Il valore culturale della copia

di Pierpaolo CARBONE

 

Avvocato in Roma

Lemme Avvocati Associati

 

Partiamo dalle parole per attingere alla semantica delle cose. Usiamo definire copia un disegno, una pittura, una scultura, un’incisione che riproduca più o meno fedelmente un’opera d’arte.

Il complesso fenomeno della copia è tradizionalmente legato alla fortuna di un artista o di un’opera, e rientra pertanto nella storia del gusto e del collezionismo. L’uso di copie di originali famosi (in pittura e in scultura) si diffonde soprattutto a partire dal periodo ellenistico – quello in cui l’espressione artistica acquista valore di per sé, per intrinseci attributi estetici, per un’identità autonoma rispetto allo scopo (rituale, magico, sacrificale, liturgico) – in cui l’arte aggiunge alla tradizionale eteroreferenzialità un’orgogliosa e consapevole autoreferenzialità.

È un processo parallelo al sorgere di collezioni come quelle di Pergamo e di Alessandria, e si diffonde soprattutto dopo la conquista romana della Grecia: col nitore abituale, Orazio ebbe a chiosare in proposito “Graecia capta ferum victorem cepit”, allorché capolavori di riconosciuto valore artistico furono esemplati e diffusi dalla Grecia al mondo.

Fin dall’età romana, dunque, per tutto il Medioevo e ancora durante l’Età Moderna, la copia è stata mezzo di divulgazione di modelli, occasione preziosa di dare, a chi ne fosse interessato, opportunità di lettura interpretativa di opere esemplari, in un contesto storico-sociale in cui l’originalità non era un valore primario, né copiare era considerato disdicevole. Gli antichi, infatti, non ebbero un concetto della proprietà intellettuale simile al nostro copyright. L’unico metro per valutare una pittura o una scultura era quello della téchne, dell’abilità artiginale, del saper fare. Il copista era uno scultore che non faceva un lavoro diverso da quello dell’artista da cui copiava, e dunque firmava serenamente la copia col suo nome, limitandosi ad aggiungervi “epoiei”, “epoiesen” (fece), esattamente come lo scultore che aveva realizzato il cosiddetto originale.

Da sempre, la copia si pone come instrumentum di conoscenza, mezzo a servizio dell’arte, tramite comunicativo tra l’opera e il pubblico.

Su un punto occorre fare fin d’ora chiarezza, ed è il rapporto di totale alterità intercorrente tra la copia e il falso: la differenza è teleologicamente depositata sull’intenzionalità non fraudolenta della prima rispetto al secondo, che, in ultima analisi, riscatta moralmente quella mentre condanna questo.

Anzi, proprio lo studio delle copie consente spesso di procedere ad una scientifica, metodica e minuziosa constitutio texti, come si fa per la filologia letteraria, per arrivare alla ri-costruzione astratta e mentale, ma assolutamente verosimile, dell’archetipo, dell’originale perduto che di quelle copie è il capostipite.

La stessa legge sul diritto d’autore riconosce un posto di assoluto rilievo alla copia, distinguendo le opere replicate dall'autore e le "riproduzioni comunque eseguite" per indicare il diverso valore, in termini economici e artistici, delle semplici riproduzioni rispetto alle repliche, equiparate all'originale (art. 145, co. 2, l.d.a., secondo cui “Le copie delle opere delle arti figurative prodotte in numero limitato dall'autore stesso o sotto la sua autorità, sono considerate come originali purchè siano numerate, firmate o altrimenti debitamente autorizzate dall'autore”).Solo a queste ultime si applica la disciplina sull'aumento di valore, detto anche diritto di seguito (artt. 144-155 l.d.a.).

In tale contesto, non sorprende che lo status giuridico di “bene culturale”1 (e il connesso regime limitativo della libera circolazione), definito ai sensi del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (di seguito solo “Codice”), possa essere oggi riferito anche a quelle opere d’arte (di proprietà pubblica o privata, non importa) che sono copie di originali ben più famosi, spesso andati perduti.

Tuttavia, una volta intervenuta la dichiarazione dell’interesse culturale (ex art. 13 del D.Lgs n. 42/2004 e ss.mm.ii.) di un bene costituente una copia, per il nostro ordinamento quest’ultimo si trova ad essere assoggettato ad un regime giuridico particolare nel quale confluiscono due ordini di interessi (aspettative dei soggetti privati ed esigenze pubblicistiche) talvolta in antitesi.

Il che, anche se non altera la relazione di appartenenza della copia avente un riconosciuto interesse culturale (conservata nella proprietà preesistente e di massima nella disciplina di diritto privato), la sottopone contemporaneamente ad una disciplina pubblicistica (per la rilevanza sociale e di fruizione collettiva), che si sovrappone a quella che il bene in questione ha a prescindere dalla qualificazione giuridica di “culturale”2.

E’ noto, infatti, che la disciplina prevista dal D.Lgs n. 42/2004 e ss.mm.ii. in ordine ai beni culturali (non distinguendo, al riguardo, tra originali e copie) pone dei significativi limiti alle tradizionali facoltà del diritto di proprietà sia in relazione al diritto di fruire dei beni sia in relazione al diritto di alienarli, giungendo fino all’azzeramento del diritto di proprietà, allorché titolare del diritto sui beni sia un soggetto privato3.

