimo intervenisse successivamente al permesso di costruire o alla proposizione della SCIA (v. Cons. Stato, sez. IV, 28 novembre 2018, n. 6738, ove si afferma che «l’autorizzazione sismica, laddove richiesta, è condizione per l’inizio dei lavori, e non già per il rilascio del titolo edilizio ed il progetto esecutivo è depositato separatamente -nel distinto procedimento- dalla documentazione richiesta per il titolo abilitativo»). Più di recente, tuttavia, valorizzando la previsione dell’art. 20, d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui la dichiarazione del progettista, in sede di istanza, deve anche asseverare il rispetto delle norme di settore, pare essersi consolidato il riconoscimento di un rapporto di presupposizione tra titoli, che il Collegio condivide. Ciò trova conferma nella clausola di rinvio con cui si apre l’art. 94 del T.u.e., che reca: «Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio […]», intendendo evidentemente che esso dovrà essere comunque conseguito, in aggiunta all’autorizzazione di cui si tratta, qualora la tipologia dell’intervento da eseguire lo richieda.
19.1. La giurisprudenza più recente ha dunque affermato che in assenza del titolo attestante la conformità alla disciplina antisismica, il permesso di costruire è in ogni caso inefficace, ovvero non idoneo a legittimare le opere a suo tempo realizzate (v. Cons. Stato, sez. VI, 15 aprile 2021, n. 3086).
19.2. Tali considerazioni sono state estese anche alla corretta lettura da dare all’art. 36 del T.u.e., che richiederebbe di «[…] verificare, ancora prima dell’adozione del permesso di costruire in sanatoria, se le opere possano o meno ritenersi sostanzialmente conformi alla disciplina di riferimento: a tali fini, risulta necessario accertare, tra l’altro, il previo rilascio dell’autorizzazione sismica (ove prevista), idonea ad escludere quei pericoli per la staticità delle opere abusive che, ove esistenti, impedirebbero la sanatoria, imponendo l’irrogazione della sanzione demolitoria» (così Cons. Stato, sez. VI, 19 maggio 2022, n. 3963). E ancora, nell’affermare che «l’accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche è sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo che consente di edificare», si è riconosciuto che esso possa essere acquisito anche in maniera postuma, essendo state inserite tra parentesi, dopo l’affermazione della regola generale, le parole «anche quello in sanatoria» (Cons. Stato, sez. III, 31 maggio 2021, n. 4142).
20. Va ora ricordato come il rilascio della sanatoria di cui all’art.36 del T.u.e. è sottoposto al principio della doppia conformità, che non è richiesto in caso di vero e proprio condono. In ragione di tale esplicita scelta del legislatore essa si applica ai soli abusi «formali», ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione «anche di natura preventiva e deterrente», finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio (Consiglio Stato, sez. IV, 21 dicembre 2012, n. 6657). Non sono più ritenute possibili, dunque, letture «sostanzialiste» finalizzate a legittimare la regolarizzazione di opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità.
21. Anche sull’esatto perimetro della “doppia conformità” vanno richiamati i principi espressi dalla Corte costituzionale avuto riguardo proprio alla disciplina antisismica, che vi è stata ricompresa.
