TAR Lombardia (BS) Sez. II n. 965 del 7 novembre 2019
Urbanistica.Natura reale della sanzione repressiva degli abusi edilizi

Gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile (l’estraneità agli abusi assumendo comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell’ordine giuridico violato , anche quando non vi siano circostanze che inducano a ritenere sussistere un intento elusivo.Analoga applicazione deve, dunque, avere il ricorso alla sanzione pecuniaria quale misura sostitutiva dell’ordine di demolizione con funzione non afflittiva, ma ripristinatoria.


Pubblicato il 07/11/2019

N. 00965/2019 REG.PROV.COLL.

N. 00118/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 118 del 2019, proposto da
Banca Carige S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Andrea Mozzati e Glauco Stagnaro, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Comune di Seriate, rappresentato e difeso dall'avvocato Aldo Coppetti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato e domiciliata in Brescia, via S. Caterina, 6, presso gli Uffici di quest’ultima;

nei confronti

Il Gatto '85 S.r.l. in Fallimento, Curatela del Fallimento il Gatto '85 S.r.l., non costituiti in giudizio;

per l'annullamento

- dell’ordinanza del Comune di Seriate n. 74/2018 del 26 luglio 2018, notificata in pari data, adottata ex art. 38 del DPR n. 380/2001, di applicazione della sanzione pecuniaria determinata dall’Agenzia delle Entrate, per gli interventi edilizi di cui al permesso di costruire in variante E/05/93/1, annullato dal Tar Lombardia con sentenze divenute definitive 1711/2008, 1710/2008 e 1709/2008, nella parte in cui ha individuato quale obbligato in via sussidiaria la banca ricorrente;

- di ogni altro atto o provvedimento, presupposto, consequenziale o comunque connesso e, in particolare:

-- della nota comunale 14/4/2017, prot. 13678 (comunicazione di avvio del procedimento);

-- della relazione di stima del valore venale dell'immobile sito in Seriate, via Dante Alighieri nn. 16-28, redatta dall'Agenzia delle Entrate – Ufficio Provinciale Territorio di Bergamo in data 24/11/2017;

-- della nota comunale 6/6/2018, prot. 22804 (comunicazione integrativa all'avvio del procedimento).


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Seriate e dell’Agenzia delle Entrate;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 ottobre 2019 la dott.ssa Mara Bertagnolli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

La controversia in esame nasce dalla trasposizione in sede giudiziale del ricorso straordinario presentato al Presidente della Repubblica dalla Banca Carige s.p.a., quale proprietaria di due unità immobiliari realizzate e vendute dalla Il Gatto 85 s.r.l. e cedute in locazione finanziaria alla Celeste Intermediazioni s.r.l., che ha autonomamente impugnato i medesimi atti.

La banca ricorrente ha preliminarmente rappresentato di non aver avuto alcuna consapevolezza (avendo regolarmente acquistato gli immobili con certificato di agibilità e idoneità alloggiativa) della contestazione della legittimità della costruzione con recupero del sottotetto fino alla comunicazione del 19 aprile 2017, di avvio del procedimento per l’esecuzione delle sentenze 1709, 1710 e 1711 del 2008, di annullamento del permesso di costruire. Ricevuto, quindi, il provvedimento conclusivo del procedimento, con cui è stata irrogata la sanzione pecuniaria, ritenutolo illegittimo, lo ha impugnato deducendo:

1. Violazione e falsa applicazione dell'art. 38 TU Edilizia per carenza assoluta dei presupposti e travisamento dei fatti, in quanto “il permesso in variante E/05/93/1 (ns. doc. 2) è attualmente valido ed efficace. Infatti, le sentenze di annullamento come sopra emanate dal T.A.R. sono state riformate dal Consiglio di Stato per effetto dei decreti di estinzione degli appelli proposti da Il Gatto '85 avverso tali pronunce, in conseguenza dell'accordo transattivo medio tempore raggiunto dalla stessa società con i ricorrenti in primo grado” (così il ricorso a pag. 7);

2. Violazione dell’art. 3 della legge 241/90 e dell'art. 38 TU Edilizia ed in generale del DPR n. 380/01 e carenza assoluta di indicazione e valutazione dei motivi per la mancata rimozione dei vizi della procedura amministrativa. L’amministrazione avrebbe dovuto valutare la possibilità della rimozione dei vizi della procedura amministrativa, ovvero motivare espressamente il perché la rimozione sia stata ritenuta non possibile. Secondo parte ricorrente, infatti, l’originaria illegittimità del permesso di costruire, annullato dalle sentenze del TAR, sarebbe venuta meno a seguito dell’approvazione medio tempore della variante al PRG da parte del Consiglio Comunale di Seriate e dell’integrale rinuncia dei confinanti;

3. Violazione dell’art. 28, legge n. 689/1981; artt. 1 e 3, legge n. 241/1990; art. 38, d.p.r. n. 380/2001. Secondo la tesi di parte ricorrente, il Comune avrebbe dovuto emanare il relativo provvedimento entro il termine perentorio di cinque anni previsto dall'art. 28 della legge n. 689/1981 e decorrente dalla pubblicazione delle suddette sentenze di primo grado: ossia entro il 27/11/2013;

4. Violazione degli artt. 29 e 38 TU Edilizia e conseguente difetto di legittimazione passiva della società ricorrente, atteso che tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie sarebbero, a norma dell’art. 29, solo "il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore". L’applicazione della sanzione nei loro confronti, che hanno già corrisposto il valore di mercato dell’immobile così come realizzato, comporterebbe, nei loro confronti, la duplicazione del costo per l’acquisto;

