Tribunale di Tivoli sent.458 del 7 novembre 2006
Est. Bucca Imp.Ciucci
Urbanistica. Edificazione di fabbricato in posizione differente rispetto a quella prevista nel progetto

MOTIVAZIONE
L’impianto accusatorio, sottoposto alla verifica dibattimentale, si è rivelato fondato, sia pure nei limiti di cui oltre.
E’ bene ripercorrere la tappe salienti della vicenda che oggi occupa.
Il 29 novembre 2002 con concessione edilizia n 5028 il Comune di Palombara Sabina autorizzò Ciucci Marisa ad edificare sul fondo sito in Palombara Sabina, loc. Castiglione, distinto in catasto al fg. 32 p.lla 290, ricadente in area tutelata dal vincolo paesaggistico ambientale e dal vincolo idrogeologico nonché soggetta alla disciplina antisismica, un edificio da adibire ad abitazione.
Con atto pubblico stipulato il 12 aprile 2003 Ciucci Marisa donò ai figli Gomelino Maurizio e Gomelino Graziella la “porzione immobiliare sita in Comune di Palombara Sabina, località Castiglione” censita nel NCT al fg. 32 p.lla 290.
Il 10 luglio 2003 il Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune di Palombara Sabina volturò la concessione edilizia 5028 a favore dei germani Maurizio e Graziella Gomelino.
Il 14 dicembre 2003 Gomelino Maurizio e Gomelino Graziella presentarono al Comune di Palombara Sabina una denunzia di inizio attività “per le varianti non essenziali apportate e da apportare” al fabbricato in corso di edificazione sulla p.lla 290. Dalla relazione asseverata allegata alla denuncia si evince che le difformità oggetto della comunicazione riguardavano, fra l’altro, “ e) la realizzazione di un intercapedine nella parte retrostante dell’edificio, resasi necessaria in corso d’opera a causa di infiltrazioni rilevante sul fronte dello sbancamento…; f) la traslazione di ml. 4,00 della sagoma a terra del fabbricato;”.
Il 7 gennaio 2004 il GIP dispose il sequestro preventivo del “fabbricato in corso di realizzazione in Palombara Sabina, loc. Castiglione, f. 32 part. 290”.
Il 9 settembre 2004 il Capo Area Tecnica del Comune di Palombara, arch. Pasqui Egidio, rilasciò il nulla osta paesaggistico in relazione alle varianti dedotte nella dia di cui innanzi. Il 15 settembre 2004 pervenne alla Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio e per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico per il Lazio il nulla osta emesso dall’ente territoriale e la documentazione ad esso relativa. Il successivo 16 novembre la predetta Soprintendenza annullò il parere favorevole rilasciato dall’ente territoriale. Il 6 giugno 2005 il TAR Lazio, accogliendo il ricorso proposto dai germani Gomelino annullò il decreto della Soprintendenza ritenendolo tardivo in quanto adottato dopo che era giunto a compimento il termine di cui al c. III dell’art. 159 d.lgs. 42/04 ( cfr. provvedimenti e sentenza TAR Lazio inserite nella produzione documentale dell.avv.to Venturiello).
Tanto illustrato va subito chiarito che i rilievi mossi dall’ufficio del PM all’attività edificatoria interrotta dal provvedimento di sequestro afferiscono al differente posizionamento e alla maggior consistenza rispetto all’assentito del manufatto ma prima ancora alla stessa legittimità del titolo abilitativo. Assume l’accusa che l’edificio in costruzione sviluppa “una volumetria in eccesso di mc. 300,00 rispetto alla superficie fondiaria e con uno sbancamento del piano interrato con cubatura pari a mc. 285,6”. La censura relativa al diverso posizionamento del fabbricato è invece incentrata sulla distanza del fabbricato rispetto al “confine della particella 291”. L’ipotesi accusatoria prospetta infatti che il fabbricato è stato edificato in una posizione differente rispetto a quella prevista nel progetto assentito ed ancora che per effetto dell’intervenuta traslazione il manufatto è ora situato ad una distanza minima dalla confinante p.lla 291 del fg. 32 di quattro metri, distanza inferiore a quella prescritta nelle NTA dell’ente territoriale.
Posto che la prospettazione accusatoria fa sostanzialmente proprie le conclusioni cui è pervenuto il perito nominato dal Gip con provvedimento del 22 ottobre 2003, è opportuno riprodurre i passaggi salienti della relazione redatta dall’ing. Alberto Giorgi. Recita l’elaborato : “L’immobile in costruzione presenta misure di pianta conformi a quelle del progetto approvato con la riduzione dello spessore del corpo principale di cm. 35 rispetto al progetto. Per quanto riguarda l’altezza si fa presente che i solai intermedi presentano uno spessore superiore a quello di progetto, per cui la linea di colmo del tetto è a quota superiore di cm. 30 rispetto la quota prevista nel progetto approvato. Relativamente a solo torrino delle scale (…) l’altezza della linea di colmo e inferiore di cm. 30 rispetto al progetto. Tutto il fabbricato risulta spostato di m. 5,00 verso il confine fra la particella 290 e 291. …La distanza dal confine con la particella 291, di proprietà della stessa ditta originaria Marisa Ciucci è ridotta da m. 9 a m. 4 (per la traslazione di cui sopra) e dall’attuale confine in paletti e rete che non coincide con il limite di particella è ridotto a m. 2,50. Il piano interrato (zona garage) è sbancato nella zona a monte m. 3 oltre il filo dei pilastri retrostanti realizzando una cubatura completamente interrata (urbanisticamente pari a zero) di mc. 285,6 di più. In definitiva prendendo come riferimento la linea del terreno post-operam ( ciò a sistemazione avvenuta) per il calcolo del volume realizzato si può stabilire: Pianta mt (28,0 X 6,15)-(6,80 X 1,20) +(23,80 X 3) = mq235,44 Nel corso dell’udienza camerale del 15 dicembre 2003, poi, il perito ha ribadito che il fabbricato realizzato “è stato spostato di cinque metri verso la residua proprietà della signora Ciucci” e che il medesimo manufatto presenta al piano seminterrato una maggior volumetria di mc. 285,6 ottenuta realizzando il muro di contenimento previsto in progetto a circa tre metri di distanza dal punto ove era previsto.