Ciò in quanto le disposizioni di cui al capo IV della parte II del testo unico di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, recante, appunto, «Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche», contengono prescrizioni aggiuntive, e non alternative, a quelle generali per l’edilizia, come confermato sia dall’utilizzo dell’aggettivo “particolari”, appunto, sia dalla sistematica delle norme, collocate nella Parte II dello stesso Testo unico, che concerne la «Normativa tecnica per l’edilizia». Se pertanto nel sistema delineato dalla normativa statale, tanto gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire che quelli consentiti a seguito di segnalazione, presuppongono sempre la previa verifica del rispetto delle norme sismiche, non pare possa dubitarsi che la verifica della doppia conformità, alla quale l’art. 36 del testo unico subordina il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria, debba esso pure riferirsi anche al rispetto delle norme sismiche, da comprendersi in quelle per l’edilizia vigenti al momento della realizzazione dell’intervento e a quello di presentazione della domanda di sanatoria (Corte cost., 5 giugno 2013, n. 101). In sintesi, «la regola della doppia conformità vale anche per la normativa antisismica, costituendo, per gli interventi in zona sismica, un principio fondamentale delle materie “governo del territorio” e “protezione civile”» (Corte cost. 20 gennaio 2021, n. 2, che richiama anche la precedente sentenza n. 290 del 2019). A ciò consegue che in linea generale ove il richiedente non è in possesso dello specifico titolo di cui è causa la sanatoria non può essere concessa per mancanza del requisito della doppia conformità, ma non vale necessariamente il reciproco, ovvero la carenza del titolo sismico preventivo non si risolve necessariamente in un rigetto, ove la parte dimostri di poterlo conseguire e di averlo in concreto richiesto, seppure in maniera postuma. Quanto detto purché, evidentemente, si rispetti la connotazione di abuso “formale” anche di quello strutturale. Il che, rileva il Collegio, implica in primo luogo e quale inevitabile conseguenza che trattandosi, appunto, di doppia conformità, deve comunque escludersi ogni possibilità di sanatoria “condizionata”, che comunque preveda l’esecuzione di interventi di adeguamento. Le variegate prassi di senso opposto di cui consta la diffusione negli uffici comunali è da ritenersi evidentemente illegittima.
22. D’altro canto, il Collegio ritiene che chiare indicazioni nel senso dell’ammissibilità della sanatoria sismica vengano proprio dalla sentenza della Consulta richiamata da ultimo (n. 2 del 2021). Essa infatti si riferisce ad una novella non sostanziale dell’art. 46 della l.r. Toscana n. 69 del 2019, e ne afferma la illegittimità proprio sul solo rilievo del mancato rispetto del requisito della doppia conformità sismica al momento della realizzazione delle opere e al momento di proposizione della richiesta (la norma regionale richiamava, infatti, il solo rispetto delle N.T.C. vigenti al momento della proposizione dell’istanza). Si legge infatti nel par. 14.3: «Dal combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 182 [della legge regionale] deriva una situazione di incertezza, per il destinatario della norma, se la conformità alla normativa tecnica debba intendersi quale “doppia conformità”, come inderogabilmente richiesto dalla legislazione statale, ovvero quale mera conformità al momento della presentazione della domanda». Quanto detto malgrado il Governo nel ricorso lamentasse in via principale in radice la previsione di un istituto (appunto, la sanatoria sismica) privo di riferimenti nella normativa di principio statale («[…] secondo la ricorrente, la disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione alla materia governo del territorio [perché] sembrerebbe introdurre un titolo in sanatoria non contemplato dalla legislazione statale»). Di fatto, dunque, si è a contrario ammessa espressamente la sanatoria sismica, purché essa consegua all’accertamento della conformità delle strutture alle norme tecniche vigenti sia al momento dell’adozione del provvedimento sanante (secondo l’ordinario canone del tempus regit actum), sia al momento della realizzazione dell’opera, in estensione della previsione (in verità eccezionale) della doppia conformità edilizia alla diversa ipotesi di assenza del (o difformità dal) titolo sismico. Tenuto conto che nel tempo le regole tecniche funzionali alla tutela di settore hanno subito un comprensibile rafforzamento, il riferimento alle stesse al momento della richiesta di sanatoria non può che risolversi, peraltro, anche in un’elevazione della soglia delle tutele, che rende inutilmente e sproporzionatamente punitiva la demolizione ad ogni costo.
23. Negando in toto l’ammissibilità di un’autorizzazione sismica postuma, infine, essendo considerazione nota l’estensione del territorio soggetto alla relativa tutela in Italia, si rischierebbe di addivenire ad una sorta di interpretatio abrogans dell’art. 36 del T.u.e., in fatto difficilmente utilizzabile.
