Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 3458, del 25 giugno 2013
Acque.Modesta portata d’acqua del fosso e natura di “acqua pubblica”

Le argomentazioni incentrate sulla modesta portata d’acqua del Fosso (tale, secondo la tesi appellatoria, da escluderne oggettivamente la natura di “acqua pubblica”) vanno decisamente disattese essendo a ciò sufficiente far richiamo alla pacifica giurisprudenza in materia che ritiene ininfluente detto elemento “quantitativo” di natura oggettiva, in rapporto anche al più ampio concetto di acqua pubblica introdotto dalla L. n. 36 del 1994. In carenza di un provvedimento specifico ed espresso di esclusione del vincolo, poi, non possono trovare ingresso le obiezioni (in relazione al disposto di cui all’art. 7 comma 7 della legge regionale del Lazio n. 24/1998) fondate sulla asserita urbanizzazione dell’area che peraltro risulta classificata quale zona agricola, infatti, l’esclusione dal vincolo riguarda le sole zone urbane perimetrate. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 03458/2013REG.PROV.COLL.

N. 05895/2009 REG.RIC.

N. 05896/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5895 del 2009, proposto da: 
Giuseppe Cherchi, rappresentato e difeso dagli avv. Leonardo Lavitola, Chiara Reggio D'Aci, con domicilio eletto presso Leonardo Lavitola in Roma, via Costabella N. 23;

contro

Comune di Roma, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall'Andrea Magnanelli, domiciliata per legge in Roma, via del Tempio di Giove N.21; Regione Lazio;

nei confronti di

Ministero Per i Beni e Le Attivita' Culturali, Consorzio Stella D'Argento Due, Nq Pres.Pt E L.R. Consorzio Tiberi Roberto, Nazzareno Ranocchiari, Ausl Roma C Nq Ente Part.Conferenza Servizi 16/01/2004;




sul ricorso numero di registro generale 5896 del 2009, proposto da: 
Mauro Zaninotto, rappresentato e difeso dagli avv. Leonardo Lavitola, Chiara Reggio D'Aci, con domicilio eletto presso Leonardo Lavitola in Roma, via Costabella N. 23;

contro

Comune di Roma in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dall'Andrea Magnanelli, domiciliata per legge in Roma, via del Tempio di Giove, 21; Regione Lazio;

nei confronti di

Consorzio Stella D'Argento II, Ministero Per i Beni e Le Attivita' Culturali, Nq Pres. L.R. Del Consorzio Tiberi Roberto, Nazzareno Ranocchiari, Ausl Roma C Nq. Ente Part.Conferenza Servizi 16/01/2004;

per la riforma

quanto al ricorso n. 5895 del 2009:

della sentenza del T.a.r. del Lazio - Sede di Roma- Sezione II Quater n. 02449/2009, resa tra le parti, concernente accordo al programma di recupero urbano "Acilia-dragona"

quanto al ricorso n. 5896 del 2009:

della sentenza del T.a.r. del Lazio – Sede di Roma- Sezione II Quater n. 02449/2009, resa tra le parti, concernente accordo al programma di recupero urbano "Acilia-dragona"



Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Roma ;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 febbraio 2013 il Cons. Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati Leonardo Lavitola e Raimondo (su delega di Andrea Manganelli) Leonardo Lavitola e Raimondo (su delega di Andrea Manganelli);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.



FATTO

Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale del Lazio – sede di Roma - ha esaminato, previa riunione, tre distinti ricorsi (RG.n. 3050/05, RG.n. 7403/06; RG.n. 7404/06) volti ad avversare, rispettivamente:

per quanto riguardava il ricorso RG. 3050/05, la deliberazione del Consiglio Comunale di Roma n. 308 del 21/12/04, pubblicata nell’albo pretorio dal 29/12/04 al 12 gennaio 2005, recante ratifica dell’adesione del Sindaco all’Accordo di Programma ex art. 34 D.Lgs. 267/00, sottoscritto il 1/12/04, relativo al Programma di recupero urbano “Acilia-Dragona”,il predetto Accordo di Programma in corso di approvazione con decreto del Presidente della Regione Lazio, le decisioni adottate dalla Conferenza di servizi istruttoria del 7 maggio 2003, rese pubbliche solamente dopo la ratifica dell’accordo di programma, i pareri allegati al verbale della Conferenza di servizi istruttoria del 7 maggio 2003, resi pubblici solamente dopo la ratifica dell’accordo di programma ( ed in particolare;

il parere della Soprintendenza per i Beni Architettonici ed il Paesaggio: a) parere della Regione Lazio, Area 2B.5; b) decisioni adottate dalla Conferenza dei Servizi decisoria del 16/1/04) ed i pareri allegati al verbale della Conferenza di servizi decisoria del 16 gennaio 2004, resi pubblici solo dopo la ratifica dell’accordo di programma, ed in particolare, il parere della Regione Lazio, Dipartimento Territorio, prot. n. 20681 del 4/2/04.

Con i ricorsi RG. nn.7403/06 e 7404/06, era stato chiesto l’annullamento del decreto del Presidente della Regione Lazio 8/11/05 n. 571, pubblicato sul B.U.R.L. n. 34 del 10/12/2005, con il quale era stata approvata la delibera del Consiglio Comunale di Roma n. 225 del 12/9/05, prorogandosi di fatto il termine di validità delle varianti previste dall’Accordo di Programma sottoscritto in data 1/12/04 e pubblicato sul B.U.R. del 20/4/05 relativo al Programma di recupero urbano – Ambito Acilia-Dragona, della predetta deliberazione del Consiglio Comunale di Roma n. 225 del 12/9/05, nella parte in cui la stessa, disattendendo il dettato dell’art. 9, comma 3, del citato Accordo di Programma, aveva inteso prorogare il termine perentorio, fissato a pena di decadenza, per la cessione delle aree a destinazione pubblica da parte dei soggetti attuatori, con ciò incidendo di fatto sulla validità della variante e di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali, fra i quali le note (non in possesso del ricorrente) del Comune di Roma, prot. n. 8928 del 17/6/05 e della Regione Lazio, prot. n. 97913 del 23/6/05.

Il primo giudice ha esaminato partitamente le censure dedotte ed ha respinto perché infondato il RG. 3050/05 mentre ha dichiarato inammissibilii ricorsi RG. 7403/06 e 7404/06.

La articolata vicenda per cui è causa è stata analiticamente ricostruita dal Tribunale amministrativo regionale nella prima parte della diffusa motivazione contenuta nella decisioen gravata.

Ivi, in particolare, è stato illustrato che i mezzi di primo grado erano stati proposti dai proprietari di due lotti di terreno siti nel Comune di Roma, località Palocco, e ricadenti nel nucleo urbanistico denominato “Stella d’Argento”, zona destinata a recupero secondo la disciplina urbanistica del Comune di Roma.

In seguito alla pubblicazione del bando di confronto concorrenziale, i proprietari delle aree ricomprese nel suddetto nucleo urbanistico avevano costituito due consorzi – il Consorzio Stella d’Argento (al quale avevano aderito i proprietari delle aree già edificate) ed il Consorzio Stella d’Argento II (al quale invece avevano aderito i proprietari delle aree libere) – ed avevano presentato una proposta di intervento classificata con il numero 8.

L’originaria proposta prevedeva l’edificabilità delle aree situate a ridosso del Fosso, avendo richiesto il progettista Arch. Visintini la declassificazione del canale allacciante di Palocco.

Il Comune di Roma aveva adottato il piano di recupero recependo il progetto originale.

In seguito l’Amministrazione Comunale, su espressa indicazione della Regione Lazio, si era avveduta dell’esistenza del vincolo di inedificabilità e quindi della impossibilità di approvazione del progetto n. 8 che non teneva conto dell’esistenza del vincolo, ed aveva quindi richiesto ai proponenti la predisposizione di una modifica al progetto a suo tempo presentato, al fine di renderlo compatibile con le prescrizioni vincolistiche.

Il Consorzio Stella d’Argento II aveva così presentato in data 24 gennaio 2002, l’integrazione della precedente proposta n. 8, che modificando quella originaria, ed adeguandosi alle prescrizioni impartite dall’Amministrazione, aveva escluso dall’edificazione le aree libere di proprietà degli originarii ricorrenti e aveva spostato le volumetrie realizzabili su di esse all’interno dei previsti comparti edificatori obbligatori.

I ricorrenti, con ricorso RG. 3050/05, erano quindi insorti impugnando la deliberazione del Consiglio Comunale di Roma n. 308 del 21/12/04, recante ratifica dell’adesione del Sindaco all’Accordo di Programma ex art. 34 D.Lgs. 267/00, sottoscritto il 1/12/04, relativo al Programma di recupero urbano “Acilia-Dragona”, il decreto del Presidente della Regione Lazio del 21 marzo 2005 n. 87 di approvazione del piano di recupero e tutti gli atti istruttori, ed in particolare il parere della Regione Lazio Dipartimento Territorio, prot. n. 20681 del 4/2/04, che espressamente riconosceva come assoggettate a vincolo di inedificabilità ex D.Lgs. 42/04 le aree adiacenti al Fosso.