Sennonché è opinione dello scrivente che alcuni dei rilievi mossi dal perito non possano essere condivisi.
Tale processo di confutazione non può che partire da quanto riportato nella sentenza di non luogo a procedere adottata dal GUP l’11 luglio 2005. Si legge nella parte motiva della decisione “E’ palese che il perito ha considerato la strada in parte integrata nel lotto della Ciucci come la continuazione della Strada di Castiglione, pacificamente comunale. In realtà è palese sia per la documentazione prodotta dalle parte private che per quella acquisita ( anche nel procedimento civile) che la prima si dirama dalla Strada di Castiglione, che prosegue anche nella numerazione civica, assumendo la denominazione di Strada privata n.13”. Tale emergenza tuttavia, a parere del GUP, non assume rilevanza decisiva ai fini che qui occupano e ciò in quanto “la non utilizzabilità della superficie destinata a viabilità nella valutazione di quella utile ai fini edificatori risulta con chiarezza dallo stesso atto di origine dei diritti reali dei quotisti. E’ proprio dall’atto di frazionamento e dalla successiva “quotazione” che risulta evidente che la strada n. 13 è destinata, stabilmente, come parte della lottizzazione, al servizio pubblico dell’intera area”.
Sennonché gli elementi resi disponibili dall’istruttoria dibattimentale non consentono di condividere la conclusione appena esposta circa la non computabilità della strada nella superficie fondiaria del lotto 290.
Sotto la vigenza della legge 12 febbraio 1958 n. 126 era pacifico che la qualificazione di una strada pubblica comunale non potesse prescindere da due requisiti, uno materiale, ovvero l’appartenenza del suolo al Comune, l’altro funzionale, rappresentato dalla destinazione ad uso pubblico ( Cass. civile, Sez. II, 17 aprile 1978, n. 1803; Cass. civile, Sez. II, 10 febbraio 1979 n. 920; Cass. civile, Sez. II 3 giugno 1974 n. 594). La materia è oggi regolata dal D.lgs. 30 aprile 1992 n. 285 ed in particolare: dall’art. 2, c. 6 lett. D ultimo inciso che assimila “ai fini del presente codice” le strade vicinali alla strade comunali; dall’art. 3 c. I n. 52 che definisce la nozione di strada vicinale e dall’art., 14 c. IV che fissa i poteri del Comune sulle strade vicinali. L’interpretazione di un tale addentellato normativo ha portato la dottrina a distinguere dalla strada vicinale pubblica, ovvero quella caratterizzata da una servitù di pubblico transito a favore della collettività e dall’adduzione a luoghi di pubblico interesse quali scuole,ospedali, uffici pubblici, la strada vicinale privata ovvero “la strada urbana privata che risponde ad un interesse meramente privato dei proprietari frontisti, non è aperta all’uso pubblico ed è regolata dalle norma di diritto privato”. Più variegata risulta la produzione giurisprudenziale intervenuta sul tema. Secondo alcune pronunzie, infatti, la natura pubblica di una strada presuppone una serie di elementi: il passaggio esercitato iuris servitutis pubblicae da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale; l’idoneità del bene a soddisfare in concreto esigenze di carattere generale; un titolo valido a fondare l’affermazione di tale diritto di uso pubblico (anche l’uso protratto da tempo immemorabile) (in tal senso Tar Toscana, Sez. III, 11 aprile 2003, n. 1385). Altre pronunzie, invece, ritengono che l’attribuzione ad una strada privata del carattere di strada pubblica non possa prescindere dall’acquisito della proprietà del suolo da parte dell’ente locale ( Cons. Stato, Sez. V, 28 giugno 2002, n. 3558, Riv. Giur. dell’Edilizia, 2002,I,1443; Consiglio di Stato, Sez. V, 29 luglio 1999 n. 933). Quest’ultimo orientamento risulta accolto anche dalla Corte di Cassazione. Precisa in una recente pronunzia il giudice della nomofilachia: “La natura di strada pubblica degli spazi adiacenti di cui all’art. 22 L. 2248 del 1865 all.7, presuppone che essi siano di proprietà di un ente pubblico territoriale, con la conseguenza che, affinché i suddetti spazi possano far parte del demanio ( nella specie comunale) assumendo la natura di strada pubblica, non è sufficiente prospettare la mera previsione programmatica di tale destinazione, né l’avvenuta trasformazione di tali spazi in un manufatto tipologicamente corrispondente ad una strada cittadina, né, infine, che vi si espleti, di fatto, il pubblico transito, occorrendo invece che, con la destinazione a tale uso, concorra l’intervenuto acquisto da parte dell’ente locale del suolo relativo, che altrimenti resta un’area privata anche quando sia adiacente e contigua ad una strada comunale, atteso peraltro che ai fini della presunzione (relativa) di demanialità di cui al citato art. 22, occorre altresì che le suddette aree si presentino come parte integrante della funzione viaria della sede stradale ( Cass. civ., Sez. I, 26 giugno 2000, n. 8659).