24. Del resto, la soluzione appare in linea sia con le risultanze della maggior parte della giurisprudenza penale che con la relativa disciplina sanzionatoria.
25. A fronte della mancata previsione della sanatoria sismica quale causa estintiva dei corrispondenti illeciti contravvenzionali, sul modello di quanto disposto dall’art. 45 del d.P.R. n. 380 del 2001 per gli altri reati edilizi, è infatti noto e ben comprensibile l’approccio rigoroso della Corte di Cassazione che ha categoricamente escluso che il deposito allo sportello unico “in sanatoria” degli elaborati progettuali faccia venire meno il reato di omesso deposito preventivo degli elaborati (Cass., sez. 3, 7 maggio 2019, n. 19196); affermazione estesa pure agli illeciti previsti dagli artt. 71 e seguenti del d.P.R. n. 380 del 2001 per la violazione della disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica (Cass. sez. 3, 13 novembre 2018, n. 54707). In taluni casi, essa non ha dato rilievo al deposito postumo del progetto neppure ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., a prescindere peraltro, quantomeno in tali ipotesi, dall’assenza di violazioni sostanziali delle norme tecniche che disciplinano l’edificazione nelle zone sismiche (cfr. Cass., sez. 3, 18 maggio 2018, n. 49679). E tuttavia, proprio nel ribadire costantemente che la sanatoria sismica non produce effetti estintivi del reato, si è finito per postulare in ogni caso la vigenza dell’istituto (in maniera esplicita, v. Cass., sez. III, n. 2848 del 2019, ove si legge: «il rilascio in sanatoria dell’autorizzazione dell’Ufficio del Genio civile non costituisce causa estintiva dei reati di violazione della normativa antisismica di cui agli artt. 93, 94 e 95 del d.P.R. 380 del 2001»).
26. Il sistema delle tutele penali rigorosamente ancorato al dato formale del preventivo possesso del titolo e della persistenza del reato ancorché ci si adoperi per la successiva regolarizzazione, fornisce tuttavia ulteriori spunti a favore della ricostruzione seguita. In particolare, va ricordato che l’art. 98, comma 3, del Testo unico, ammette esplicitamente la regolarizzazione dell’abuso in materia sismica, laddove consente al giudice penale di impartire, in luogo della demolizione delle opere o delle parti di esse costruite in difformità alle norme antisismiche, le prescrizioni necessarie per renderle conformi alle stesse, fissando il relativo termine. Di fatto, dunque, non solo è possibile un’integrazione documentale postuma, ma finanche un adeguamento strutturale, stante che la norma riferisce l’adeguamento alle opere, non alle pratiche, che il giudice disporrà avvalendosi necessariamente delle competenze tecniche di specialisti del settore. Se così è, non si comprende per quale ragione l’Amministrazione preposta al controllo di settore non possa muoversi anticipatamente almeno sotto il profilo del vaglio della rispondenza sostanziale dell’intervento ai previsti requisiti di sicurezza, laddove la parte si attivi in tal senso e se ne assuma la responsabilità producendo tutta la necessaria documentazione a supporto. L’art. 98, comma 3, del T.u.e, infatti, crea una riserva di competenza a favore del giudice penale solo in relazione a ridetto adeguamento strutturale. Per le rimanenti previsione essa costituisce piuttosto previsione speculare a quella contenuta in termini generali nell’all’art. 31, comma 9, dello stesso, che egualmente prevede che «Per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita». A fronte, cioè, dell’inerzia dell’Amministrazione, riferita anche alla possibilità conformativa, egli si sostituisce alla stessa, disponendo con il decreto penale ovvero con la sentenza, oltre alla condanna, anche la demolizione, se già non intervenuta, ovvero, in alternativa, la regolarizzazione. Né pare crearsi in tal modo una discriminazione «tra chi diligentemente agisce osservando la legge rispetto a chi realizza un intervento senza titolo, sottraendo le