Cass.Civ. SEz. II n. 20707 del 4 settembre 2017 (Ud 23 mag 2017)
Pres.Matera Est.Giusti Ric.Messia
Urbanistica.Contratto preliminare ed immobile abusivo
La sanzione della nullità prevista dall'art. 40 della legge n. 47 del 1985, e succ. mod., con riferimento a vicende negoziali relative ad immobili privi della necessaria concessione edificatoria, trova applicazione nei soli contratti con effetti traslativi e non anche con riguardo ai contratti con efficacia obbligatoria, quale il preliminare di vendita, ben potendo essere resa la dichiarazione o prodotta la documentazione relative alla regolarità dell'edificazione, all'eventuale concessione in sanatoria o alla domanda di oblazione e ai relativi primi due versamenti, all'atto della stipulazione del definitivo contratto traslativo, ovvero in corso di giudizio e prima della pronunzia della sentenza ex art. 2932 cod. civ., che tiene luogo di tale contratto
FATTI DI CAUSA
1. - Con citazione in data 2 maggio 1989 Franca Messia premetteva che con preliminare del 26 agosto 1988 aveva promesso di acquistare da Donato Culmine e da Palma Rosa Minardi un immobile ad uso abitativo in agro di Martina Franca per il prezzo di lire 107.750.000, versando quale acconto lire 30.000.000; che le parti promittenti venditrici si erano accollate espressamente tutte le spese inerenti la domanda di sanatoria del fabbricato, accertandosi successivamente da essa deducente che tale istanza concerneva solo una parte dell'immobile ed era stata presentata tardivamente; che essa procedeva poi ad una lunga serie di opere di miglioria analiticamente elencate.
Tanto premesso - e reputando nullo il preliminare per illiceità dell'oggetto in relazione alla parte abusiva dell'immobile (un vano destinato a camera da letto e una veranda) - conveniva il Culmine e la Minardi dinanzi al Tribunale di Taranto chiedendo dichiararsi la nullità del contratto e, subordinatamente, la risoluzione dello stesso, con condanna dei convenuti alla restituzione della somma di lire 30.000.000 ed al risarcimento del danno in eguale misura.
Costituendosi in giudizio, Donato Culmine evidenziava che l'attrice era consapevole della parziale abusività dell'immobile de quo e del mancato esaurimento della pratica di condono e che aveva ella eseguito sul bene, senza autorizzazione dei promittenti venditori, opere abusive determinanti il sequestro e il procedimento penale, peraltro omettendo di pagare la terza rata del prezzo.
Chiedeva pertanto, in via principale, dichiararsi risolto il contratto preliminare per colpa dell'attrice, con condanna al risarcimento dei danni; in via subordinata, in caso di accoglimento della domanda della Messia, la condanna della medesima al ripristino dello stato dei luoghi e al rilascio dell'immobile, nonché al pagamento di indennizzo per mancato godimento dello stesso ed al risarcimento del danno per il processo penale.
Palma Rosa Minardi si riportava sostanzialmente a quanto dedotto dal coniuge e concludeva analogamente. Autorizzato il sequestro giudiziario dell'immobile, nonché espletate prova testimoniale e c.t.u., il Tribunale di Taranto, con sentenza in data 28 maggio 2003, escludeva la nullità del preliminare; riteneva inoltre sussistente l'inadempimento dell'attrice per il mancato pagamento della terza rata di prezzo e pertanto, convalidando la misura cautelare, dichiarava la risoluzione del contratto preliminare de quo; ordinava alla Messia di rilasciare l'immobile previa sua rimessione in pristino e di rifondere i danni ai convenuti, condannati a loro volta alla restituzione della somma di lire 30.000.000 (pari a euro 15.493).
2. - Franca Messia proponeva appello, mentre Donato Culmine chiedeva il rigetto del gravame. Nella contumacia della Minardi, la Corte di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con sentenza del 7 giugno 2005, dichiarava l'inammissibilità del gravame per mancata instaurazione del contraddittorio nei confronti della medesima Minardi.
3. - La Corte di cassazione, con sentenza 12 maggio 2011, n. 10464, cassava la sentenza della Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Lecce, disponendo il rinvio della causa al medesimo giudice, in diversa composizione.
4. - Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 22 ottobre 2012, la sezione distaccata di Taranto della Corte d'appello di Lecce ha rigettato l'appello proposto dalla Messia.
4.1. - Attesa l'inapplicabilità della legge n. 47 del 1985, considerato che il preliminare del 26 agosto 1988 ha solo efficacia obbligatoria inter partes e non reale, la Corte distrettuale ha rilevato che la nullità della pattuizione preliminare di compravendita dell'immobile compromesso, in ragione della parziale abusività dello stesso, non può essere fatta valere dalla Messia in applicazione dell'art. 15 della legge n. 10 del 1977, risultando d'altra parte che la medesima era perfettamente a conoscenza della parziale irregolarità amministrativa dell'immobile. La Corte territoriale ha poi escluso che la Messia abbia fornito sufficiente dimostrazione che la prospettata tardività nella presentazione da parte del Culmine della domanda di sanatoria avrebbe con certezza impedito, con totale assolutezza, qualsivoglia stipula del contratto definitivo di compravendita dell'immobile. La Corte di Taranto ha quindi osservato che l'inadempimento della Messia nella corresponsione della somma pattuita quale terza rata di prezzo non è scriminata dal legittimo rifiuto di adempiere ex art. 1460 cod. civ.
Nell'escludere la fondatezza della censura avverso il rigetto, da parte del Tribunale, dell'istanza di "risarcimento" concernente le opere realizzate dalla promissaria acquirente sull'immobile, la Corte d'appello ha rilevato: che gli appellati hanno legittimamente richiesto la riduzione in pristino del proprio immobile; che la normativa di cui all'art. 1150 cod. civ. non è applicabile, atteso che la Messia è mera detentrice qualificato dell'immobile; che non sussisteva, comunque, buona fede della stessa Messia, avendo ella proseguito nella esecuzione delle opere pur successivamente alla invocata nullità o risoluzione del preliminare de quo.
5. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello la Messia ha proposto ricorso, con atto notificato il 6 dicembre 2013, sulla base di due motivi.
Il Culmine ha resistito con controricorso, mentre l'altra intimata non ha svolto attività difensiva in questa sede.
La ricorrente ha depositato una memoria illustrativa in prossimità dell'udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. - Con il primo motivo (violazione dell'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., in relazione all'art. 40, secondo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, agli artt. 1362 e ss. cod. civ., all'art. 1418 cod. civ., agli artt. 1453, 1455 e 1460 cod. civ., nonché in relazione all'art. 116 cod. proc. civ.; violazione dell'art. 360, n. 5, cod. proc. civ. per omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e particolarmente per mancato apprezzamento della documentazione prodotta e dell'intero compendio istruttorio acquisito) la ricorrente sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d'appello, la Messia era soltanto a conoscenza dell'esistenza di una generica pratica di condono del fabbricato promesso in vendita, pendente dinanzi al Comune di Martina Franca, mentre non era assolutamente a conoscenza dell'irregolarità urbanistica di tale pratica e, particolarmente, della tardiva presentazione della stessa.
La Corte avrebbe quindi difettato nella interpretazione, non solo del contenuto del preliminare e nell'apprezzamento della documentazione, prodotta agli atti, ma anche e soprattutto nella valutazione delle testimonianze rese dai testi escussi, non confrontandole con la documentazione stessa, ai fini di riscontro, apprezzandole solo parzialmente.
La ricorrente osserva che questi elementi di censura avrebbero dovuto condurre la Corte territoriale a dichiarare la risoluzione del contratto preliminare, ritenendo importante l'inadempimento dei promittenti venditori, che avevano sottaciuto che una parte del fabbricato, abusivo, non era sanabile al momento della stipula dello stesso, in tal modo dovendo essere interpretata "l'omessa indicazione che il condono era stato presentato oltre i termini previsto per legge".
La ricorrente contesta che vi sia la possibilità di stipulare il contratto definitivo di compravendita in presenza di una domanda di condono edilizio ai sensi della legge n. 47 del 1985, tardivamente presentata, avendo il notaio il compito di verificare se la domanda di sanatoria ex art. 31 della legge n. 47 del 1985, da allegare all'atto, sia conforme a legge, sotto il duplice aspetto della tempestiva presentazione e della congruità delle due rate versate dal richiedente.
