Consiglio di Stato Sez. IV n. 6486 del 22 luglio 2025
Acque.Raccolta di acque di origine pluviale
La raccolta di acque di origine pluviale non può considerarsi mera fognatura nè raccolta di acque meteoriche non convogliate identificabili come corpo idrico, per cui una canaletta naturale di raccolta delle acque piovane non ha natura di acqua pubblica (segnalazione e massima Avv. E. Gaz)
N. 06486/2025REG.PROV.COLL.
N. 09242/2023 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9242 del 2023, proposto da Marina Ferri, rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanni Artini, Carlo Alberto Tesserin, con domicilio digitale come da pec da Registri di Giustizia;
contro
Comune di Borgo Valbelluna, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Stefano Canal, con domicilio digitale come da pec da Registri di Giustizia;
nei confronti
Flavio Zandonella, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda) n. 1170/2023, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Borgo Valbelluna;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 giugno 2025 il Cons. Riccardo Carpino e uditi per le parti gli avvocati come da verbale.
FATTO e DIRITTO
1. La questione controversa riguarda la legittimità del permesso di costruire n. 195 dell’ 8 maggio 2019 rilasciato dal Comune di Borgo Valbelluna, ai controinteressati nel fondo confinante a quello della odierna appellante.
In particolare, l’odierna appellante è proprietaria di un immobile residenziale e dei circostanti terreni presso la località Pra Maor, confinante con la proprietà dei controinteressati Sig.ri Flavio Zandonella e Samantha de Lorenzi.
Nell’anno 2016 i suddetti controinteressati hanno ottenuto un permesso di costruire onde realizzare un ampliamento della loro abitazione, in applicazione della l.r. 32/2013 sul “Piano Casa” della Regione Veneto, realizzando un corpo separato sul limitrofo mappale, identificato al n. 110.
Decaduto il titolo edilizio per mancato avvio dei lavori entro i termini di legge, i controinteressati hanno riproposto il progetto con alcune modifiche, come la creazione di un terrapieno di 773 mc, nonché un innalzamento del piano di campagna, finalizzato ad allineare i due fondi di loro proprietà; detto progetto è stato assentito con il titolo edilizio qui impugnato.
1.1 L’appellante, in primo grado, ha evidenziato che il nuovo permesso di costruire si avvaleva delle autorizzazioni forestale e paesaggistica già acquisite per il permesso di costruire ormai decaduto e che l’area in questione ricade nella zona agricola E3, peraltro situata in un ambito di pregio paesaggistico, sulla quale grava un vincolo ambientale idrogeologico.
Inoltre, secondo l’appellante, parte del mappale 110 (di proprietà dei controinteressati) è sottoposta a vincolo paesaggistico ex art. 142, comma 1, lett. g) del d.lgs. n. 42/2004; ancora, il lotto fronteggia l’adiacente strada in prossimità di una curva, compreso, pertanto, nella fascia di rispetto stradale.
Sulla scorta di dette motivazioni, l’odierna appellante ha impugnato il nuovo titolo edilizio, chiedendone l’annullamento, lamentando plurimi motivi di doglianza.
2. Con sentenza n. 1170 dell’ 8 agosto 2023, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto ha respinto il ricorso proposto dall’odierna appellante.
In particolare il Giudice di primo grado ha rigettato tutte le eccezioni in rito.
2.1 Nel merito, relativamente al primo motivo di doglianza - con il quale la ricorrente sosteneva che il tombinamento previsto nel progetto edilizio violasse l’art. 115 del D.lgs. n. 152/2006, gli artt. 10.1 e 11.2 del Regolamento edilizio comunale, nonché gli artt. 57, 60-bis e 60-ter delle NTA del PATI (Piano di Assetto del Territorio Intercomunale dei Comuni di Limana e Trichiana) - il Giudice di primo grado, richiamando il dato testuale delle summenzionate disposizioni normative, ha ritenuto che la suddetta doglianza non avesse pregio in quanto la ricorrente aveva denunciato violazioni di norme di principio, senza fornire alcun approfondimento tecnico atto a denunciare nel dettaglio vizi tecnici.
Inoltre, il TAR ha disatteso anche la seconda censura, attinente alla asserita violazione del Regolamento edilizio e delle norme statali in materia di altezze, distanze dal confine e dalla strada adiacente.