Con successivi ricorsi RG. 7403/06 e 7404/06, proposti rispettivamente dal Sig. Cherchi Giuseppe e dal Sig. Zaninotto Mauro, gli stessi odierni appellanti avevano impugnato la delibera del C.C. di Roma n. 225 del 12/9/05 di modifica del termine di scadenza per la sottoscrizione degli atti di cessione al Comune delle aree a destinazione pubblica, ed il decreto del Presidente della Regione Lazio in data 8/11/05 n. 571 di approvazione della suddetta delibera del Consiglio Comunale di Roma.

Ad avviso degli originarii ricorrenti erroneamente l’Amministrazione Comunale e Regionale avevano ritenuto sussistente il vincolo di inedificabilità per la fascia di m. 50 dall’argine del Fosso, in quanto esso non era ricompreso negli elenchi delle acque pubbliche: l’inesistenza del vincolo integrava l’elemento in grado di radicare il loro interesse al ricorso, diretto all’annullamento degli atti con i quali era stato approvato il piano di recupero di Acilia- Dragona, che recepiva la seconda proposta n. 8 in quanto, non esistendo preclusioni normative all’approvazione del progetto originario del Consorzio Stella d’Argento II ( non essendovi alcun vincolo di inedificabilità per le loro aree) l’annullamento degli atti di approvazione del nuovo progetto avrebbe spiegato l’effetto di poter consentire l’approvazione - da parte delle Amministrazioni competenti – del progetto originario.

Conseguenzialmente, sussisteva l’interesse all’impugnativa dei successivi atti del Comune di Roma e della Regione Lazio di modifica dei termini stabiliti nell’Accordo di Programma per la sottoscrizione degli atti di cessione delle aree a destinazione pubblica, il cui annullamento sarebbe stato strumentale alla riapertura del procedimento.

Peraltro gli originari ricorrenti (evidentemente consapevoli della centralità della questione relativa alla sottoposizione o meno a vincolo di inedificabilità delle loro aree) avevano atteso l’adozione del nuovo Piano Territoriale Paesistico Regionale (giacchè la Regione Lazio si era riservata di esaminare la domanda di declassificazione del fosso allacciante Palocco in detta sede), ed avevano cercato di dimostrare che il nuovo strumento urbanistico di pianificazione territoriale aveva recepito la richiesta di declassificazione.

Il primo giudice, quanto a tale articolazione del gravame, ha invece riscontrato che – allo stato (adozione del P.T.P.R.) – la richiesta di declassificazione non era stata accolta (tant’è che i detti originarii ricorrenti avevano impugnato il nuovo P.T.P.R. con ricorso straordinario).

Da tale emergenza processuale ha fatto discendere la conseguenza per cui l’eventuale annullamento del P.R.U. così come approvato con decreto del Presidente della G.R. del Lazio 21/3/05 n. 87, non avrebbe mai potuto arrecare ai detti originarii ricorrenti alcun concreto vantaggio in quanto – essendo stato confermato il vincolo di inedificabilità assoluta sulle loro aree – il progetto originario redatto dall’Arch. Visintini non avrebbe mai essere approvato dalla Regione Lazio.

Peraltro, la mancata approvazione del piano di recupero nella seconda versione, avrebbe fatto perdere agli stessi anche la possibilità di edificazione all’interno dei comparti edificatori previsti nello stesso piano di recupero (in quanto i loro lotti, sarebbero rimasti classificati come aree agricole soggette a vincolo di inedificabilità assoluta).

Ne discendeva la fondatezza della eccezione di carenza di interesse sollevata dalla difesa dei controinteressati.

Il Tribunale amministrativo ha quindi ritenuto di prendere in esame nel merito le doglianze contenute nel primo gravame (n. RG. 3050/05).

Ha innanzitutto preso in esame e respinto i primi tre motivi di impugnazione, (laddove si lamentava la tardività della presentazione del nuovo progetto, la carenza di legittimazione del Consorzio proponente, la mancanza della documentazione necessaria -elaborati progettuali-, la mancanza della prova sulla data di presentazione del nuovo progetto e l’incompetenza del progettista).

E’ stato a tal proposito rilevato, infatti, che gli atti erano stati regolarmente protocollati dal Comune di Roma (ed anche gli allegati progettuali sono stati regolarmente protocollati e recavano il timbro del Comune di Roma e la data del 20/5/04).

I progetti, poi, erano firmati non soltanto dal Geom. D’Anzieri, ma anche dall’Ing. Massimo Pallottini, soggetto sicuramente competente alla progettazione urbanistica.

Del pari infondata è stata dichiarata l’altra la censura con la quale si era sostenuto che il Consorzio Stella d’Argento II non aveva dimostrato la legittimazione alla presentazione della nuova proposta n. 8.

Ciò perché, contrariamente a quanto affermatosi nel ricorso, il Consorzio aveva ottemperato alla prescrizione del Comune di Roma, con la quale era stato richiesto il deposito della dichiarazione del Presidente del Consorzio sulla disponibilità dell’area oggetto di intervento.

In particolare era stata acquisita la dichiarazione del Presidente del Consorzio, Sig. Roberto Tiberi, ricevuta al protocollo del Comune di Roma in data 8/4/04, con la quale era stata attestata la disponibilità del 51% dell’imponibile catastale delle aree inserite nel piano: detta dichiarazione recava in allegato l’adesione del Presidente del Consorzio Stella d’Argento, Sig. Giuseppe Lancia, ed i tabulati contenenti l’elenco dei proprietari dei terreni ricompresi nell’area con le relative sottoscrizioni a dimostrazione della loro adesione.

Sulla base di detta documentazione il Consorzio aveva dimostrato di possedere la percentuale complessiva di adesione pari all’89,96% il che escludeva la fondatezza della doglianza.

In ultimo – quanto alle censure infraprocedimentali- appariva palesemente infondata la tesi secondo cui il nuovo progetto era stato proposto oltre i termini, e che – pertanto –, non avrebbe potuto essere approvato.

Ciò perché – ad avviso del primo giudice- la “seconda versione” del progetto classificato con il n. 8, era derivata dalla specifica richiesta da parte del Comune di Roma di adeguamento del vecchio progetto in quanto non compatibile con il vincolo paesaggistico.

In sede istruttoria, infatti, la Regione Lazio – Dipartimento Territorio - con parere del 4/2/04, aveva rilevato che per le opere ricomprese nell’intervento n. 8, sussisteva il vincolo paesaggistico ex art. 146 lett. c) del D.Lgs. 42/04 (corso d’acqua m. 50) e che pertanto le opere dovevano adeguarsi alle prescrizioni recate dall’art. 7 della L.R. n. 24/98; nella relazione, quindi, la Regione Lazio aveva espressamente prescritto che il progetto n. 8 doveva essere rielaborato tenendo conto dell’inedificabilità dei lotti ricadenti nella fascia di rispetto del canale Palocco per l’ampiezza di m. 50 a partire dal corso d’acqua stesso; inoltre la stessa Regione Lazio aveva imposto la destinazione a standard urbanistici delle suddette aree.

Ne conseguiva che il nuovo progetto presentato dal Consorzio, costituendo l’adeguamento di quello precedente alle prescrizioni recate dalla Regione Lazio e dal Comune di Roma, doveva considerarsi tempestivo ancorché depositato oltre il termine del 30 giugno 1998

Il Tribunale amministrativo ha quindi preso in esame la quarta censura del ricorso, incidente sul merito, con la quale si contestava l’esistenza del vincolo paesaggistico, sostenendosi da parte degli originarii ricorrenti, che le loro aree erano limitrofe al fosso allacciante di Palocco e non al Canale Palocco e che quindi – non essendovi menzione del fosso nell’elenco delle acque pubbliche – il vincolo non sarebbe stato sussistente.

Anche tale censura è stata disattesa dal primo giudice, sul rilievo che il Canale Palocco, iscritto negli elenchi delle acque pubbliche formati ai sensi del R.D. 1775/33 con il numero n. 470 bis, era vincolato per tutto il suo corso.

Il Comune di Roma aveva infatti chiarito che nel P.T.P. n. 2, il canale – con tutte le sue diramazioni – era totalmente sottoposto a vincolo.

Nella deliberazione della G.R. del Lazio del 22/2/02 n. 211, contenente la “Ricognizione e graficizzazione, ai sensi dell’art. 22 comma 1 lett. b) della L.R. 24/98 del vincolo paesistico delle fasce di protezione dei corsi d’acqua pubblica di cui all’art. 146, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 490/99 e art. 7 commi 1 e 2 della L.R. 24/98”, il canale Palocco era ricompreso nell’elenco delle acque pubbliche (pag. 242 del Supplemento ordinario n. 1 al Bollettino Ufficiale n. 18 in data 29/6/02) ed era individuato nelle cartografie con un unico codice che copriva l’intero tracciato dal canale comprensivo anche della parte in contestazione.

Peraltro, l’intero tracciato – comprensivo anche della parte in contestazione - risultava ancora vincolato nel nuovo P.T.P.R. del Lazio: ne conseguiva che – se il tratto in questione risultava ricompreso nella graficizzazione eseguita dalla Regione Lazio ed allegata alla suddetta deliberazione di ricognizione dei vincoli relativi ai corsi d’acqua – non era contestabile la sottoposizione del fosso – che costituiva appunto una diramazione del canale – al vincolo paesaggistico.

