Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1909, del 9 aprile 2013
Urbanistica.DIA e opere difformi

In caso di presentazione di dichiarazione di inizio di attività, l'inutile decorso del termine previsto per legge ai fini dell’esercizio del potere inibitorio all’effettuazione delle opere non comporta che l’attività del privato, ancorché del tutto difforme dal paradigma normativo, possa considerarsi legittimamente effettuata e, quindi possa andare esente dalle sanzioni previste dall'ordinamento per il caso di sua mancata rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle previsioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi. Ed infatti, in tali ipotesi il titolo abilitativo comunque formatosi per effetto dell'inerzia dell'amministrazione può comunque formare oggetto, alle condizioni previste in via generale dall'ordinamento, di interventi di annullamento d’ufficio o di revoca. In siffatte ipotesi, infatti, l’amministrazione non perde i propri ordinari poteri di vigilanza e sanzionatori, il cui esercizio risponde a finalità di interesse generale e la cui connotazione presenta caratteri in parte diversi rispetto al potere esercitato al momento (per così dire ‘genetico’) della formazione del titolo per silentium. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 01909/2013REG.PROV.COLL.

N. 02292/2012 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2292 del 2012, proposto dalla società Agririna di Rinaldi Claudio e C. s.a.s., rappresentata e difesa dall'avvocato Antonino Lo Duca, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Giorgio Scalia, n. 6

contro

Roma Capitale (già Comune di Roma), rappresentata e difesa dall’avvocato Giorgio Pasquali, domiciliata in Roma, via del Tempio di Giove, n. 21

per la riforma della sentenza del t.a.r. del lazio – roma, sez. i-quater, n. 6711/2011



Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale (già Comune di Roma);

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 gennaio 2013 il Cons. Claudio Contessa e udito l’avvocato Lo Duca per la società appellante;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue



FATTO

Il signor Rinaldi riferisce di essere socio accomandatario e legale rappresentante della società Agririna s.a.s. (corrente in Roma ed operante nel settore agricolo su un vasto compendio di circa 143 ha in località Santa Maria di Galeria).

Egli riferisce, altresì, che con ricorso n. 8438/2006, proposto dinanzi al T.A.R. per il Lazio, ebbe ad impugnare la determinazione in data 2 febbraio 2006 con cui il dirigente comunale aveva ingiunto la demolizione di alcune opere ritenute abusive (si tratta, in particolare, di due fabbricati rurali insistenti sulle particelle 47 e 48 del complesso di proprietà della società appellante).

Con l’ulteriore ricorso n. 1833 del 2010, proposto dinanzi al medesimo Tribunale, la società Agririna ha impugnato la determinazione dirigenziale in data 28 ottobre 2009 con cui è stata respinta l’istanza proposta ai sensi dell’articolo 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n 380, al fine di ottenere il permesso di costruire in sanatoria in relazione alle opere di cui sopra.

Con la sentenza in epigrafe il Tribunale adito, previa riunione, ha dichiarato improcedibile il primo ricorso (ritenendo che la proposizione dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria avesse fatto venir meno l’interesse all’ulteriore coltivazione del ricorso proposto avverso l’ordine di demolizione) e ha respinto il secondo ricorso ritenendolo infondato.

La sentenza in questione è stata impugnata in appello dalla soc. Agririna la quale ne ha chiesto la riforma articolando i seguenti motivi:

1) Violazione, erronea e falsa applicazione dell’articolo 11, paragrafo 2 delle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Roma – Eccesso di potere per carenza di istruttoria e di motivazione – Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto.

Il Tribunale non avrebbe considerato che le opere per cui è causa (ristrutturazione edilizia e parziale trasformazione di due preesistenti tettoie) erano state correttamente eseguite sulla base della c.d. ‘super-DIA’ presentata nel settembre del 2004 ai sensi del comma 6 dell’articolo 1 della l. 21 dicembre 2001, n. 443.

Conseguentemente, l’ordine di demolizione impugnato in primo grado era erroneo per avere affermato che l’opera in questione fosse stata realizzata senza titolo alcuno (e, segnatamente, in assenza di concessione edilizia).

Inoltre, il Tribunale non avrebbe considerato che la nota comunale del 26 novembre 2004 (con la quale si era ordinata la sospensione dei lavori) risultava fondata su un presupposto erroneo: quello secondo cui la previsione di cui al paragrafo 2 dell’articolo 11 delle N.T.A. al P.R.G. non consentisse gli aumenti di cubatura realizzati dall’odierna appellante.