Orbene, le deposizioni rese dai testi Angelici Patrizia, Petrocchi Antonio, Cipolla Pietro, Fabbietti Flavio e la documentazione prodotta dalle parti hanno dimostrato che la “Strada privata 13” si è formata ex collazione privatorum agrorum ed è destinata esclusivamente all’accesso ai fondi latistanti i cui proprietari ne godono iure condomini e non iure servitutis pubblicae. A ciò si aggiunga che: nella deliberazione comunale di classificazione delle strade la strada privata 13 è qualificata come strada vicinale; l’ente territoriale, se si esclude l’invio di un operaio in un’occasione, non ha mai partecipato alle spese di costruzione o manutenzione della strada; il solo sottostante la carreggiata non ospita infrastrutture a rete di proprietà pubblica.
A fronte di tali elementi, alle luci delle considerazioni innanzi esposte, deve essere escluso che la “Strada privata 13 “possa essere definita quale strada pubblica.
La conclusione assume un’indubbia rilevanza ai fini della valutazione in ordine alla legittimità del titolo abilitativo originario. Le norme tecniche di attuazione riportate nella Deliberazione della G.R. Lazio 15 dicembre 1983 n. 7424, all’art. 6, identificano la superficie fondiaria con l’area edificabile “al netto delle strade pubbliche esistenti”. Non vi è quindi dubbio che, ai fini della determinazione della superficie fondiaria del lotto, il computo del suolo della strada insistente sulla particella 290 non violava la disciplina dettata dalle norme tecniche di attuazione del Comune di Palombara Sabina. Un’esauriente disamina della questione imporrebbe, però, a questo punto, la verifica, alle luce delle disposizioni di rango superiore, della legittimità della disciplina comunale. Lo scrivente non ignora, infatti, che la prevalente giurisprudenza amministrativa ha ritenuto computabile ai fini della determinazione del lotto edificabile l’estensione dell’area suscettibile di edificazione con esclusione quindi delle aree sottratte all’uso esclusivo del proprietario ( fra le tante Cons. Stato, Sez. IV, 6 settembre 1999 n. 1402; Cons. Stato, Sez. V, 4 maggio 1979 n. 218, in Foro amm. 1979,I, 918; Tar Lombardia, Brescia, 28 maggio 1998 n. 444). Ma non può essere sottaciuto che numerose sono anche le decisioni di segno contrario. Si segnalano al riguardo: Cons. Stato, Sez. V, 25 settembre 1968 n. 1190 in Riv. Giur. dell’Edilizia 1968,I,1452; Cons. Stato, Sez. V, 8 settembre 1983 n. 366, in Foro amm. 1983,I, 1876. Ma la risoluzione della questione non appare essenziale ai fini della decisione. Non va infatti dimenticato che, in sede penale, l’integrazione delle contravvenzione contestate non può prescindere dall’accertamento, quanto meno, di profili di imperizia, imprudenza o negligenza da parte degli agenti. Orbene, avuto riguardo per il tenore letterale della previsione dell’art. 6 della norme tecniche di attuazione del comune, per la congerie di disposizioni regolanti la questione e per gli opposti orientamenti espressi dalla giurisprudenza amministrativa, non ritiene lo scrivente di poter escludere che l’attività edificatoria incriminata sia stata sorretta dal convincimento della legittimità dell’operato degli organi amministrativi e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto.
Ma vi è di più.
L’attività edificatoria incriminata ha formato oggetto di una controversia civile fra le odierne parti private avendo Rosati Alberto esperito nei confronti di Ciucci Marisa le azioni regolate dagli artt. 1171 e 1172 cc. Nell’ambito di tale giudizio all’ing. Giovanni Sirini era stato affidato dal giudice l’incarico di verificare la consistenza del manufatto in costruzione e, incidentalmente, la legittimità del provvedimento concessorio. Le indagini svolte hanno portato l’ing. Sirini ad individuare in mq. 1156,00 la superficie del lotto di terreno decurtata dell’area destinata a formare la strada, in mc 1734 la volumetria totale fuori terra ammissibile e in mc. 1702,00 il volume totale fuori terra del fabbricato una volta effettuata la “sistemazione del terreno circostante prevista in progetto” . Nel corso dell’escussione dibattimentale l’ing. Sirini ha inoltre spiegato che la misurazione del lotto era stata da lui effettuata facendo riferimento a punti catastali certi ed ancora che ai fini della volumetria non aveva computato il torrino del vano scale, costituendo lo stesso un vano tecnico.
La disamina dei fattori che possono aver determinato le discrasie esistenti fra le conclusioni rassegnate dai due periti inducono ad attribuire una maggior valenza significativa alle conclusioni rassegnate nell’ambito del procedimento civile.
Nel corso dell’udienza camerale l’ing. Giorgi ha ammesso che la discordanza ravvisabile fra le due perizie in ordine all’estensione della superficie suscettibile di edificazione del lotto poteva aver trovato causa nella superficialità del geometra cui aveva affidato le misurazioni il quale poteva aver fatto coincidere il confine fra le particelle appartenute a Ciucci Marisa con “la rete di costruzione messa in modo molta causale” senza procedere ad alcun approfondimento.
Ben più rigoroso è risultato il metodo di misurazione seguito dall’ing. Sirini il quale ha utilizzato come punti di riferimento i manufatti riportati sulle mappe catastali ancora esistenti sui luoghi di causa ( le vecchia macera, il muro della macera, i fabbricati).
Non può essere inoltre sottaciuto che nella consulenza redatta dal geom. Paola Cicioni prodotta dalla parte civile la superficie fondiaria del lotto 290, depurata dalla superficie della strada, è indicata in mq. 1140.
Dalle lettura della relazione inoltre si evince che l’ing. Giorgi ha determinato la cubatura del piano interrato applicando il coefficiente del 50% alla effettiva consistenza del piano.