In particolare, il giudice di primo grado ha rilevato che l’art. 37 del Regolamento edilizio, recante normativa in materia di interventi edilizi in zona territoriale omogenea E3, introduce prescrizioni in materia di altezza massima fuori terra, distanza dai confini, distanza tra i fabbricati e dalle strade con limitato riferimento alle nuove “residenze”; tanto premesso, secondo il giudice di primo grado, tale norma non risultava attinente al caso di specie, il quale afferisce a un fabbricato di pertinenza dell’abitazione principale destinato a deposito.
Inoltre, sulla base delle richiamate pronunce della Corte costituzionale, il Tar ha rilevato che l’intervento edilizio di cui è causa, realizzato in attuazione della normativa in materia di Piano casa, può legittimamente derogare alle previsioni del Regolamento comunale, non sussistendo, dunque, la violazione del summenzionato art. 37 R.E.
2.2 In riferimento al livellamento dell’area attraverso riporto di materiale, il Giudice di primo grado ha affermato che la distanza delle edificazioni dai confini non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 823 c.c., il quale regola, piuttosto, la distanza tra edifici.
Ha inoltre rilevato che:
- non trovano applicazioni le previsioni relative al Codice della strada, le quali stabiliscono un vincolo di inedificabilità nella fascia di rispetto stradale; ha ritenuto che la strada in questione si trova interamente su terreni privati, trattandosi di strada vicinale ad uso privato, non soggetta alle fasce di rispetto del Codice della strada;
- sotto il profilo della tutela paesaggistica, la relativa autorizzazione del 2016 non è mai stata impugnata; pertanto, in assenza di modifiche rispetto al progetto assentito, il titolo paesaggistico conserva la sua validità nei termini di cui all’art. 146, comma 4 del D.lgs. n. 42/2004, ossia per un periodo di cinque anni.
Infine, il TAR Veneto ha respinto anche l’ultimo motivo di appello, relativo alla asserita illegittimità del titolo edilizio in quanto l’autocertificazione attestante la conformità del progetto alle norme igienico sanitarie del 5 settembre 2018, unitamente all’istanza, era stata sottoscritta dal proprietario e non dal tecnico incaricato.
A tal proposito, il Giudice ha rilevato che non si applicano al caso di specie le sanzioni in materia di dichiarazioni non veritiere, posto che la dichiarazione in questione non dovrebbe considerarsi falsa, ma, al più, invalida. Inoltre, dagli atti comunali emerge un’autocertificazione recante la medesima data, correttamente sottoscritta dal progettista.
3. Avverso la sentenza del TAR Veneto la Sig.ra Ferri ha proposto appello, lamentando quattro motivi di ricorso.
In particolare:
I) Erroneità della sentenza impugnata nella motivazione relativa all’esclusione dell’applicazione d.lgs. n. 152/2006 e dell’art. 822 c.c. Violazione dell’art. 115 d.lgs. n. 152/2006. Violazione degli artt. 10.1 e 11.2 del Regolamento Edilizio comunale. Violazione artt. 57, 60-bis e 60-ter delle Norme tecniche del PATI dei Comuni di Limana e Trichiana. Eccesso di potere e carenza di istruttoria”;
II) Erroneità della sentenza impugnata nella motivazione relativa all’inversione dell’onere della prova circa la servitù d’uso pubblico della strada privata e alla conseguente illegittima mancata applicazione dell’art. 41-bis legge urbanistica statale n. 1150/1942, dell’art. 4 D.M. 1404/1968 e degli artt. 16 e 17 Codice della Strada, d.lgs. n. 285/1992. Violazione delle distanze legali. Violazione dell’art. 41-bis legge urbanistica statale n. 1150/1942 rubricato ‘Distanze dal nastro stradale’ e art. 4 D.M. 1404/1968, rubricato ‘Norme per le distanze’ oltreché degli artt. 16 e 17 del Codice della Strada, d.lgs. n. 285/1992., rubricato ‘Fasce di rispetto nelle curve fuori dei centri abitati’. Eccesso di potere per carenza di istruttoria e falsità di presupposto”;
III) Erroneità della sentenza impugnata nella motivazione in relazione alla mancata applicazione dell’art. 146 d.lgs. n. 42/2004 e degli artt. 2 e 9 L.R. n. 14/2009. Violazione di legge; violazione degli artt. 38 e 39 delle Norme tecniche del PATI dei Comuni di Limana e Trichiana. Violazione degli artt. 2 e 9 della L.R. n. 14/2009; Violazione dell’art. 146 d.lgs. n. 42/2004. Eccesso di potere per falsità di presupposto e carenza di istruttoria”;
IV) Erroneità della sentenza impugnata nella motivazione in relazione alla mancata applicazione degli artt. 75 e 76 del D.P.R. 445/2000, dell’art. 21 - quinquies e dell’art. 21- nonies, comma 2-bis della l. n. 241/1990. Violazione di legge; Violazione degli artt. 75 e 76 d.P.R. 445/2000; Violazione dell’art. 21 - quinquies e dell’art. 21 - nonies, comma 2-bis della l. n. 241/1990. Eccesso, sviamento e abuso di potere”.