2) Violazione, erronea e falsa applicazione della normativa in materia di edilizia ed urbanistica, con particolare riferimento all’articolo 20 della l. 241 del 1990 (silenzio-assenso) e successive integrazioni e modificazioni, nonché violazione, erronea e falsa applicazione dell’art. 22, comma 3 e degli articoli 10, 16 e 17 del d.P.R. 380 del 2001 – Eccesso di potere per travisamento dei presupposti, carente e incongrua motivazione – Manifesta illogicità e contraddittorietà – Palese ingiustizia

Il Tribunale avrebbe erroneamente dichiarato l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso n. 8438/2006 proposto avverso l’ordine di demolizione del 2 febbraio 2006, per essere stata medio tempore presentata un’istanza di sanatoria ai sensi dell’articolo 36 del d.P.R. 380 del 2001.

In tal modo decidendo, i primi Giudici non avrebbero considerato:

- che, attraverso la presentazione dell’istanza di sanatoria, l’appellante non aveva mai inteso rinunziare agli effetti della c.d. ‘superDIA’ proposta nel settembre del 2004, ma che essa aveva agito in tal senso “soprattutto al fine di accelerare la definizione della pratica edilizia”, essendo stata “oggettivamente costretta” ad agire in tal modo “[per] superare un ostacolo creato dalla burocrazia e [per] l’incerta informazione degli uffici comunali”;

- che, nel merito, non solo non sussistevano gli ostacoli giuridici che avevano indotto il Comune dapprima ad ingiungere la sospensione dei lavori (26 novembre 2004) e poi a ordinare la demolizione di quanto realizzato (2 febbraio 2006), ma – per di più – doveva certamente ritenersi perfezionato il titolo abilitativo per silentium di cui al combinato disposto del comma 6 dell’articolo 1 della l. 443 del 2001 e dell’articolo 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398.

Pertanto, la decisione in epigrafe risulterebbe erronea e meritevole di riforma per avere dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse in relazione all’impugnativa proposta avverso l’ordine di demolizione, senza avvedersi del fatto che, nell’ambito della complessiva vicenda di causa, permaneva un indubbio interesse a coltivare tale impugnativa (peraltro, da ritenersi fondata per le ragioni sin qui esaminate).

3) Violazione, erronea e falsa applicazione, sotto altro profilo, del d.P.R. 380 del 2001, art. 22, 31 e 36, nonché della l. 43 del 2001, art. 1, comma 6 – Eccesso di potere per carenza di istruttoria e di motivazione – Travisamento dei presupposti di fatto e di diritto – Manifesta illogicità e contraddittorietà – Palese ingiustizia.

Con il motivo in questione, la società appellante chiede la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui ha respinto il ricorso n. 1833/2010, con il quale era stato impugnato il provvedimento comunale di reiezione dell’istanza di accertamento di conformità ex articolo 36 del d.P.R. 380 del 2001.

Secondo l’appellante, il T.A.R. non avrebbe esaminato in modo perspicuo le ragioni di impugnativa (che sono state di fatto riproposte in appello) e, in particolare, le quattro ragioni per cui il Comune aveva ritenuto di dichiarare l’immobile in questione come radicalmente abusivo.

In particolare non risulterebbe plausibile:

- né la ragione con cui il Comune ha affermato la mancata dimostrazione della legittimità delle preesistenze;

- né la ragione con cui si sono rilevate talune discordanze grafiche delle altezze relative alla sezione dei due manufatti;

- né, infine, la ragione fondata sulla mancata accettazione dell’incarico da parte del progettista, che – pure – era stato designato dalla società proprietaria.

Ancora, il T.A.R. non avrebbe rilevato la rilevanza ai fini della decisione del comportamento tenuto in sede procedimentale dal Comune (il quale aveva in modo contraddittorio e di fatto decettivo rappresentato – per un verso - alla società appellante la possibilità di presentare le proprie osservazioni sulla vicenda e – per altro verso – impedito alla stessa di fornire un effettivo apporto in sede procedimentale).

Si è costituito in giudizio il Comune di Roma, il quale ha concluso nel senso della reiezione dell’appello.

