TAR Lombardia (MI) Sez. II n.2274 del 30 novembre 2016
Urbanistica. Distanze tra costruzioni e regime della doppia tutela

Per quanto attiene alle distanze fra costruzioni o di queste con i confini, vige il regime della c.d. doppia tutela per cui il soggetto, che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia di distanze, è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del giudice ordinario) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'Amministrazione

Pubblicato il 30/11/2016

N. 02274/2016 REG.PROV.COLL.

N. 02420/2015 REG.RIC.

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2420 del 2015, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Maria Vittoria Abbiati, rappresentata e difesa dall'avvocato Simona Dedé C.F. DDESMN76S53E648B, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Barbara Alampi in Milano, Viale Abruzzi n. 7;

contro

Comune di Sant'Angelo Lodigiano, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;

nei confronti di

Sergio Maria Donegà, rappresentato e difeso dall'avvocato Francesco Adavastro C.F. DVSFNC51C03B481H, con domicilio eletto presso lo studio del difensore in Milano, Via Gaetano Donizetti n. 47;

per l'annullamento

quanto al ricorso introduttivo:

della nota prot. 13869 del 20 luglio 2015 a firma del Dirigente dello Sportello Unico per l'Edilizia del Comune di Sant'Angelo Lodigiano, indicante l’assenza di irregolarità edilizie in relazione all’intervento di cui alla DIA prot. n. 1668 del 30 gennaio 2014;

della relazione tecnica prot. n. 11081/11845 a firma del tecnico dell’Area edilizia privata del Comune di Sant'Angelo Lodigiano, allegata alla medesima nota del 20 luglio 2015;

della nota prot. n. 17835 del 24 settembre 2015 a firma del Dirigente unico dello Sportello Unico Edilizia del Comune di Sant'Angelo Lodigiano;

nonché di ogni altro atto presupposto, conseguente o comunque connesso, ivi comprese la deliberazione di Giunta comunale n. 31 del 12 marzo 2014 e l'autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di Sant'Angelo Lodigiano n. 12 del 27 dicembre 2013;

nonché, per quanto occorrer possa, dell'articolo 24 delle Norme Tecniche di Attuazione (NTA) del Piano di Governo del Territorio (PGT) del Comune di Sant'Angelo Lodigiano, laddove consentono di procedere al recupero della volumetria preesistente in caso di interventi di demolizione e ricostruzione di immobili vincolati senza il rispetto della sagoma dell'edificio preesistente;

e conseguente condanna del Comune di Sant'Angelo Lodigiano a procedere all'adozione delle necessarie misure inibitorie dei lavori attualmente in corso e delle misure di ripristino delle opere già eseguite, previa declaratoria dell'illegittimità dell'intervento edilizio assentito con la DIA del 30 gennaio 2014;

quanto ai motivi aggiunti depositati il 12 gennaio 2016:

avverso gli stessi provvedimenti impugnati con il ricorso introduttivo, per gli ulteriori profili di illegittimità allegati a seguito del deposito agli atti del giudizio della comunicazione a firma del Commissario prefettizio del Comune di Sant’Angelo Lodigiano prot. n. 20740 del 5 novembre 2015;


Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visti l'atto di costituzione in giudizio e il ricorso incidentale del sig. Sergio Maria Donegà;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 settembre 2016 la dott.ssa Floriana Venera Di Mauro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. La sig.ra Maria Vittoria Abbiati è proprietaria di un immobile sito nel Comune di Sant’Angelo Lodigiano, identificato catastalmente al foglio 14, mappale 568.

In data 6 agosto 2015, la medesima ha inoltrato al predetto Comune – ai sensi dell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990 – un’istanza volta a sollecitare l’esercizio dei poteri inibitori con riferimento a una denuncia di inizio attività depositata dal sig. Sergio Mario Donegà in data 30 gennaio 2014, relativa a un intervento da realizzarsi su un immobile confinante con quello di cui sopra, identificato catastalmente al foglio 14, mappale 402.

L’Amministrazione, con nota del 24 settembre 2015, ha respinto l’istanza, rilevando l’insussistenza dei profili di illegittimità denunciati dalla ricorrente.

Contro questo atto è principalmente diretto il ricorso in esame.

2. Il Comune di Sant’Angelo Lodigiano, pur non essendosi costituito in giudizio, ha depositato una nota esplicativa delle ragioni che l’hanno indotto ad assumere la decisione avversata.

3. Venuta a conoscenza del contenuto di questa nota, la ricorrente ha notificato motivi aggiunti, con i quali articola nuove censure avverso gli atti impugnati.

4. Si è invece costituito in giudizio, in qualità di controinteressato, il sig. Sergio Mario Donegà.

Quest’ultimo ha anche depositato ricorso incidentale con il quale: a) propone domanda riconvenzionale tesa ad accertare la non conformità alla normativa urbanistico-edilizia vigente dell’immobile di proprietà della ricorrente; immobile che sarebbe stato realizzato, a suo tempo, in violazione della disciplina sulle distanze rispetto al fabbricato del sig. Donegà; b) impugna a sua volta il provvedimento oggetto del ricorso principale, ritenuto illegittimo nella parte in cui avrebbe comunque ammesso la possibilità dell’esercizio del potere inibitorio nonostante il decorso del termine entro il quale tale potere deve essere esercitato; c) impugna l’articolo 11 della NTA del PGT qualora tale norma dovesse essere interpretata nel senso di qualificare l’intervento di cui è causa alla stregua di una nuova costruzione.