Tale asserto inoltre era confermato anche induttivamente dallo stesso comportamento degli originarii ricorrenti e del primo progettista, Arch. Visintini, che avevano avanzato richiesta di declassificazione del fosso,(il che confermava l’esistenza del vincolo paesaggistico sul bene in questione, mentre alcun rilievo poteva assumere la denominazione del corso d’acqua nelle mappe catastali, atteso che queste ultime non rivestivano alcuna efficacia nella ricognizione dei beni soggetti a vincolo).

L’esclusione dal vincolo riguardava le sole zone urbane perimetrate – e quindi non certamente quella in questione, classificata come zona agricola –: in ogni caso, l’esclusione dal vincolo paesaggistico poteva essere disposta solo a seguito di specifico provvedimento di declassificazione, ( atto discrezionale dell’Amministrazione, allo stato mai adottato -neppure in seguito all’adozione del nuovo P.T.P.R.-, nonostante la specifica richiesta avanzata in tal senso dagli originarii ricorrenti).

Proseguendo nell’esame del ricorso, il primo giudice ha vagliato il quinto, sesto e settimo motivo di gravame con i quali si formulavano specifiche censure sul secondo progetto costituente la proposta n. 8 (ivi essendosi sostenuto che nel nuovo progetto era riscontrabile una grave sperequazione tra i soggetti proprietari di aree non gravate dal vincolo, ed i cosiddetti “canalisti”, in quanto questi ultimi avevano subito una notevole riduzione della capacità edificatoria, essendo assoggettati ad una percentuale di cessione delle aree a standard pari al 45%, in luogo del 10-12% degli altri proprietari fuori comparto, in violazione delle disposizioni recate dal bando di confronto concorrenziale, tanto che lo stesso Comune di Roma, aveva richiesto l’adeguamento e l’ampliamento dei comparti edificatori al fine di evitare le sperequazioni tra i partecipanti al consorzio).

Esclusa la violazione del bando di confronto concorrenziale in quanto il progetto era stato formulato secondo i criteri dell’art. 10 del bando e rispondeva alle previsioni minime ivi previste, secondo cui ad ogni proprietario doveva essere garantito almeno un indice territoriale pari allo 0,25% il primo giudice ha affermato che la dedotta sperequazione esistente tra i vari partecipanti alla lottizzazione, ed in particolare tra i soggetti titolari dei lotti liberi e i soggetti rientranti nei comparti edificatori, aveva natura prettamente privatistica e che, come tale, avrebbe dovuto essere risolta all’interno del Consorzio ma non poteva condurre ad alcuna declaratoria di illegittimità dell’accordo di programma, non essendo la previsione di un diverso indice fondiario in contrasto con alcuna specifica norma del bando di confronto concorrenziale.

Peraltro, l’omogeneizzazione dell’indice fondiario rilevato dall’Amministrazione si riferiva ai soli partecipanti ai comparti e non anche ai titolari di lotti liberi, come sostenuto nel ricorso.

In ogni caso, ad avviso del Tar, la soluzione adottata – inserimento nei comparti edificatori – aveva comunque tutelato la posizione dei proprietari “canalisti”, che altrimenti avrebbero perso totalmente la possibilità di edificazione: ne conseguiva che la diversa situazione giuridica tra i proprietari escludeva in radice la possibilità di configurare il vizio di disparità di trattamento o la violazione del principio di equità, postulando entrambi l’identità delle situazioni giuridiche.

Infine sono state disattese le ulteriori censure proposte avverso il progetto essendosi affermato che le modifiche apportate al progetto in merito alla redistribuzione delle aree destinate ad uso commerciale e lo spostamento di quelle ad uso residenziale, rientravano nel potere discrezionale dell’Amministrazione in sede di pianificazione e non potevano costituire motivo di illegittimità del piano.

Ciò tanto più che -per quanto riguardava il centro commerciale- si era trattato del solo spostamento in altra zona, e non vi era stato incremento di volumetria a scapito di altri pubblici servizi.

In ogni caso, quanto a tale versante del ricorso, gli originarii ricorrenti non avevano neppure dimostrato il proprio interesse a dedurre la censura, non emergendo quale fosse stato il danno arrecato alla loro specifica posizione della diversa distribuzione delle zone commerciali o residenziali disposta in esecuzione delle prescrizioni imposte in seguito alla Conferenza di servizi.

Parimenti infondata è stata dichiarata la censura con riferimento alla percentuale delle aree destinate a standard in quanto il limite previsto dal D.M. 1444/68 aveva portata minimale e quindi, legittimamente, l’Amministrazione poteva decidere di ampliare il novero delle zone all’uopo destinate, rientrando detta scelta nella propria potestà discrezionale di pianificazione.

In ultimo, è stato dal primo giudice rilevato (quanto alle ultime censure contenute nell’ottavo e nel nono motivo di ricorso) che Il piano di recupero era stato proposto dal Consorzio Stella d’Argento II, e dunque soltanto per detto soggetto potevano configurarsi obblighi di informazione e di partecipazione al procedimento, ed in ogni caso dagli atti di causa risultava che gli stessi originarii ricorrenti avevano comunque partecipato al procedimento formulando osservazioni al piano, esaminate dalla Regione Lazio.

Il ricorso n. 3050/05, è stato quindi respinto perché infondato (anche con riguardo ai motivi aggiunti, in quanto reiterativi di censure già precedentemente delibate) il che comportava l’inammissibilità, per carenza di interesse, dei successivi ricorsi RG. 7403/06 e RG 7404/06 anche con riferimento alle censure ulteriori (irregolarità nella presentazione del secondo progetto, modifiche nella distribuzione delle opere pubbliche)ivi prospettate in quanto

alcun interesse potevano vantare i ricorrenti ad ottenere la caducazione dell’accordo di programma, in quanto – non potendo far valere un interesse strumentale alla riapertura della procedura – avrebbero perso ogni possibilità edificatoria, e tornando ad essere proprietari di aree agricole gravate da vincolo di inedificabilità assoluta.



Ricorso n.5895/2009;

L’ odierno appellante Signor Cherchi, già ricorrente rimasto soccombente nel giudizio di prime cure ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe chiedendo la riforma dell’appellata decisione.

Ha ripercorso il risalente e prolungato contenzioso intercorso con l’Amministrazione ed ha evidenziato che il terreno di propria pertinenza ricadeva nel nucleo urbanistico denominato “Stella d’Argento” classificato dal vecchio Prg del Comune di Roma come zona H2 (agricola).

Esso confinava –unitamente ad altri- con il “ Fosso Allacciante Palocco”.

In via preliminare ha chiarito che il proprio interesse “principale” coltivato con l’odierno appello, riposava nel “ripristino” dell’originario testo della proposta 8 e, quindi, nel vedersi riconosciuta la edificabilità del proprio fondo, siccome prevista nel testo originario della proposta predetta. Secondariamente, però, ed in via subordinata, aveva interesse a riacquistare la originaria destinazione agricola prevista dal Prg.

In via principale, quindi,perseguiva lo scopo di eliminare la destinazione pubblica (verde) attribuita al proprio terreno, e soltanto in via subordinata quella della caducazione dell’intero piano di recupero.

Riproponendo la doglianza già articolata nel quarto motivo del mezzo di primo grado (e nel secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti) , ha fatto presente (motivo primo e principale del ricorso in appello, pagg. 6-13) che del tutto erroneamente era stato affermato (dall’Amministrazione prima, e dal Tribunale amministrativo regionale poi) che il detto corso d’acqua era vincolato ed ha ribadito che era stato violato il precetto di cui all’art. 7 comma 7 della legge regionale n. 24/1998

Ciò perché l’intero corso del canale assumeva tre distinte denominazioni: “ Fosso Allacciante Palocco”; “Canale Palocco”; “Canale Allacciante Pantanello”.

Gli ultimi due tratti del canale erano stati espressamente sottoposti a vincolo:non così, invece, il primo tratto.

Ne conseguiva che il vincolo sul “ Fosso Allacciante Palocco” non poteva inferirsi da quello apposto dal RD 1775/1993 con il n.470 bis su tutto il corso del Canale Palocco.

Nessun vincolo specifico, infatti, era stato apposto sul “ Fosso Allacciante Palocco” né dal RD 28 dicembre 1965 né dal RD 17 febbraio 1910 (che al n.479 aveva vincolato il“Canale Allacciante Pantanello”) .

Posto che tutte le cartografie utilizzavano tre distinti “appellativi” per descrivere partitamente il canale predetto, ne discendeva che l’eventuale vincolo insistente sul “Fosso Allacciante Palocco” non poteva desumersi per trasposizione in carenza di espresso provvedimento di apposizione

Ha inoltre evidenziato che, “ratione naturae” avuto riguardo alla modestissima portata del detto “ Fosso Allacciante Palocco” il vincolo apposto sullo stesso sarebbe stato del tutto illogico.

