Corte Costituzionale Ord. 248 del 24 giugno 2005
giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 3, della legge della Regione Lombardia 19 novembre 1999, n. 22 (Recupero di immobili e nuovi parcheggi: norme urbanistico-edilizie per agevolare l’utilizzazione degli incentivi fiscali in Lombardia), interpretato dall’articolo 3 della legge della Regione Lombardia 23 novembre 2001, n. 18, in relazione agli articoli 22, terzo e quarto comma e 44, comma 2-bis, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), promosso con ordinanza del 26 novembre 2003 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di Selva Lorenzo ed altro, iscritta al n. 470 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2004.
ORDINANZA N. 248
ANNO 2005
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Piero Alberto CAPOTOSTI Presidente
- Guido NEPPI MODONA Giudice
- Annibale MARINI “
- Franco BILE “
- Giovanni Maria FLICK “
- Francesco AMIRANTE “
- Ugo DE SIERVO “
- Romano VACCARELLA “
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Franco GALLO “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 3, della legge della Regione Lombardia 19 novembre 1999, n. 22 (Recupero di immobili e nuovi parcheggi: norme urbanistico-edilizie per agevolare l’utilizzazione degli incentivi fiscali in Lombardia), interpretato dall’articolo 3 della legge della Regione Lombardia 23 novembre 2001, n. 18, in relazione agli articoli 22, terzo e quarto comma e 44, comma 2-bis, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), promosso con ordinanza del 26 novembre 2003 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di Selva Lorenzo ed altro, iscritta al n. 470 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2004.
Visto l’atto di intervento della Regione Lombardia;
udito nella camera di consiglio del 20 aprile 2005 il Giudice relatore Ugo De Siervo.
Ritenuto che con ordinanza del 26 novembre 2003, la Corte di cassazione, sezione terza penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge della Regione Lombardia 19 novembre 1999, n. 22 (Recupero di immobili e nuovi parcheggi: norme urbanistico-edilizie per agevolare l’utilizzazione degli incentivi fiscali in Lombardia), “come modificato ed integrato dall’art. 3 della legge regionale 23 novembre 2001, n. 18, in relazione agli artt. 22, terzo e quarto comma e 44, comma 2-bis”, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), con riferimento agli artt. 3, 5, 25, 97 e 117 della Costituzione;
che tale disposizione è censurata «nella parte in cui applica la facoltà di denuncia di attività a tutti gli interventi edilizi di nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica anche se non disciplinati da piani attuativi comunque denominati, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, o da strumenti urbanistici generali, recanti precise disposizioni plano-volumetriche»;
che il rimettente premette di essere chiamato a decidere sul ricorso per saltum proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sondrio avverso la sentenza di primo grado emessa da quel tribunale con la quale due soggetti, imputati del reato di cui all’art. 20, lettera b), della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), erano stati prosciolti “perché il fatto non sussiste”. In particolare, la condotta contestata consisteva nell’aver realizzato, uno in qualità di committente e l’altro di direttore dei lavori, un capannone industriale prefabbricato, con opere murarie di fondazione e 4 pilastri alti m. 4,5 in cemento armato, senza concessione edilizia, ma con denuncia di inizio attività;
che, a giustificazione della pronuncia di assoluzione, il tribunale aveva affermato che l’art. 4, comma 3, della legge della Regione Lombardia 19 novembre 1999, n. 22, aveva esteso la DIA a tutti gli interventi edilizi, senza necessità della presenza di piani attuativi o di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche;
che il giudice a quo ripercorre l’evoluzione del quadro normativo che ha portato a riconoscere – a partire dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 (Norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), e successivamente con il decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398 (Disposizioni per l’accelerazione degli investimenti a sostegno dell’occupazione e per la semplificazione dei procedimenti in materia edilizia), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 493 – tra i titoli abilitativi a costruire, oltre alla concessione edilizia anche la denuncia di inizio attività, riservata inizialmente alla realizzazione di interventi edilizi minori e successivamente estesa dalla legge 21 dicembre 2001, n. 443 (Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive, c.d. Legge-obiettivo), in via alternativa, anche agli interventi assentibili con permesso di costruire, purché specificamente disciplinati da piani attuativi con precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, o da strumenti urbanistici generali, purché recanti analoghe previsioni di dettaglio;