5. La Sezione, con ordinanza n. 1476 del 12 novembre 2015, ha fissato l’udienza pubblica ai sensi dell’articolo 55, comma 10 cod. proc. amm.

6. In prossimità di questa, le parti costituite hanno depositato in giudizio memorie, insistendo nelle loro conclusioni.

7. Tenutasi la pubblica udienza in data 30 settembre 2016, la causa è stata trattenuta in decisione.

8. Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni processuali sollevate dal controinteressato.

8.1 Eccepisce innanzitutto quest’ultimo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi a suo dire di controversia che – riguardando questioni di distanze e, dunque, involgenti diritti soggettivi – avrebbe dovuto essere dedotta dinanzi al giudice ordinario.

Ritiene il Collegio che l’eccezione sia infondata per le ragioni di seguito esposte.

Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, nel nostro ordinamento, “…per quanto attiene alle distanze fra costruzioni o di queste con i confini, vige il regime della c.d. doppia tutela per cui il soggetto, che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia di distanze, è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del giudice ordinario) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'Amministrazione…” (Cons. Stato, Sez. IV, 31 marzo 2015, n. 1692).

Ciò premesso si deve osservare che, con il ricorso in esame, viene impugnato il provvedimento con il quale l’Amministrazione intimata ha deciso di non esercitare i poteri inibitori sollecitati dalla ricorrente.

Si tratta dunque di controversia che non riguarda esclusivamente le posizioni dei privati, ma che si rivolge innanzitutto avverso un atto dell’autorità amministrativa, anche se poi tale atto viene, fra l’altro, censurato deducendo proprio la violazione delle norme dettate in materia di distanze.

Le questioni dedotte non attengono quindi a posizioni di diritto soggettivo ma, proprio perché collegate all’esercizio del potere pubblico, si riferiscono a posizioni di interesse legittimo, di cui non può che conoscere il giudice amministrativo.

Per questa ragione, l’eccezione in esame non può essere condivisa.

8.2 Il controinteressato eccepisce poi la tardività del ricorso nella parte che riguarda: a) la DIA del 30 gennaio 2014; b) il permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso del 12 dicembre 2012; c) l’autorizzazione paesaggistica n. 12/2013; d) il nulla osta della competente Soprintendenza alla realizzazione dei lavori contestati. Invero, secondo la parte, di questi atti la ricorrente avrebbe dimostrato di avere conoscenza perlomeno dal momento di presentazione dell’istanza di accesso agli atti del 15 luglio 2015, mentre il ricorso sarebbe stato portato alla notifica dopo il termine di sessanta giorni decorrente da tale momento.

In proposito si deve rilevate che la DIA del 30 gennaio 2014, il permesso di costruire per cambio di destinazione d’uso del 12 dicembre 2012 ed il nulla osta della competente Soprintendenza alla realizzazione dei lavori contestati non sono stati nemmeno impugnati con il ricorso in esame. Con riferimento a tali atti l’eccezione di tardività è dunque del tutto inconferente.

Per quanto riguarda invece l’autorizzazione paesaggistica n. 12/2013, si deve osservare che dall’istanza di accesso agli atti del 15 luglio 2015 non emerge affatto che la ricorrente ne abbia avuto piena conoscenza. Risulta infatti che la signora Abbiati ha avuto conoscenza solo della sua esistenza (visto che essa costituisce oggetto della domanda di accesso), ma non anche degli elementi contenutistici necessari affinché possa cominciare a decorrere il termine per la proposizione del ricorso (autorità emanante, contenuto dispositivo e portata lesiva).

Pertanto, l’eccezione è per questo profilo infondata.

8.3 Il controinteressato eccepisce anche la tardività del ricorso nella parte in cui si rivolge avverso la delibera di Giunta Comunale n. 31 del 12 marzo 2014 e contro l’articolo 24 della NTA del PGT.

Per quanto concerne il primo atto, si deve osservare che esso non viene menzionato nell’istanza di accesso agli atti del 15 luglio 2015.

Ciononostante il Collegio non può esimersi dal rilevare – come deduce peraltro il controinteressato a pag. 35 della memoria del 29 luglio 2016 – che il ricorso è stato portato alla notifica dopo il termine di sessanta giorni decorrente dall’ultimo giorno di pubblicazione dell’atto all’albo pretorio.

In questa parte l’impugnazione è, quindi, effettivamente tardiva.

Per ciò che concerne invece l’articolo 24 delle NTA del PGT, oltre a rilevare che neppure di esso si fa menzione nella domanda di accesso agli atti del 15 luglio 2015, il Collegio ritiene che, trattandosi di norma generale ed astratta, che la ricorrente impugna in quanto applicata al fine di legittimare l’intervento edilizio eseguito dal proprio confinante, essa non andava autonomamente impugnata a ridosso della pubblicazione del PGT. Correttamente, pertanto, la ricorrente l’ha impugnata solo dopo l’adozione dell’atto applicativo che ne ha concretizzato la portata lesiva nei propri confronti.

Essendo, con riferimento a quest’ultimo atto, il ricorso tempestivo, l’eccezione di tardività è, per questo profilo, infondata.

