La
disciplina in materia di rifiuti è caratterizzata da un gran numero di
disposizioni, alcune delle quali forniscono la nozione delle varie fasi di
gestione dei rifiuti prodotti e contemplano la posizione di tutti i soggetti
coinvolti in essa gestione. A ciascuno di questi soggetti le norme del decreto
legislativo 05/02/97 n. 22 e successive modifiche ed integrazioni attribuiscono
compiti specifici al cui mancato assolvimento sono riconnesse precise
responsabilità amministrative e penali.
In
particolare, l’art. 6 del decreto in questione alle lettere b) e c) del primo
comma prende in considerazione il momento genetico del rifiuto laddove
stabilisce che produttore è la persona (evidentemente fisica o giuridica) la
cui attività ha prodotto rifiuti, e la persona che ha effettuato operazioni di
pretrattamento o di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la
composizione dei rifiuti, aggiungendo che il detentore è il produttore dei
rifiuti, o la persona fisica o giuridica che li detiene. Il successivo art. 10
completa il quadro prevedendo un catalogo degli obblighi imposti al produttore e
al detentore.
In
considerazione degli obblighi connessi alla figura e all’attività del
produttore, si è posto in giurisprudenza il problema della corretta
individuazione della persona del produttore nel caso in cui un certo soggetto,
solitamente un imprenditore, compia l’attività di demolizione di uno stabile
o di un edificio di proprietà di altri e si trovi così in carico (cfr. art. 12
D. Lgs. 22/97) i residui della demolizione stessa. La Corte di Cassazione (con
la sentenza n. 222/2000) ha deciso per l’estensione della responsabilità
penale, certamente configurata dal decreto in capo al demolitore, anche al
proprietario dell’immobile abbattuto, magari, come nella fattispecie decisa,
titolare della concessione edilizia e committente dell’attività di
demolizione e ricostruzione di una certa opera.
In
altre parole, con la sentenza 222/00, la Corte ritiene di dover considerare
produttore del rifiuto anche il proprietario, considerandolo un coobbligato in
posizione di garanzia identica a quella del produttore c.d. materiale,
condannandolo così, come il demolitore, alla pena prevista per il reato di cui
all’art. 51 comma secondo.
Le
ragioni della opzione ermeneutica cui il supremo collegio accede risiedono
essenzialmente nella interpretazione estensiva degli articoli 2, 6 e 10 del D.
Lgs. 22/97, da cui si fa scaturire la conseguenza che è attività di produzione
(o almeno situazione di detenzione) anche quella del soggetto che non compia
alcuna attività materiale da cui derivi un rifiuto secondo la dizione
dell’art. 6, e che si trovi rispetto ad esso anche solo in una qualunque
posizione giuridica contemplata dall’ordinamento; per suffragare questa
impostazione la Corte ritiene di individuare un aggancio testuale nelle norme
del codice civile secondo cui il proprietario di un immobile non cessa di averne
la materiale disponibilità per averne pattuito in appalto la ricostruzione o la
ristrutturazione, incombendogli pur sempre un obbligo di vigilanza e di
controllo secondo il canone della responsabilità propria del custode ai sensi
dell’art. 2051 c.c.
Il
risultato cui perviene la Corte, dunque, è quello di riconoscere la
responsabilità penale (per omesso impedimento dell’evento del reato di
deposito incontrollato) in capo al proprietario.
L’impostazione
dei giudici di legittimità appare difficilmente condivisibile, anche perché
dilata le maglie della responsabilità penale in modo preoccupante, forse in
contrasto con il principio della tassatività della fattispecie penale.
Invero,
la formulazione verbale dell’art. 6 del D. Lgs. 22/97 è tale, anche in
considerazione dell’intero quadro legislativo nazionale e comunitario, da
meritare un’interpretazione restrittiva che escluda il
proprietario-committente che nessun ruolo abbia svolto nell’attività
materiale di produzione del rifiuto. La dottrina più autorevole, che peraltro
(e almeno fino a questo momento in cui si rende necessario commentare la
sentenza della Cassazione) non ha mai dedicato puntuale attenzione al problema,
aveva però messo in evidenza come il produttore debba essere inteso come colui
che fisicamente abbia trasformato un bene facendolo diventare rifiuto, e come
tale lo debba destinare ai legittimi canali di gestione. La conferma di questa
opzione è offerta proprio dall’art. 6 primo comma lett. i) laddove si
definisce il luogo di produzione del rifiuto come “uno o più edifici.......in
cui si svolgono le attività di produzione dalle quali originano i rifiuti”,
con ciò imponendo all’interprete di individuare il momento genetico
nell’attività di produzione intesa in senso tecnico, cioè imprenditoriale o
artigianale, e non certo in quella di detenzione, possesso o titolarità di un
diritto reale su un bene da abbattersi (che, è il caso di sottolinearlo, non
diventa rifiuto per la semplice decisione di disfarsene, se a questa decisione
non consegua effettivamente il disfacimento – attraverso il conferimento a
fasi di gestione – o se non sia imposto per legge o per provvedimento
amministrativo l’obbligo di disfacimento).
Gli
artt. 2 e 10 cui la Corte si richiama per sostenere un generale obbligo di
cooperazione e posizione di responsabilizzazione nella gestione del rifiuto sono
dettate al solo scopo di garantire, nei limiti del possibile, che ciascun
rifiuto segua i canali che il legislatore ha ritenuto di dover tracciare per una
gestione legittima secondo i principi e le finalità del decreto (cfr. art. 2 D.