che, la previsione della denuncia di attività quale strumento alternativo al permesso di costruire (c.d. “super-DIA”) sarebbe poi stata introdotta nel d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), ad opera del d.lgs. 27 dicembre 2002, n. 301 (Modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), con il quale il Governo ha esercitato la delega conferitagli per armonizzare il testo unico dell’edilizia con le modifiche introdotte dalla legge 21 dicembre 2001, n. 443, e dalla legge 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti);
che, inoltre, il legislatore avrebbe equiparato del tutto la disciplina sostanziale di questi interventi con quelli assoggettati a permesso di costruire, stabilendo per gli interventi edilizi maggiori, previsti in strumenti e piani attuativi e di dettaglio, l’applicazione delle sanzioni penali (art. 44, comma 2-bis) se eseguiti in assenza o in totale difformità dalla DIA alternativa, nonché delle sanzioni amministrative e del potere di annullamento, di sospensione dei lavori e di demolizione, e dell’accertamento di conformità;
che su tale quadro non avrebbe inciso l’art. 13, comma 7, della legge n. 166 del 2002, il quale fa salve le leggi regionali entrate in vigore anteriormente che fossero già conformi a quanto previsto dalle lettere a), b), c) e d) del comma 6, “anche disponendo eventuali categorie aggiuntive e differenti presupposti urbanistici”, dal momento che, ad avviso del rimettente, tali categorie aggiuntive e i differenti presupposti urbanistici dovevano pur sempre inquadrarsi nell’ambito di una pianificazione urbanistica di dettaglio;
che, il comma 8 dell’art. 13, della legge n. 166 del 2002, il quale consente alle Regioni a statuto ordinario di “ampliare o ridurre l’ambito applicativo di cui al periodo precedente” assumerebbe il significato di rimandare alla disciplina pianificatoria di dettaglio, sicché anche in questo caso i poteri delle Regioni sarebbero stati limitati;
che tale disposizione sarebbe stata recepita nel d.lgs. n. 301 del 2002, il quale manterrebbe ferma la necessità, per le ipotesi in cui si preveda la DIA alternativa al permesso di costruire, della esistenza di pianificazione urbanistica di dettaglio, la quale sarebbe «l’unica a giustificare detta estensione della DIA nell’ambito dei principi generali che regolano detto istituto in via normale ex lege n. 241 del 1990»;
che la possibilità per le Regioni di ampliare o ridurre le ipotesi della DIA prevista dal comma 4 dell’art. 22 del TUED, e l’estensione delle sanzioni penali operata dall’art. 44, comma 2-bis, agli interventi edilizi suscettibili di realizzazione mediante DIA ai sensi dell’art. 22, comma 3, starebbe a significare che solo tale tipologia di interventi potrebbe essere eseguita con la denuncia di attività;
che dalla normativa statale emergerebbe il principio fondamentale – già individuato da questa Corte con la sentenza n. 303 del 2003 – della necessaria compresenza di titoli abilitativi preventivi ed espressi (permesso di costruire) e taciti (DIA);
che da ciò deriverebbe l’obbligo per la legislazione regionale di adeguarsi al principio fondamentale, secondo cui la «DIA edilizia, alternativa al permesso di costruire, è consentita solo qualora sia prevista una normazione urbanistica ‘di dettaglio’», al cui interno rientrerebbero i diversi strumenti urbanistici regolati dalle Regioni;
che, pertanto, la disposizione regionale censurata, nella parte in cui rende tutte le opere edilizie, comprese le nuove costruzioni, realizzabili mediante DIA alternativa al permesso di costruire, pur in assenza di pianificazioni di dettaglio, contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in quanto determinerebbe la depenalizzazione degli interventi di nuova costruzione o ristrutturazione urbanistica mediante DIA anche in assenza di pianificazione di dettaglio, dal momento che ad essi non potrebbe riferirsi la previsione dell’art. 44, comma 2-bis, del TUED, che estende le sanzioni penali solo agli interventi previsti dall’art. 22, comma 3, oppure comporterebbe una non consentita estensione analogica della previsione dell’art. 44, comma 2-bis, ovvero renderebbe inutile l’inciso contenuto nel comma 4 dell’art. 22 (“Restano comunque ferme le sanzioni penali previste dall’articolo 44”);
che, peraltro, una generale liberalizzazione dei titoli abilitativi, in mancanza della individuazione di principî fondamentali, determinerebbe una irragionevole differenziazione dei regimi giuridici nelle varie Regioni e consentirebbe alla legislazione regionale di depenalizzare interventi che per la legge statale sono realizzabili solo con permesso di costruire;