8.4 Il controinteressato eccepisce ancora la tardività dell’impugnazione avverso la DIA del 30 gennaio 2014. Rileva, in particolare, quest’ultimo che la DIA alternativa al permesso costruire dovrebbe considerarsi alla stregua di un vero e proprio provvedimento, cui non sarebbero applicabili le disposizioni dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990. Per questa ragione, la suddetta DIA si sarebbe dovuta impugnare entro sessanta giorni decorrenti dal momento di sua conoscenza.

Anche questa eccezione non può condivisa per le ragioni di seguito esposte.

Con il ricorso in esame, la DIA del 30 gennaio 2014 non viene impugnata. La ricorrente impugna invece gli atti con cui il Comune ha rifiutato di esercitare i poteri inibitori e di autotutela sulla predetta DIA.

Ora, anche ammettendo, come fa il controinteressato, che la DIA del 30 gennaio del 2014 abbia natura di vero e proprio provvedimento amministrativo, ciò non rileva ai fini che qui interessano, giacché, come noto, a meno che non si tratti di atto meramente confermativo, una volta che l’Amministrazione si sia pronunciata, rigettandola, su un’istanza di esercizio del potere di autotutela, il terzo interessato può sempre impugnare tale pronuncia, e ciò sebbene il termine per proporre l’impugnazione contro il provvedimento di primo grado sia ormai spirato.

Nel caso concreto, come anticipato, la ricorrente ha impugnato, peraltro tempestivamente, proprio l’atto di rifiuto di esercizio del potere di autotutela. Tale pronuncia non può considerarsi alla stregua di un atto meramente confermativo, posto che l’Amministrazione lo ha adottato dopo aver aperto un procedimento ed effettuato un’apposita istruttoria in esito alla quale è stata assunta una decisione le cui motivazioni sono state ben illustrate nel corpo motivazionale del provvedimento.

Il nuovo atto ha dunque determinato la riapertura dei termini per proporre l’impugnazione. Ne consegue che il ricorso non può considerarsi per questo profilo tardivo.

Il controinteressato eccepisce ancora la tardività del ricorso rilevando che, nella sostanza, la ricorrente intende paralizzare gli effetti della DIA del 30 gennaio 2014 e che, per questo motivo, l’istanza di esercizio del potere inibitorio avrebbe dovuto essere depositata non oltre il termine di sessanta giorni decorrente dalla sua conoscenza.

Con altra eccezione, lo stesso controinteressato rileva che, nel caso specifico, sono ormai decorsi i termini per l’esercizio del potere inibitorio e che, quindi, l’istanza della ricorrente non potrebbe aver l’effetto di rimettere in termini l’Amministrazione. Potrebbe dunque esercitarsi il solo potere di autotutela del quale, comunque, non sussisterebbero i presupposti, non avendo la medesima Amministrazione effettuato l’attività di comparazione degli interessi a tal fine necessaria. La ricorrente non avrebbe, quindi, secondo il controinteressato, alcun interesse alla proposizione del ricorso.

In proposito si osserva quanto segue.

Si deve dare atto che, effettivamente, vi è un orientamento, seguito dal giudice d’appello, secondo cui l’istanza di esercizio del potere inibitorio riguardante una denuncia di inizio attività deve essere inoltrata all’amministrazione – pena la tardività del giudizio istaurato avverso il provvedimento che dà ad essa riscontro – non oltre il termine di sessanta giorni decorrente dalla conoscenza della denuncia stessa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12 novembre 2015, n. 5161).

Il Collegio tuttavia non condivide questo orientamento in quanto non aderente al dato normativo. Non vi è infatti alcuna norma che ponga un termine entro il quale il terzo deve formulare la predetta istanza, non contenendo l’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 alcuna prescrizione in proposito (cfr. sul punto TAR Piemonte, Sez. II, 1 luglio 2015, n. 1114).

Si deve peraltro osservare che, con specifico riferimento alla DIA/SCIA in materia edilizia, la Sezione, in alcune recenti pronunce, ha avuto modo di affermare i seguenti principi: a) il terzo può sollecitare in qualsiasi momento l’esercizio del potere inibitorio; b) se la relativa istanza viene inoltrata entro il termine di sessanta giorni decorrente dalla piena conoscenza della DIA/SCIA, l’amministrazione deve esercitare il suddetto potere paralizzando l’attività del denunciante sulla base del mero riscontro dell’illegittimità di quest’ultima (potere inibitorio puro); c) se invece l’istanza del terzo viene depositata dopo il decorso del suddetto termine, l’amministrazione può intervenire unicamente qualora sussistano i presupposti per l’esercizio del potere di autotutela; d) il terzo può sempre impugnare l’atto con cui l’amministrazione si pronuncia sulla sua istanza (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15 aprile 2016, n. 735).

Il rispetto del termine di sessanta giorni rileva dunque al solo fine di stabilire quale tipo di potere l’amministrazione potrà esercitare, giacché, se il terzo interviene tempestivamente, gli deve essere assicurata, ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., una tutela non inferiore a quella di cui avrebbe goduto qualora avesse tempestivamente impugnato un permesso di costruire (e siccome in questo caso, il giudice avrebbe annullato l’atto sulla base del mero riscontro della sua illegittimità, allo stesso modo l’amministrazione deve privare la DIA/SCIA dei propri effetti abilitativi sulla base del mero riscontro della non conformità della stessa alla vigente normativa).