La circostanza che il PTP2aveva sottoposto il canale per intero, con tutte le sue diramazioni al vincolo, non era pertanto sufficiente.

L’art. 27 del PTPR, laddove faceva richiamo al disposto di cui all’art. 7 comma 7 della legge regionale n. 24/1998 confermava la tesi appellatoria (come anche la disposizione di cui all’art. 36 terdella legge regionale n. 24/1998).

Prova di ciò riposava, tra l’altro, nella circostanza che erano state rilasciate numerose concessioni edilizie in sanatoria per immobili insistenti su terreni ubicati in posizione prossima a quello di pertinenza di parte appellante.

In via subordinata ha riproposto le doglianze infraprocedimentali attingenti la seconda proposta del Consorzio (motivi nn.1 e 2 dell’originario mezzo di primo grado e del mezzo per motivi aggiunti) facendo presente che la proposta era tardiva ex art. 22 del bando di concorso concorrenziale, e che la stessa era carente della basilare documentazione allegata (censura sulla quale il primo giudice non si era soffermato).

Inoltre ha riproposto la tesi secondo la quale (pag. 15 dell’appello) la detta proposta era viziata ex art. 27 comma 5 della legge n. 166/2002 e del Bando di confronto in quanto non risultava presentata anche a nome e firma del Consorzio Stella d’Argento che aveva la maggioranza del comparto (ma soltanto a firma del Consorzio Stella d’Argento Due che aveva soltanto la maggioranza delle adesioni dei lotti liberi).

La lettera di adesione del Consorzio Stella d’Argento riguardava infatti soltanto la prima proposta, e non anche la seconda: il primo giudice aveva travisato i fatti non ritenendo necessaria una nuova adesione del Consorzio Stella d’Argento.

La mancanza di detta “nova” adesione e sottoscrizione da parte del Consorzio Stella d’Argento rendeva l’accordo di programma illegittimo.

Con il quarto motivo di appello (pag. 16) sono state reiterate le censure incentrate sul difetto di partecipazione ex lege n.241/1990 già contenute nei motivi 8 e 9 del mezzo di primo grado.

La seconda parte del ricorso in appello è stata dedicata alla illustrazione e riproposizione delle censure già contenute nel ricorso dichiarato inammissibile dal Tar (n. 7404/2006) e volte ad avversare la delibera regionale con la quale era stato prorogato il termine fissato nell’Accordo di Programma per la cessione delle aree a destinazione pubblica.

La declaratoria di inammissibilità era errata in quanto – come chiarito nell’incipit dell’appello- l’originario ricorrente aveva un interesse, seppur subordinato, alla caducazione dell’intero Accordo di programma che avrebbe consentito che l’area di propria pertinenza riacquistasse la destinazione agricola mercè stralcio dell’area stessa rispetto alle previsioni del Piano di Recupero (seppur allo stesso in parte favorevoli perché edificatorie su altra area).

Con la sesta censura si è sostenuto il malgoverno da parte dell’Amministrazione delle diposizioni partecipative ex lege n.2411990 in quanto non era stata personalmente comunicato all’appellante l’inizio del procedimento di proroga dei termini di validità delle varianti né era stato personalmente notificato il detto provvedimento di proroga.

Ciò in quanto l’appellante era a più riprese intervenuto nel procedimento relativo al Piano di Recupero di Acilia, acquisendo la qualità di “parte”, ed aveva proposto il ricorso avversante l’approvazione dell’Accordo di programma.

Sotto altro profilo, con la settima censura si è sostenuta l’avvvenuta violazione dell’art. 9 dell’Accordo di Programma relativo al PRU di Acilia-Dragona in quanto ivi si prevedeva la decadenza delle varianti urbanistiche approvate laddove i soggetti attuatori entro 6 mesi dalla ratifica dell’Accordo medesimo non avessero provveduto a cedere le aree sottoscrivendo gli atti unilaterali di cessione al Comune delle aree a destinazione pubblica.

Detta previsione di decadenza si era puntualmente verificata in quanto l’Accordo di Programma era stato ratificato dal Consiglio Comunale di Roma con delibera n. 308 del 21 dicembre 2004: il termine perentorio sarebbe quindi scaduto il 21 giugno 2005.

Senonchè, invano spirata la detta scadenza, e dopo 83 giorni dall’avvenuta decadenza, in data 12 settembre il Comune di Roma, “preso atto dell’asserita impossibilità di rispettare la detta scadenza” prevista nella detta clausola della quale si denunciava la supposta “inapplicabilità” predispose la delibera n. 225/2005 (recepita in sede regionale con il con D.P.R n. 571/2005<9 con la quale si stabiliva che la decadenza per omessa cessione delle aree destinate ad uso pubblico decorresse (non già, come in precedenza previsto dal citato art.9 dell’Accordo di Programma relativo al PRU di Acilia-Dragona decorsi 6 mesi dalla ratifica dell’Accordo ma) dalla data di pubblicazione sul BUR degli altri Accordi di Programma (che erano ancora in corso di approvazione).

Il che,oltre a concretare una patente illegittimità,appariva anche illogico in quanto si ancorava la decadenza ad una data incerta, stabilendosi peraltro che, entro detta data, non fosse (più) necessario addivenire alla sottoscrizione degli atti unilaterali di cessione delle aree predette.

Il tutto allorchè il termine era già spirato.

Infine, con l’ottava doglianza, è stata sostenuta la connessa tesi della violazione dell’art. 34 del d.Lgs n. 267/2000 (in quanto erano stati disattesi, se non stravolti, i termini dell’intesa raggiunta dalle “amministrazioni interessate” in sede di conferenza di servizi decisoria), con la successiva ed ultima doglianza, quella della insussistenza “nel merito” dei presupposti per addivenire alla disposta –ed asseritamente illegittima- proroga

L’amministrazione comunale di Roma appellata si è costituita depositando una articolata memoria chiedendo la reiezione dell’appello perché privo di fondamento.

Ha in particolare sostenuto, la erroneità dell’appello laddove ivi si sosteneva che il “Fosso allacciante Palocco” non fosse vincolato.

Al contrario, il “Fosso allacciante Palocco” costituiva diramazione del “Canale Palocco”, interamente vincolato ed iscritto negli elenchi delle acque pubbliche approvati dal RD 1775/1933. Esso era vincolato ex lege n. 431/1985; il PTP n. 2 della Regione classificava all’art. 16 beni A2 ed A3 i corsi delle acque pubbliche ed il “Canale Palocco”,classificato A3 ricadeva nella previsione di cui all’art. 7 co.11 della legge regionale del Lazio n. 24/1998 (tanto che parte appellante si era rivolta alla Regione per chiedere l’esclusione del vincolo).

Parimenti infondata era la censura sub art. 7 della legge n. 241/1990 in quanto l’appellante non aveva proposto alcuna integrazione al progetto n. 8 mentre, di converso, le garanzie partecipative erano state rispettate nei confronti del Consorzio Stella d’Argento II proponente il detto progetto n. 8 (unico soggetto destinatario degli obblighi procedimentali).

Quanto alla supposta violazione dell’art. 22 del bando di confronto concorrenziale, era evidente che il termine di gg 120 ivi contenuto non era applicabile al “nuovo” progetto n. 8 il quanto il Consorzio Stella d’Argento II lo aveva presentato su richiesta dell’amministrazione.

L’appellante ha depositato una articolata memoria riepilogando e puntualizzando le proprie censure, mentre l’appellata amministrazione, con memoria di replica, ha fatto presente che la modesta portata d’acqua del “Fosso allacciante Palocco” non poteva far presumere la insussistenza del vincolo posto che anche un fosso poteva essere annoverato tra le acque pubbliche.

Alla odierna pubblica udienza del 5 febbraio 2013 la causa è stata posta in decisione dal Collegio



Ricorso n.5896/2009;

L’ odierno appellante Signor Zaninotto, già ricorrente rimasto soccombente nel giudizio di prime cure ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe chiedendo la riforma dell’appellata decisione formulando doglianze identiche a quelle formulate dal Signor Cherchi nell’ambito dell’appello n. 5895/2009 del quale si è prima illustrato il contenuto ed una identica memoria.

L’appellata amministrazione comunale ha depositato scritti difensivi di contenuto identico a quelli cui si è fatto riferimento nell’ambito dell’appello n. 5895/2009.

Alla odierna pubblica udienza del 5 febbraio 2013 la causa è stata posta in decisione dal Collegio

DIRITTO

1.I suindicati ricorsi devono essere riuniti in quanto diretti a gravare la medesima sentenza, e connessi in quanto postulanti identiche censure.

2.Essi sono infondati e meritano di essere respinti.

3.Il petitum principale, esposto nel primo motivo di censura di entrambi i riuniti risorsi assume portata pregiudiziale: con il medesimo, infatti, si è riproposta la tesi secondo la quale nessun vincolo insisterebbe sul Fosso allacciante Palocco.