L’escussione dibattimentale ha invece rivelato che la volumetria era stata dal Sirini escludendo, come prescritto dalle norme tecniche del comune (art. 6 c. I n. 12 ), la volumetria entroterra misurata rispetto alla superficie del terreno circostante secondo la sistemazione prevista nel progetto approvato ed escludendo il torrino costituente la copertura del vano scala. Le conclusioni rassegnate dal perito trovano peraltro conferma nel progetto allegato alla dia dal quale si rivela che la parte del seminterrato che fuoriesce dal terreno ha un’altezza compresa tra 0 e m. 2,50
Il modus procedendi seguito dal perito nell’ambito della causa civile trova peraltro avallo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione la quale ha chiarito che il computo della volumetria deve essere effettuato con riferimento all’opera in ogni suo elemento, ivi compresi gli ambienti seminterrati ed interrati, “salvo che non viga una espressa e particolare disposizione contraria” ( Cass. Sez. III, 23 maggio 1997, n. 6875 in CED Cass. rv. 208434).
Anche pertanto a voler scomputare dalla superficie fondiaria il suolo della strada non per questo potrebbe pervenirsi ad un giudizio di illegittimità in relazione alla concessione edilizia n. 5028 del 29 novembre 2002.
Accertato pertanto che il titolo abilitativo non presenta profili di illegittimità tali da giustificare l’affermazione della penale responsabilità degli imputati è quindi possibile affrontare il tema relativo alla sussistenza e alla rilevanza delle difformità descritte in imputazione.
Può ritenersi provato che l’edificio in sequestro abbia subito una traslazione di cinque metri verso il confine fra le particelle 290 e 291. E’ del pari provato che per effetto della traslazione il fabbricato si è venuto a trovare ad una distanza minima inferiore a cinque metri – da Giorgi indicata in m. 4,00 e da Sirini in m. 3,90- dalla particella 291.
Non è poi controverso che a monte del fabbricato sia stato realizzato uno sbancamento, non previsto in progetto, di m. 3 oltre il filo dei pilastri. Dall’esame dell’ing. Giorgi, dalle foto prodotte dalla parte civile e dallo stesso progetto allegato alla dia presentata dai germani Gomelino si evince inoltre che lo sbancamento è stato seguito dalla realizzazione di un muro di sostegno in cemento armato sul quale poggia il solaio del piano interrato. La difesa ha peraltro contestato la rilevanza assegnata dall’accusa alla difformità adducendo che l’area sbancata era destinata alla realizzazione di un intercapedine per la circolazione d’aria. Non è però priva di fondamento l’obiezione, di seguito riportata, mossa all’allegazione difensiva dal perito: “ Un’intercapedine avrebbe senso in una circolazione dell’area, per cui dai pilastri, come riportato dal progetto, uno lascia 50,60,70 cm per la circolazione d’area…certo uno può ridurlo…ma è un non senso, cioè lo faccio, lo pago”. E tuttavia ritiene lo scrivente che la compatibilità tecnica delle opere realizzate con l’allegazione difensiva, compatibilità riconosciuta dallo stesso perito, non consente di ritenere che la difformità fosse finalizzata all’ottenimento di una maggiore volumetria utilizzabile nel vano seminterrato.
Un dato può comunque ritenersi acquisito: l’intervento non rispecchiò fedelmente il progetto assentito dalla concessione edilizia più volte richiamata.
Non vi è poi dubbio che si sia in presenza di difformità parziali.
La diversa localizzazione del fabbricato, infatti, rientra nel limite di tolleranza del 50% contemplato nell’art. 8 c.I lett. f) della legge Regione Lazio n. 36 del 2 luglio 1987.
Come sopra illustrato, inoltre, non si però escludere che l’avanzamento del fronte dello sbancamento avesse quale obiettivo la creare uno spazio vuoto, non accessibile, destinato a consentire la circolazione dell’area. E in ogni caso, anche a voler ritenere che la difformità fosse finalizzata ad ampliare il piano destinato al ricovero delle auto, venendo in rilevo un ambiente interrato avente carattere accessorio, la difformità in parola non potrebbe comunque integrare, stante la previsione dell’art. 32 T.U. edilizia, una variazione essenziale.
Resta però da vedere la natura delle parziali difformità accertate.