opere ad ogni preventivo controllo» (così Cass., sez. 3, 20 gennaio 2023, n. 2357, che ha di recente negato in assoluto la sanabilità degli abusi in zona sismica), stante che la stessa costituisce per così dire una conseguenza fisiologica dello stesso accertamento di conformità, ovvero più propriamente la risultante della scelta di compromesso sottesa allo stesso effettuata dal legislatore, che ha già ritenuto prevalente a monte, in un doveroso quadro di bilanciamento di interessi, la regolarizzazione dell’avvenuto utilizzo formalmente illecito del suolo, previo pagamento delle somme previste a titolo di oblazione, sul ripristino dello stato dei luoghi. La regolarizzazione postuma, dunque -recte, il controllo postumo della regolarità sismica/strutturale, ove richiesto dalla parte, attivando il relativo procedimento- risponde essa pure a principi di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., nonché di economicità ed efficacia presidiati dall’art. 1 della l. n. 241/1990. Esso peraltro, in quanto si risolve in un controllo di conformità sostanziale anche alla luce delle sopravvenienze normative alla realizzazione dell’abuso, pare rispondere maggiormente alle esigenze di tutela dell’incolumità pubblica, che presuppongono intrinsecamente celerità di risposta, rispetto ad una valutazione delle stesse differita all’esito, non sempre egualmente veloce, del procedimento penale.
27. Il Collegio è consapevole che la ricostruzione seguita sconta l’obiettiva difficoltà della individuazione, nel silenzio della legge, del procedimento amministrativo necessario. Ritiene tuttavia che lo stesso può essere “modellato” su quello già previsto per il rilascio della autorizzazione sismica “ordinaria”, attingendo alla teoria dei poteri impliciti, secondo cui la stessa Amministrazione titolare del potere di legittimare ex ante un’attività non può non essere titolare anche del potere (implicito) di verificarne ex post i medesimi presupposti di legittimazione, ovvero quelli più stringenti medio tempore sopravvenuti. Le difficoltà pratiche derivanti dalla mancanza di una cornice normativa primaria non possono infatti indurre ad un ripensamento della ricostruzione data, siccome argomentato di recente dal giudice penale (v. ancora Cass., n. 2357/2023, cit. supra). 27.1. D’altro canto, la lettura sostanzialistica delle norme tecniche sottesa al principio di doppia conformità sismica, fa propendere per l’applicabilità (anche) delle disposizioni procedurali sopravvenute che hanno modificato/semplificato il procedimento. Quanto detto ferma restando l’opportunità di colmare la denunciata lacuna individuando, da parte delle Regioni e, per quanto di competenza, dei Comuni, nelle more di indicazioni nazionali, una regolamentazione a monte che garantisca la preventiva conoscenza delle regole quale esemplificazione massima del principio di trasparenza dell’azione amministrativa.
27.2. Nel caso di specie la realizzazione delle opere e lo sviluppo del procedimento si colloca a cavallo tra le due ricordate discipline procedurali, essendo stata, almeno la prima CILA presentata nel 2017, ovvero prima dell’avvenuta introduzione dell’art. 94-bis nel T.u.e. sulla diversa rilevanza sismica delle opere. Evidentemente per tale ragione il Comune di Latina, seppur richiamando solo l’art. 65 del T.u.e., si è limitato a “suggerire” di accedere ai competenti uffici regionali, come documentato dal richiamo, nelle “Note” alla richiesta di sanatoria, al deposito della medesima pratica presso la Regione Lazio, senza che tuttavia sia stato chiarito con quali modalità ciò sia avvenuto e se sia stato effettivamente avviato un procedimento di sanatoria sismica. Il che giustifica il diniego opposto alla parte, cui peraltro la ritenuta violazione dell’art. 65 del T.u.e. era stata pure rappresentata in sede di preavviso di rigetto, sì da metterla in condizione di attivarsi per la regolarizzazione, ove possibile in termini sostanziali.