Non è dunque rilevante, ai fini della valutazione della tempestività del ricorso in esame, il fatto che, nel caso concreto, l’istanza della ricorrente sia stata inoltrata all’Amministrazione dopo il decorso del termine di sessanta giorni dal momento di piena conoscenza della DIA presentata dal controinteressato, essendo unicamente rilevante il fatto che sia stato tempestivamente impugnato l’atto che ha dato riscontro all’istanza di sollecitazione all’esercizio del potere inibitorio.

Né tale ritardo rileva ai fini della valutazione dell’interesse alla proposizione del gravame, posto che l’Amministrazione conserva comunque la possibilità di effettuare un intervento subordinato al riscontro dei presupposti dell’autotutela.

Neppure è decisivo il fatto che l’Amministrazione, in occasione dell’adozione degli atti impugnati, non abbia effettuato l’attività di comparazione degli interessi coinvolti.

L’accoglimento del ricorso costringerebbe infatti la stessa Amministrazione ad aprire nuovamente il procedimento, nel corso del quale ben potrà essere effettuata l’attività di comparazione degli interessi coinvolti; attività considerata in prima battuta non necessaria stante la ritenuta insussistenza dei profili di illegittimità denunciati dalla ricorrente.

Vi è dunque, quantomeno, un interesse strumentale alla proposizione del ricorso, posto che, in esito al nuovo procedimento, potrebbe essere adottato un atto favorevole alla ricorrente stessa.

Per tutte queste ragioni, le eccezioni in esame risultano infondate.

8.5 Infine, il controinteressato, mediante domanda riconvenzionale, deduce l’exceptio doli, rilevando che la ricorrente avrebbe per prima violato le norme dettate in materia di distanze: l’edificio collocato sul sedime di sua proprietà sarebbe stato infatti realizzato a ridosso del fabbricato che egli ha poi demolito per erigere quello oggetto della DIA del 30 gennaio 2014.

Pertanto, in applicazione del principio di prevenzione, laddove dovesse essere accertata la violazione delle distanze, dovrebbe essere la signora Abbiati ad assicurare il rispetto delle prescrizioni di cui all’articolo 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968.

Inoltre, il principio di prevenzione sarebbe stato violato anche con riferimento alle disposizioni del codice civile in materia di distanze tra i confini, poiché la ricorrente avrebbe realizzato un box in aderenza all’immobile del signor Donegà. Per tali profili, inerenti al box, il controinteressato si è quindi riservato di agire nelle sedi competenti.

A dire della parte, il concorso di tutti questi elementi dimostrerebbe l’evidente mala fede della ricorrente e, dunque, l’insussistenza di un suo interesse meritevole di tutela alla coltivazione del presente ricorso.

In proposito si osserva quanto segue.

Come di vedrà nel prosieguo, l’intervento oggetto della DIA del 30 gennaio 2014 consiste nella demolizione di un vecchio fabbricato e nella, successiva, realizzazione di un fabbricato del tutto diverso dal precedente.

Ritiene il Collegio che, proprio perché il nuovo fabbricato è del tutto diverso da quello precedente, il controinteressato deve oggi conformarsi alle norme dettate in materia di distanze fra edifici.

Per tutelarsi contro eventuali violazioni commesse dalla ricorrente, lo stesso controinteressato avrebbe dovuto reagire prontamente avverso gli atti che hanno all’epoca assentito il fabbricato di proprietà di quest’ultima ovvero avrebbe dovuto sollecitare l’Amministrazione ad intervenire in autotutela. Non avendolo fatto, egli non può attualmente pretendere che la ricorrente tolleri, in quanto primo trasgressore, le violazioni da lui commesse e rinunci a far valere dinanzi al giudice amministrativo l’interesse a non veder realizzato un nuovo edificio ad una distanza dal proprio fabbricato inferiore a quella legale; potendo semmai i profili denunciati dal controinteressato essere apprezzati dall’Amministrazione nell’attività di comparazione degli interessi da effettuarsi in sede di rinnovo dell’esercizio del proprio potere.

Per tutte queste ragioni anche l’eccezione in esame non può essere condivisa.

9. Esaurita la trattazione delle questioni preliminari, può ora passarsi all’esame del merito del ricorso.

10. Con il primo motivo, la ricorrente sostiene che l’intervento oggetto della DIA del 30 gennaio 2014 andrebbe qualificato non già come ristrutturazione edilizia, ma come intervento di nuova costruzione. E ciò sia in applicazione dell’articolo 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto trattasi di intervento di demolizione e ricostruzione, con sagoma diversa, di un immobile situato in area vincolata ai sensi del decreto legislativo n. 42 del 2004; sia perché trattasi di intervento di sostituzione edilizia da ricondurre, ai sensi dell’articolo 27, comma 1, lett. e), punto 7-bis, della legge regionale n. 12 del 2005, proprio alla categoria della nuova costruzione. L’Amministrazione – che ha invece qualificato l’intervento come ristrutturazione edilizia – sarebbe dunque incorsa in un evidente errore che determinerebbe l’illegittimità degli atti impugnati.