4. Con il primo motivo l’appellante lamenta che il giudice avrebbe errato nel non considerare il corso d’acqua come “corpo idrico”. Asserisce che sarebbero ormai sostanzialmente sparite forme di acque private, dovendosi viceversa ritenere che quello in esame sia un “ruscello a carattere perenne”, come evidenziato dal geologo incaricato dal controinteressato. Per l’effetto si applicherebbe la pertinente normativa che vieta la copertura dei corsi d’acqua; in tal senso peraltro già la difesa del Comune avrebbe confermato la natura di acque pubbliche è stata la medesima difesa del Comune, tanto da eccepire il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo.
Nello specifico richiama la normativa comunale che prevederebbe specifiche cautele e l’art. 10.1 del Regolamento Edilizio il quale stabilisce che “è vietato costruire su terreni paludosi, golenali, franosi o comunque soggetti ad allagamenti o a ristagni di acqua, negli avvallamenti e nelle anfrattuosità naturali ed artificiali del terreno” adducendo a riprova quanto evidenziato dall’appellato in sede di relazione geologica prodotta dall’appellato.
Inoltre ritiene violate la disciplina del Piano di Assetto del Territorio intercomunale dei Comuni di Limana e Trichiana (PATI) che intende realizzare il noto principio di “invarianza idraulica” per non aggravare il territorio e prevedono espressamente il generale divieto di “tombamento o tombinamento”.
A tal riguardo richiama anche la nota del 29 gennaio 2019 del Distretto delle Alpi Orientali.
Il motivo è infondato.
4.1 Al riguardo, preliminarmente, si ritiene di precisare che non si tiene conto, ai fini della presente disamina, di quanto richiamato in fatto non attinente agli atti impugnati; l’esame dei motivi di appello ha riguardo a quelli espressamente indicati con esclusione di ogni motivo intruso riportato in fatto.
Va ancora rilevato, sempre in via preliminare che sono inammissibili i richiami operati dall’appellante alla documentazione prodotta dall’appellante ai fini geologici (doc 35 relazione geologica e geotecnica) ; è onere dell’appellante produrre le prove a sostegno di quanto sostiene ex art. 64 cpa e non di trarre argomentazione a contrario dalla documentazione prodotta ex adverso.
4.2 Quanto poi alla natura delle acque, è onere dell’appellante dimostrare la natura pubblica delle acque non potendo essere tale natura individuata ope legis con il conseguente divieto di tombamento ex art 115 d.lgs. 115/2006.
In tal senso rileva giurisprudenza conforme la quale ritiene che ai fini della classificazione come acque pubbliche e della competenza del Tribunale delle acque, solo le acque sorgenti, fluenti o lacuali idonee a soddisfare un interesse pubblico e generale sono considerate acque pubbliche, escludendo pertanto i liquami di fogna e le acque meteoriche che non sono suscettibili di utilizzazioni pubbliche specifiche (cfr. Cass. Civile, sez. I, 20 maggio 2024, n. 13899).
Nello stesso senso si è ritenuto che, in rapporto anche al più ampio concetto di acqua pubblica introdotto dalla l. n. 36/1994, spettano ai proprietari frontisti le misure di ripristino, tutela e difesa del corso d'acqua che, pur raccogliendo acque di origine pluviale, non può considerarsi mera fognatura nè raccolta di acque meteoriche non convogliate o non identificabili come corpo idrico, in tal caso trattandosi di fosso (corso d'acqua minore) tombato in area di pertinenza privata (cfr. Tribunale sup. acque, 2 luglio 2003, n. 97).
Nello specifico, come ha rilevato già il giudice di primo grado si tratta quindi di una canaletta naturale di raccolta delle acque piovane, già parzialmente tombinata sia a monte che a valle della proprietà dei controinteressati che in quanto tale non ha natura di acqua pubblica; né l’appellante offre alcuna prova circa detta natura pubblica.