28. Va infine ricordato come l’ammissibilità di una denuncia sismica ex post, ovvero di un’analoga richiesta tardiva di autorizzazione, per potersi inserire nel procedimento di sanatoria deve in qualche modo produrre l’effetto di interrompere o quanto meno sospendere il termine di formazione del silenzio rifiuto cui il legislatore ha assoggettato l’esito del relativo procedimento in caso di inerzia dell’amministrazione (art. 36, comma 3, del T.u.e.). la questione tuttavia, che egualmente evidenzia la rimarcata necessità di un complessivo intervento del legislatore, esula dal perimetro dell’odierno giudizio, stante che il Comune di Latina ha inteso pronunciarsi in maniera espressa, peraltro oltre i sessanta giorni previsti dal legislatore per la maturazione del rigetto.
28.1. Il generico richiamo, quindi, alla circostanza che «non si può decretare il rigetto essendo previamente necessario semplicemente richiedere alla ricorrente la verifica della conformità sismica», contenuto nell’atto d’appello quale alternativa alla rivendicata irrilevanza dell’opera in termini tecnici, seppure astrattamente condivisibile non si attaglia al caso di specie, stante che l’interessata non ha dimostrato e neppure dichiarato di essersi attivata con una nuova denuncia ex art. 65 T.u.e. riferita alla scala di cui chiede la sanatoria edilizia.
28.2. Quanto infine al richiamo all’articolo 16 [recte, art. 19] del Regolamento regionale 26 ottobre 2020, n. 26, che prevede che «2.Il dirigente dell’area regionale del Genio Civile competente per territorio trasmette, ai sensi dell’articolo 96, comma 2, del d.P.R. 380/2001 e successive modifiche, il processo verbale, con le sue deduzioni, all’autorità giudiziaria competente, al SUE o al SUAP e al richiedente di cui all’articolo 4, comma 1,specificando,laddove ne sussistano i presupposti e a seconda della tipologia di violazione di carattere strutturale, le modalità per regolarizzare l’opera rispetto alla normativa antisismica vigente, attraverso la presentazione di apposita richiesta sull’applicativo OPENGENIO», esso, oltre che inammissibile in quanto introdotto per la prima volta in appello, è pure inconferente. La disposizione, infatti, che la parte stralcia dal contesto, si riferisce piuttosto alle ipotesi in cui durante l’attività di vigilanza i soggetti preposti accertino violazioni in materia antisismica e in conseguenza di ciò, «laddove ne sussistano i presupposti e a seconda della tipologia di violazione di carattere strutturale», indicano al soggetto «richiedente» l’autorizzazione sismica di cui all’art. 4 del medesimo Regolamento, «le modalità per regolarizzare l’opera rispetto alla normativa antisismica vigente» (di fatto, quindi, ammettendo una sanatoria sismica). Non al caso in cui, come nella specie, l’abuso è preesistente, consiste nel mancato inoltro della denuncia preventiva e la parte non ha inteso sanarlo inoltrando la stessa in maniera postuma, sì da consentire una valutazione della sua conformità sostanziale alle regole tecniche di settore. Quanto detto a tacere del fatto che la disposizione, in quanto sopravvenuta anche alla data di presentazione della domanda di sanatoria (3 marzo 2020), non può trovare applicazione al caso di specie.
29. Per tutto quanto sopra detto, l’appello deve essere respinto e per l’effetto deve essere confermata la sentenza impugnata, seppure con le integrazioni di cui in motivazione.
29.1. Sussistono motivate ragioni, stante la novità di molte delle questioni trattate, per compensare le spese di entrambi i gradi di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità dell’appellante.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 marzo 2024 con l’intervento dei magistrati:
Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente
Francesco Frigida, Consigliere
Antonella Manzione, Consigliere, Estensore
Carmelina Addesso, Consigliere
Maria Stella Boscarino, Consigliere