Questa censura viene ripresa e sviluppata nel primo motivo dei motivi aggiunti (rubricato sub 5), nel quale la ricorrente ribadisce che l’intervento di cui è causa andrebbe correttamente ascritto alla categoria della nuova costruzione. La parte evidenzia che nessun rilievo, ai fini della qualificazione, potrebbe avere la circostanza – evidenziata nella nota del Commissario prefettizio del Comune di Sant’Angelo Lodigiano – che l’area in cui è collocato l’immobile non rientra fra quelle previste e disciplinate dalla Parte I (rectius: nella Parte II, dedicata ai “Beni culturali”) del Codice dei beni culturali e del paesaggio, così come nessun rilievo potrebbe avere la circostanza che non trattasi di vincolo assoluto ma relativo. Secondo la ricorrente, infatti, l’articolo 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 escluderebbe genericamente la possibilità di ascrivere alla categoria della ristrutturazione edilizia tutti gli interventi che consistono nella demolizione e nella successiva ricostruzione di immobili ricadenti in aree sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004, senza operare distinzione alcuna in ordine alla fonte ed alla natura del vincolo. Né a dire della parte potrebbe avere rilievo il fatto che il Soprintendente abbia espresso parere positivo alla realizzazione dell’intervento, giacché non è compito di tale organo operare la qualificazione dell’intervento stesso sotto il profilo prettamente urbanistico.

Le censure appena illustrate sono strettamente connesse con quelle contenute nel terzo motivo del ricorso introduttivo e nei motivi sub 6) e 7) dei motivi aggiunti, per mezzo delle quali la ricorrente deduce che la non corretta qualificazione dell’intervento ha indotto il Comune a non ritenere violate le norme sulle distanze fra pareti finestrate e quelle sulle distanze dai confini sancite dall’articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968 e dall’art. 24 delle NTA del PGT. Secondo la parte, infatti, una volta ascritto l’intervento di cui è causa alla categoria della nuova costruzione, imprescindibile sarebbe il dovuto rispetto delle suindicate norme, derogabili solo per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente. Rileva in subordine la ricorrente che, anche se si dovesse ascrivere l’intervento di cui è causa alla categoria della ristrutturazione edilizia, cionondimeno le norme sulle distanze di cui al citato articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968 andrebbero, nel caso concreto, comunque rispettate.

10.1 In proposito il Collegio osserva quanto segue.

Stabilisce l’articolo 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) che rientrano nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e, successiva, ricostruzione, con la stessa volumetria, del fabbricato preesistente.

La norma è il risultato di una recente modifica introdotta dall’articolo 30, comma 1, lett. a), del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98.

Prima di questa modifica, la disposizione specificava che, per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli interventi di demolizione e ricostruzione dovevano rispettare il vincolo della sagoma. La nuova norma, a differenza della precedente, non fa più menzione della sagoma; sicché deve ritenersi che, attualmente, possono considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che si limitano al rispetto della preesistente volumetria.

Sennonché, l’ultimo periodo della disposizione specifica a sua volta che “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione […] costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.

Come si vede, questa norma prevede un’eccezione alla regola generale sancita dal primo periodo della lett. d), eccezione che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Per questi immobili, dunque, continua a permanere il vincolo della sagoma; pertanto, qualora l’intervento di demolizione e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di intervento di ristrutturazione edilizia, ma andrà ascritto alla categoria della nuova costruzione.

E’ opinione del Collegio che, vista la genericità della previsione, non possano operarsi distinzioni a seconda della fonte e della natura del vincolo; ne consegue che essa si applicherà anche nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità non già assoluta ma solo relativa.

L’interpretazione della norma in esame, condotta sulla base della sua lettera, porta dunque a ritenere che l’intervento di cui è causa – che incide su un’area soggetta a vincolo paesaggistico (cfr. doc. 8 di parte ricorrente) e che pacificamente non rispetta il limite della sagoma preesistente – va correttamente qualificato come intervento di nuova costruzione.

10.2 A questo punto, va però evidenziato che la non corretta qualificazione dell’intervento non è di per sé rilevante ai fini della valutazione della legittimità del provvedimento impugnato, in quanto ciò che rileva sono le conseguenze che da tale qualificazione si traggono in termini di disciplina applicabile. Potrebbe dunque rilevare il fatto che, proprio perché trattasi intervento di nuova costruzione, e non di intervento di ristrutturazione edilizia, esso avrebbe dovuto rispettare le norme sulle distanze.

Il Collegio deve tuttavia osservare che, in realtà, la qualificazione giuridica dell’intervento non sempre è decisiva per stabilire quando si imponga il rispetto delle succitate norme.

Va difatti evidenziato che la giurisprudenza sembra più che altro far riferimento al grado di innovatività della nuova opera rispetto alla precedente: la deroga è, in particolare, ammessa quando si tratti di interventi che comportino il recupero di un bene esistente già collocato a distanza inferiore a quella legale. Quando invece l’intervento, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al fabbricato, renda l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente, l’osservanza delle disposizioni sulle distanze recate dall’articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968 si rende comunque necessaria, e ciò in ragione dell’interesse protetto da dette disposizioni volte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, che potrebbero venire irrimediabilmente compromesse dalla creazione di malsane intercapedini. In base a questo orientamento, dunque, anche gli interventi ristrutturazione edilizia che determinano la creazione di un fabbricato del tutto diverso debbono essere realizzati nel rispetto delle norme dettate in materia di distanze (cfr. Cass. civ., Sez. II, 3 marzo 2008, n. 5741; Cons. Stato, Sez. IV, 12 giugno 2014, n. 2995; Id. 12 luglio 2002, n. 3929; TAR Sardegna, Sez. II, 5 luglio 2016, n. 566).