In proposito lo scrivente ritiene di condividere la distinzione elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativa fra “varianti in corso d’opera”, ovvero quelle che non incidono sulla superficie coperta, sul perimetro, sulla volumetria nonché sulle caratteristiche funzionali e strutturali interne del fabbricato assentito (Cons. Stato, Sez. V, 22 gennaio 2003 n. 249 Riv. Giur. dell’Edilizia, 2003,I,2003,I,977; Cons. Stato, Sez. V, 2 aprile 201, n. 1898, id,I, 684), e varianti “in senso proprio”, ovvero quelle modifiche “quantitative e qualitative di limitata consistenza tali da non alterare le linee originarie dell’intervento edilizio, riguardanti in particolare la superficie coperta, il perimetro, l’aumento del numero dei piani, le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne del fabbricato “(TAR Marche, 21 febbraio 1995 n. 79 in Trib. Amm. Reg. 1995,I,1789). Nettamente distinte risultano le discipline riservate nel testo unico alle due categorie in esame. E’ noto che “la realizzazione di varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, che non alterano la sagoma dell’edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire” era già subordinata a denunzia di inizio attività dalla legge 622 del 1996 ed è rimasta assoggettata al regime della dia anche nel testo originario del D.lgs. 380/01 (comma 2 dell’art. 22). Le modifiche introdotte dal d.lgs 301/02 hanno poi reso possibile, forse anche per rimediare ad alcune rigorose interpretazioni giurisprudenziali – cfr. Cass. pen. Sez. III, 18 marzo 1999, n. 5453, Ferrucci ed altri, che aveva ritenuto che la disciplina all’epoca vigente avesse implicitamente abrogato la previsione dell’art. 15 della legge 47/85 e conseguentemente imposto “l’obbligo della comunicazione preventiva dell’intento di procedere a varianti”-, la presentazione della denuncia d’inizio per le nuove opere “prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori”, e quindi anche dopo la loro realizzazione. Il sesto comma dell’art. 22 subordina però la realizzazione delle nuove opere nel caso di immobili sottoposti a tutela paesaggistica –ambientale al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti delle relative previsioni normative. E’ infine affidato all’art. 37 TU il trattamento sanzionatorio per le violazione del regime regolante tale tipo di violazione. In particolare va sottolineato che l’ultimo comma di tale articolo esclude, per le difformità in parola, l’applicazione della sanzioni penali. Le varianti in senso proprio necessitano invece di un nuovo consenso da parte della PA che tuttavia viene emesso, a differenza di quanto avviene per le variazioni essenziali che richiedono un nuovo permesso di costruire adottato in base alle disposizioni vigenti al momento della richiesta, tenendo conto delle disposizioni vigenti al momento del rilascio del permesso originario. Differente risulta anche, rispetto alle variazioni in corso d’opera o minori, il regime repressivo. Tralasciando per ragioni di brevità la disciplina contemplata dall’art. 34 del TU - e prima dall’art. 12 della legge 47/85- va però rimarcato che la difformità in esame è sanzionata penalmente dall’art. 44 lett.a) per gli interventi in area non sottoposte a tutela storico-artistica o paesaggistica ambientale. Per gli interventi in zona vincolata, invece, l’art. 32 c. III DPR 380/01 prevede che le variazioni essenziali rispetto al progetto approvato sono equiparate alle difformità totali mentre le difformità parziali vengono considerate come essenziali. Trova quindi applicazione alle varianti in senso proprio il più grave dei trattamenti sanzionatori contemplati dall’art. 44 TU edilizia.
Così ricostruito il quadro normativo di riferimento è quindi possibile affrontare il tema relativo alla rilevanza penale delle difformità accertate.
Seguendo gli itinerari segnati dalla giurisprudenza amministrativa e di legittimità non appare dubbio che la maggior estensione dello sbancamento con avanzamento del muro di contenimento e la diversa localizzazione del fabbricato debbano essere ricondotte alle varianti in senso proprio.
Il posizionamento dell’opera, infatti, incide sui parametri urbanistici derivando dalla collocazione del manufatto conseguenze in tema di distanze, di rispetto dei vincolo, di turbamento di interessi dei vicini ( in tal senso Cass. Sez. III, 24 novembre 1995, n. 4083, in CED Cass. rv 203943). E’ di tutta evidenza inoltre che la collocazione incide sulla conformazione planovolumetrica della costruzione, intesa quale sviluppo nello spazio del manufatto. Del pari incidente sulla sagoma dell’edificio è la maggior superficie del solaio fra il piano seminterrato derivata dal maggior sbancamento realizzato nella parte a monte del fabbricato. Non può poi ignorarsi che la modifica del declivio della collina mediante la realizzazione di uno sbancamento che ha interessato un’area avente la superficie di oltre mq. 90 per una profondità di almeno m. 3, anche se finalizzata alla realizzazione di un’intercapedine, necessitata di un titolo abilitativo.
È quindi opinione dello scrivente che le difformità accertate costituiscano varianti in senso proprio. Numerose sono peraltro le pronunzie della giurisprudenza amministrativa ed ordinaria, relative a difformità analoghe a quelli in esame, che corroborano siffatta conclusione : Cons. Stato, Sez. V, 22 gennaio 2003, n. 249, in Riv. Giur. dell’Edilizia, 2003,I,977; Consiglio Stato, Sez. V, 7 maggio 1991 n. 772 in Foro amm. 1991,1428; TAR Calabria, Catanzaro,II, 10 dicembre 2002 n. 3207 in FA TAR, 2002,12; Cass. 28 aprile 1987 n. 7084 in CED cass. rv. 176134; Cass. 19 settembre 2003 n. 46865 in CED Cass. rv. 226891; Cass. Sez. III, 15 luglio 1994 n. 9344 in CED Cass. rv. 198804).
Ma anche a voler diversamente opinare circa la natura delle difformità accertate non per questo potrebbe pervenirsi ad un giudizio di irrilevanza penale.
La giurisprudenza della Suprema Corte ha infatti, anche di recente, ribadito che la denuncia di inizio attività costituisce titolo abilitativo per gli interventi edilizi minori in zona vincola solo se preceduta dal rilascio del nulla osta da parte dell’autorità tutoria, in mancanza di tale parere o autorizzazione è sempre necessario il permesso di costruire ( Cass. Sez. III, 20 marzo 2002 n. 246 in Urb App, 2002, 1231; Cass. Sez. III, 10 maggio 2006 n. 15929, Molaro in Urb App, 2006,1112).
Orbene, nel caso di specie, è pacifico che la realizzazione delle difformità e la presentazione della denuncia di inizio attività non fu preceduta dal rilascio del necessario nulla osta paesaggistico.
E’ poi opinione dello scrivente che nessun rilievo assuma ai fini della decisione il nulla osta adottato 11 giugno 2004 dal Capo Area Tecnica del Comune di Palombara Sabina.
Non vi è infatti dubbio alcuno che l’autorizzazione sia palesemente illegittima.