che l’art. 4, comma 3, della legge della Regione Lombardia n. 22 del 1999 violerebbe, inoltre, il principio individuato da questa Corte – con la sentenza n. 303 del 2003 – della necessaria compresenza di titoli abilitativi espressi e taciti, dal momento che determinerebbe la sostanziale esclusione del titolo edilizio espresso, sia pure in via facoltativa;
che, ad avviso della Cassazione, la nuova disciplina statale, “in parte diversa e chiarificatrice” e dalla quale sarebbe possibile trarre i principî fondamentali sopra indicati, nonché desumere la natura procedurale della DIA alternativa, impedirebbe di dare, come in precedenti occasioni, una interpretazione adeguatrice della legge censurata;
che la disposizione censurata violerebbe, oltre agli artt. 25 e 117, anche l’art. 97 della Costituzione per inosservanza del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, dal momento che l’estensione indiscriminata della DIA anche ad interventi di maggior rilievo “in cui gli interessi pubblici primari sono prevalenti”, senza neppure il limite della preesistenza di una pianificazione di dettaglio, determinerebbe una “privatizzazione dell’istruttoria” con lesione della “razionalità procedimentale”;
che, infine, quanto alla rilevanza della questione, la Corte di cassazione osserva che al procedimento in corso non sarebbe applicabile la norma sul condono edilizio di cui all’art. 32, comma 25, del d.l. 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e che le questioni di legittimità prospettate influirebbero «in ogni caso, sul procedimento ‘de quo’, indipendentemente dall’applicazione della fondamentale pronuncia della Corte costituzionale n. 364 del 1988»;
che è intervenuta in giudizio la Regione Lombardia, la quale ha chiesto che venga dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione, ovvero la loro manifesta infondatezza;
che la difesa regionale eccepisce sotto vari profili l’inammissibilità delle censure, innanzitutto in quanto l’ordinanza di rimessione sarebbe caratterizzata da “un tortuoso, contraddittorio e perplesso percorso argomentativo” che solo nel dispositivo consentirebbe di comprendere i termini delle questioni sollevate;
che, inoltre, la Cassazione non avrebbe chiarito la sua lettura della norma censurata, cosicché sul punto vi sarebbe una totale incertezza che si tradurrebbe sia nel vizio di manifesta inammissibilità per erronea individuazione della norma oggetto, sia nella manifesta infondatezza della questione per erronea premessa interpretativa;
che, in ogni caso, il rimettente avrebbe trascurato di spiegare per quale ragione ritiene che l’espressione “strumentazione urbanistica comunale”, alla cui presenza è subordinata la realizzazione con DIA di nuove costruzioni, debba necessariamente escludere le prescrizioni urbanistiche dettagliate. Tale omissione si risolverebbe nella manifesta inammissibilità della questione per carenza assoluta di interpretazione sul significato della norma-oggetto, «o, quanto meno, la sua manifesta infondatezza per erronea premessa interpretativa»;
che ulteriore profilo di inammissibilità sarebbe costituito dal fatto che l’ordinanza nulla direbbe in ordine all’esistenza o meno, nel Comune ove è stato realizzato l’intervento oggetto del procedimento penale, di piani attuativi o di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche, di talché tale omissione determinerebbe il carattere del tutto ipotetico della questione;
che, ancora, la questione sarebbe inammissibile in quanto la Cassazione, al termine dell’ordinanza, ne afferma la rilevanza «a prescindere dalla fondamentale pronuncia n. 364 del 1988 della Corte costituzionale», senza esplicitare le ragioni che impedirebbero di applicare l’art. 5 cod.pen. in tema di scusabilità dell’errore;
che ulteriori profili di inammissibilità deriverebbero dal mancato tentativo di dare una interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, nonché dal carattere perplesso e contraddittorio della motivazione, in quanto, censurando la disposizione regionale in relazione all’art. 25 Cost., la Cassazione avrebbe fornito due alternative opzioni ermeneutiche senza abbracciarne chiaramente una: il giudice rimettente da un lato sembrerebbe accogliere un’interpretazione sistematica per cui l’art. 44, comma 1, lettera a), del TUED si estenderebbe alla c.d. “super-DIA”; dall’altro lato affermerebbe che la normativa regionale inciderebbe sul regime penale creando una minor tutela per gli interventi edilizi di maggior rilievo;
che, infine, ulteriore profilo di inammissibilità della questione, sarebbe costituito dal fatto che il rimettente chiederebbe alla Corte una pronuncia additiva non limitata agli interventi di nuova costruzione oggetto del giudizio a quo;