10.3 Per dare soluzione alla presente controversia si può pertanto prescindere dalla qualificazione giuridica dell’intervento; e ciò anche perché, nel caso concreto, si potrebbe discutere se – una volta appurato che l’intervento di cui è causa rientra senz’altro nella categoria della nuova costruzione – sia giustificato riservare ad esso un trattamento differenziato in materia di norme sulle distanze rispetto agli interventi del tutto analoghi che ricadono in aree non vincolate (e che per questo unico motivo sono ascrivibili alla categoria della ristrutturazione edilizia), tenuto conto che, come si è detto, le predette norme hanno una finalità (quella di preservare la salubrità dei luoghi) che appare del tutto neutra in rapporto all’interesse volto alla tutela paesaggistica.

10.4 Ciò premesso si deve rilevare che, nel caso specifico, non è contestato (cfr. docc. 9, 13, 14, 15 e 16 di parte ricorrente) che l’intervento oggetto della DIA del 30 gennaio 2014 ha comportato: a) la demolizione di un edificio che – seppur, a seguito del rilascio del permesso di costruire del 18 dicembre 2012, risultava destinato a funzioni residenziali – conservava ancora nel concreto le caratteristiche strutturali di un immobile adibito a deposito e fienile (il suddetto permesso di costruire ha infatti assentito un mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale); b) la conseguente ricostruzione di un fabbricato, con sagoma diversa, avente funzione residenziale ed ospitante ben cinque unità abitative.

Il nuovo fabbricato è, quindi, del tutto diverso dal precedente. Da ciò discende che, in applicazione dei principi sopra illustrati, la sua realizzazione avrebbe dovuto effettuarsi nel rispetto delle distanze legali imposte dall'articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968.

Nel caso concreto, tali prescrizioni non sono state rispettate, in quanto è pacifico che l’immobile ricostruito è collocato ad una distanza inferiore a dieci metri dalla parete finestrata dell’edificio di proprietà della ricorrente e a meno di cinque metri dal confine.

A contrario non vale dedurre che è solo la parte dell’immobile ricostruita sulla sagoma preesistente (quella collocata al piano terra) a non rispettare le norme sulle distanze, mentre la parte che si discosta dalla preesistente sagoma è stata realizzata nello scrupoloso rispetto delle predette norme.

Va difatti osservato che, una volta stabilito che l’opera realizzata è completamente diversa da quella preesistente, essa deve rispettare nella sua interezza le suddette disposizioni, non potendosi, a parere del Collegio, effettuare valutazioni parcellizzate riguardanti le singole porzioni (cfr., sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 844).

10.5 Per tutte queste ragioni, le censure in esame meritano condivisione.

11. Con il secondo motivo del ricorso introduttivo, la ricorrente deduce la violazione dell’articolo 24 delle norme tecniche di attuazione (NTA) del Piano di Governo del Territorio (PGT), in quanto, a suo dire, l’opera avrebbe comportato la creazione di una superficie lorda di pavimento (s.l.p.) superiore rispetto a quella consentita dalla predetta norma.

11.1 In proposito il Collegio osserva quanto segue.

L’articolo 24 delle NTA del PGT disciplina le aree della città consolidata.

Il quinto comma di tale norma stabilisce gli indici di edificabilità, prevedendo fra l’altro che, in caso di nuove costruzioni, la s.l.p. ammessa non può superare il rapporto di 0,65 mq/mq (0,4 mq/mq per le zone di densità media).

La norma continua però affermando che “Sono sempre fatte salve le s.l.p. esistenti, regolarmente assentite e per le rispettive destinazioni d’uso anche in caso di ristrutturazione tramite demolizione e ricostruzione”.

Ritiene il Collegio che la portata di quest’ultima previsione debba essere determinata indagando quali modalità di trasformazione del territorio lo strumento urbanistico abbia inteso in concreto consentire, a prescindere dalla terminologia usata.

E’ bensì vero, infatti, che la disposizione utilizza l’espressione “ristrutturazione edilizia”. E’, però, noto che tale nozione ha subito, negli ultimi anni, una serie ripetuta di modificazioni, che ne hanno talora ampliato, talora ristretto la portata; e ciò soprattutto nella Regione Lombardia.

L’articolo 27, comma 1, lettera d), della legge regionale n. 12 del 2005 comprendeva, infatti, nella nozione di ristrutturazione edilizia anche gli interventi di demolizione e ricostruzione comportanti la modificazione della sagoma. Tuttavia, tale previsione è stata colpita da una declaratoria di illegittimità costituzionale, proprio nella parte in cui escludeva l’applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione (v. C. cost. n. 309 del 23 novembre 2011).

Ancora in prosieguo di tempo, è intervenuto il decreto legge n. 69 del 21 giugno 2013, sopra richiamato, il quale ha incluso gli interventi di demolizione e ricostruzione comportanti modifiche della sagoma nella nozione di ristrutturazione edilizia, salvo – come visto – il caso in cui tali interventi siano effettuati su immobili soggetti a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Queste vicende si sono intersecate con il procedimento di formazione del PGT di Sant’Angelo Lodigiano, che risulta essere stato adottato il 19 marzo 2012 e approvato il 26 ottobre 2012, per poi acquisire efficacia con la pubblicazione dell’apposito avviso sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia n. 47 del 20 novembre 2013.