4.3 Analogamente per quanto riguarda la supposta violazione degli artt. 10 e 11 del regolamento edilizio a seguito della realizzazione del fabbricato con la tubazione di drenaggio che scaricherebbe direttamente “in alveo”, detta ricostruzione è efficacemente smentita dal Comune in sede di memoria depositata agli atti di causa in data 5 maggio 2025; infatti a pag. 9 della relazione geologica (doc 24, datata giugno 2016) “la normativa di riferimento indica che lo scarico nel suolo deve essere regolamentato e, qualsiasi scarico nel sottosuolo, deve essere vietato” al che, viste le condizioni favorevoli del sito viene consigliato un sistema di “subirrigazione in trincea drenata”, “con la tubazione di drenaggio che scarica in alveo”.
Si tratta di una rappresentazione (ben diversa rispetto a quella delineata solo in sede di ricorso) del tecnico incaricato della relazione geologica, al quale dare prevalenza proprio in considerazione della natura tecnica; in disparte ogni considerazione sul fatto che le censure dell’appellante non si fondano, come necessario ex art 64 cpa, su documentazione fornita dallo stesso.
4.4 Quanto poi alla supposta violazione delle norme del PATI, come rileva parte appellata, senza contestazioni sul punto, le conclusioni cui è pervenuta la relazione geologica del giugno 2016 (doc. 24) e l’integrazione recante la valutazione di invarianza idraulica del novembre 2018 (doc. 25), regolarmente depositati agli atti della pratica edilizia dimostrano la conformità dell’intervento alla normativa in materia; in ogni caso si tratta di questioni relative all’esercizio di discrezionalità tecnica in relazione alle quali l’appellante non offre alcun supporto scientifico di supporto alle proprie affermazioni.
Al riguardo, come rileva l’appellato Comune, l’art. 60-bis del PATI, al punto 5 precisa che “in fase di progettazione si dovrà ricercare il mantenimento per quanto possibile dei volumi di invaso disponibili sul territorio. Si tratta di impedire ogni ulteriore eliminazione dei volumi di invaso disponibili sul territorio con interventi di tombamento o di tombinamento di fossi e di fossati. Nei casi in cui provvedimenti di questo tipo fossero indispensabili, si dovrà garantire non soltanto il mantenimento della capacità di portata di fossi e di fossati, ma anche la conservazione dei volumi di trattenuta temporanea che questi elementi della rete idrografica minuta mettono a disposizione, per la riduzione dei contributi specifici massimi di deflusso”; il successivo art. 60-ter, al punto 11, dispone che “sono vietate operazioni di tombinatura di scoli o fossati, ai sensi del D.lgs 152/2006, ad eccezione di eventuali accessi ai fondi pubblici o privati. In caso di realizzazione di tombinature si dovranno concordare le dimensioni minime con l’ente gestore della rete idrica ed in ogni caso dovranno essere mantenute le sezioni libere in essere prima dell’intervento”.
Si tratta di un divieto che non ha carattere assoluto, per cui nell’esercizio di detta discrezionalità tecnica la scelta operata appare, pur nei limiti del sindacato di questo giudice, razionale e coerente.
La nota del Distretto delle Alpi orientali n. 417/7.5 del 29 gennaio 2019 testualmente rileva che “Sulla base di tali premesse ed esaminati gli strumenti di pianificazione vigenti a livello distrettuale, si rappresenta che non sussistono condizioni di pericolosità attualmente note derivanti dalla rete idrografica principale, né informazioni di pericolosità geologica e valanghiva.”
Le altre espressioni della citata nota del 29 gennaio 2019 richiamate dall’appellante non sono altro che l’illustrazione della situazione normativa e delle funzioni degli enti coinvolti.
In disparte ogni considerazione sul fatto che nel caso in questione l’appellante non offre elementi tecnici in senso differente, se non mere critiche.