Alla pubblica udienza del giorno 11 gennaio 2013 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso proposto da una società attiva nel settore agricolo avverso la sentenza del TAR del Lazio con cui, previa riunione, è stato dichiarato improcedibile il ricorso n. 8438/2006 (proposto avverso l’ordine di demolizione pronunciato dal Comune di Roma in relazione ad alcuni manufatti ad uso agricolo) ed è stato respinto il ricorso n. 1833/2010 (proposto avverso il provvedimento con cui il Comune ha respinto l’istanza di accertamento di conformità presentata in relazione ai medesimi manufatti ai sensi dell’articolo 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380).

2. Il primo e il secondo motivo di ricorso, con i quali si è chiesta la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui ha dichiarato l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso proposto nel corso del 2006 avverso l’ordine comunale di demolizione, vanno accolti nei sensi di seguito indicati.

2.1. Al riguardo il Collegio ritiene che – come ha correttamente evidenziato l’appellante – non vi è alcuna disposizione di legge, tanto meno nel testo unico n. 380 del 2001, per la quale la presentazione di una domanda di sanatoria di abusi edilizi renderebbe irrilevanti i precedenti ordini di demolizione e gli altri atti sanzionatori.

Al riguardo, va osservato che alcune disposizioni del passato (riconducibili alla legge n. 47 del 1985 e aventi portata eccezionale) hanno previsto la sospensione dei giudizi pendenti e la mancata eseguibilità di atti di natura sanzionatoria, riguardanti i manufatti oggetto delle cd istanze di condono straordinario.

Quando invece vi è l’impugnazione di un atto avente natura sanzionatoria in materia edilizia e vi è la proposizione di una domanda di accertamento di conformità, in base alla legislazione vigente nessuna disposizione prevede che il giudice amministrativo debba sospendere il giudizio, ovvero che l’amministrazione o il giudice debbano rilevare la sopravvenuta carenza di effetti dell’atto sanzionatorio in precedenza emesso.

In materia, rileva il principio di tipicità del provvedimento amministrativo: la legge – così come determina gli effetti dell’atto – allo stesso modo può individuare le circostanze che incidano sui suoi effetti e sulla sua idoneità ad essere posto in esecuzione materiale.

Ciò comporta che, quando è emesso un ordine di demolizione o un altro atto di natura sanzionatoria, impugnato in sede giurisdizionale, e l’interessato proponga una istanza di sanatoria o di accertamento di conformità, l’atto impugnato in sede giurisdizionale (salvo l’esercizio del potere cautelare del giudice) continua a produrre effetti, sicché:

- da un lato, il ricorrente mantiene l’interesse alla definizione del giudizio proposto avverso l’atto sanzionatorio (che potrebbe, in ipotesi, anche risultare illegittimo);

- l’amministrazione può portare senz’altro ad esecuzione il proprio provvedimento (e mantiene la qualità di proprietaria, quando ciò sia previsto dalla legge nel caso di inutile decorso del termine di novanta giorni, successivo alla notifica dell’ordine di demolizione), anche se costituisce una regola di buona amministrazione (per evitare responsabilità ove sia demolito un manufatto invece assentibile ex post) che l’esecuzione materiale dell’atto sanzionatorio sia preceduta – con la conseguente necessaria sollecitudine - dalla reiezione dell’istanza di sanatoria o di accertamento di conformità.

In altri termini, salvo che la legge disponga altrimenti, la proposizione di una domanda di sanatoria o di accertamento di conformità non comporta la sopravvenuta inefficacia di un atto che l’ordinamento tipizza quanto ai suoi effetti (se del caso, anche di natura acquisitiva della proprietà), con la conseguenza che in sede giurisdizionale non si può constatare una sopravvenuta inefficacia, che non è disposta da alcuna legge.

Ciò non toglie che, a seconda dei casi, il giudice amministrativo possa coordinare l’esercizio dei propri poteri con quelli di cui è titolare l’amministrazione, disponendo incombenti istruttori o, anche, la sospensione del giudizio, in attesa che l’istanza sopravvenuta sia rapidamente definita: ciò che non è consentito – in sede amministrativa o giurisdizionale - è ravvisare una sopravvenuta mancanza di effetti di un atto che, invece, continua ad avere i propri effetti tipici stabiliti senza eccezioni dalle legge di settore.

Dunque, la deduzione dell’appellante va accolta, circa l’erronea statuizione di improcedibilità delle censure di primo grado.