5. Violazione dell’art. 3, legge 241/90 e dell’art. 38 DPR 380/2001, in quanto, secondo la ricorrente, i proprietari delle singole unità si troverebbero a dover corrispondere una sanzione pecuniaria in difetto di precise indicazioni sul punto e, segnatamente, sull'importo illegittimamente posto a loro carico;

6. Violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità. Le impugnate determinazioni comunali sarebbero eccessivamente gravose per gli interessati e, come tali, incompatibili con il principio di proporzionalità dell'azione amministrativa, atteso che la difformità rispetto al permesso di costruire è risultata essere parziale (e cioè relativa solo al recupero del sottotetto ai fini abitativi del terzo piano e ad alcune modifiche dei tavolati e delle aperture). In ogni caso la sanzione avrebbe dovuto essere applicata ai singoli proprietari in relazione alla quota di proprietà n misura “proporzionale al valore dell'unità immobiliare” che appartiene a ciascuno di essi ex art. 1118, co. 1, c.c..;

7. Violazione dell’art. 38 DRP 308/2001 e della Legge n. 241/90, per la palese omessa instaurazione del contradditorio in merito alla valutazione del valore venale, che avrebbe comportato il vizio principale della quantificazione della sanzione sulla base del valore di mercato dei beni al momento della loro realizzazione e non anche al valore di mercato attuale;

8. Violazione dell’art. 38 DRP 308/2001, dell’art. 97 Cost. e della Legge n. 241/90 nell’effettuazione della stima in assenza di un sopralluogo, assumendo superfici errate, considerando il prezzo della regolarizzazione ad oggi, utilizzando il prezziario di Milano e non di Bergamo riferito all’anno 2014, preferendo un criterio di stima indiretto (laddove sarebbe stato più opportuno il ricorso alla stima diretta, in base al valore di mercato) e includendo gli oneri di urbanizzazione che sono già stati pagati.

Si è costituita in giudizio l’Agenzia delle Entrate eccependo, in primo luogo, il proprio difetto di legittimazione passiva, non essendo la stima autonomamente impugnabile: l’Agenzia si sarebbe limitata a una mera operazione di estimo, sulla base della documentazione inviata dal Comune, senza operare alcun accertamento della corrispondenza alla realtà.

Il calcolo del valore di mercato sarebbe, comunque, stato operato in modo corretto ed eventuali errori nella moltiplicazione del valore unitario per la superficie contestata avrebbero potuto essere emendati direttamente dal Comune.

Il Comune, invece, ha depositato una difesa fondata essenzialmente sulle seguenti considerazioni:

a) le sentenze di primo grado, favorevoli ai ricorrenti, sono passate in giudicato, non avendo mai, gli stessi, nemmeno dopo la sottoscrizione dell’accordo transattivo, depositato una rinuncia ai ricorsi e/o una rinuncia agli effetti delle sentenze;

b) la motivazione dell’applicazione della sanzione sarebbe sufficiente, considerato che nel provvedimento si legge come l’annullamento giurisdizionale del titolo edilizio sia derivato dalla “violazione delle disposizioni di cui alla legge regionale 12/2005 e delle norme tecniche allora vigenti, con particolare riguardo all’altezza massima raggiungibile del fabbricato”. Inoltre, al penultimo capoverso di pagina 4, il Comune ha specificato che il caso di specie non ricadeva in ipotesi di vizio di procedura amministrativa, dal momento che la violazione accertata dalle sentenze passate in giudicato riguardava il contrasto con le NTA procurato dal mancato rispetto dell’altezza massima ammessa nella zona (centro storico) e, dunque, costituiva una violazione sostanziale e non formale;

c) gli illeciti in materia edilizia hanno la caratteristiche di essere permanenti e, dunque, non può applicarsi il termine di prescrizione indicato nel ricorso;

d) non può essere ravvisato l’eccepito difetto di legittimazione passiva degli attuali proprietari, atteso che è jus receptum che i proprietari che risultino tali al momento dell’adozione del provvedimento siano tenuti sia alla demolizione, che al pagamento della sanzione (avente anch’essa carattere reale e ripristinatorio), a prescindere dal fatto che non siano autori dell’abuso. La sanzione sarebbe, dunque, unica, e si estinguerebbe una volta adempiuta, a prescindere da chi vi abbia provveduto (in via principale dovrebbe essere la società Il Gatto e in via sussidiaria, in caso di inadempimento, i proprietari attuali). I singoli proprietari, come chiarito nel provvedimento, rispondono “in ragione dei rispettivi titoli di proprietà”, tenuto conto che l’obbligazione è divisibile, in ragione dei millesimi posseduti nel condominio, quindi anche sotto questo profilo il provvedimento non potrebbe essere ritenuto illegittimo;

e) poiché la sanzione è unica, il provvedimento non può essere illegittimo per il fatto che la sanatoria conseguirà solo al pagamento integrale di esso e che la stima è stata effettuata considerando l’abuso come unico;

f) la sanzione sarebbe stata correttamente comminata anche nei confronti della società ricorrente, pur non essendo proprietaria di porzioni interessate dall’illegittimo innalzamento, in quanto la non conformità alla norma è stata ravvisata in relazione all’altezza dell’edificio e, dunque, l’abuso afferisce a un profilo che necessariamente coinvolge l’immobile nella sua interezza;

g) non sarebbe ravvisabile alcuna violazione del principio di partecipazione conseguente alla mancata instaurazione del contraddittorio sulla valutazione del valore venale;

h) la valutazione operata dall’organo competente sarebbe improntata ad equilibrio e il Comune non aveva l’obbligo di formulare osservazioni come voluto da parte ricorrente. L’ammontare stimato sarebbe adeguato, rimettendone la dimostrazione all’Agenzia delle Entrate.