L’art. 146 del D. L.vo 22 gennaio 2004 n. 42, entrato in vigore il 1° maggio 2004, infatti, nel testo originario, alla lettera c) del comma 10 escludeva categoricamente che l’autorizzazione paesaggistica potesse essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi. Sull’immediata operatività di un tale divieto si è poi espressa la giurisprudenza amministrativa ( Tar Puglia-Lecce, Sez. I, 24 febbraio 2005 n. 871 in Riv. Giur. Ed., 2005).
E’ poi intervenuta la legge 15 dicembre 2004 n. 308 che, con i commi 1 ter e 1 quater dell’art. 181 del D.l.vo 42/04, ha introdotto “la possibilità di una valutazione postuma delle compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori, all’esito della quale- pur restando ferma l’applicazione delle misure amministrative ripristinatorie e pecuniarie di cui all’art. 167 del D.lgs. n. 42/04, non si applicano le sanzioni penali stabilite per il reato contravvenzionale contemplato dal c. I dell’art. 181 dello stesso D.lgs. 42/04. Si tratta in particolare: dei lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; dell’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; dei lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi del T.U. n. 380/01. Nei casi anzidetti la non applicabilità delle sanzioni penali è subordinata all’accertamento della compatibilità paesaggistica dell’intervento secondo le procedure di cui al comma 1 quater dell’art. 181 del D.lgs. 42/04, introdotto dalla legge 15 dicembre 2004 n. 308: deve essere presentata, in particolare, un’apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo e detta autorità deve pronunziarsi entro il termine perentorio di 180 giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza, da rendersi entro il termine, anch’esso perentorio, di 90 giorni” ( Cass. Sez. III, 22 maggio 2006, n. 17591, Antonelli). E’ infine intervenuto il 24 marzo 2006 il D. Lgs. n. 157 che ha modificato nuovamente la disciplina in esame. E stato così contemplato, al comma 12 del novellato art. 146 del D.lgs. 42/04, che “l’autorizzazione paesaggistica, fuori dai casi di cui all’art. 167 c. IV e V, non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione anche parziale degli interventi”. Il nuovo testo dell’art. 167 del D.lgs. 42/04 ha poi previsto che l’autorità amministrativa tutoria possa essere chiamata dall’interessato a pronunziarsi, con il procedimento già regolato dall’art. 181 c. 1 quater, in ordine alla compatibilità paesaggistica degli interventi contemplati dall’art. 181 1 ter.
E’ di tutta evidenza che le disposizioni legislative da ultimo richiamate non hanno alcuna rilevanza nella vicenda in esame. Il nulla osta postumo introdotto dalla novella del 2006 è infatti rilasciato dall’autorità tutoria a seguito di apposita domanda dell’interessato e dopo l’acquisizione del “parere vincolante della soprintendenza” ed impone al trasgressore il pagamento “di una somma equivalente al maggior importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la trasgressione”. Il procedimento sfociato nel nulla osta in atti invece è quella contemplato dall’originario testo dell’art. 146 del D.lgs. 2004 n. 42. Né rilevanza può avere la richiesta di rilascio del nulla osta prodotta dal difensore dei germani Gomelino all’udienza del 30 ottobre 2006 non essendo previsto alcuna sospensione in relazione al procedimenti avviato dall’istanza (Cass. Sez. III, 10 maggio 2006, TN MT in Urb. E App., 1111/06).
Le considerazioni sopra esposte rendono quindi evidente che nella vicenda non è ravvisabile alcuna valida autorizzazione paesaggistica che legittimasse il ricorso al denunzia di inizio attività in relazione alle difformità realizzate nell’edificazione del fabbricato.
Nulla osta pertanto alla sussunzione del diverso posizionamento delle opere assentite e del maggior sbancamento realizzato nel reato edilizio contestato.
Non può però ignorasi che fra gli argomenti illustrati in sede di discussione dalla difesa vi è anche quello facente leva su una supposta sanatoria delle difformità accertate. L’argomento risulta incentrato sulla denuncia di inizio attività “ai sensi degli artt. 22 e 23 del D.p.r. 380/01” presentata da Maurizio e Graziella Gomelino il 18 dicembre 2003 al Comune di Palombara Sabina e sul successivo nulla osta rilasciato dal Comune il 9 settembre 2004. Facendo leva su tali documenti la difesa ha sostenuto che le difformità accertate erano conformi agli strumenti urbanistici ed erano compatibili con le esigenza di tutela sottese al vincolo paesaggistico gravante sull’area. Ha quindi concluso, richiamando l’autorevole opinione del prof. Carbonara, che le difformità accertate erano ormai sanate essendo stata pagata l’oblazione contemplata dal c. IV dell’art. 37 del TU.
L’argomentazione, certamente suggestiva, non è però condivisibile e ciò per le ragioni di seguito esposte.
Si è già detto, allorquando si è esaminato il differente regime giuridico previsto dal legislatore per le varianti in corso d’opera o minori e le varianti in senso proprio, che il regime contemplato dall’art. 22 c. II non è applicabile a difformità quali quelle accertate a carico degli imputati.Non può quindi trovare applicazione alla vicenda la disciplina fissata dall’art. 37 del TU.
Ma vi è di più.
Il comma 6 dell’art. 22 TU prevede che gli interventi di cui al comma secondo su immobili sottoposti a tutela paesaggistica ambientale siano subordinati al preventivo parere o autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative. Nessun valida autorizzazione ha preceduto -o seguito- la denuncia di inizio attività dei germani Gemelino .