2.2. Una volta riformata la sentenza in epigrafe per la parte in cui ha dichiarato l’improcedibilità del ricorso avverso l’ordine di demolizione del febbraio 2006, occorre domandarsi se siano fondati i motivi di impugnativa proposti in primo grado avverso tale provvedimento e nella presente sede di appello puntualmente riproposti.

2.2.1. Ebbene, pur dovendosi rilevare la non assoluta chiarezza dell’atto di appello (la cui articolazione impone al Giudicante un notevole sforzo ricostruttivo), ad avviso del Collegio il provvedimento di primo grado era effettivamente viziato dai lamentati profili di eccesso di potere e di difetto di istruttoria.

Al riguardo, in base a quanto esposto retro, sub 2.1., ordinari canoni di buona amministrazione avrebbero richiesto che il Comune esaminasse l’istanza di permesso di costruire in sanatoria (presentata dalla società Agririna nel maggio del 2005) prima ancora di adottare l’ordine di demolizione (che risale al 2 febbraio 2006).

Nella presente vicenda, infatti, non ci si trova al cospetto dell’ipotesi (per così dire, ‘tipica’) in cui l’istanza di permesso in sanatoria ai sensi dell’articolo 36 del d.P.R. 380 del 2001 era stata presentata solo a seguito dell’ordine di demolizione, ma di una particolare ipotesi (di cui il Comune avrebbe dovuto tenere adeguatamente conto) in cui l’istanza ex articolo 36 era stata proposta prima ancora dell’adozione dell’ordine di demolizione.

Oltretutto, in sede di presentazione della richiamata istanza del maggio 2005 la società appellante aveva allegato elementi fattuali (in specie, relativi alla corretta collocazione temporale del momento in cui i manufatti erano stati realizzati) di cui il Comune avrebbe dovuto tenere conto quanto meno al fine di ritenere inattendibile quanto dedotto dalla società richiedente.

Al contrario, il provvedimento comunale del 2 febbraio 2006 si limita ad ingiungere la demolizione (assumendo come elemento dirimente il mancato possesso della prescritta concessione edilizia) senza tenere in alcun modo in considerazione le deduzioni della società appellante la quale alcuni mesi prima aveva allegato la notevole risalenza nel tempo dei manufatti per cui è causa.

Pertanto, rinviando al prosieguo un esame di maggior dettaglio in ordine agli elementi in fatto i quali avrebbero dovuto essere tenuti in considerazione al fine di collocare adeguatamente nel tempo la realizzazione dei manufatti, si deve qui concludere per l’annullamento dell’ordine di demolizione del 2 febbraio 2006.

2.3. Fermo restando quanto appena osservato – e per mera completezza di esame – si osserva che non possono invece essere condivisi gli ulteriori profili di illegittimità lamentati in relazione all’ordinanza di demolizione del 2 febbraio 2006, per la parte in cui tale provvedimento rileva che la realizzazione degli interventi per cui è causa sia avvenuta in assenza del necessario titolo edilizio (che il Comune appellato identifica nel permesso di costruire di cui all’articolo 10 e seguenti del d.P.R. n. 380 del 2001).

 

Ed infatti, la particolare procedura di cui al comma 6 dell’articolo 1 della l. 443 del 2001 nel caso di specie seguita dalla società appellante (c.d. ‘superDIA’) non avrebbe potuto comunque consentire di realizzare gli interventi all’origine dei fatti di causa (si tratta della ristrutturazione di due pregresse tettoie agricole con parziale tamponatura dei lati dei manufatti ed oggettivo incremento di cubatura complessiva).

Infatti, nessuna delle previsioni di cui al richiamato comma 6 dell’articolo 1 consentiva l’assentibilità attraverso la procedura in questione del tipo di intervento nella specie realizzato: non la previsione di cui alla lettera a) (non trattandosi di interventi edilizi minori), non la previsione di cui alla lettera b), in tema di ristrutturazioni edilizie (ostandovi l’oggettivo dato dell’incremento del volume complessivo dei manufatti interessati); non la lettera c) (non trattandosi di opere specificamente disciplinate da piani attuativi urbanistici) e neppure la lettera d) (non trattandosi, neppure in questo caso, di interventi posti in essere in diretta esecuzione di idonei strumenti urbanistici).

Per le medesime ragioni, è irrilevante ai fini della decisione stabilire se, effettivamente, la previsione dell’articolo 11 delle N.T.A. del P.R.G. impedisse la realizzazione di opere tali da determinare un aumento della cubatura complessiva.