Alla difesa del Comune hanno fatto seguito due memorie di Banca Carige (conclusionale e di replica, rispettivamente depositate il 23 settembre e il 2 ottobre 2019), nelle quali la ricorrente ha ribadito la fondatezza delle proprie domande, precisando che le censure dedotte riguardano sia i criteri di ripartizione della sanzione tra i proprietari, sia la metodologia di indagine e di calcolo del valore venale delle opere.

Il Comune, ha integrato la linea difensiva già dispiegata, rigettando la tesi dell’imputabilità del calcolo al Comune, in quanto soggetto obbligato ad applicare la valutazione operata dall’Agenzia delle Entrate, specificando che la richiesta di stima era corredata di tutti gli allegati necessari per accertare le reali dimensioni dell’abuso e precisando che l’altezza dei locali sarebbe di per sé irrilevante laddove si applichi, come nella fattispecie, un criterio di calcolo per metro quadrato di superficie abitabile. Peraltro, anche la trasformazione dei locali adibiti a deposito in box avrebbe dovuto determinare un maggior valore che, invece, non sarebbe stato considerato.

In ogni caso, il Comune si è reso disponibile alla restituzione delle somme pagate a titolo di contributo di costruzione in relazione al permesso di costruire annullato.

Alla pubblica udienza del 24 ottobre 2019, la causa, su conforme richiesta dei procuratori delle parti, è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

Il permesso di costruire rilasciato al soggetto dante causa della società odierna ricorrente è stato annullato con le sentenze di primo grado che hanno accolto i ricorsi dei proprietari confinanti rispetto all’area edificata dalla Gatto s.r.l. 85. Tali pronunce sono passate in giudicato, non avendo mai, i suddetti ricorrenti, nemmeno dopo la sottoscrizione dell’accordo transattivo che ha portato all’abbandono dell’appello proposto dalla Gatto 85 s.r.l., depositato una rinuncia ai ricorsi e/o una rinuncia agli effetti delle sentenze.

In ragione di ciò, e considerato che, in ogni caso, gli impegni assunti in sede transattiva potevano al più rilevare sotto il profilo dei rapporti di vicinato, ma non esplicare effetti “sananti” in relazione alla violazione ravvisata dal Giudice amministrativo, attinente alla normativa urbanistica che prescriveva l’altezza massima dei fabbricati e/o il mantenimento della sagoma planivolumetrica e, dunque, posta a tutela di interessi indisponibili da parte dei proprietari, l’applicazione della sanzione motivata proprio da tale annullamento in sede giurisdizionale del titolo edilizio, conseguente alla ravvisata “violazione delle disposizioni di cui alla legge regionale 12/2005 e delle norme tecniche allora vigenti, con particolare riguardo all’altezza massima raggiungibile del fabbricato” e, quindi, alla violazione di una norma sostanziale e non formale, appare supportata da adeguata motivazione.

Quanto alla prima censura, infatti, il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi dalla giurisprudenza che ha affermato il principio secondo cui “L'estinzione del procedimento di appello […] fa passare in giudicato la sentenza impugnata” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 10.05.2018, n. 2800; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 21.03.2018, n. 1737; T.AR. Veneto, Sez. III, 14.07.2016, n. 825) e “l'effetto estintivo del giudizio di impugnazione può ottenersi solamente attraverso una formale ed espressa rinuncia da parte dell'appellato vittorioso tanto al ricorso di primo grado quanto agli effetti della sentenza favorevole, mediante atto notificato alla controparte e reso nelle forme previste dall'art. 46, R.D. 17 agosto 1907, n. 642, ciò che determina l'annullamento senza rinvio della sentenza appellata ai sensi dell'art. 34, comma 1, L. n. 1034 del 1971” (Cons. Stato, Sez. IV, 21.2.2005, n. 553).

È pur vero che, nella sentenza del Consiglio di Stato n. 1909/2017, il consenso del terzo danneggiato dalla costruzione (sopravvenuto, come nel caso in esame) è stato ritenuto determinante al fine di superare gli effetti dell’illegittimità del permesso di costruire rilasciato, ma in quella fattispecie, invocata da parte ricorrente come precedente a favore, il vizio coincideva con la mancanza del consenso di uno dei comproprietari del terreno all’edificazione, la sopravvenienza del quale ha, in concreto ed oggettivamente, fatto venire meno il vizio stesso.

Nel caso in esame, invece, la violazione fatta valere è rappresentata dal mancato rispetto della disciplina che regola l’altezza massima degli edifici, accertata con una sentenza di primo grado, originariamente appellata, ma poi passata in giudicato per effetto della perenzione del ricorso di secondo grado. Pertanto, considerato che nell’accordo transattivo nulla è stato esplicitamente detto con riferimento alla rinuncia al ricorso di primo grado, necessaria per determinare la caducazione degli effetti della sentenza, essa rimane efficace e obbligatoria nei confronti del suo destinatario principale e cioè il Comune, anche se i ricorrenti hanno implicitamente rinunciato agli effetti della stessa nei confronti del soggetto che ha realizzato l’abuso.

L’accordo transattivo, infatti, non può avere effetti nei confronti del Comune, parte soccombente in un giudizio definito con una sentenza passata in giudicato alla cui esecuzione non può sottrarsi per effetto di una pattuizione di natura privatistica tra ricorrenti e società controinteressata.

Accertata la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 38 del DPR 380/2001, si può procedere all’esame della seconda doglianza, con cui la ricorrente lamenta che il Comune non avrebbe indicato i motivi per i quali ha ritenuto non fosse possibile rimuovere i vizi della procedura amministrativa e avrebbe erroneamente applicato la sanzione pecuniaria, invece che concedere la sanatoria, a seguito della rimozione dei vizi della procedura amministrativa, senza applicazione di sanzione. Ciò sulla scorta del principio affermato, tra le tante, nella sentenza del TAR Napoli, n. 2871 del 30 maggio 2017, secondo cui un nuovo permesso di costruire può essere rilasciato ai sensi dell’art. 38 quando alla luce delle nuove norme urbanistiche il permesso sarebbe legittimamente assentibile.