Inoltre la domanda di condono non poteva essere accolta, perché erano condonabili solo le opere edilizie erette sino a tutto il 10ottobre 1983, in assenza di concessione edilizia, laddove nella specie risulta dagli atti che al Culmine era stata contestata l'esecuzione dell'opera abusiva, consistita in una veranda delle dimensioni di m. 9 x 3,70.
Deduce la ricorrente che la tardiva presentazione e la falsa dichiarazione dei tempi di esecuzione della parte abusiva rendevano impossibile l'accoglimento della richiesta sanatoria da parte del promittente venditore, tant'è vero che "la sanatoria per l'immobile in questione è stata ottenuta dai coniugi Culmine e Minardi solo nel 2000, cioè a distanza di oltre dodici anni, vale a dire con un ritardo del tutto irragionevole". La ricorrente ritiene non condivisibile la parte della motivazione della sentenza che, confermando la decisione del giudice di primo grado, ha ritenuto colpevole il comportamento della Messia per il mancato pagamento della rata di prezzo, scadente il 30 marzo 1989, in quanto i giudici di merito non avrebbero saputo ben valutare l'importanza dell'inadempimento dei promittenti venditori e, particolarmente, non avrebbero applicato correttamente l'eccezione di inadempimento sollevata dalla Messia, "la quale, una volta verificato che la parte abusiva non era condonabile, si è ben guardata dal corri- spondere ulteriori somme".
A fronte di una impossibilità da parte dei coniugi Culmine-Minardi di trasferire l'immobile compromesso alla Messia, l'inadempimento non potrebbe ritenersi di scarsa importanza, in quanto l'obbligazione principale del venditore è proprio quella di trasferire l'immobile all'acquirente.
1.1. - Il motivo è infondato.
1.2. - Non è configurabile la dedotta nullità del preliminare per abusività dell'immobile. Infatti, al contratto preliminare di compravendita di immobili stipulato dopo l'entrata in vigore della legge n. 47 del 1985 non è applicabile la sanzione della nullità, prevista dall'art. 15 della legge n. 10 del 1977, in relazione agli atti giuridici aventi ad oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione, essendo stata detta disposizione interamente sostituita da quelle di cui al capo primo della citata legge n. 47 (Cass., Sez. II, 26 aprile 2017, n. 10297, che dà continuità a Cass., Sez. II, 21 agosto 2012, n. 14579).
D'altra parte, per costante giurisprudenza, la sanzione della nullità prevista dall'art. 40 della legge n. 47 del 1985, e succ. mod., con riferimento a vicende negoziali relative ad immobili privi della necessaria concessione edificatoria, trova applicazione nei soli contratti con effetti traslativi e non anche con riguardo ai contratti con efficacia obbligatoria, quale il preliminare di vendita, ben potendo essere resa la dichiarazione o prodotta la documentazione relative alla regolarità dell'edificazione, all'eventuale concessione in sanatoria o alla domanda di oblazione e ai relativi primi due versamenti, all'atto della stipulazione del definitivo contratto traslativo, ovvero in corso di giudizio e prima della pronunzia della sentenza ex art. 2932 cod. civ., che tiene luogo di tale contratto (Cass., Sez. II, 28 maggio 2010, n. 13117; Cass., Sez. II, 6 ottobre 2010, n. 20760; Cass., Sez. II, 9 maggio 2016, n. 9318).
1.3. - Tanto premesso, la Corte d'appello - nel confermare la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato la risoluzione del preliminare per colpa della promissaria acquirente - ha escluso la legittimità del rifiuto della promissaria di pagare la terza rata di prezzo da parte della Messia.
A tal fine la Corte d'appello ha fatto leva, per un verso, sul fatto che la stessa Messia era a conoscenza, al momento della stipulazione del preliminare, della parziale abusività dell'immobile promesso in vendita e del tenore della domanda di condono che era stata presentata dai promittenti venditori: ciò che la Corte territoriale ha tratto "in modo inequivoco" sia dal contenuto dell'ultima parte del contratto - in cui è stato pattuito l'obbligo per la parte venditrice di far fronte a "tutte le spese inerenti e conseguenti la domanda di sanatoria relativa al fabbricato alienato" -, sia dal contenuto della deposizione del teste Giuseppe Leserri, il quale ha affermato l'avvenuta consegna da parte del Culmine al marito della Messia, "che conduceva le trattative", di fotocopia "della domanda di condono edilizio e dei documenti allegati".