In un tale contesto, in cui l’iter di formazione del piano si è sviluppato, almeno in parte, nel corso dell’avvicendarsi delle modificazioni della nozione di ristrutturazione edilizia, non può ritenersi consentito attribuire senz’altro all’espressione “ristrutturazione edilizia”, contenuta nel PGT, il significato che essa ha assunto al momento della richiesta del titolo edilizio. L’intento del legislatore, intervenendo sulla nozione di ristrutturazione edilizia, non può infatti ritenersi quello di incidere sulla portata sostanziale degli strumenti urbanistici comunali, sostituendosi all’autonomia spettante agli enti locali nella disciplina d’uso del proprio territorio, bensì semplicemente quello di ridefinire le tipologie degli interventi edilizi, principalmente al fine di individuare il titolo richiesto per ciascuna di esse e il relativo regime giuridico edilizio. E ciò tanto più considerato che il d.P.R. n. 380 del 2001 – recante, all’articolo 3, la definizione degli interventi – contiene la disciplina di fonte statale in materia edilizia, per cui deve essere attentamente vagliata la sua eventuale incidenza sotto il profilo urbanistico, ossia l’idoneità a influire sulla disciplina sostanziale delle trasformazioni consentite in un determinato ambito territoriale in base ai vigenti strumenti pianificatori.

11.2 Ciò posto, occorre quindi chiedersi, come anticipato, quali trasformazioni del territorio si sia inteso consentire, in concreto, mediante la richiamata previsione delle NTA del PGT di Sant’Angelo Lodigiano, a prescindere dalla terminologia impiegata, la quale – in un contesto normativo mutevole quale quello sopra succintamente delineato – è in sé scarsamente significativa.

Ora, dalla lettura di tale previsione, il Collegio ritiene che debba pervenirsi alla conclusione che lo strumento pianificatorio abbia inteso consentire, per tutte le zone della città consolidata, e a prescindere dagli eventuali vincoli, la possibilità di operare tutti gli interventi diretti al recupero delle superfici esistenti, nel rispetto della destinazione assentita.

In questo senso, deve ritenersi che l’inciso “Sono sempre fatte salve” attribuisca alla norma una portata molto ampia e che, quindi, il recupero della superficie esistente sia sempre ammesso indipendentemente dalla qualificazione giuridica dell’intervento.

Non si può invece addurre quale elemento di segno contrario il riferimento alla ristrutturazione (tramite demolizione e ricostruzione) contenuto nella norma, atteso che la parola “anche”, che precede il termine “ristrutturazione”, induce a ritenere che questo riferimento – che peraltro, come detto, non può essere declinato in base alla normativa primaria vigente al tempo del rilascio del titolo, secondo quanto si è detto – non abbia comunque carattere esaustivo, per cui, anche sotto questo profilo, l’intenzione dell’Amministrazione risulta essere stata quella di consentire comunque la ricostruzione della superficie demolita, ferma l’osservanza delle destinazioni d’uso.

A quest’ultimo proposito, occorre precisare che, per valutare il rispetto dell’invarianza della destinazione d’uso – contrariamente a quanto rilevato sopra al fine di stabilire se l’immobile ricostruito sia del tutto diverso dal precedente – non si può che far riferimento alla funzione formalmente attribuita dai titoli edilizi e non già alle caratteristiche strutturali degli edifici interessati.

La finalità dell’articolo 24 delle NTA è, difatti, quella di consentire il recupero della superficie esistente lasciando invariato il carico urbanistico, il quale non può che determinarsi in relazione alla destinazione funzionale formalmente impressa dai titoli edilizi, giacché è in relazione a quest’ultima che vanno calcolate le dotazioni di servizi.

11.3 Ciò premesso, si deve osservare che, con permesso di costruire del 18 dicembre 2012 (non impugnato e tutt’oggi ancora efficace), all’immobile demolito dal controinteressato è stata attribuita destinazione residenziale e che, a fronte di tale formale attribuzione, deve ritenersi ammessa, nei limiti della s.l.p. demolita, la ricostruzione di un edificio avente la medesima funzione residenziale.

11.4 In questo quadro, appare evidente come la doglianza in esame sia priva di fondamento, in quanto l’immobile ricostruito ha la medesima destinazione funzionale di quello preesistente e non supera la sua s.l.p.

Al riguardo, deve infatti rilevarsi che non colgono nel segno le considerazioni della ricorrente, la quale afferma che, in ogni caso, la chiusura dei porticati avrebbe determinato una diversa modalità di utilizzazione della superficie preesistente, comportando la formazione di ulteriore volumetria, idonea a generare un maggiore carico urbanistico.

E invero, la volumetria recuperata all’uso residenziale mediante il citato permesso di costruire (come detto, mai impugnato), e in relazione alla quale è stato corrisposto il contributo di costruzione commisurato agli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, risulta essere pari a 956,13 metri cubi (v. docc. 1, 2 e 3 del controinteressato), come tale superiore rispetto alla volumetria oggetto della DIA, che la stessa ricorrente indica in circa 930 metri cubi.

12. La ricorrente ha sostenuto poi che, laddove l’intervento fosse ritenuto conforme all’articolo 24 delle NTA del PGT, sarebbe quest’ultima disposizione a risultare illegittima, per contrasto con l’articolo 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, come modificato dal decreto legge n. 69 del 2013. Ciò in quanto per gli immobili vincolati non sarebbe possibile procedere al recupero della superficie esistente mediante demolizione e ricostruzione senza rispetto della sagoma, esulando tali interventi dalla ristrutturazione edilizia.