A tale proposito, il Collegio ritiene di poter condividere i principi ricavabili dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 3795 del 28 luglio 2017, la quale prende le mosse dal testo dell’art. 38 del T.U. 380/2001, che stabilisce che: «In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite»: sanzione che, ove pagata, produce gli stessi effetti di un permesso di costruire in sanatoria. Ciò premesso, il giudice d’appello, ha affermato, che “la norma è ispirata ad un principio di tutela degli interessi del privato, il quale ha realizzato le opere in base ad un titolo che in quel momento era efficace ed è stato annullato solo in un secondo tempo” (così C.d.S., sez. VI, 27 aprile 2015, n. 2137). Di conseguenza, il Comune, in linea di principio, deve valutare se sia possibile rilasciare un ulteriore permesso di costruire emendato dai vizi (C.d.S., sez. IV, 17 maggio 2012, n. 2852). Ciò però non avviene senza limiti (come evidenziato da C.d.S., sez. VI, 10 settembre 2015, n. 4221).

Il Comune, infatti, può disporre la rimozione dei vizi anzitutto ove si tratti di vizi formali o procedurali; può procedervi anche nel caso di vizi sostanziali, ma solo ove si tratti di vizi emendabili, mentre in tutti gli altri casi, ovvero nel caso di vizi sostanziali insanabili, deve esercitare i propri poteri repressivi e disporre, in primo luogo, la rimessione in pristino, che è la ordinaria conseguenza nel caso di commissione di abusi edilizi.

Nella fattispecie, considerato che oltre a sussistere un vizio sostanziale e non formale di cui è dato ampiamente conto nel provvedimento, anche la possibilità di sanatoria ex art. 36 del T.U. Edilizia risultava essere esclusa dalle stesse sentenze di annullamento del titolo edilizio, quantomeno con riferimento alla violazione principale e cioè quella dell’altezza massima dell’edificio, il comportamento del Comune risulta essere conforme alla norma e immune dai vizi dedotti.

La scelta operata dal Comune, appare, dunque, in linea con la recentissima sentenza n. 6284 del 23 settembre 2019, con cui il Consiglio di Stato ha ribadito come l’applicazione della sanzione, in luogo dell’ordine di rimozione sia insita nel trattamento più favorevole riservato dal legislatore a colui che abbia costruito sulla scorta di un permesso di costruire poi annullato e, quindi, sulla scorta di un legittimo affidamento. Ne deriva un regime speciale, che differenzia la posizione del costruttore che abbia avviato e concluso i lavori sulla base di un titolo ottenuto, rispetto a quella di chi abbia costruito abusivamente e che trova il proprio fondamento oltre che nell’impossibilità della demolizione con nocumento alle parti legittime della costruzione stessa, nella specifica salvaguardia dell’affidamento eventualmente riposto dall’autore dell’intervento circa la presunzione di legittimità e, comunque, sull’efficacia del titolo assentito.

Tale regime di favore si articola attraverso tre diversi possibili rimedi. Il primo è rappresentato dalla sanatoria della procedura nei casi in cui sia possibile la rimozione dei vizi della procedura amministrativa, con conseguente non applicazione di alcuna sanzione edilizia, ricondotta pacificamente dalla giurisprudenza al caso di vizi formali o procedurali e solo in casi eccezionali di vizi sostanziali. Nel caso in cui non sia possibile la sanatoria, l'amministrazione è obbligata ad applicare la sanzione in forma specifica della demolizione e soltanto nel caso in cui non sia possibile applicare la sanzione in forma specifica, in ragione della natura delle opere realizzate, l'amministrazione è obbligata ad applicare la sanzione pecuniaria nel rispetto delle modalità sopra indicate.

Pertanto, anche senza voler applicare il più rigido orientamento giurisprudenziale, secondo cui “non è compito del Comune verificare l'astratta sanabilità dell'opera, in assenza di qualsivoglia istanza di accertamento di conformità proposta dagli interessati (cfr. T.A.R. Napoli, (Campania), sez. IV, 18/09/2013, n. 4338)”, non può ravvisarsi la dedotta, nel ricorso, violazione dell’art. 38 del T.U. dell’edilizia, avendo il Comune puntualmente applicato quanto da tale norma disposto, in presenza di vizi sostanziali non emendabili, quale il superamento dell’altezza massima assentibile, rimasta immutata anche dopo il sopravvenire della variante urbanistica invocata da parte ricorrente.

Anche in termini di adeguatezza della motivazione, dunque, il provvedimento impugnato appare immune dal vizio dedotto, atteso che l’applicazione della sanzione risulta essere giustificata dal riferimento a come l’annullamento giurisdizionale del titolo edilizio sia derivato dalla “violazione delle disposizioni di cui alla legge regionale 12/2005 e delle norme tecniche allora vigenti, con particolare riguardo all’altezza massima raggiungibile del fabbricato” e, dunque, a come sia stato accertato il contrasto con le NTA, procurato dal mancato rispetto dell’altezza massima ammessa nella zona (centro storico) e integrante una violazione sostanziale e non formale, non suscettibile di essere sanata. Tanto più che quella ravvisata nella fattispecie è la violazione di una norma posta a tutela di un interesse pubblico generale (e cioè che gli edifici non superino mai l’altezza massima prefissata) e non anche a tutela di interessi specifici dei vicini che potrebbero esserne danneggiati, con la conseguenza che l’applicazione della correlata sanzione non era negoziabile, nè tantomeno rinunciabile da parte di questi ultimi.