3.1.L’appellante ripropone pervicacemente una tesi (già prospettata nel quarto motivo del mezzo di primo grado) negativamente riscontrata nel corso del giudizio di prime cure, senza apportare alcun elemento conoscitivo nuovo o di contrario segno rispetto a quelli vagliati dal primo giudice: essa è volta ad escludere la esistenza di un vincolo di inedificabilità sulle aree adiacenti al fosso e la legittimità della conseguente prescrizione di una fascia di rispetto di m. 50 in relazione al vincolo paesaggistico a tutela dei corsi d’acqua.

3.2. Tale petitum (smentita per tabulas con riferimento alla “fase” successiva alla adozione del nuovo Piano Territoriale Paesistico Regionale da parte della Regione Lazio) è - per quanto concerne il periodo antecedente alla adozione del detto nuovo Piano Territoriale Paesistico Regionale da parte della Regione Lazio – infondato ai limiti della temerarietà.

Ciò è dimostrato, ad avviso del Collegio, dalla circostanza che la stessa parte originaria ricorrente aveva in detta sede proposto domanda di declassificazione del fosso allacciante Palocco a testimonianza della circostanza che, essa stessa, riconosceva la sussistenza del detto vincolo insistente sull’area (e cioè non limitato al solo Canale Palocco, ma coinvolgente, anche le sue diramazioni).

L’ Amministrazione Comunale e quella Regionale – si veda la memoria depositata in atti dal Comune – hanno concordemente attestato che nel momento della adozione del P.T.P.R. – la richiesta di declassificazione non è stata accolta.

Ne consegue la infondatezza della doglianza e la conferma del vincolo di inedificabilità assoluta sulle loro aree (i ricorrenti hanno poi impugnato il nuovo P.T.P.R. con ricorso straordinario).

3.3. La stessa condotta di parte appellante, ad avviso del Collegio, dimostra la infondatezza della censura.

3.4. Tuttavia è doveroso farsi carico anche della persistente obiezione, articolata nel mezzo di gravame, secondo la quale sarebbe errato affermare che il detto Fosso, pur costituendo diramazione del Canale Palocco, sarebbe vincolato: ciò in quanto soltanto il secondo sarebbe iscritto nell’elenco dei canali sottoposti a vincolo ex RD n. 1775/1993.

L’unico elemento a suffragio di tale tesi riposa in una interpretazione deduttiva secondo cui, posto che il corso del Canale Palocco assumeva tre denominazioni, sebbene il vincolo fosse stato imposto sull’intero Canale(tale circostanza non è contestata) esso non poteva essere esteso -in assenza di specifica apposizione sul Fosso allacciante Palocco – a quest’ultimo.

La detta tesi appare apodittica e priva di spessore probatorio, anche allorchè si spinge a negare che il Fosso allacciante Palocco costituisca diramazione del Canale Palocco in quanto è quest’ultimo che origina dal primo.

Di certo v’è che il Canale Palocco è stato sempre unitariamente considerato, ed è il tratto di maggiore importanza: che poi i singoli corsi d’acqua assumano, diverse denominazioni non può rilevare in punto di sussistenza del vincolo stesso: peraltro il PTP ha sottoposto a vincolo il Canale Palocco con tutte le sue diramazioni (termine atecnico per individuare un corso d’acqua che comunque si mantiene “unico” e che, quindi, non esclude ma semmai ricomprende il punto di origine dello stesso) di guisa che la censura appare priva di spessore.

Peraltro neppure appare chiaro il motivo per cui soltanto tale parte del corso del Canale avrebbe dovuto essere sottratta al vincolo imposto sull’intero corso d’acqua.

Assume natura troncante, poi, ai fini della reiezione della censura la circostanza – già espressa dal primo giudice- secondo la quale nella deliberazione della G.R. del Lazio del 22/2/02 n. 211, contenente la “Ricognizione e graficizzazione, ai sensi dell’art. 22 comma 1 lett. b) della L.R. 24/98 del vincolo paesistico delle fasce di protezione dei corsi d’acqua pubblica di cui all’art. 146, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 490/99 e art. 7 commi 1 e 2 della L.R. 24/98”, il Canale Palocco era ricompreso nell’elenco delle acque pubbliche (pag. 242 del Supplemento ordinario n. 1 al Bollettino Ufficiale n. 18 in data 29/6/02) e, soprattutto, era individuato nelle cartografie con un unico codice che copre l’intero tracciato dal canale comprensivo anche della parte in contestazione.

La unicità del codice utilizzato per descrivere l’intero corso d’acqua, e la circostanza che tale cartografia faccia riferimento anche al Fosso allacciante Palocco esclude la fondatezza della censura; la circostanza rappresentata nella perizia giurata datata 20.12.2012 depositata nell’ambito dell’appello n. 5896/2009, limitandosi a ribadire che nell’area insistono numerose costruzioni a distanza di meno di 50 metri dal Fosso e che la predetta area nella planimetria allegata al PTPR non è tratteggiata obliquamente non apporta elementi decisivi a smentire il vincolo insistente sul Fosso medesimo (qual parte del Canale Palocco).

Come segnalato infine dalla difesa dell’appellata amministrazione comunale nella propria memoria, le argomentazioni incentrate sulla modesta portata d’acqua del Fosso ( tale, secondo la tesi appellatoria, da escluderne oggettivamente la natura di “acqua pubblica”) vanno decisamente disattese essendo a ciò sufficiente far richiamo alla pacifica giurisprudenza in materia che ritiene ininfluente detto elemento “quantitativo” di natura oggettiva (“in rapporto anche al più ampio concetto di acqua pubblica introdotto dalla L. n. 36 del 1994, sussiste la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ove si tratti di corso d'acqua che, pur raccogliendo acque di origine pluviale, non possa considerarsi mera fognatura né raccolta di acque meteoriche non convogliate o non identificabili come corpo idrico”-Trib. Sup. Acque, 02-07-2003, n. 97-).

In carenza di alcun provvedimento specifico ed espresso di esclusione del vincolo, poi, non possono trovare ingresso le obiezioni (in relazione al disposto di cui all’art. 7 comma 7 della legge regionale del Lazio n. 24/1998) fondate sulla asserita urbanizzazione dell’area che peraltro risulta classificata quale zona agricola l’esclusione dal vincolo riguarda le sole zone urbane perimetrate – e quindi non certamente quella in questione, classificata come zona agricola – mentre le asserzioni relative a supposte concessioni in sanatoria in passato rilasciate sull’area per costruzioni realizzate in spregio della fascia di rispetto nulla provano, non potendo neppure la riscontrata sussistenza di un provvedimento illegittimo eventualmente in passato emesso costituire il presupposto per la reiterazione dell’errore ma, semmai, occasione per la eventuale revoca proprio di quelli illegittimamente rilasciati (si veda sul punto la consolidata produzione giurisprudenziale in punto di assenza del vizio di disparità di trattamento quanto al diniego di condono sebbene in presenza di concessioni in sanatoria in passato illegittimamente rilasciate nella stessa area ove insisteva l’immobile oggetto di diniego).

3.5. Quanto alla reiterata censura di difetto di istruttoria e l’asserito vizio di omessa petizione in cui sarebbe incorsa la sentenza di primo grado allorchè non ha diffusamente motivato sul punto, rammenta il Collegio che "il vizio di omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertato con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché esso può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile.”(Consiglio Stato , sez. VI, 06 maggio 2008, n. 2009).

Il primo giudice, all’evidenza, ha condiviso l'impianto sostanziale del provvedimento impugnato nella parte in cui quest'ultimo ha stabilito la permanente esistenza del vincolo. Appare evidente pertanto che, sia pure non fornendo analitica e partita risposta sulle questioni dedotte nei sopracitati motivi del ricorso di primo grado, essi si sono implicitamente pronunciati sulle medesime, respingendole, avendo riscontrato la legittimità degli atti impugnati in primo grado sotto profili assorbenti rispetto alla portata delle censure medesime.

Ritiene il Collegio di potere condividere detto modus procedendi, e che nel caso di specie non sia ravvisabile alcuna lesione del principio di cui all'art. 112 cpc, potendosi sul punto richiamare l'orientamento della giurisprudenza amministrativa prima menzionato (si veda anche, sul punto Consiglio Stato , sez. VI, 20 febbraio 1998, n. 189).

In ogni caso, si deve rilevare che “ l'omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado, ma solo un vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa.”(Consiglio Stato , sez. IV, 19 giugno 2007, n. 3289 si veda oggi art. 105 del cpa).

La censura è comunque del tutto priva di fondamento, sol che si consideri che proprio l’Amministrazione ebbe ad obiettare sul precedente progetto presentato dal Consorzio, di guisa che non è mancata alcuna ponderazione od istruttoria sul punto e, per latro verso, trattandosi di vincolo di inedificabilità, l’Amministrazione,non avrebbe potuto far altro se non prendere atto della sussistenza di quest’ultimo.

La censura, conclusivamente, appare del tutto non persuasiva e come tale è inaccoglibile.

4. Eguale sorte merita il secondo motivo di doglianza incentrato sull’art. 22 del Bando di concorso: è certo che il termine ivi contenuto avesse carattere perentorio. Ed è certo che esso sia stato rispettato in sede di presentazione del primo progetto.