La Corte di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha altresì sottolineato che la Messia non aveva fornito sufficiente dimostrazione che la prospettata tardività nella presentazione da parte del Culmine della domanda di sanatoria avrebbe con certezza impedito, in totale assolutezza, qualsivoglia stipula del contratto definitivo di compravendita dell'immobile, e ciò dopo avere dato atto che il Culmine medesimo ebbe a presentare alla P.A. tale istanza nella data del 7 aprile 1989 (recte, del 7 aprile 1988) in relazione a lavori ultimati entro la data del 1983. In questo contesto, la Corte distrettuale, adeguatamente scrutinando le risultanze processuali, ha correttamente affermato che non poteva darsi inadempimento dei promittenti venditori: sia perché della - pervero soltanto parziale - abusività dell'immobile la promissaria acquirente era perfettamente a conoscenza sin dal momento della stipula del preliminare, sia perché detta situazione edilizia non precludeva la possibilità di rogare l'atto definitivo, essendosi di fronte, sotto il profilo della tipologia dell'abuso, ad un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità (cfr. Cass., Sez. II, 18 settembre 2009, n. 20258).
D'altra parte, la Corte territoriale ha considerato che il Tribunale aveva valutato in ogni caso il comportamento colpevole prevalente della promissaria acquirente: non solo in relazione alla mancata corresponsione della somma pattuita quale terza rata del prezzo dell'immobile (non giustificato, come visto, da un legittimo rifiuto ad adempiere), ma anche in riferimento al fatto che costei, avuta la consegna anticipata dell'immobile, vi ha eseguito "ben numerose opere di ristrutturazione ... non autorizzate dalla P.A. né - comunque - consentite dagli appellati", il che condusse "a sequestro penale dell'immobile".
La complessiva statuizione della Corte d'appello sfugge, pertanto, alle censure della ricorrente: le quali - anche là dove deducono una violazione e falsa applicazione di plurime norme di legge (dalla disciplina del condono edilizio alle norme sull'interpretazione del contratto, alla risoluzione del contratto per inadempimento, all'importanza dell'inadempimento, all'eccezione d'inadempimento e alla valutazione delle prove) - finiscono, in realtà, con il sollecitare questa Corte ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l'attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza processuale, quanto ancora i motivati apprezzamenti espressi dal giudice di appello.
2. - Con il secondo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 1453, primo comma, cod. civ.; erroneità ed insufficienza della motivazione) la ricorrente deduce che "all'accoglimento del primo motivo deve seguire la domanda di risarcimento dei danni, avanzata dalla Messia sin dall'atto di citazione introduttivo del giudizio".
La ricorrente precisa di non avere chiesto la restituzione o il rimborso degli esborsi effettuati per rendere abitabile l'immobile, ma il risarcimento dei danni, quale conseguenza dell'inadempimento dei promittenti venditori. Le somme occorse e sostenute dalla Messia andrebbero riconosciute "a titolo risarcitorio o quantomeno a titolo di ingiustificato arricchimento, nella misura determinata dal c.t.u. nel corso del presente giudizio".
2.1. - Il motivo è infondato e, in parte, inammissibile. Esso per un verso è privo di autonomia rispetto al primo motivo, nel senso che il titolo a pretendere il risarcimento del danno viene fatto derivare dall'inadempimento dei promittenti venditori, che invece è stato escluso con il rigetto del precedente motivo.
Per altro verso, la richiesta di rimborso delle spese sostenute viene avanzata prospettando un titolo - l'ingiustificato arricchimento - che, dal testo della sentenza impugnata, non risulta essere stato dedotto nel precedente grado di merito.
A ciò aggiungasi che l'ingiustizia del danno subito viene ricollegata alla circostanza - rivelatasi infondata alla luce del rigetto del primo motivo - che alla Messia "non può addebitarsi alcun inadempimento per il mancato perfezionamento del preliminare".
3. - Il ricorso è rigettato. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
4. - Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 RAI (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1- quater all'art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dal controricorrente, che liquida in complessivi euro 3.200, di cui euro 3.000 per compensi, oltre alle spese generali nella misura del 15% e agli accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, il 23 maggio 2017.