Non può essere poi sottaciuto che perplessità suscita anche il giudizio espresso dalla difesa in relazione alla compatibilità delle difformità con la disciplina edilizia ed urbanistica vigente all’epoca dell’intervento. Le norme dei regolamenti comunali che, integrando il codice civile in materia di distanze di edifici, stabiliscono una determinata distanza dal confine infatti, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, mirano non soltanto a regolare i rapporti di vicinato evitando intercapedini nocive, ma sono anche dirette a soddisfare esigenze più generali quali ad esempio l’assetto urbanistico di una determinata zona assicurando comunque uno spazio libero fra le costruzioni ( Cass. Sez. II, 26 marzo 2001, n. 4366). A fronte di tale esigenza appare difficilmente contestabile che il rispetto dalla distanza minima di cinque metri dal confine della proprietà, imposto dalle norme tecniche di attuazione del Comune di Palombara Sabina, debba avere quale riferimento i confini della particella interessata dall’intervento ( in tal senso Trib. Firenze, 31 marzo 1952 in Foro Padano, 1953,I,221, non si registrano in tema decisioni più recenti).
Del pari integrato deve ritenersi il reato paessagistico contestato.
Va infatti osservato come in giurisprudenza sia assolutamente pacifico il principio secondo cui anche dopo l’entrata del D.l.vo 29 ottobre 1999 n. 490, che ha sostituito le disposizioni di cui alla legge 431/85, la contravvenzione prevista per la realizzazione di lavori su beni ambientali senza la prescritta autorizzazione o in difformità ad essa abbia mantenuto la natura di reato di pericolo; sicché rimane esclusa la sanzionabilità soltanto di interventi non autorizzati di entità talmente minima da non porre luogo, neppure in astratto, al pericolo di un pregiudizio ai beni protetti. In proposito, per la chiarezza espositiva e per la particolare natura del fatto portato all’esame dei giudici, rappresentato dalla realizzazione “in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale, in totale difformità della concessione edilizia e senza la preventiva autorizzazione dell’ente preposto alla tutela del vincolo, di opere edili comportanti la modifica di destinazione del vano sottotetto da soffitta ad unità abitativa,nonché due finestre e di una porta finestra”, è opportuno riportare il percorso argomentativo sviluppato in una recente pronunzia della Corte di Cassazione (Cass. Sez. III, 1° ottobre 2004, n. 38694, Canu). Recita la sentenza : “La giurisprudenza di questa Suprema Corte, invero, ha costantemente affermato, anche in tempi recenti, il principio secondo cui il reato di cui all'art. 163 del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, così come quello di cui all'art. 1 sexies del d.l. 27 giugno 1985, n. 312, convertito dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, ha natura di reato formale di pericolo che si consuma con la sola realizzazione di lavori, attività o interventi in zone vincolate senza la prescritta autorizzazione paesaggistica e prescinde dal verificarsi di un evento di danno e da ogni accertamento in ordine alla avvenuta alterazione, danneggiamento o deturpamento del paesaggio, essendo per la sua esistenza sufficiente che l'agente faccia, del bene protetto da vincolo paesaggistico, un uso diverso da quello cui esso è destinato o ponga in essere su di esso interventi astrattamente idonei a mettere in pericolo l'ambiente. E ciò perché il vincolo posto su certe parti del territorio nazionale ha una funzione prodromica al governo del territorio stesso. È pertanto sufficiente l'accertamento della mancanza del provvedimento amministrativo, ai fini della sua configurabilità (Sez. 3^, 28 febbraio 2002, Barbadoro, m. 221.456;
Sez. 1^, 31 agosto 2001, Fontana, m. 219.895; Sez. 3^, 26 giugno 2000, Gregori, m. 216.820; Sez. 3^, 14 febbraio 2000, Tommasi, m. 216.853; Sez. 6^, 24 luglio 1977, Stanzione, m. 209.282; Sez. 3^, 16 gennaio 1996, Re, m. 203.836; Sez. 3^, 12 luglio 1995, D'Emilio, m. 202.883; Sez. 3^, 30 giugno 1995, Montone, m. 202.702; Sez. 3^, 16 marzo 1994, Mastellone, m. 199.181; Sez. 3^, 27 gennaio 1994, Lambri, m. 197.592; Sez. 3^, 4 febbraio 1993, De Lieto, m. 193.636). Il legislatore ha infatti voluto che nelle zone paesaggisticamente vincolate vi sia in ogni caso un preventivo vaglio della autorità preposta alla tutela del vincolo e che il soggetto si astenga da qualsiasi intervento senza che detta autorità si sia espressa, dettando la norma incriminatrice proprio a tutela di questo interesse rappresentato dal necessario preventivo parere della autorità competente. Il reato in questione, invero, prescinde del tutto dalla verificazione di un concreto danneggiamento, o alterazione o deturpamento dell'ambiente e si realizza per il solo fatto di porre in essere un intervento che sia astrattamente e potenzialmente idoneo a porre in pericolo il bene ambientale e che, proprio per questa astratta e potenziale possibilità, può essere realizzato solo dopo previo il rilascio della prescritta autorizzazione. Il reato non è configurarle esclusivamente quando si tratti di un intervento sull'immobile di entità talmente minima che non sia neppure astrattamente idoneo a porre in pericolo il paesaggio e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale, ossia che si tratti di un intervento ontologicamente estraneo al paesaggio ed all'ambiente (Sez. 3^, 3 marzo 2000, Faiola, m. 216.975; Sez. 3^, 26 novembre 1999, Gargiulo, m. 215.891; Sez. 3^, 2 ottobre 2001, Farà, m. 220.356; Sez. 3^, 17 marzo 1999, Zotti, m. 213.243). E difatti, il reato in esame, ha natura di reato di pericolo ed esclude dal novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio. L'interesse protetto dalla norma incriminatrice, pur dovendosi individuare nella tutela prodromica del paesaggio, non può peraltro logicamente prescindere da una sia pur minima possibilità di "vulnus" al bene tutelato. Pertanto la messa in pericolo del paesaggio deve concretarsi pur sempre in un nocumento potenziale, da valutarsi "ex ante", oggettivamente insito nella minaccia ad esso portata (Sez. 3^, 17 maggio 1998, Vassallo, m. 211.218; Sez. 3^, 17 dicembre 1998, Galimberti, m. 212.247)”.Rapportando tali premesse al caso di specie, non appare dubbio che le difformità accertate abbiano una portata tale da poter astrattamente incidere sull’assetto del paesaggio e quindi necessitassero del rilascio dell’autorizzazione da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo. Dallo stesso progetto allegato alla dia versata in atti si ricava che lo sbancamento abusivamente realizzato ha comportato l’asportazione di oltre 285 mc. di terra e roccia.Del pari appare idonea ad integrare la contravvenzione contestate al punto secondo dell’imputazione la significativa traslazione accertata. È infatti innegabile che il posizionamento dell’imponente fabbricato in costruzione a circa cinque metri dall’area individuata nel progetto assentito costituisca condotta astrattamente idonea ad pregiudicare il bene paesaggistico ambientale. E difatti la Suprema Corte ha più volte ribadito che in tema di tutela ambientale integra il reato paesaggistico la realizzazione di opere regolarmente assentite in altro luogo dello stesso lotto oggetto di intervento ( Cass. Sez. III, 2 luglio 1998, n. 9164 in CED Cass. rv. 211864; Cass. Sez. VI, 24 giugno 2003 n. 35122 in CED Cass. 226325).
