Effluenti di allevamento: le modifiche introdotte dall’ultimo decreto correttivo.
dell' Avv. Claudio SABBATINI
dell' Avv. Claudio SABBATINI
Le modifiche introdotte dal d.lgs 16 gennaio 2008 n. 4 al codice dell’ambiente (d.lgs 152/2006) hanno interessato anche la disciplina degli scarichi delle aziende zootecniche.
Secondo la normativa ante riforma, erano assimilate alle acque reflue domestiche le acque reflue provenienti dalle imprese dedite all’allevamento del bestiame, nella misura in cui tale attività, in quanto funzionalmente connessa con la coltivazione del fondo, non assumesse dimensioni e finalità industriali.
Il legislatore aveva previsto (art. 101, comma 7, lett. b, d.lgs 152/2006)- perché potesse risultare soddisfatto, ai fini della assimilazione suddetta, il requisito della commistione reciproca tra attività agricola e zootecnica- che l’impresa, intanto, utilizzasse gli effluenti di allevamento (e quindi le sostanze nutritive ed ammendanti in essi contenute) per fertilizzare il terreno agricolo (c.d. “utilizzazione agronomica”), con l’osservanza della disciplina emanata di volta in volta dalle singole regioni in attuazione dei criteri e delle norme tecniche generali adottati con apposito decreto del Ministero delle politiche agricole e forestali (cfr il decreto 7 aprile 2006); inoltre, che la impresa disponesse di almeno un ettaro di terreno agricolo in rapporto al peso vivo medio di animali allevati da calcolarsi in base ad apposita tabella (cfr tabella 6, allegato 5, alla parte terza del d.lgs 152/2006).
Ed ecco la novità apportata dal decreto correttivo cit., il quale-all’art. 101, comma 7, lett. b), dopo le parole “allevamento del bestiame”, sopprimendo il periodo da “che, per quanto” fino alla fine della lettera b- ha abbattuto il limite della connessione funzionale tra “terra” ed “animali” entro il quale potevano assimilarsi i reflui zootecnici a quelli domestici.
Di talché, dovrebbero qualificarsi “scarichi domestici” quelli comunque provenienti dalle aziende dedite all’allevamento del bestiame, anche qualora le stesse operino su scala industriale.
Se ciò è vero (ma rimaniamo in attesa di eventuale ulteriore elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale sul punto), vi sarebbero dei notevoli riflessi pratici: basti solo porre mente alla circostanza che gli illeciti scarichi di reflui di allevamenti “industriali” non avrebbero più rilevanza penale.
Siffatta conclusione varrebbe certamente per le condotte future, mentre, per quel che riguarda gli illeciti penali commessi prima dell’entrata in vigore del decreto correttivo (13.2.2008), occorre domandarsi se ci troviamo di fronte ad una modifica c.d. mediata della fattispecie incriminatrice (nel caso in evenienza, “scarico di acque reflue industriali”), che ricorre ogni qualvolta lo ius novum incide, seppure non direttamente sugli elementi costitutivi della fattispecie criminosa, comunque sulle norme extrapenali integratici della stessa, tanto da far venir meno il disvalore penale del fatto.
In caso di risposta positiva, troverebbe applicazione l’art. 2, comma, 2 del codice penale, con la conseguenza che nei giudizi penali pendenti il giudice, in ogni stato e grado del processo, deve dichiarare che il “fatto non è previsto dalla legge come reato”; e se, invece, vi è stata una condanna passata in giudicato, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.
Avv. Claudio Sabbatini (Studio Legale Sabbatini-Piselli)
Docente di Diritto penale dell’ambiente (Università Europea di Roma, Master di 1° livello).
Secondo la normativa ante riforma, erano assimilate alle acque reflue domestiche le acque reflue provenienti dalle imprese dedite all’allevamento del bestiame, nella misura in cui tale attività, in quanto funzionalmente connessa con la coltivazione del fondo, non assumesse dimensioni e finalità industriali.
Il legislatore aveva previsto (art. 101, comma 7, lett. b, d.lgs 152/2006)- perché potesse risultare soddisfatto, ai fini della assimilazione suddetta, il requisito della commistione reciproca tra attività agricola e zootecnica- che l’impresa, intanto, utilizzasse gli effluenti di allevamento (e quindi le sostanze nutritive ed ammendanti in essi contenute) per fertilizzare il terreno agricolo (c.d. “utilizzazione agronomica”), con l’osservanza della disciplina emanata di volta in volta dalle singole regioni in attuazione dei criteri e delle norme tecniche generali adottati con apposito decreto del Ministero delle politiche agricole e forestali (cfr il decreto 7 aprile 2006); inoltre, che la impresa disponesse di almeno un ettaro di terreno agricolo in rapporto al peso vivo medio di animali allevati da calcolarsi in base ad apposita tabella (cfr tabella 6, allegato 5, alla parte terza del d.lgs 152/2006).
Ed ecco la novità apportata dal decreto correttivo cit., il quale-all’art. 101, comma 7, lett. b), dopo le parole “allevamento del bestiame”, sopprimendo il periodo da “che, per quanto” fino alla fine della lettera b- ha abbattuto il limite della connessione funzionale tra “terra” ed “animali” entro il quale potevano assimilarsi i reflui zootecnici a quelli domestici.
Di talché, dovrebbero qualificarsi “scarichi domestici” quelli comunque provenienti dalle aziende dedite all’allevamento del bestiame, anche qualora le stesse operino su scala industriale.
Se ciò è vero (ma rimaniamo in attesa di eventuale ulteriore elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale sul punto), vi sarebbero dei notevoli riflessi pratici: basti solo porre mente alla circostanza che gli illeciti scarichi di reflui di allevamenti “industriali” non avrebbero più rilevanza penale.
Siffatta conclusione varrebbe certamente per le condotte future, mentre, per quel che riguarda gli illeciti penali commessi prima dell’entrata in vigore del decreto correttivo (13.2.2008), occorre domandarsi se ci troviamo di fronte ad una modifica c.d. mediata della fattispecie incriminatrice (nel caso in evenienza, “scarico di acque reflue industriali”), che ricorre ogni qualvolta lo ius novum incide, seppure non direttamente sugli elementi costitutivi della fattispecie criminosa, comunque sulle norme extrapenali integratici della stessa, tanto da far venir meno il disvalore penale del fatto.
In caso di risposta positiva, troverebbe applicazione l’art. 2, comma, 2 del codice penale, con la conseguenza che nei giudizi penali pendenti il giudice, in ogni stato e grado del processo, deve dichiarare che il “fatto non è previsto dalla legge come reato”; e se, invece, vi è stata una condanna passata in giudicato, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.
Avv. Claudio Sabbatini (Studio Legale Sabbatini-Piselli)
Docente di Diritto penale dell’ambiente (Università Europea di Roma, Master di 1° livello).