che, quanto al merito della questione, la Regione Lombardia afferma che, a differenza di quanto sostenuto dalla Cassazione, il vero principio fondamentale della legislazione urbanistica sarebbe quello secondo il quale «gli interventi di trasformazione urbanisticamente rilevanti debbono essere assoggettati a forme di controllo da parte dell’amministrazione», e che la Regione non potrebbe sopprimere tale controllo, ma ben potrebbe individuarne la tipologia in relazione alle varie fattispecie di interventi, individuando in sostanza le categorie di opere da sottoporre a DIA anche alternativa al permesso di costruire;
che, osserva ancora la Regione, questa stessa Corte avrebbe riconosciuto come l’attribuzione di un tale potere alle Regioni determini una maggiore flessibilità del principio della legislazione statale quanto alle categorie di opere cui la DIA può applicarsi;
che ciò peraltro troverebbe riconoscimento proprio nell’art. 22, comma 4, del TUED, il quale appunto stabilisce che le Regioni possano ampliare o ridurre l’ambito applicativo delle disposizioni dallo stesso dettate e nell’art. 13, commi 7 e 8, della legge n. 166 del 2002, che avrebbe fatto salve le leggi regionali previgenti anche se prevedano eventuali categorie aggiuntive e differenti presupposti;
che tale disposizione, benché non compresa nel testo unico, sarebbe comunque vigente ed avrebbe efficacia sanante nella denegata ipotesi che si volesse dubitare della conformità della disposizione della legge regionale lombarda alla legislazione statale in materia di DIA;
che, infine, l’art. 22, comma 4, del TUED farebbe espressamente salva la normativa penale in materia, in tal modo chiarendo che le leggi regionali che agiscono sui titoli abilitativi non potrebbero incidere sull’applicabilità delle norme penali;
che, in prossimità della camera di consiglio, la Regione Lombardia ha depositato una memoria nella quale ribadisce che la legge censurata, nel testo risultante a seguito dell’interpretazione autentica di cui alla legge regionale n. 18 del 2001, nel subordinare la facoltà di realizzare con DIA tutti gli interventi di cui alla delibera della Giunta regionale n. VI/38573 alla conformità dei medesimi alla “vigente strumentazione urbanistica”, sarebbe rispettoso dei principî posti dalla legge statale;
che, infatti, la legge regionale della Lombardia, emanata prima della data di entrata in vigore della legge n. 443 del 2001, sarebbe stata già conforme a quanto previsto dal comma 6, lettere a), b), c) e d) dell’art. 1 della medesima legge, integrando altresì una di quelle leggi regionali che l’art. 13 della legge n. 166 del 2002 avrebbe fatto salve;
che, peraltro, la locuzione “vigente strumentazione urbanistica comunale” contenuta nella norma censurata, sarebbe sinonimo di quei piani attuativi contenenti precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, di cui all’art. 1, comma 6, della legge n. 443 del 2001, di talché la questione rimessa dalla Cassazione sarebbe manifestamente infondata;
che infondata sarebbe anche la censura concernente l’interferenza della disciplina regionale con la materia penale, dal momento che dal combinato disposto degli artt. 22 e 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 emergerebbe che agli interventi realizzabili con DIA facoltativa ai sensi dell’art. 22, comma 3, sarebbero applicabili le sanzioni penali previste dall’art. 44, mentre per le altre ipotesi di DIA previste dall’art. 22 (c.d. “DIA semplice”) si applicherebbero solo le sanzioni amministrative di cui all’art. 37 del TUED;
che il citato art. 22, inoltre, consentendo alle Regioni di ampliare l’ambito applicativo della DIA facoltativa, stabilisce che restano comunque ferme le sanzioni penali previste dall’art. 44, di talché alla denuncia di inizio attività prevista dalla legge regionale censurata si ricollegherebbe ex se la sanzione penale e renderebbe pertanto infondati i dubbi di costituzionalità prospettati dal rimettente;
che, in una successiva memoria, la Regione Lombardia dà atto che il 14 marzo 2005 è stata pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione la legge 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), che ha disciplinato gli interventi edilizi sottoposti a denuncia inizio attività, nonché il relativo trattamento sanzionatorio, disponendo altresì l’abrogazione di entrambe le leggi oggetto delle censure mosse dalla Corte di cassazione, e cioè sia della legge regionale n. 22 del 1999, sia della legge regionale n. 18 del 2001;
che, pertanto, la resistente ha chiesto alla Corte di valutare l’influenza dello ius superveniens sulle questioni sollevate dal giudice rimettente.