5. Con il secondo motivo l’appellante rileva di aver in primo grado ampiamente provato l’uso pubblico della strada vicinale, con conseguente applicazione della normativa sulle distanze prevista per le strade pubbliche. Tale circostanza non sarebbe peraltro stata contestata dal Comune resistente e dal controinteressato, dovendosi ritenere che la medesima sia dunque provata per non contestazione. Rileva che vi è stata equiparazione delle strade vicinali di uso pubblico alle strade comunali ex art. 2, comma 6, lett. D) del D.lgs. n. 285/1992; nello specifico fa presente che
-si tratta di strada illo tempore asfaltata dall’ex Comune di Trichiana;
-congiunge le limitrofe località comunali di Nate e Pra Maor non risultando ciò contestato;
-è mantenuta dal Comune che l’ha provvista dei numeri civici e non vi sono divieti di accesso alla medesima.
5.1 Il motivo è infondato.
Nella fattispecie si tratta di una strada posta su terreno privato in quanto non ha i caratteri della strada vicinale.
A tal riguardo secondo giurisprudenza consolidata per qualificare una strada "vicinale pubblica", occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 29 maggio 2017, n. 2531)
Ai fini del rispetto del codice della strada, non è sufficiente che l'utilizzo della strada avvenga in favore di proprietari di fondi vicini; è invece necessario che dette strade siano interessate da un transito generalizzato, a fronte della proprietà privata del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze (spettante ai proprietari dei fondi latistanti), per cui l'ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi dell'art. 825 c.c., un diritto reale di transito, con correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione della stessa (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 19 aprile 2013, n. 2218)
Nel caso specifico l’appellante si riferisce a elementi non idonei ai fini della qualificazione come pubblica della strada in questione in quanto:
-risulta dalla documentazione prodotta (doc 19) che si tratta di strada senza uscita con apposito cartello in tal senso;
-ciò è riprovato anche dalla riproduzione su Google Maps agli atti di causa;
- nella documentazione catastale agli atti di causa è rappresentata con doppio tratteggio, che indica le strade private;
-è pacificamente utilizzata dai proprietari cui la strada serve;
-non è infine dimostrato il collegamento con la pubblica via come sostenuto.
Ne consegue che, nel caso specifico, manca l’uso pubblico; risultano quindi inconferenti le argomentazioni dell’appellante ai fini della sottoposizione della strada in questione al regime delle strade pubbliche.
6. Con il terzo motivo, l’appellante rileva che, al contrario di quanto rilevato dal giudice di primo grado, avrebbe impugnato il permesso di costruire del 2016, stante che con il ricorso introduttivo impugnava oltre al permesso di costruire 195/2018, anche “ogni altro atto, presupposto, connesso o consequenziale”; in ogni caso rileva che detto permesso del 2016 era stato dichiarato decaduto.
Altresì rileva che la SCIA del 2020 farebbe illegittimamente rivivere il progetto del 2016, precludendo qualsiasi sindacato sul medesimo: ciò costituirebbe, a suo avviso, prova confessoria dell’illegittimità del PdC del 2018 sotto il profilo della mancanza di una nuova autorizzazione paesaggistica.
Inoltre il terrapieno assentito è già stato completamente realizzato con un riporto di materiale di 733 mc e non già di 311 mc, come viceversa previsto dall’ autorizzazione paesaggistica rilasciata nel 2016, ormai scaduta. La realizzanda pertinenza, peraltro, non può essere considerata funzionale alla coltivazione del “terreno agricolo” su cui insiste, atteso che trattasi di un comune giardino di dimensioni assai contenute, dovendo viceversa ritenersi che l’ampliamento sia funzionalmente diretto – nelle reali intenzioni – al ricovero delle attrezzature della sua impresa di costruzioni (che ha sede legale e operativa presso la stessa abitazione principale).
6.1 Il motivo è infondato.
A tal riguardo, in relazione all’autorizzazione paesaggistica, occorre rilevare quanto segue:
-in base all’art 146, comma 4, d.lgs. 42/2004:
…L'autorizzazione è efficace per un periodo di cinque anni, scaduto il quale l'esecuzione dei progettati lavori deve essere sottoposta a nuova autorizzazione.