12.1 La censura è infondata.

Come detto, la disciplina introdotta dal decreto legge n. 69 del 2013 ha inteso semplicemente stabilire quali interventi ricadano nella nozione di ristrutturazione edilizia, ai fini dell’applicazione della disciplina concernente il regime giuridico edilizio degli interventi. Come pure detto, non può ritenersi che, mediante tale previsione, il legislatore statale abbia inteso incidere sulla portata sostanziale delle previsioni degli strumenti urbanistici, ampliando o restringendo il novero delle trasformazioni da questi consentite nelle diverse porzioni del territorio comunale.

Né tanto meno potrebbe ritenersi che la nuova disciplina abbia inteso vietare gli interventi di demolizione e ricostruzione senza rispetto della sagoma in relazione agli immobili vincolati: tali interventi sono, infatti, semplicemente assoggettati al regime edilizio proprio della nuova costruzione, oltre che alla disciplina di tutela ad essi relativa.

12.2 Per tutte le ragioni sin qui esposte, non è quindi neppure astrattamente ipotizzabile un contrasto tra la previsione pianificatoria del PGT – che si limita a stabilire, sul piano della disciplina urbanistica, le trasformazioni consentite nelle diverse porzioni del territorio comunale – e la normativa primaria che definisce le tipologie degli interventi edilizi.

13. Infine, con il quarto motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la violazione delle norme riguardanti la distanza fra il fabbricato del controinteressato e l’attiguo parcheggio pubblico.

Ritiene il Collegio che il motivo sia, in parte, tardivo in quanto, come visto, la ricorrente non ha tempestivamente impugnato la delibera di Giunta comunale n. 31 del 12 marzo 2014 con cui il Comune ha assentito la deroga alle suddette norme.

La ricorrente sostiene peraltro che il controinteressato non avrebbe rispettato nemmeno la suindicata delibera (la quale prescrive il rispetto di una distanza minima pari a tre metri), avendo egli anche costruito sul confine del parcheggio.

Questa specifica censura è infondata in quanto, nel consentire la deroga alle norme sulle distanze, la delibera non si occupa della possibilità di edificare a confine; possibilità che deve considerarsi, dunque, ammessa nei sensi e nei limiti indicati dall’articolo 24 della NTA del PGT (si specifica che la ricorrente non contesta, in questa sede, il travalicamento dei limiti indicati da tale disposizione, che per questa parte non è stata neppure impugnata).

14. Sono state a questo punto esaminate tutte le censure contenute nel ricorso principale e nei motivi aggiunti i quali – essendo meritevoli di accoglimento il primo e ed il terzo motivo del ricorso principale nonché tutti i motivi dei motivi aggiunti – risultano fondati.

15. Occorre, quindi, passare all’esame del ricorso incidentale.

16. Per quanto riguarda la domanda riconvenzionale, con cui è stata dedotta l’exceptio doli, si rimanda a quanto illustrato sopra.

17. Per quanto riguarda la doglianza che lamenta che l’atto impugnato avrebbe ammesso la possibilità di esercitare il potere inibitorio nonostante il decorso del termine previsto per l’esercizio di tale potere, il Collegio deve osservare che il suddetto atto non si è affatto pronunciato in proposito.

Come detto, l’Amministrazione, nel caso specifico, si è limitata a riscontrare l’insussistenza dei profili di illegittimità denunciati dalla ricorrente e, sulla base di questo riscontro, ha respinto la sua istanza. Non vi è stata dunque alcuna esplicita ammissione dell’astratta possibilità di esercitare il potere inibitorio puro.

Né può dirsi che tale ammissione sia stata effettuata implicitamente con tale pronuncia. La valutazione circa la sussistenza dei vizi denunciati dal terzo andava infatti comunque condotta al fine di valutare la possibilità di effettuare intervento subordinato al riscontro dei presupposti previsti per l’autotutela; intervento che, come visto, secondo la Sezione, può essere esercitato anche dopo la scadenza del termine sancito per l’esercizio del potere inibitorio puro.

18. Per quanto riguarda, infine, la censure mosse contro l’articolo 11 delle NTA del PGT, nella parte in cui si ritenga che tale norma imponga di ascrivere l’intervento di cui è causa alla categoria della nuova costruzione, il Collegio deve rilevare la mancanza di interesse alla deduzione di tale censura, posto che, come visto, la qualificazione del suindicato intervento è stata effettuata in questa sede a prescindere dalle prescrizioni contenute in tale norma; e che, anzi, i vizi relativi alla violazione delle norme sulle distanze sono stati addirittura rilevati prescindendo dalla qualificazione dell’intervento.

19. Per tutte queste ragioni, il ricorso incidentale è infondato.

20. In conclusione, il ricorso principale ed i motivi aggiunti vanno accolti nei sensi e nei limiti sopra illustrati, mentre va respinto il ricorso incidentale.

21. La notevole complessità delle questioni affrontate induce il Collegio a disporre la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, sui motivi aggiunti e sul ricorso incidentale, come in epigrafe proposti, accoglie il ricorso principale e i motivi aggiunti nei sensi e nei limiti indicati in motivazione.

Respinge il ricorso incidentale.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 30 settembre 2016 con l'intervento dei magistrati:

Mario Mosconi, Presidente

Antonio De Vita, Consigliere

Floriana Venera Di Mauro, Referendario, Estensore

         
         
L'ESTENSORE        IL PRESIDENTE
Floriana Venera Di Mauro        Mario Mosconi
         
         
         
         
         

IL SEGRETARIO