Nella terza censura si deduce la tardività dell’azione sanzionatoria: il Comune avrebbe dovuto emanare il provvedimento sanzionatorio entro il termine perentorio di cinque anni previsto dall'art. 28 della legge n. 689/1981 e decorrente dalla pubblicazione delle suddette sentenze di primo grado, ossia entro il 27/11/2013. Tale tesi non può essere condivisa, atteso che la sanzione irrogata non ha natura strettamente sanzionatoria, bensì ripristinatoria, ma, soprattutto considerata la natura permanente dell’abuso edilizio, in ragione della quale la sanzione (demolitoria o pecuniaria) è sempre applicabile fino a che l’abuso permane (cfr. in tal senso, tra le tante, Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza n. 9/2017 e Cass. Sentenza 31322/2019, che conferma l’orientamento già delineato nella sentenza del Consiglio di Stato n. 2160/2010, richiamata da TAR Veneto, nella sentenza n. 204/2012, nella quale ultima si legge che “La prescrizione quinquennale di cui all’art. 28, L. 689/1981 inizia quindi a decorrere solo dalla cessazione della permanenza, e, dunque, dal ripristino secundum ius dello stato dei luoghi, dal conseguimento del titolo sanante, ovvero, ancora, dall’irrogazione di una sanzione pecuniaria”).

Il ricorso risulta infondato anche nella parte in cui tende ad escludere la legittimità del provvedimento, in quanto irrogativo di una sanzione unica, irrogata anche agli aventi causa del soggetto che ha realizzato l’abuso edilizio, atteso che la sanzione repressiva degli abusi edilizi, avente natura reale, è ritenuta dalla giurisprudenza costante “fino alla sua estinzione a mezzo del pagamento, correlata sul piano soggettivo alla qualità di proprietario dell’immobile abusivo, atteso che anche l’ordine di demolizione (in sostituzione del quale la sanzione pecuniaria è stata adottata) colpisce (anche) il proprietario attuale dell’immobile, a prescindere dal fatto che questi sia anche l’autore dell’abuso.” (Cons. Stato, Sez. VI, 25.2.2013, n. 1126). Ciò si ricollega all’orientamento maggioritario, confermato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2017, secondo cui “gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile (l’estraneità agli abusi assumendo comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell’ordine giuridico violato (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, VI, 26 luglio 2017, n. 3694)”, anche quando non vi siano circostanze che inducano a ritenere sussistere un intento elusivo.

Analoga applicazione deve, dunque, avere il ricorso alla sanzione pecuniaria quale misura sostitutiva dell’ordine di demolizione con funzione non afflittiva, ma ripristinatoria.

Ne consegue che, correttamente, il Comune ha individuato come responsabili solidali per la corresponsione della sanzione pecuniaria anche coloro che hanno acquistato le singole unità abitative, oltre al costruttore.

Quanto alla possibilità dell’imputazione della sanzione come unica a tutti i proprietari, indistintamente e non anche pro quota, contestata dalla società ricorrente (censura n. 5), a sostegno della propria tesi essa ha richiamato quell’orientamento giurisprudenziale (espresso, tra le tante, nella sentenza del Consiglio di Stato n. 1126/2013) secondo cui “L’abuso afferisce ad un profilo (l’altezza del fabbricato) che necessariamente coinvolge l’immobile nella sua interezza, riguardando le sue parti comuni (quali devono pacificamente considerarsi i muri maestri ed il tetto di copertura).”. Da tale affermazione parrebbe potersi dedurre che la responsabilità sia di tutti i condomini nell’ipotesi in cui l’edificio sia, in generale, più alto e, quindi, la maggiore altezza sia “spalmabile” sull’intero edificio. La situazione oggettiva sarebbe, però, diversa nella fattispecie, in quanto la maggiore altezza sarebbe imputabile solo all’abitabilità dei sottotetti e, quindi, il vantaggio sarebbe solo dei proprietari di essi.

Il Comune, respingendo tale tesi ha, al contrario, evidenziato come la ripartizione della “quota” di proprietà delle parti apparentemente comuni all’interno del condominio sia fatto noto solo ai condomini e fosse, dunque, onere degli stessi destinatari dell’avviso di avvio del procedimento sanzionatorio rendere edotta l’Amministrazione delle tabelle millesimali (ove esistenti), con facoltà di apportare, anche in un’ottica di leale collaborazione a cui deve essere improntata la partecipazione procedimentale, ogni chiarimento ritenuto indispensabile e/o utile, senza che ciò possa intaccare il principio secondo cui la sanzione è comunque unica.

Al fine della definizione della controversia, però, ciò che risulta determinante è che, nella fattispecie, il provvedimento impugnato è stato correttamente rivolto ai singoli proprietari e non anche al condominio e si è limitato a prevedere che gli attuali proprietari rispondano “in ragione dei rispettivi titoli di proprietà”, chiarendo come ciò stia ad indicare la presunzione che l’obbligazione sia divisibile in ragione dei millesimi posseduti nel condominio, dal momento che la maggiore altezza riguarderebbe una “parte comune” del condominio, al pari delle altre violazioni contestate.

Ciò a prescindere dal fatto che, nella fattispecie in esame, la maggiore altezza sia stata determinata esclusivamente dall’esigenza, ravvisata in corso d’opera e, dunque, prevista in una variante, di rendere abitabili i sottotetti, con solo vantaggio dei proprietari di essi, in quanto ciò non può che rilevare ai fini del riparto interno delle somme dovute. Deve, infatti, riconoscersi natura unitaria del debito in capo a tutti i proprietari presenti nel condominio, in quanto proprietari pro quota delle parti comuni interessate dagli abusi contestati correlati all’altezza complessiva dell’edificio, superiore a quella ammissibile e alle modifiche di tavolati e aperture.