In tal caso, alla Pubblica Amministrazione è attribuito l’incisivo potere di conformare4 e regolare, anche attraverso provvedimenti amministrativi ad hoc, diritti e comportamenti dei privati inerenti il patrimonio culturale, anche per evitare fenomeni di depauperamento e di dispersione del patrimonio culturale nel suo insieme (artt. 43, 53-64 Codice, relativi alla circolazione dei beni culturali in ambito nazionale; artt. 65-87 Codice, relativi all’uscita o all’ingresso dei beni culturali dal o nel territorio nazionale).

Tradizionalmente il fondamento di suddetto potere viene individuato nell’art. 9 della Costituzione e si giustifica in relazione al fine (cui è tenuta l’Autorità pubblica) di salvaguardare beni (originali e copie), comunque facenti parte del patrimonio culturale della Nazione, ai quali sono connessi interessi collettivi primari per la vita del Paese.

Tuttavia, l’art. 42 della Costituzione legittima la Pubblica Amministrazione ad imporre vincoli sui beni, e addirittura a determinarne la privazione (trasferimento coattivo a favore dello Stato), solo quando l’interesse pubblico (sociale) lo richiede.

In particolare, per quanto riguarda il bene culturale, il limite al diritto di proprietà sul bene, che legittima a livello costituzionale la potestà pubblica ad intervenire per la sua tutela - sia conformando le facoltà proprietarie sia annullando il diritto dominicale - è la sua stessa qualità, quale interesse pubblico (sociale) artistico, storico, archeologico ed etnoantropologico.

Ciò vale soprattutto quando il bene di cui si discute è una copia (spesso anonima) dell’originale firmato, già oggetto della speciale tutela prevista in materia.

Ed invero, il semplice fatto che un’opera sia qualificabile come prodotto di un’espressione artistica comunemente accettata e riconosciuta, non può ritenersi sufficiente a far ricadere la medesima opera nell’ambito della tutela vincolistica ex D.Lgs n. 42/2004 e ss.mm.ii.. Se così fosse, il sistema di tutela sarebbe viziato da un’irrazionale ipertrofia, a tutto discapito del diritto dominicale del privato (avente pari dignità costituzionale), ingiustificatamente compresso.

Non v’è dubbio, infatti, che la mera copia perde rispetto all’originale (laddove questo sia già presente al patrimonio artistico e per questo tutelato) quella connotazione di valore culturale, presupposto basico per l’estensione del regime di tutela previsto dal Codice Urbani.

Come osservato da autorevole dottrina5, “La cosa deve avere un interesse qualificato e particolare; e solo se ha quell’interesse è sottoposta alle norme della legge 1089 … Non basta, quindi, che quelle cose presentino l’interesse di cui all’art. 1, interesse che per comodità espositiva, chiameremo semplice, ma occorre che si tratti di un interesse particolarmente importante”.

L’interesse, il valore o il pregio devono quindi essere particolarmente qualificati e collettivamente considerati come importanti per la cultura ed il patrimonio nazionale. Pertanto, nelle valutazioni in ordine all'esistenza di un interesse culturale ex art. 13 D.Lgs n. 42/2004 e ss.mm.ii., tali da giustificare l'apposizione del relativo vincolo ed il conseguente regime dominicale, l'Amministrazione competente dovrà (rectius, dovrebbe) preliminarmente procedere ad un accertamento rigoroso di tutti gli elementi rivelatori del carattere di bene culturale della copia, tra cui, ad es., l’individuazione della sua esatta collocazione storico-temporale (soprattutto quando tale aspetto sia controverso e dirimente) e della sua relazione con l’originale, già incluso nel patrimonio nazionale e, dunque, oggetto di autonoma tutela.

Come ribadito nell’estetica crociana, infatti, tutto ciò che è espresso adeguatamente, è Bello, ma non tutto ciò che è Bello, è Arte.

E se il valore culturale è attributo intrinseco dell’Arte, la bellezza non basta a tracciarne l’identità: la copia, la più bella come la meno bella, non è che la tessera di un’opera musiva documentaria, apparato critico della bellezza dell’Arte. Autentica.

1 L’espressione “bene culturale” fu adottata per la prima volta dalla Commissione Franceschini di cui alla L. 24.04.1964, n. 310 e fu codificata con la legge istitutiva del Ministero dei Beni Culturali ed ambientali (D.L. 14.10.1974, n. 657, convertito in L. 29.01.1975, n. 5), nonché utilizzata nella legislazione successiva. Il D.Lgs 31.03.1998, n. 112 ha poi dato la definizione di beni culturali (indicandone in astratto le caratteristiche) recepita dal Codice Urbani.

2 Per un approfondimento cfr. Armando Calogero, La prelazione artistica sui beni culturali di proprietà privata, su www.innovazionediritto.unina.it.

3 Cfr. AA.VV., Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di A. Angiuli – V. Caputi Jambrenghi, Giappichelli Editore, Torino, 2005, pag. 66 e ss..; Tiziana Autieri, Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, Maggioli, 2007, pag. 161 e ss.

4 Gli atti conformativi si  distinguono da quelli espropriativi poichè: 1) producono sempre un effetto privativo delle facoltà del destinatario del provvedimento; 2) non possono sconfinare nell’effetto acquisitivo del diritto di proprietà; 3) non comportano l’obbligo della corresponsione di un indennizzo da parte della Pubblica Amministrazione.

5 A. Mansi, La tutela dei beni culturali, Cedam, 1993, pag. 40 e ss.