E’ ovvio però che, una volta che sia stata rispettata la detta prima scadenza perentoriamente stabilita, la circostanza che su espressa indicazione dell’Amministrazione esso sia stato ripresentato non implica la violazione della detta disposizione chè altrimenti verrebbe esclusa ogni interlocuzione tra amministrazione e privato e parimenti verrebbe escluso il dovere di “soccorso” dell’Amministrazione a fronte di un progetto –tempestivamente prodotto nel termine - che comunque presentava le caratteristiche minimali per essere preso in considerazione.

Ciò non significa disattendere alcun autovincolo non essendo espressamente statuito nel Bando che non potessero integrarsi/modificarsi i progetti presentati: peraltro l’appellante sostiene che il rispetto del termine di presentazione del progetto coinvolgesse esigenze di pubblico interesse: la stessa funzione e struttura del Piano di Recupero dimostra che l’interesse pubblico ad esso sotteso (in carenza peraltro di posizioni di conflitto ravvisabili in altri soggetti presentatori di Piano) può essere efficacemente perseguito con l’adozione dello stesso, piuttosto che attraverso una statuizione di tardività della presentazione del progetto che ne precluderebbe la effettuazione.

Il principio è immanente nel sistema, e di esso è stata fatta larga applicazione in tema di iniziative edificatorie o programmatoria ,laddove la alternativa tra approvazione in toto del progetto così come presentato, ovvero la reiezione del medesimo implicherebbe volta per volta una costosa ed inutile attività reiterativa (ex multis: “nel caso in cui l'autorità competente all'approvazione di un piano regolatore subordina l'approvazione ad una serie di prescrizioni che non sono immediatamente operative ma comportano un'ulteriore attività da parte del comune, l'approvazione medesima deve ritenersi condizionata al compimento di quelle attività e prescrizioni, con la conseguenza che fino a quando queste non siano intervenute il piano, ancorché approvato, non può considerarsi efficace.”-Cons. Stato Sez. IV, 05-12-1984, n. 880 -), ma anche in materia di concorsi a pubblici impieghi e pubbliche gare coerentemente con la disposizione di carattere generale contenuta nell'art. 6, legge n. 241 del 1990 (si veda: Consiglio di Stato Sez. V, sent. n. 3486 del 03-06-2010 , ma anche Sez. V, sent. n. 1521 del 24-03-2006).

La censura di cui al punto 3 lett. a dell’appello è pertanto manifestamente infondata, mentre quelle di cui alle successive lettere b. e c. sono infondate in fatto.

Ivi peraltro è stato inesattamente sostenuto che il primo giudice non si era soffermato specificamente su dette due articolazioni della doglianza ipotizzando la violazione dell’art. 112 cpc: al contrario di quanto sostenuto nell’appello, invece la gravate decisione ha rilevato che “gli atti sono stati regolarmente protocollati dal Comune di Roma (per precisione, occorre rilevare che anche gli allegati progettuali sono stati regolarmente protocollati e recano il timbro del Comune di Roma e la data del 20/5/04).I progetti, poi, sono firmati non soltanto dal Geom. D’Anzieri, ma anche dall’Ing. Massimo Pallottini, soggetto sicuramente competente alla progettazione urbanistica.”.

In ogni caso, le censure sono infondate, in quanto non si vede perché la sottoscrizione soltanto sul frontespizio del progetto avrebbe comportato la inammissibilità dello stesso allorchè ne era certa l’identità dei soggetti che lo realizzarono, né lo stesso risultava privo dei prescritti allegati progettuali e relazioni richieste.

4.1. Quanto alla censura di cui al punto 3 lett. d la doglianza appare infondata se non anche inammissibile in assenza di alcuna diretta critica alla motivazione del Tar.

Il primo giudice ha infatti respinto il corrispondente motivo di censura articolato in primo grado, sulla scorta della considerazione per cui “innanzitutto la documentazione prodotta in giudizio dal Comune di Roma smentisce l’assunto dei ricorrenti, secondo cui, il Consorzio non avrebbe ottemperato alla prescrizione del Comune di Roma, con la quale era stato richiesto il deposito della dichiarazione del Presidente del Consorzio sulla disponibilità dell’area oggetto di intervento: il documento classificato con il n. 11 nell’elenco dei documenti depositati dal Comune di Roma, reca per l’appunto la dichiarazione del Presidente del Consorzio, Sig. Roberto Tiberi, ricevuta al protocollo del Comune di Roma in data 8/4/04, con la quale viene attestata la disponibilità del 51% dell’imponibile catastale delle aree inserite nel piano; per maggiore precisione, deve rilevarsi che la dichiarazione, poi, reca in allegato l’adesione del Presidente del Consorzio Stella d’Argento, Sig. Giuseppe Lancia, ed i tabulati contenenti l’elenco dei proprietari dei terreni ricompresi nell’area con le relative sottoscrizioni a dimostrazione della loro adesione.

Sulla base di detta documentazione il Consorzio ha dimostrato di possedere la percentuale complessiva di adesione pari all’89,96% (cfr. Prospetto riassuntivo delle adesioni raccolte e di stima dell’imponibile catastale protocollata nella stessa data dell’8/4/04).”.

Le odierne parti appellanti non hanno articolato specifiche critiche al decisum giudiziale, come sopra riportato,ma reiterano un argomento (strettamente connesso a quello prima esaminato e relativo alla asserita omessa presentazione del progetto nel termine perentorio fissato ex art. 22 del Bando di concorso) di fatto sostenendo che il “nuovo progetto” era totalmente non riferibile a quello in passato presentato e, pertanto, avrebbe dovuta rendersi necessaria una nuova adesione del Presidente del Consorzio dei lotti edificati.

L’argomento di critica non merita accoglimento: premesso che non risulta da alcun atto processuale che da parte del Presidente del Consorzio Stella d’Argento siano state mosse contestazioni alla presentazione del rinnovato progetto da parte del Consorzio Stella d’Argento 2, la censura si fonda sulla apodittica affermazione per cui la prima nota di adesione non poteva ricomprendere le modifiche apportate nel nuovo progetto.

Senonchè non è agevole rinvenire alcun riscontro a tale affermazione, sol che si consideri che non è contestato che la predetta nota adesiva non conteneva alcuna limitazione/condizione; che è prassi costante (come già pare al Collegio essersi precedentemente chiarito)quella dell’adeguamento dei progetti alle prescrizioni via via imposte dalle Amministrazioni; che, pertanto, ove l’adesione fosse stata condizionata alla assoluta immodificabilità del progetto ciò avrebbe dovuto essere specificato nella richiamata nota adesiva.

Per concludere sul punto, pare al Collegio che anche detta censura sia infondata e che risulti pienamente rispettato il disposto di cui al quinto ed ultimo comma dell’art.27 della L. 1-8-2002 n. 166 (“27. Programmi di riabilitazione urbana.”

“Con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con i Ministri interessati, di intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti i criteri e le modalità di predisposizione, di valutazione, di finanziamento, di controllo e di monitoraggio di programmi volti alla riabilitazione di immobili ed attrezzature di livello locale e al miglioramento della accessibilità e mobilità urbana, denominati «programmi di riabilitazione urbana», nonché di programmi volti al riordino delle reti di trasporto e di infrastrutture di servizio per la mobilità attraverso una rete nazionale di autostazioni per le grandi aree urbane.

I programmi sono promossi dagli enti locali, di intesa con gli enti e le amministrazioni competenti sulle opere e sull'assetto del territorio.

Le opere ricomprese nei programmi possono riguardare interventi di demolizione e ricostruzione di edifici e delle relative attrezzature e spazi di servizio, finalizzati alla riqualificazione di porzioni urbane caratterizzate da degrado fisico, economico e sociale, nel rispetto della normativa in materia di tutela storica, paesaggistico-ambientale e dei beni culturali.

Le opere che costituiscono i programmi possono essere cofinanziate da risorse private, rese disponibili dai soggetti interessati dalle trasformazioni urbane. A cura degli enti locali promotori è trasmessa al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, con cadenza annuale, una relazione sull'attuazione dei programmi di riabilitazione urbana e sugli effetti di risanamento ambientale e civile ottenuti.

Il concorso dei proprietari rappresentanti la maggioranza assoluta del valore degli immobili in base all'imponibile catastale, ricompresi nel piano attuativo, è sufficiente a costituire il consorzio ai fini della presentazione al comune delle proposte di realizzazione dell'intervento e del relativo schema di convenzione. Successivamente il sindaco, assegnando un termine di novanta giorni, diffida i proprietari che non abbiano aderito alla formazione del consorzio ad attuare le indicazioni del predetto piano attuativo sottoscrivendo la convenzione presentata. Decorso infruttuosamente il termine assegnato, il consorzio consegue la piena disponibilità degli immobili ed è abilitato a promuovere l'avvio della procedura espropriativa a proprio favore delle aree e delle costruzioni dei proprietari non aderenti. L'indennità espropriativa, posta a carico del consorzio, in deroga all'articolo 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, deve corrispondere al valore venale dei beni espropriati diminuito degli oneri di urbanizzazione stabiliti in convenzione. L'indennità può essere corrisposta anche mediante permute di altre proprietà immobiliari site nel comune.”).