Il provvedimento non può, quindi, ritenersi affetto dal vizio dedotto, nemmeno con riferimento alla sesta doglianza, nella quale la ricorrente lamenta l’eccessiva onerosità della sanzione derivante dal fatto che la stessa è stata irrogata come alternativa all’abbattimento dell’intera costruzione, nonostante la non conformità al permesso di costruire fosse parziale e limitata all’altezza dell’edificio, in conseguenza dell’utilizzo a fini abitativi del terzo piano. Come già anticipato, la tesi non può essere condivisa per le ragioni già sopra esplicitate e connesse al fatto che l’altezza dell’edificio, maggiore di quella massima assentibile, rende tutta l’edificazione non conforme al titolo e, dunque, abusiva e il proprietario di locali posti al piano terra non può vantare una posizione differenziata nei confronti del Comune, ma semmai solo nei rapporti interni con gli altri condomini e con il costruttore.

La stessa ordinanza impugnata, peraltro, mette bene in evidenza la particolarità degli abusi derivati dall’annullamento del permesso di costruire in variante che precludono la possibilità della riduzione in pristino mediante parziale demolizione: in primo luogo, l’eliminazione della sopraelevazione richiederebbe l’integrale riprogettazione dell’edificio, riconsiderando appoggi e pilastri sottostanti, modificando, di fatto, il sistema di funzionamento degli elementi, inoltre, sarebbe necessario l’integrale rifacimento degli impianti delle abitazioni realizzate in duplex e, data la distribuzione dei locali effettuata in ragione della sopraelevazione, la eliminazione di quest’ultima priverebbe di autonomia funzionale le unità abitative in duplex.

Rispetto al progetto originario, peraltro, anche al piano terreno, quelli che erano “antichi ripostigli ed accessori” sono stati ristrutturati come “box” all’interno della corte edilizia.

La presenza di una difformità diffusa e generalizzata, rispetto al progetto modificato dalla variante annullata, ha indotto il Comune a ritenere, seguendo un percorso logico che non è stato confutato nel ricorso, che la restituzione in pristino non fosse percorribile “perché di fatto per ripristinare la situazione edilizia precedente non è sufficiente un intervento di demolizione, bensì è necessaria una nuova progettazione strutturale, impiantistica e edilizia e la realizzazione di una configurazione diversa sia dalla situazione ante annullamento che da quella ora realizzata”.

L’assenza di contestazioni specificamente rivolte avverso le suddette conclusioni, poste a base del provvedimento avversato, implicano acquiescenza rispetto alla richiesta della sanzione pecuniaria in luogo della demolizione dell’intero edificio per effetto dell’impossibilità di una rimessione in pristino parziale.

Inoltre, l’esame della perizia dell’Agenzia delle Entrate consente di accertare come il costo di costruzione sia stato quantificato considerando la superficie delle singole unità interessate dalla variante abusiva, che ne ha determinato un cambio di destinazione non legittimato (da sottotetto ad abitazione per il recupero dei sottotetti e da deposito a box per i locali a piano terra). Quanto prodotto in giudizio non risulta, dunque, essere idoneo a dimostrare la lamentata sproporzione della sanzione, solo asseritamente commisurata alla superficie dell’intero edificio, in un’affermazione labiale che risulta essere smentita dalla relazione di stima e non adeguatamente confutata dalla relazione tecnica depositata da parte ricorrente.

Si può, quindi, passare all’esame delle doglianze specificamente rivolte avverso le operazioni di quantificazione della sanzione stessa.

Preliminarmente, è, però, necessario superare l’eccezione di difetto di legittimazione passiva formulata dall’Agenzia delle Entrate.

A tale proposito si deve ricordare che la quantificazione della sanzione, oltre ad essere oggettivamente imputabile all’Agenzia stessa, integra un provvedimento immediatamente lesivo, come si desume dal testo stesso dell’art. 38 del T.U. Edilizia, il cui ultimo periodo del primo comma prevede che: “La valutazione dell'agenzia è notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa.”.

Il Collegio non ignora il diverso orientamento espresso da questo Tribunale nelle sentenze 330 e 331 del 2017, nelle quali si è riconosciuta natura endoprocedimentale alla comunicazione della stima dell’Agenzia delle Entrate e ritenuto tempestivo il ricorso presentato solo dopo il ricevimento del provvedimento con cui il Comune ha proceduto all’incasso della sanzione, ma ritiene di non poter condividere il medesimo, dato il chiaro tenore letterale della norma. Esso non pare lasciare dubbi circa il fatto che alla valutazione dell’agenzia deve essere riconosciuta la natura di atto a rilevanza esterna, che deve essere direttamente portato a conoscenza dell’interessato e che è suscettibile di autonoma impugnazione, in difetto della quale il suo contenuto diviene definitivo.

Tale disposizione, oltre a far ritenere ammissibile la domanda rivolta contro l’Agenzia delle Entrate, evidenzia il vizio procedurale in cui, come rilevato nella prima parte della doglianza, è incorso il Comune, che, anziché comunicare la stima e poi attendere il tempo necessario a che la stessa divenisse definitiva, ne ha ordinato direttamente il pagamento, precludendo ai proprietari la formalizzazione di osservazioni che avrebbero potuto essere utili, quali, ad esempio, quelle formulate nel ricorso.

La doglianza merita, dunque, positivo apprezzamento anche se non può incidere sulla legittimità dell’applicazione della sanzione sostitutiva, ma solo della quantificazione della somma dovuta, essendo essa stata determinata precludendo la partecipazione procedimentale garantita dalla norma. Tale quantificazione, dunque, risulta viziata sotto il profilo formale ora esaminato, ma ciò non può comunque comportare la caducazione del provvedimento impugnato in ragione di quanto disposto dall’art. 21 octies della legge 241/90.