Considerato che la Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge della Regione Lombardia 19 novembre 1999, n. 22 (Recupero di immobili e nuovi parcheggi: norme urbanistico-edilizie per agevolare l’utilizzazione degli incentivi fiscali in Lombardia), “come modificato ed integrato dall’art. 3 della legge regionale 23 novembre 2001, n. 18, in relazione agli artt. 22, terzo e quarto comma e 44, comma 2-bis”, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), con riferimento agli artt. 3, 5, 25, 97 e 117 della Costituzione;
che, in particolare, il giudice rimettente ritiene che tale previsione contrasti con il principio fondamentale che emergerebbe dalla legislazione statale in materia di governo del territorio, secondo il quale la denuncia di inizio attività edilizia, alternativa al permesso di costruire, sarebbe consentita solo qualora sia prevista una normazione urbanistica di dettaglio, nonché con il principio individuato dalla Corte con la sentenza n. 303 del 2003 della necessaria compresenza di titoli abilitativi espressi (permesso di costruire) e taciti (DIA);
che, secondo il giudice a quo, la disposizione regionale finirebbe per incidere sul sistema sanzionatorio penale, in quanto sottrarrebbe taluni interventi al regime penale in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, ed inoltre contrasterebbe con il principio di legalità e tassatività dei precetti penali, dal momento che, ampliando l’ambito degli interventi soggetti a DIA, farebbe sì che questi siano sforniti di sanzione penale ovvero siano comunque puniti, “sicché sarebbe inutile la previsione di alternatività” dei titoli abilitativi, la quale rileverebbe solo sotto il profilo amministrativo e civile;
che, successivamente all’ordinanza di rimessione, la Regione Lombardia ha emanato la legge 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), la quale contiene una nuova disciplina organica del governo del territorio;
che, in particolare, tale legge, oltre a regolare ex novo la pianificazione territoriale (si veda in particolare la Parte I), nell’ambito della gestione del territorio (Parte II), disciplina i titoli abilitativi, individuati nel permesso di costruire (artt. 33 e ss.) e nella denuncia di inizio attività (artt. 41 e 42);
che, a tale ultimo riguardo, l’art. 41, nell’individuare gli interventi realizzabili mediante denuncia di inizio attività, configura tale strumento come del tutto alternativo al permesso di costruire e richiede, quale unico requisito per la sua utilizzazione, che l’intervento da realizzare sia conforme agli strumenti di pianificazione vigenti ed adottati, nonché ai regolamenti edilizi vigenti (art. 42, comma 1);
che, inoltre, l’art. 49 della legge regionale, in tema di sanzioni, estende anche agli interventi realizzati con DIA in mancanza dei requisiti richiesti, ovvero “in contrasto con la normativa di legge o con le previsioni degli strumenti di pianificazione vigenti o adottati” le sanzioni previste dalla normativa statale per gli interventi eseguiti in assenza ovvero in difformità dal titolo abilitativo;
che, ancora, l’art. 103 dispone che dalla entrata in vigore della legge cessa di avere diretta applicazione in ambito regionale la disciplina di dettaglio prevista dal d.P.R. n. 380 del 2001 ed in particolare l’art. 22 (che disciplina la DIA);
che, infine, l’art. 104 abroga espressamente la legge regionale n. 22 del 1999 e la legge regionale n. 18 del 2001, le cui disposizioni sono oggetto delle censure della Cassazione;
che, pertanto, la normativa regionale sopravvenuta incide direttamente sulle disposizioni censurate, abrogandole e dettando una nuova disciplina della DIA, nonché delle sanzioni anche penali;
che, sempre successivamente all’ordinanza di rimessione, il d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), all’art. 3, ha sostituito il testo dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, modificando la disciplina della dichiarazione di inizio attività ai cui principî si richiamava l’art. 4, comma 1, della legge regionale n. 22 del 1999;
che il sopravvenuto mutamento del quadro normativo incide proprio sui profili di legittimità costituzionale prospettati dalla Cassazione sulle disposizioni regionali censurate ed impone, pertanto, in conformità con il consolidato indirizzo della Corte, la restituzione degli atti al rimettente affinché valuti la portata della nuova disciplina regionale nel giudizio a quo e la conseguente perdurante rilevanza delle questioni sollevate.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
ordina la restituzione degli atti alla Corte di cassazione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2005
F.to:
Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Giuseppe Di Paola, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2005.