5.Proseguendo nell’esame delle identiche censure contenute nei riuniti appelli, va certamente disattesa quella rubricata al n. 4 (già ottavo e nono motivo del mezzo di primo grado) incentrata sull’asserito malgoverno della previsione di cui all’art. 7 della legge n. 241/1990.

Come già rilevato dal primo giudice, i singoli proprietari non dovevano essere specifici destinatari degli obblighi partecipativi quanto agli obblighi di modifica del progetto imposti dall’Amministrazione (ma, semmai, il soggetto destinatario degli stessi era unicamente il Consorzio, nei cui confronti i detti obblighi procedimentali è pacifico siano stati adempiuti: si veda sul punto per una eadem ratio: “la comunicazione dell'avvio del procedimento prevista dall'art. 7 l. 7 agosto 1990 n. 241, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, deve essere fatta al consorzio di bonifica - istituito con la l. reg. Abruzzo 7 giugno 1996 n. 36 - il quale ha personalità giuridica pubblica e viene gestito da specifici organi previsti dallo statuto, e non ai singoli proprietari degli immobili ricompresi nel consorzio; nè i singoli consorziati rientrano tra i soggetti diversi dai diretti destinatari nei confronti dei quali l'art. 7 prevede la comunicazione dell'avvio del procedimento - qualora dal provvedimento possa derivare un pregiudizio - in quanto è solo il consorzio a ricevere gli eventuali pregiudizi diretti.”T.A.R. Abruzzo Pescara, 15-01-1998, n. 130).

La censura, tuttavia, è infondata anche in concreto: la modifica scaturiva da una prescrizione cogente riposante nel vincolo di inedificabilità assoluta insistente sulle fasce di rispetto: trattavasi in concreto di atto a contenuto vincolato per il quale, secondo la più recente e condivisibile giurisprudenza “non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 della l. n. 241 del 1990, poiché alcun apporto collaborativo potrebbe dare la partecipazione del ricorrente al procedimento conclusosi con il provvedimento impugnato” (Cons. Stato Sez. V, 08-11-2012, n. 5691).

In ogni caso, per pacifica giurisprudenza, il vizio non potrebbe rilevare – né comportare alcuna illegittimità allorchè risulti, come nel caso di specie, che il supposto destinatario pretermesso abbia comunque avuto conoscenza degli atti ed abbia addirittura interloquito con l’Amministrazione (ex multis: “poiché l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7 l. 7 agosto 1990, n. 241 è strumentale ad esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere - in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento - l'omissione di tale formalità non vizia il procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione.”-Cons. Stato Sez. IV, 17-09-2012, n. 4925- ).

Nel caso in esame è pacifico che gli appellanti ebbero a presentare osservazioni alla Regione Lazio quanto alle imposte modifiche: ciò implica che ebbero conoscenza della problematica e che la predetta avrebbero potuto rappresentare a tutte le altre autorità coinvolte nell’approvazione del programma di riabilitazione urbana per cui è causa: la censura è conseguentemente inaccoglibile.

5.1. Conclusivamente, la sentenza merita integrale conferma quanto ai capi reiettivi delle censure prospettate nel ricorso di primo grado n. 3505/2005 esaminato nel merito.

6. Ciò tuttavia non esaurisce il compito assegnato al Collegio: come si è fatto cenno nella parte “in fatto” della presente esposizione, le parti appellanti hanno riproposto i motivi di censura già contenuti nei ricorsi di primo grado nn. RG. 7403/06 e RG 7404/06 dichiarati inammissibili dal primo giudice alla stregua della considerazione (che di seguito testualmente si riporta) per cui “, anche in caso di caducazione dei provvedimenti ivi impugnati, non potrebbe comunque riconsiderarsi l’originario progetto del Consorzio Stella d’Argento II a firma dell’Arch. Visintini, ostandovi il vincolo ex D.Lgs. 42/04 (motivo questo addotto dagli stessi ricorrenti per sostenere l’esistenza di un interesse strumentale all’impugnazione).

Neppure potrebbero trovare ingresso le ulteriori ragioni indicate dagli stessi ricorrenti a sostegno del loro interesse al ricorso (irregolarità nella presentazione del secondo progetto, modifiche nella distribuzione delle opere pubbliche), trattandosi di questioni già esaminate in sede di decisione del ricorso RG. 3050/05.

Ne consegue che alcun interesse possono vantare i ricorrenti ad ottenere la caducazione dell’accordo di programma, in quanto – non potendo far valere un interesse strumentale alla riapertura della procedura – perderebbero ogni possibilità edificatoria, e tornerebbero ad essere proprietari di aree agricole gravate da vincolo di inedificabilità assoluta.”.

Parte appellante ha censurato tale statuizione di inammissibilità ed ha affermato che il primo giudice aveva obliato il proprio interesse strumentale – laddove nei lotti di propria pertinenza non fosse possibile edificazione a cagione della riscontrata presenza del vincolo di in edificabilità – a riacquisire la destinazione agricola prevista dal PRG, in modo da utilizzare l’orto come occasione di svago.

6.1. Ritiene il Collegio che la statuizione di inammissibilità meriterebbe conferma alla stregua di una duplice considerazione.

Parte appellante non ebbe a rappresentare nel corso del giudizio di primo grado la sussistenza di tale “profilo di interesse” (per il vero eccentrico, rispetto alla norma, e concretantesi, avuto riguardo al dato economico, alla “preferenza” verso una destinazione urbanistica delle aree di propria pertinenza di minor valore economico di quella costituente la risultante dell’azione dell’Amministrazione).

Costituisce jus receptum quello per cui la allegazione dell’interesse tutelato (o del bene vita che si intende perseguire ovvero difendere) è connotato essenziale del ricorso di primo grado, in carenza del quale esso va dichiarato inammissibile (ex multis: “colui che invoca l'inadempimento di una norma di azione da parte della pubblica amministrazione deve dedurre innanzi al Giudice elementi idonei a rappresentare, quale conseguenza della regola che si assume violata, la lesione di un bene della vita ovvero di un interesse anche solo strumentale alla sua realizzazione, in mancanza della cui allegazione deve ritenersi azionata non una posizione soggettiva di interesse legittimo, quanto una mera pretesa alla legalità della azione amministrativa.”-T.A.R. Lombardia Milano Sez. III Sent., 24-07-2008, n. 2979-).

Posto che nel processo di appello vige il divieto di nuove domande, nuove allegazioni, e nuove prove (art. 345 cpc, oggi si veda art. 104 del cpa) la prospettazione di parte appellante, in quanto “nuova” ricadrebbe nel detto divieto e dovrebbe essere dichiarata inammissibile.

6.2. Per mera aspirazione alla completezza, tuttavia, le riproposte (identiche) censure contenute nei suindicati ricorsi di primo grado nn. RG. 7403/06 e RG 7404/06 dichiarati inammissibili dal primo giudice, verranno dal Collegio esaminate essendone peraltro evidente la infondatezza.

6.3. Con la prima delle riproposte censure (motivo rubricato al n. 6 dell’appello) parte appellante ha ipotizzato la perpetrata violazione delle garanzie procedimentali nei propri confronti a cagione della omessa comunicazione dell’avvio del procedimento di proroga dei termini di validità delle varianti previste dall’Accordo di Programma sottoscritto in data 1/12/04 e pubblicato sul B.U.R. del 20/4/05 relativo al Programma di recupero urbano – Ambito Acilia-Dragona e per omessa comunicazione del relativo provvedimento.

Le considerazioni reiettive contenute al precedente capo V della presente esposizione consentono di rigettare anche questa doglianza: né la circostanza che parte appellante avesse gravato innanzi al Tar l’accordo di programma mercè il ricorso n. 3050/2005 (del pari esaminato in seno alla decisione oggetto dell’odierno appello) ovvero avesse a più riprese interloquito nel procedimento relativo al PRU di Acilia poteva fargli acquisire la veste di “parte del procedimento” siccome inesattamente sostenutosi nell’appello: giova sul punto richiamare il consolidato principio di matrice giurisprudenziale –dal quale il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi- secondo il quale “l'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento amministrativo, previsto in linea generale dall'art. 7 L. n. 241 del 1990, non si applica nei confronti dei soggetti che subiscono meri effetti riflessi dall'emanando provvedimento; occorre distinguere tra situazioni radicanti la pretesa ad essere destinatari dell'avviso di avvio del procedimento ai sensi del citato art. 7, a portata più limitata (a presidio della speditezza, efficienza e semplificazione dell'azione amministrativa), e situazioni radicanti la legittimazione attiva e l'interesse a ricorrere in sede giurisdizionale, a portata più ampia -a garanzia della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche sostanziali, in prospettiva di un vantaggio concreto e attuale, di natura anche solo morale, conseguibile dal ricorrente in esito all'accoglimento del ricorso-“(Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 1848 del 28-03-2012).