Con la notificazione del ricorso in esame la società ricorrente ha, infatti, proposto quelle stesse censure che avrebbe dovuto muovere in occasione della impugnazione della stima per impedire che divenisse definitiva.

Nella sostanza, dunque, parte ricorrente ha esercitato, mediante il ricorso in esame, lo stesso tipo di tutela cui avrebbe potuto fare ricorso prima che la stima fosse fatta propria del Comune, peraltro, senza alcuna possibilità di intervento da parte di quest’ultimo sul suo ammontare, come si avrà modo di chiarire nel prosieguo.

L’omessa notificazione della stima non ha, dunque, ingenerato alcuna lesione della posizione giuridica della ricorrente, che ha puntualmente esercitato il proprio diritto di agire giudizialmente, in modo del tutto identico a come lo avrebbe potuto fare se gli fosse stato consentito di anticipare l’azione a tutela rispetto all’adozione dell’ordinanza di ingiunzione del pagamento della sanzione e cioè radicando un ricorso davanti al giudice amministrativo, dal momento che la norma sancisce espressamente la possibilità di reazione mediante “impugnazione”.

Così superato il vizio formale rilevato, si può, quindi, passare alla verifica della legittimità della quantificazione del valore venale dell’immobile realizzato.

A tale proposito va chiarito che non può essere condivisa la tesi dell’Agenzia delle entrate secondo cui l’erronea sua determinazione sia almeno in parte da imputarsi al Comune.

Questi, infatti, risulta aver fornito all’Agenzia ogni documento utile a una puntuale determinazione del valore di mercato dell’immobile, che, peraltro, l’art. 38 citato non prevede affatto possa essere rimodulata o modificata dal Comune.

L’art. 38 del DPR 380/2001, recita infatti: “In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa. 2. L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36.”.

Non pare, dunque, esservi spazio per una modifica unilaterale della stima da parte del Comune.

A diversa conclusione non può condurre la giurisprudenza invocata dalla difesa erariale, che evidenzia come il Comune non disponga di un autonomo potere di stima del valore venale delle opere abusive.

L’accenno a possibili accordi tra l’Agenzia delle Entrate e il Comune deve, infatti, essere inteso come riferito alla possibilità di convenire le modalità e i termini del rapporto intercorrente tra i due soggetti, così come è effettivamente accaduto, nel caso in esame, conducendo alla sottoscrizione dell’accordo di cui al Protocollo d’intesa depositato dall’Agenzia delle Entrate come allegato 2. In tale documento si legge, all’art. 5.5, che al Comune, cui era fatto onere di depositare tutta la documentazione necessaria per operare la stima, residuava solo la possibilità di rappresentare all’Agenzia, entro dieci giorni decorrenti dalla consegna della perizia di stima, eventuali osservazioni e/o contestazioni relative a incompletezze delle prestazioni o presenza di meri errori materiali negli elaborati redatti, ai fini della liquidazione del rimborso dei costi.

Il Collegio ritiene, dunque, che il legislatore, demandando a un soggetto terzo, presso cui operano professionalità aventi le cognizioni tecniche all’uopo necessarie, abbia inteso introdurre una garanzia di effettività della tutela anche della posizione dell’Amministrazione, potenzialmente priva di personale avente le competenze per quantificare, ma anche, conseguentemente, difendere e chiarire la determinazione della sanzione.

Peraltro, tutte le irregolarità contestate nel ricorso attengono esclusivamente all’attività posta in essere dal tecnico estimatore e non anche al corretto adempimento degli obblighi gravanti sul Comune e connessi alla messa a disposizione di tutta la documentazione utile a consentire la stima dell’immobile. Un tale inadempimento, in ogni caso, avrebbe dovuto essere tempestivamente contestato dall’Agenzia delle Entrate, come espressamente previsto dal Protocollo di intesa già più sopra citato.

Tutto ciò chiarito, si deve, innanzitutto, respingere il ricorso nella parte in cui è volto a censurare la scelta dell’utilizzo, ai fini della stima del valore di mercato dell’immobile, del criterio analitico, che passa attraverso la determinazione del costo di costruzione, in luogo di quello sintetico: scelta ampiamente motivata dal tecnico redattore della stima con riferimento a quella mancanza di parametri di riferimento (attese le particolarità della costruzione in questione) che quanto genericamente dedotto in ricorso non risulta idoneo a smentire.

Quanto ai parametri assunti a riferimento per il calcolo della sanzione, l’esame della perizia dell’Agenzia delle Entrate consente di accertare come il costo di costruzione sia stato determinato considerando la superficie delle singole unità interessate dalla variante abusiva, che ne ha reso possibile un cambio di destinazione non legittimato (da sottotetto ad abitazione per il recupero dei sottotetti e da deposito a box per i locali a piano terra).

La stima è stata, dunque, elaborata rispondendo a criteri di logicità che risulterebbero frustrati se si aderisse al metodo di calcolo proposto da parte ricorrente. È evidente, infatti, che la sanzione deve essere commisurata non al valore delle singole opere eseguite per consentire i contestati cambi di destinazione delle porzioni di edificio ritenute abusive, bensì a quello delle parti dell’edificio che hanno potuto ottenere una destinazione a box e/o ad abitazione proprio in ragione di quella realizzazione di servizi igienici e dello spostamento dei tavolati che secondo parte ricorrente sarebbero meri lavori di adeguamento, ma che, in realtà hanno reso possibile il cambio di destinazione.

Per lo stesso ragionamento logico la sanzione non può essere commisurata alla mera cubatura aggiuntiva realizzata mediante l’innalzamento del sottotetto, bensì deve essere rapportata all’intera superficie che, in ragione di tale innalzamento, è stata convertita in civile abitazione.