Resta quindi da affrontare il tema relativo alle responsabilità individuali.
Le fonti di prova raccolte dimostrano inequivocabilmente che alla data del 10 luglio 2003 la struttura in cemento armato del fabbricato era in parte realizzata ed ancora che l’attività edificatoria proseguì dopo che la concessione edilizia venne volturata in favore dei germani Gomelino.
Tanto basta per riferire a Ciucci Marisa, Gomelino Maurizio e Gomelino Graziella i reati accertati.
La documentazione versata in atti, e segnatamente la nota integrativa riportante la sottoscrizione del geom. Giovanni Ippoliti e la data del 10 luglio 2003 ( allegato n. 13 della produzione dell’avv.to Venturino) nonché la deposizione resa dal teste Raffaelli Marco provano poi che il predetto imputato ricoprì il ruolo di direttore dei lavori.
Venendo quindi alla pretesa azionata dalla parte civile, va osservato che l’atto di costituzione -datato 16 maggio 2005- individua il danno sofferto nella “riduzione sensibile delle vedute” fruibili dal fabbricato del Rosati per effetto del differente posizionamento e della maggiore consistenza del fabbricato. Orbene, è di tutta evidenza che il Rosati ha interesse a che l’edificio oggetto del presente procedimento non venga realizzato in modo da poter conservare la visuale che gode dal suo appartamento. Non è stato però neppure allegato che la costituita parte civile sia titolare di una servitù di veduta o, più propriamente, di una servitù “altius non tollendi”. Va quindi escluso che la costituita parte civile abbia ricevuto un danno personale e immediato dalle difformità accertate. Le pretese risarcitorie azionate dalla costituita parte civile debbono pertanto essere respinte.
Non resta quindi che determinare la pena da irrogare agli imputati. In applicazione dei criteri di cui all’art.133 c.p.,concesse le attenuanti generiche in considerazione dello stato di incensuratezza, riuniti i reati accertati ex art. 81 cp sotto il reato edilizio, più grave violazione, stante la contestualità delle condotte attuative e la sussistenza di un medesimo disegno criminoso, appare congrua, per ognuno degli imputati, la pena di mesi uno e giorni cinque di arresto ed € 21.000,00 di ammenda (pb. mesi uno e giorni quindici ed € 30.000, ridotta ex art. 62 cp a mesi uno ed € 20000 aumentata ex art. 81 cp).Segue per legge la condanna degli imputati al pagamento, in solido, delle spese processuali. L’incensuratezza degli imputati consente di concedere la sospensione condizionale della pena ed il beneficio della non menzione. Va altresì disposta la demolizione delle opere difformi dal progetto assentito in ordine al quale è intervenuta condanna nonché il ripristino dello stato dei luoghi alterati da tali dofformità.
P.Q.M.
IL TRIBUNALE
Letti gli artt.533 e 535 c.p.p.
DICHIARA
Ciucci Marisa, Gemelino Maurizio, Gomelino Graziella e Ippoliti Giovanni responsabili dei reati loro ascritti con riferimento al differente posizionamento del fabbricato e all’ulteriore sbancamento non previsto nella concessione edilizia n. 5028/02 ( il dispositivo letto in udienza riporta erroneamente il n. 5092/02) e, concesse le attenuanti generiche, unificati i reati ex art. 81 cp, condanna ciascuno dei predetti imputati alla pena di mesi uno e giorni cinque di arresto ed € 21.000,00 di ammenda, oltre che al pagamento delle spese processuali, in solido.Pena sospesa e non menzione per tutti. Va altresì ordinata la demolizione delle difformità in ordine alle quali è intervenuta condanna ed il ripristino dello stato dei luoghi alterati da tali difformità;
letto l’art. 538 e ss
RESPINGE
La domanda di risarcimento avanzata dalla costituita parte civile;
letto l’art. 530 c. II cpp
ASSOLVE
i predetti imputati in ordine ai reati loro ascritti in relazione agli altri profili dedotti in imputazione perché il fatto non costituisce reato.
Tivoli, 30 ottobre 2006
Il Giudice
(dr.Lorenzo Antonio Bucca)