… Il termine di efficacia dell'autorizzazione decorre dal giorno in cui acquista efficacia il titolo edilizio eventualmente necessario per la realizzazione dell'intervento, a meno che il ritardo in ordine al rilascio e alla conseguente efficacia di quest'ultimo non sia dipeso da circostanze imputabili all'interessato
-nel caso specifico l’autorizzazione è del 12 dicembre 2016 e non è scaduta in quanto:
il permesso di costruire era stato sospeso dal giudice di primo grado con ordinanza cautelare n.334, in data 19 luglio 2019, ed ha ripreso efficacia dalla sentenza di primo grado, ossia dall’8 agosto 2023; quindi al momento della scia l’autorizzazione paesaggistica era in corso;
-secondo quanto rilevato dal Comune appellato, in questo non contestato, l’autorizzazione paesaggistica non riguarda il materiale di riporto;
-sulla base della autorizzazione dell’Unità organizzativa forestale di Belluno n. 404835 del 20 ottobre 2016, è stata autorizzata la riduzione forestale con la conseguente cessazione del vincolo paesaggistico sulla porzione in esame;
- detta riduzione e la legittimità della stessa è stata confermata dal medesimo ufficio con successiva nota del 16 ottobre 2018 n. 4205631 rilevando che è già da ritenersi lecito quanto intrapreso con l’originaria autorizzazione;
-la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per l'area metropolitana di Venezia e le province di Belluno, Padova e Treviso con nota n. 3786 del 14 febbraio 2019 ha confermato l’archiviazione della pratica prendendo atto dell’intervenuta autorizzazione alla riduzione forestale;
-in ogni caso come rilevato dal Comune appellato, non smentito dall’appellante, le modifiche dell’area risultano totalmente esterne al perimetro del vincolo paesaggistico come si desume dalla carta dei vincoli del PATI (ingrandimento rilevante sub doc. 3); ne consegue che anche sotto questo profilo - di sistemazione dell’area scoperta - non era richiesto alcun assenso paesaggistico.
A fronte di questa molteplice documentazione emerge che il vincolo forestale è stato già rimosso mediante l’autorizzazione paesaggistica del 12 dicembre 2016; né peraltro l’appellante dimostra che le modifiche di cui all’integrazione del progetto del 21 novembre 2018 abbiano in qualche modo inciso sull’autorizzazione paesaggistica, ossia sull’ambito della riduzione della superficie boscata, limitandosi ad affermare l’intervenuta modifica del progetto medesimo nella superficie per la formazione del terrapieno (da 311 mc a 733 mc).
Per mera completezza va ulteriormente rilevato che:
-la paventata utilizzazione della superficie in questione per deposito edile (che il giudice di primo grado qualifica come congetture) risulta irrilevante ai fini della verifica di legittimità sul titolo edilizio qui in esame; nella fattispecie la questione riguarda piuttosto le funzioni di vigilanza del Comune sull’attività urbanistica edilizia ai sensi dell’art 27 d.P.R. 380/2001, ossia la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi; si tratta quindi di attività di vigilanza che dovrà essere svolta anche una volta realizzato l’immobile in questione;
- le censure che l’appellante svolge circa la relazione di parte predisposta ai fini dell’autorizzazione paesaggistica (27 agosto 2016, doc 9) riguardano aspetti che impingono nella discrezionalità tecnica e quindi, ai fini della loro censura, devono essere proposti idonei argomenti supportati da documentazione idonea qui non prodotta;
- la più volte lamentata presentazione della Scia oltre il termine del 31 marzo 2019 prescritto dall’art. 9, comma 7, l.r. n. 14/2009 non rileva in questa sede atteso che la questione andava sollevata nei termini e ciò indipendentemente della non impugnabilità del titolo edilizio in questione.
7. Con il quarto motivo l’appellante rileva che il tecnico di fiducia dei vicini, Geom. Livio Calesso, presentando la nuova richiesta dell’impugnato permesso di costruire, ha prodotto una autocertificazione recante in calce la firma del controinteressato sig. Flavio Zandonella anziché la propria.
Tale vizio, unitamente all’inveridicità delle “conformità” attestate, avrebbe dovuto condurre il Responsabile comunale quantomeno a disconoscere l’efficacia dell’autocertificazione.
Il motivo è infondato.
Va rilevato infatti che dagli atti del Comune depositati in giudizio (doc 28 fasc. I grado) risulta un’autocertificazione recante la medesima data di quella in questione correttamente sottoscritta dal progettista.
Sulla scorta di quanto sin qui rilevato il ricorso è da respingere.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento, in favore del Comune di Borgo Valbelluna, delle spese di giudizio, che liquida in complessivi €. 6.000,00 (euro seimila/00), oltre accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 giugno 2025 con l'intervento dei magistrati:
Luigi Carbone, Presidente
Francesco Gambato Spisani, Consigliere
Luca Monteferrante, Consigliere
Paolo Marotta, Consigliere
Riccardo Carpino, Consigliere, Estensore