Il punto è che, nel caso di specie, l’aumento di cubatura (in qualunque modo previsto e realizzato) comportava comunque la non applicabilità al caso di specie della particolare procedura di cui all’articolo 1 della l. 443 del 2001, in tal modo palesando la legittimità dell’atto del Comune, il quale aveva ravvisato l’inesistenza di un idoneo titolo edilizio.

2.3.1. Pertanto, mentre deve essere confermato l’annullamento dell’ordine di demolizione per i profili di difetto di istruttoria e di motivazione richiamati sub 2.2.1 (rimettendo all’amministrazione ogni ulteriore determinazione al riguardo), non possono invece essere condivisi i motivi dinanzi esposti sub 2.3.

 

2.4. A conclusioni diverse non può giungersi neppure laddove si consideri (secondo quanto richiesto dall’appellante) che nel caso in esame era ormai decorso il termine di sessanta giorni previsto dal combinato disposto di cui all’articolo 1 della l. 443 del 2001, cit., e di cui all’articolo 4 del decreto-legge n. 398 del 1993 ai sensi della procedura c.d. di ‘superDIA’.

Al riguardo, il Collegio condivide (non rinvenendosi nel caso di specie ragioni per discostarsene) l’orientamento secondo cui, in caso di presentazione di dichiarazione di inizio di attività, l'inutile decorso del termine previsto per legge ai fini dell’esercizio del potere inibitorio all’effettuazione delle opere (nel caso di specie, si tratta del termine di cui ai commi 11 e 15 dell’articolo 4 del decreto-legge 398 del 1993) non comporta che l’attività del privato, ancorché del tutto difforme dal paradigma normativo, possa considerarsi legittimamente effettuata e, quindi possa andare esente dalle sanzioni previste dall'ordinamento per il caso di sua mancata rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle previsioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.

Ed infatti, in tali ipotesi il titolo abilitativo comunque formatosi per effetto dell'inerzia dell'amministrazione può comunque formare oggetto, alle condizioni previste in via generale dall'ordinamento, di interventi di annullamento d’ufficio o di revoca.

In siffatte ipotesi, infatti, l’amministrazione non perde i propri ordinari poteri di vigilanza e sanzionatori, il cui esercizio risponde a finalità di interesse generale e la cui connotazione presenta caratteri in parte diversi rispetto al potere esercitato al momento (per così dire ‘genetico’) della formazione del titolo per silentium (in tal senso: Cons. Stato, IV, 30 luglio 2012, n. 4318).

2.4.1. Anche sotto questo aspetto, quindi, mentre deve essere confermato l’annullamento dell’ordine di demolizione per i profili di difetto di istruttoria e di motivazione richiamati sub 2.2.1 (rimettendo all’amministrazione ogni ulteriore determinazione sul punto), devono essere respinti gli ulteriori profili di doglianza dinanzi richiamati sub 2.4.

3. Si può ora passare all’esame del terzo motivo di appello, con il quale si è chiesta la riforma della sentenza in epigrafe, per la parte in cui ha respinto il ricorso avverso il provvedimento comunale di reiezione dell’istanza di accertamento di conformità ex articolo 36 del d.P.R. 380 del 2001.

3.1. L’appello è meritevole di accoglimento nei termini che seguono.

3.2. Con il provvedimento impugnato in primo grado (atto in data 28 ottobre 2009), il Comune di Roma aveva respinto l’istanza ex articolo 36 con tre ordini di motivazioni che si ritiene di riportare de extenso:

1) in primo luogo, il Comune ha rilevato la “mancata dimostrazione della legittimità della preesistenza in quanto gli atti legali, atto notorio (prot. N. 29253/05) e atto d’obbligo (prot. N. 42965/07) contenuti nella consistenza documentale, successivamente esibita, sono contraddittori tra di loro, né la preesistenza trova riscontro nei quattro successivi nuovi tipi degli elaborati grafici presentati, in quanto nell’elaborato a corredo della domanda originale viene richiesta la sanatoria di due capannoni, risultanti dalla trasformazione di due tettoie, che a loro volta costituiscono lo stato ante operam di una successiva trasformazione contraddetta a sua volta dalla documentazione fotografica allegata al protocollo originario e dalla perizia giurata prot. N. 42965/07”;

2) in secondo luogo, vi sarebbero “discordanze grafiche delle altezze relative alle sezioni dei due manufatti”;

3) in terzo luogo, rileverebbe la “mancata accettazione dell’incarico da parte del progettista, pur designato dalla proprietà nella nota prot. n. 77566/08”.