Lgs. 22/97). È agevole riscontrare, peraltro, che il terzo comma dell’art. 2
contempla espressamente i principi della responsabilizzazione e della
cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella sola produzione, e dunque non
nella titolarità di beni che rifiuti non sono se non (nel caso di specie) dopo
l’effettivo e materiale abbattimento.
Anche
la norma del codice civile (art. 2051) richiamata e applicata dalla Corte non
sembra pertinente rispetto al caso concreto perché dettata per diversi fini: le
cose in custodia vengono affidate ad un soggetto che assume in modo esclusivo la
responsabilità, e ciò perché questi ne assume il controllo pieno, tale da
consentirgli agevolmente di impedire che dette cose cagionino un danno. Intanto
può ritenersi sussistente un obbligo di vigilanza in capo al custode in quanto
questi abbia sottoposto la cosa al suo effettivo e non occasionale controllo
fisico (così la stessa Corte di Cassazione in sentenze n. 1332 del 09/02/94
(sez. III civ.) e n. 3129 del 01/04/87 (ancora sez. III). In realtà nel caso di
affidamento dei lavori all’impresa Alfa da parte del proprietario dell’opera
da abbattere sembra arduo poter individuare anche in quest’ultimo una
posizione di garanzia perché il proprietario-committente perde il potere di
fatto sulla cosa, o, quanto meno, questo potere risulta essere molto più
sfumato perdendo i caratteri della concretezza e dell’attualità.
Ma,
a parte le perplessità che, per le suddette ragioni, suscita
l’interpretazione delle norme ritenute applicabili, vi sono degli aspetti che
la Corte, pur richiamandosi al quadro normativo nel suo complesso, non ha preso
in considerazione: se si ritiene che anche il proprietario di un bene che
diviene rifiuto per effetto dell’attività posta in essere da altri sia tenuto
all’osservanza degli obblighi incombenti al produttore si giunge a conseguenze
paradossali e obbiettivamente non volute dall’ordinamento. In primo luogo
dovrebbe sostenersi che è produttore non solo il committente dell’opera di
demolizione ma anche il proprietario dell’autoveicolo che richieda alla sua
officina di fiducia la sostituzione di un elemento meccanico dello stesso
(altrettanto e a maggior ragione per l’olio del motore periodicamente
sostituito in relazione al quale il proprietario dell’auto dovrebbe ritenersi
tenuto come il titolare dell’officina a dotarsi di autorizzazione allo
stoccaggio, nonché alla rigorosa osservanza delle condizioni imposte per il
deposito temporaneo). Logica e giuridica conseguenza di quella impostazione
sarebbe quella di ritenere obbligati all’adesione ai consorzi obbligatori
(es.: C.O.O.U., C.O.B.A., ecc.) anche i cittadini proprietari di qualunque
veicolo.
In realtà,
dall’analisi delle disposizioni in materia di rifiuti non sembra essere
concepibile che vi sia più d’un produttore, ma, al contrario, sembra più
agevole ed intuitivo che un solo soggetto possa ritenersi tale in relazione agli
effetti dell’attività materiale che ha posto in essere e che pertanto uno
solo sia obbligato a tenere un certo comportamento ai sensi dell’art. 10.
In
secondo luogo la sentenza della Corte porta inevitabilmente (e
irragionevolmente) alla duplicazione e moltiplicazione non solo della figura del
produttore ma anche, per questa via, delle responsabilità amministrative e
penali che l’ordinamento prevede: se, essendovi tenuto, adempia agli obblighi
del produttore il (produttore)-proprietario non dovrà (e non potrà più)
adempiere il demolitore (o comunque il soggetto che compia una attività
materiale da cui ha origine un rifiuto) con ciò vanificando l’applicazione di
quelle norme che solo al produttore (e dunque solo ad un soggetto) sono rivolte.
Ciò comporterebbe un esonero automatico dall’obbligo di cui il
produttore-imprenditore è certamente gravato.
Difficilmente
applicabile risulterebbe poi l’art. 11 del D. Lgs. 22/97: il Modello Unico di
Dichiarazione dovrebbe essere compilato e presentato anche (o solo?) dal
proprietario, e non potrebbe fare altrettanto l’imprenditore che è certamente
tenuto a comunicare annualmente con le modalità previste dalla legge 25 gennaio
1994 n. 70 le quantità e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto
delle predette attività (portata alle estreme conseguenze, l’opzione della
Corte ricomprenderebbe anche il proprietario della materia prima trasformata in
un processo di lavorazione industriale). Inoltre ciascun individuo dovrebbe
tenere anche il registro di carico e scarico numerato e vidimato dall’Ufficio
del registro.
Un
ultimo dubbio riguarda il formulario di identificazione dei rifiuti : se esso,
dovendo accompagnare il rifiuto durante il trasporto, deve indicare il nome e
l’indirizzo del produttore e del detentore, quale soggetto dovrà essere
indicato sul primo dei quattro originali a ricalco?
Insomma, la sentenza della Corte si espone a più di una critica, e soprattutto non convince per le conseguenze in punto di fatto cui giocoforza conduce, rendendo di fatto concretamente inapplicabili alcune disposizioni e dilatando pericolosamente talune fattispecie incriminatrici