Quanto all’uso del prezzario di Milano, come fonte cui attingere per l’individuazione dei costi delle opere edilizie e la conseguente quantificazione del valore dell’immobile in termini di costo di costruzione, la scelta risulta giustificata, come evidenziato nella relazione dell’Agenzia delle Entrate depositata in data 7 giugno 2019, dal fatto che i valori indicati nel volume “Prezzi delle tipologie edilizie” (ed. DEI, 2014), redatto a cura del collegio degli ingegneri e architetti di Milano, sono, per prassi costante, assunti a riferimento in tale tipo di calcolo.

Peraltro, nelle premesse del suddetto Prezziario, si legge che “… particolari situazioni di mercato, generali o locali, potranno inoltre influire sui costi di costruzione e gli operatori dovranno tenere conto…”. L’Agenzia delle Entrate ha, dunque, chiarito che, proprio in ragione di ciò, nella fattispecie, il costo unitario è stato determinato sulla scorta di quello indicato nella suddetta pubblicazione DEI, “a cui è seguita la cosiddetta <<omogeneizzazione dei dati>>, proprio per tener conto delle differenze tra la scheda della pubblicazione presa a riferimento e l’intervento edilizio oggetto di valutazione” (così la relazione depositata il 7 giugno 2019, a pag. 2). Pertanto, non sono state considerate le categorie edilizie ritenute non pertinenti, mentre per le categorie edilizie applicate si è ritenuto che, sotto il profilo tecnico e di mercato, gli interventi edilizi realizzati non presentassero le rilevanti differenze di valore lamentate da parte ricorrente, ma in modo del tutto generico, senza dimostrare alcuna effettiva, rilevante, discrasia.

Deve, infine, condividersi la difesa della direzione provinciale di Bergamo delle Agenzia delle Entrate, laddove ha ribadito che gli oneri di urbanizzazione, al pari degli oneri fiscali e finanziari debbono essere, così come è stato, considerati nel calcolo del valore venale dell’immobile oggetto di stima.

Nonostante il confuso tentativo operato sia nella perizia tecnica di parte, che negli scritti difensivi, di sostenere che i costi indiretti relativi agli oneri di urbanizzazione non dovrebbero essere computati al fine di stabilire il valore di produzione, in ragione del fatto che essi, nella fattispecie, sarebbero stati già pagati, risulta incontestato, anche da parte ricorrente, che gli stessi sono una voce dei costi indiretti che debbono essere considerati ogni volta che si debba stabilire il valore di produzione di un immobile. Non è dato comprendere, sulla scorta di quanto dedotto da parte ricorrente, perché ciò non dovrebbe accadere nella fattispecie in esame. Posto che all’Agenzia è stato chiesto di stabilire il valore di mercato dell’immobile (al fine dell’applicazione della sanzione) e l’Agenzia ha ritenuto, a tal fine, di fare ricorso al criterio di calcolo del valore di produzione, non può essere omesso il conteggio del valore corrispondente a tale costo indiretto, voce di spesa che costituisce indubbiamente elemento incidente sul valore di mercato dell’immobile. A nulla rileva il fatto che gli oneri siano già stati pagati, così come è fisiologico, perché ciò non può far venire meno il fatto che il calcolo del costo di costruzione di un edificio non può prescindere dall’includere anche la voce relativa ai connessi oneri contributivi e/o costi di realizzazione delle opere di urbanizzazione.

Anche la datazione della stima al 2017, anziché all’anno di costruzione (2008), risulta essere conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza, secondo cui, essendo, in sostanza, la sanzione pecuniaria ex art. 38 comma 1 del DPR 380/2001 corrispondente al prezzo per la regolarizzazione delle opere abusive, il suo importo deve essere riferito al presente, ossia al momento in cui avviene l’abbandono della condizione di illegittimità (così TAR Brescia, n. 331/2017).

Non è stato, inoltre, dimostrato che l’utilizzo del prezziario riferito all’anno 2014 abbia reso non attuale la stima: circostanza che si ritiene esclusa per il fatto stesso che, come l’Agenzia delle Entrate ha attestato e parte ricorrente non ha contestato, non è stato redatto alcun successivo Prezziario nel periodo di tempo intercorso tra il 2014 e il 2017, il che presuppone che non vi siano stati scostamenti rilevanti sul mercato in tale arco di tempo.

La vetustà dell’opera, invece, correttamente non è stata presa in considerazione nel calcolo analitico del costo di costruzione, che per sua natura è ad essa insensibile. Esso, infatti, corrisponde alla somma di tutti i costi dei fattori produttivi necessari a produrre il bene da stimare. Né tale fattore (e cioè la perdita di valore conseguente al passaggio del tempo dal momento della realizzazione dell’edificio) poteva essere considerato in chiave “correttiva” o di attualizzazione: ciò è, infatti, precluso dal principio più sopra ricordato circa il momento di riferimento da assumersi nel calcolo della sanzione ed è oggettivamente correlato al fatto che la considerazione del suddetto deprezzamento equivarrebbe, di fatto, a riconoscere un trattamento più favorevole al costruttore (e/o al proprietario) che abbia già tratto vantaggio dall’aver realizzato e goduto le opere abusive da lungo tempo, rispetto a quello riservato a colui cui sia immediatamente applicata la sanzione pecuniaria.

Il ricorso non può, quindi, trovare positivo apprezzamento e le spese del giudizio debbono seguire l’ordinaria regola della soccombenza.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, a favore del Comune e dell’Agenzia delle Entrate, in misura pari a euro 2.000,00 (duemila/00) ciascuno, per un totale di euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre ad accessori di legge, se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2019 con l'intervento dei magistrati:

Bernardo Massari, Presidente

Mara Bertagnolli, Consigliere, Estensore

Alessio Falferi, Consigliere