3.2.1. Ebbene, quanto al primo rilievo, il Comune sembra desumere il dato della non preesistenza dei manufatti in questione da elementi – per così dire – estrinseci ed indiretti, sì da dedurne la non attendibilità di quanto dichiarato dai signori Marella e Bucci con l’atto notorio del 16 ottobre 2003.

In realtà, pur risultando del tutto irrilevanti i medesimi atti notori, dalla documentazione in atti emerge con ragionevole certezza il dato della preesistenza dei manufatti in questione all’istanza del 2004, laddove si consideri che:

- come dichiarato dal C.T.U. nominato dal Tribunale penale di Roma nell’ambito del procedimento penale n. 15850/07 (e con deduzione non contestata dal Comune appellato), “[già] sulle planimetrie in scala 1:10.000, redatte nel 1986, compaiono i due manufatti nella posizione attuale, per quanto è possibile misurare” e che “quanto rappresentato è compatibile, vista la scala di rappresentazione, con i manufatti come oggi rilevati”;

- sempre dalla relazione del C.T.U. (e con deduzioni parimenti non contestate), risulta che per i due immobili in questione (occupanti le particelle 47 e 48) era già stata rilasciata in data 19 marzo 2003 la concessione in sanatoria n. 295423 del 19 marzo 2003, prot. 39230. Anche sotto tale aspetto risulta smentita per tabulas l’affermazione (trasfusa dal Comune nel provvedimento impugnato) relativa alla mancata dimostrazione della preesistenza dei manufatti in questione al luglio del 2004 (data di presentazione della c.d. ‘superDIA’ finalizzata alla ristrutturazione dei manufatti in parola).

L’esistenza del procedimento penale in questione e l’attività svolta dal C.T.U. nominato dal Tribunale di Roma erano certamente noti al Comune di Roma il quale in data 14 novembre 2008 aveva interloquito con la cancelleria del Tribunale, notiziando in ordine agli esiti del procedimento di sanatoria ex art. 36, cit. ai fini dell’instaurato procedimento penale. Oltretutto, risulta dalla relazione peritale che il consulente tecnico nominato dal Tribunale ebbe ad effettuare, nella sua qualità, taluni accessi presso l’Ufficio Speciale Condono Edilizio al fine di acquisire la documentazione necessaria pertinente.

Ancora, dall’esame della documentazione in atti non emergono i profili di contraddittorietà rilevati dal Comune con il richiamato provvedimento, laddove si osservi che:

- la consistenza dei due manufatti in parola (quello ricadente sulla particella 47, destinato a ‘deposito attrezzi’ e quello ricadente sulla particella 48, destinato a ‘deposito di fieno’), desumibile dal progetto ‘post operam’ allegato all’istanza del luglio del 2004, è in effetti del tutto compatibile con lo stato di fatto desumibile dalle foto allegate all’istanza prot. 2005/29253 (allegato 5 della documentazione dell’appellante);

- ancora, la consistenza e le caratteristiche esteriori dei medesimi manufatti risultano chiaramente evincibili dalla documentazione fotografica allegata al progetto di risanamento del 2 luglio 2007, successiva all’incendio che aveva interessato il deposito di fieno nel luglio del 2005 (da tali fotografie, in particolare, emerge oltre ogni ragionevole dubbio l’identità dei due manufatti e i notevoli danni al tetto del deposito di fieno causati dall’incendio);

- ancora, la consistenza e le caratteristiche oggettive dei manufatti in questione (come realizzate a seguito della c.d. ‘superDIA’ del 2004 e parzialmente compromesse dall’incendio del 2005) risultano di fatto coincidenti con lo stato ‘ante operam’ delle proposte opere di risanamento presentato nel corso del 2007.

In definitiva, ad avviso del Collegio, l’esame della documentazione di causa non palesa quei gravi profili di incongruenza ed incertezza che hanno indotto il Comune a respingere l’istanza di accertamento di conformità ex articolo 36 del d.P.R. 380 del 2001.

Pertanto, sotto questo aspetto il provvedimento impugnato in primo grado deve essere annullato (fatti salvi gli ulteriori atti dell’amministrazione) per non aver indicato ragioni effettivamente ostative al rilascio del richiamato accertamento di conformità.