6.4. Eguale sorte merita la settima censura dell’appello, volta ad avversare la predetta deliberazione del Consiglio Comunale di Roma n. 225 del 12/9/05,(approvata mercè decreto del Presidente della Regione Lazio 8/11/05 n. 571, pubblicato sul B.U.R.L. n. 34 del 10/12/2005) nella parte in cui la stessa, asseritamente disattendendo il dettato dell’art. 9, comma 3 del citato Accordo di Programma, aveva inteso prorogare il termine perentorio ivi fissato a pena di decadenza per la cessione delle aree a destinazione pubblica da parte dei soggetti attuatori( con ciò incidendo di fatto sulla validità della variante).

Essa è intimamente connessa con le successive due censure rubricate ai motivi n. 8 e 9 degli appelli, per cui le stesse possono essere congiuntamente esaminate.

La tempistica procedimentale, siccome esposta dalla parte appellante alle pagg. 23-24 dei riuniti appelli è chiara e non è stata contestata:l’art. 9 comma 3 dell’Accordo di Programma prevedeva un termine perentorio, fissato a pena di decadenza, per la cessione delle aree a destinazione pubblica da parte dei soggetti attuatori.

Detto termine era di sei mesi dalla ratifica dell’Accordo di Programma predetto: posto che la delibera del Consiglio Comunale di Roma che ebbe a ratificare l’Accordo di Programma risaliva al 21 dicembre 2004 (delibera n. 308) il detto termine sarebbe scaduto il 21 giugno 2005.

Soltanto 83 giorni dopo la scadenza del detto termine (che avrebbe implicato la decadenza automatica delle varianti urbanistiche correlate agli interventi oggetto dell’Accordo di Programma relativo al PRU di Acilia- Dragona era intervenuta la predetta deliberazione del Consiglio Comunale di Roma n. 225 del 12/9/05,(poi approvata dalla Regione) che aveva “sanato” la situazione peraltro ancorandola ad un termine incerto.

Ad avviso di parte appellante la proroga era illegittima, non motivata da alcuna circostanza integrante forza maggiore, si risolveva nella disapplicazione dell’art. 9 comma 3 del predetto Accordo di Programma.

6.4.1. Il Collegio, pur non potendo fare a meno di rilevare che effettivamente il percorso seguito dall’Amministrazione presti il fianco a critiche, non ritiene che le doglianze di parte appellante possano spiegare rilievo decisivo per affermare la illegittimità degli atti gravati.

Esse, sostanzialmente, muovono da un punto di partenza (esposto nell’ultimo motivo del gravame) che coincide con la risalente e condivisa affermazione della giurisprudenza amministrativa secondo cui “la proroga di un atto può essere legittimamente disposta solo quando il termine di efficacia dello stesso non sia ancora scaduto, e non abbia diversamente inciso in maniera determinante e sostanziale sulle posizioni soggettive dei destinatari.”(Cons. Stato Sez. IV Sent., 29-07-2008, n. 3768).

6.4.2. Senonchè, la prospettiva da cui avrebbe dovuto muovere parte appellante non è quella (o meglio, non è esclusivamente quella) della possibile patologia attingente l’atto amministrativo.

Invero la tesi appellatoria oblia che ci si trova al cospetto di un Accordo di Programma disciplinato in ambito statale dall'art. 34 T.U. n. 267 del 2000; quest’ultimo, come è noto rappresenta un duttile strumento di azione amministrativa preordinata, senza rigidi caratteri di specificità, alla rapida conclusione di una molteplicità di procedimenti tutte le volte in cui il loro ordinario svolgimento richiederebbe l'espletamento di più subprocedimenti, indispensabili per la ponderazione di interessi pubblici concorrenti. Quanto al caso specifico, l'accordo di programma è una ipotesi di urbanistica negoziata, un tipo specifico di accordo tra Pubbliche Amministrazioni, quale istituto finalizzato alla definizione, attuazione, con eventuale incidenza sugli strumenti urbanistici, di opere, interventi o programmi che richiedono, per la loro completa realizzazione, l'azione integrata e coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali o altri soggetti pubblici.

La duttilità dello strumento implica, ad avviso della giurisprudenza, che lo stesso possa essere utilizzato anche in ipotesi diverse: si è detto in proposito infatti che “il ricorso al procedimento in oggetto, conosciuto come una delle ipotesi di urbanistica contrattata, non può ritenersi illegittimo qualora si pervenga all'approvazione di una variante per realizzare, non già un'opera pubblica, bensì un'opera richiesta da soggetti privati, su aree di proprietà privata e per finalità private. “ (Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 3757 del 29-07-2008).

Secondo la pacifica giurisprudenza della Sezione, dalla quale il Collegio non intende discostarsi “quando il perseguimento dell'interesse pubblico inerente al recupero urbano sia realizzato non attraverso l'adozione di singoli provvedimenti autoritativi da parte delle diverse amministrazioni che hanno attribuzione nella materia, ma avvalendosi dello strumento dell'accordo di programma, trovano applicazione i principi enunciati dall'art. 11, comma secondo, della legge n. 241 del 1990, che prevedono l'applicazione agli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento dei "principi del codice civile in materia di obbligazioni in quanto compatibili". (Cons. Stato Sez. IV, 17-05-2010, n. 3129).

Si è detto più di recente, in particolare, che “nell'ambito dell'accordo di programma trovano applicazione i principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili, sicché l'interpretazione delle clausole dubbie va fatta facendo applicazione dei principi ermeneutici contenuti nell'art. 1362 e segg. c.c. “(Cons. Stato Sez. V, 19-10-2011, n. 5627).

Ovviamente il richiamo ai principi del codice civile in materia di obbligazioni non può intendersi limitato alle disposizioni in materia di interpretazione del negozio giuridico (artt. 1362-1371 cc) ma coincidono con tutte quelle disposizioni che possono ritenersi espressive di principi più generali che permeano di sé il rapporto obbligatorio.

Tra esse, si rinviene certamente la disposizione di cui all’art. 1457del codice civile (“Termine essenziale per una delle parti.Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell'interesse dell'altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l'esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all'altra parte entro tre giorni.

In mancanza, il contratto s'intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”) in quanto precetto di portata contenutistica ampia che trasla il proprio contenuto su molteplici ulteriori previsioni codicistiche (cc1184,1326,1174,1322,1379,1464,1454,1456,1458,1901).

Da tale disposizione secondo avveduta giurisprudenza civilistica deve trarsi il principio generale della concedibilità della proroga anche nell’ipotesi di clausola che preveda la risoluzione di diritto del contratto in caso di mancata prestazione entro il termine pattuito ( Cassazione Civile, Sez. II, sent. n. 4226 del 07-05-1987) purchè la proroga stessa venga concessa dalla parte nel cui interesse il termine era stato pattuito.

Addirittura, è stato a più riprese affermato (Cassazione civile Sez. II, sent. n. 1674 del 16-02-1995, Cassazione civile Sez. II, sent. n. 3293 del 14-07-1989)che la reiterata concessione di una proroga può financo valere ad escludere, in via ermeneutica, la essenzialità del termine stabilito negozialmente, a dispetto delle espressioni perentorie contenute nel negozio (“entro e non oltre” etc).

Posto che neppure parte appellante dubita della circostanza che il predetto termine scolpito nell’art. 9 comma 3 dell’Accordo di Programma rispondesse all’interesse della parte pubblica (e non già dei soggetti attuatori) è perfettamente comprensibile che non possa affermarsi la illegittimità della proroga disposta con la avversata delibera.

6.4.3. Della proroga stessa, peraltro, non sussistono i vizi di illogicità e di difetto di presupposti, sol che si consideri che, contrariamente a quanto apoditticamente sostenutosi nei riuniti appelli, la stessa effettivamente era motivata dalla constatazione della pratica inapplicabilità della stessa, che integra una ipotesi assimilabile alla forza maggiore.

Né dicasi che la proroga stessa avrebbe dovuto essere adottata in Conferenza di Servizi: il comma 3 dell’art. 34 del dLgs n. 267/2000 prevede infatti che “per verificare la possibilità di concordare l'accordo di programma, il presidente della Regione o il presidente della provincia o il sindaco convoca una conferenza tra i rappresentanti di tutte le amministrazioni interessate.”: esso non obbliga alla reiterazione della procedura della Conferenza di Servizi allorchè si introduca una marginale modifica del contenuto del medesimo, né nel caso di specie la posizione di parte appellante appare punto pregiudicata posto che - per le già chiarite ragioni in punto di disamina e reiezione delle doglianze in tema di garanzie procedimentali – questi non avrebbe avuto alcun titolo per partecipare ai lavori della conferenza e, per altro verso, nessuna della amministrazioni coinvolte ha avanzato alcuna critica a tale modus operandi.

7. Conclusivamente, nei termini di cui alla motivazione che precede i riuniti appelli devono essere respinti.

8.La particolare complessità in fatto, e la relativa novità di numerose questioni giuridiche prospettate legittimano la integrale compensazione tra le parti delle spese processuali del grado.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)definitivamente pronunciando sui riuniti appelli, n. 5895 del 2009 e n. 5896 del 2009 come in epigrafe proposti,li respinge.

Spese processuali compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 febbraio 2013 con l'intervento dei magistrati:

Marzio Branca, Presidente FF

Sergio De Felice, Consigliere

Raffaele Greco, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere, Estensore

Diego Sabatino, Consigliere

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 25/06/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)