3.2.2. Per quanto concerne il secondo motivo sul quale il Comune ha fondato la determinazione reiettiva impugnata in primo grado (“discordanze grafiche delle altezze relative alle sezioni dei due manufatti”), si osserva che tale deduzione, oltre ad essere formulata in modo generico, non sembra comunque palesare (anche in base all’esame della documentazione in atti) profili di non assentibilità dell’istanza a suo tempo proposta.

Al riguardo, osserva il Collegio che:

- la rilevata discrasia risulta giustificabile se solo si tenga conto del fatto che, per quanto riguarda il deposito attrezzi esistente sulla particella 47, l’altezza complessiva di mt. 6,62 (indicata come ‘ante operam’ nell’ambito del progetto di risanamento del 2007) coincide esattamente con quella indicata come ‘post operam’ nell’ambito del medesimo intervento (il quale non ne avrebbe determinato l’innalzamento), mentre essa risulta di soli 12 centimetri inferiore rispetto a quella indicata come ‘post operam’ nell’ambito dell’istanza del 2004. Si osserva comunque al riguardo che la lieve discrasia in questione per un verso non può far dubitare dell’identità dell’immobile per cui è causa e, per altro verso, risulta comunque compatibile con le pertinenti previsioni urbanistiche (secondo le quali l’altezza massima delle costruzioni a destinazione agricola nell’area per cui è causa non può comunque superare i 7 metri);

- per quanto riguarda, poi, il deposito di fieno esistente sulla particella 48, l’altezza indicata come ‘post operam’ nell’ambito dell’istanza del 2004 coincide esattamente con quella indicata come ‘ante operam’ nell’ambito dell’istanza del 2007, mentre una volta completati i lavori di ‘risanamento’ ch avrebbero dovuto essere realizzato nel 2007 il manufatto sarebbe stato elevato sino a 7,94 mt. (si tratta, comunque, di un’altezza compatibile con la previsione dell’articolo 11, lettera b), terzo comma delle N.T.A. al P.R.G., secondo cui “nel caso di tettoie mobili o fisse destinate alla conservazione di paglia e fieno il limite massimo di altezza è elevato a mt. 10”).

3.2.3. Per quanto riguarda, infine, la terza delle ragioni sulle quali il Comune ha fondato la determinazione impugnata in primo grado (“mancata accettazione dell’incarico da parte del progettista, pur designato dalla proprietà nella nota prot. n. 77566/08”), dalla documentazione in atti emerge al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’architetto Di Giamberardino si fosse qualificato come tecnico incaricato in qualità di progettista e direttore dei lavori (si vadano, in tal senso – fra gli altri -: il progetto di risanamento del luglio 2007, la perizia giurata a firma del medesimo professionista del 5 luglio 2007 e le successive note e comunicazioni trasmesse dal richiamato professionista al Comune di Roma nel corso dell’iter istruttorio).

Anche sotto questo aspetto, quindi, la sentenza epigrafe deve essere riformata per non avere rilevato l’insufficienza delle ragioni poste dal Comune di Roma supporto della determinazione reiettiva impugnata in primo grado.

4. Per le ragioni sin qui esposte, in riforma della sentenza in epigrafe va respinto il ricorso n. 8438/2006 (proposto avverso l’ordine di demolizione pronunciato dal Comune di Roma in relazione ad alcuni manufatti ad uso agricolo) e va accolto il ricorso n. 1833/2010 (proposto avverso il provvedimento con cui il Comune ha respinto l’istanza di accertamento di conformità presentata in relazione ai medesimi manufatti ai sensi dell’articolo 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380).

Conseguentemente, va annullato il provvedimento in tale sede impugnato e fatti salvi gli ulteriori atti dell’amministrazione.

Il Collegio ritiene che sussistano giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese dei due gradi di lite fra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 2292 del 2012, in riforma della sentenza in epigrafe, accoglie – nei sensi di cui in motivazione - il ricorso di primo grado n. 8438 del 2006 e accoglie il ricorso di primo grado n. 1833 del 2010, con annullamento del diniego di accertamento di conformità e salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione.

Spese dei due gradi compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 gennaio 2013 con l'intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti, Presidente

Claudio Contessa, Consigliere, Estensore

Roberta Vigotti, Consigliere

Andrea Pannone, Consigliere

Silvia La Guardia, Consigliere

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 09/04/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)