Verso la positivizzazione di un nuovo diritto umano al clima stabile e sicuro? Prime riflessioni a caldo sulla sentenza della Corte CEDU del 9 aprile 2024.

di Antonietta LUPO

pubblicato su giustiziainsieme.it. Si ringraziano Autore ed Editore

Sommario: 1. La prospettiva dei diritti umani nel contrasto al cambiamento: notazioni introduttive. – 2. La vicenda all’origine della sentenza. – 3. La rivoluzionaria decisione della Corte EDU: la protezione del clima è un diritto umano. – 4. Qualche riflessione conclusiva.   

1. La prospettiva dei diritti umani nel contrasto al cambiamento climatico: notazioni introduttive. 

A partire dalla pubblicazione del report dell’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite del 2009[2], la prospettiva dei diritti nel contrasto al cambiamento climatico ha acquisito una pregnanza tale da assurgere a principale e irrinunciabile ragione giustificativa di un processo bottom-up, promosso da numerose associazioni ambientaliste, Ong e comuni cittadini, di riconoscimento della “pretesa-diritto” ad un clima stabile e sicuro.

Si tratta, a ben vedere, di una richiesta ormai ampiamente radicata nella società civile, che, soprattutto nell’ultimo decennio, sembra aver acquisito – attraverso le tecniche ermeneutiche della giurisprudenza di molte Corti (per lo più domestiche) – un suo proprio crisma di legittimità, per via della riconosciuta rilevanza della ragione che la supporta, ovvero l’eliminazione di qualsiasi pericolosa interferenza delle attività antropogeniche sul sistema climatico, in quanto lesiva di diritti umani e/o fondamentali già convenzionalmente garantiti e riconosciuti sul piano etico-normativo. 

V’è, tuttavia, da rimarcare che, nonostante un sempre più diffuso[3] “attivismo climatico giudiziario”[4] basato su un human rights approach, nel corpus juris del diritto oggettivo climatico, l’argomento dei diritti non trova, ancor oggi, alcun esplicito ancoraggio, con l’unica eccezione rappresentata da un passaggio nel Preambolo introduttivo dell’Accordo di Parigi del 2015, il quale prevede che le Parti, al momento di intraprendere azioni volte a contrastare i cambiamenti climatici antropogenici, dovrebbero «promuovere e prendere in considerazione i loro obblighi rispettivi nei confronti dei diritti umani, del diritto alla salute, dei diritti delle popolazioni indigene, delle comunità locali dei migranti, dei minori, delle persone con disabilità e delle persone in situazioni di vulnerabilità, nonché del diritto allo sviluppo, dell’uguaglianza di genere, all’emancipazione delle donne e all’equità intergenerazionale».

Considerata la mancanza di una effettiva cogenza dell’Accordo, ad oggi, il riferimento alla tutela dei diritti umani viene interpretato come una sorta di debole impegno indiretto degli Stati firmatari per indurli a consolidare il rispetto di tali diritti nella concretizzazione dell’obiettivo principale di mantenere entro i 2°C (e possibilmente entro i 1,5°C) l’aumento medio della temperatura terrestre[5].

Nello scenario, solo abbozzato in questa sede, si colloca la sentenza annotata, con la quale la Corte europea per i diritti dell’uomo (d’ora in avanti, Corte EDU), nel confermare la sussistenza di una stretta correlazione tra diritti umani e diritto oggettivo climatico, inaugura un innovativo approccio all’azione climatica, che potrebbe riorientare le future politiche (se non globali, quantomeno europee) di contrasto ai cambiamenti climatici.

2. La vicenda all’origine della sentenza. 

Il caso affrontato dalla Grande Camera della Corte EDU origina dall’azione promossa da quattro anziane donne e da un’associazione ambientalista no profit, Verein KlimaSeniorinnen Schweiz, diretta all’accertamento della condotta omissiva della Confederazione svizzera nell’adozione delle misure necessarie alla progressiva riduzione delle emissioni climalteranti di origine antropica, in difformità agli obblighi dalla medesima assunti sia con l’Accordo di Parigi del 2015 (confermato dal successivo Glasgow Climate Pact del 2021), sia con le corrispondenti statuizioni normative adottate dall’Unione europea.

I ricorrenti sostenevano, in particolare, che lo Stato elvetico non avesse recepito, nel diritto nazionale, le Nationally Determined Contributions (NDCs), né avesse mai effettuato un’analisi del proprio bilancio di carbonio, in spregio alla normativa internazionale ed europea ed ai principi costituzionali di sostenibilità (art. 73 Cost.) e di precauzione (art. 74, § 2, Cost.) e al diritto alla vita (art. 10 Cost.).

Argomentando sulla base della giurisprudenza della stessa Corte EDU in materia di danni all’ambiente e disastri naturali[6], applicata in via analogica ai rischi derivanti dai cambiamenti climatici, i ricorrenti invocavano, dunque, l’applicabilità degli artt. 2 e 8 CEDU, come parametro di giudizio per l’individuazione di uno specifico obbligo di tutela (“duty of care”) dello Stato resistente dai pericoli connessi alla innaturale variabilità climatica. 

3. La rivoluzionaria decisione della Corte EDU: la protezione del clima è un diritto umano.

Al fine di dirimere la controversia sottopostale, la Corte EDU richiama, preliminarmente, le previsioni contenute nella Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) e nell’Accordo di Parigi, laddove dispongono che le Parti adottino – a livello domestico e su base volontaria – misure di contenimento e di mitigazione per «stabilizzare […] le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico» (art. 2 UNFCCC), «raggiungere il picco mondiale di emissioni di gas a effetto serra al più presto possibile […] e intraprendere rapide riduzioni, in linea con le migliori conoscenze scientifiche a disposizione, così da raggiungere un equilibrio tra le fonti di emissione e gli assorbimenti antropogenici di gas a effetto serra nella seconda metà del corrente secolo» (art. 4, n. 1, Accordo di Parigi).

La necessità di adottare efficaci misure mitigative rappresenta, secondo i giudici di Strasburgo, il quid unici di un esplicito dovere giuridico di contrasto al cambiamento climatico che lo Stato resistente avrebbe sistematicamente violato, concependo le obbligazioni climatiche, assunte in seno alla comunità internazionale, come un mero obbligo di due diligence e non di risultato.

Pur riconoscendo che il sistema delineato dall’Accordo di Parigi privilegia un approccio c.d. bottom-up, nel quale ciascuno Stato è libero di individuare “domestic mitigation measures”, da attuare secondo scadenze prefissate e in funzione del principio delle “common but differentiated responsibilities”, la Corte rileva, infatti, che la Confederazione svizzera avrebbe, in più occasioni, ecceduto il proprio margine di apprezzamento, adottando azioni climatiche inadeguate al raggiungimento dei propri prefissati obiettivi di riduzione di gas climalteranti (peraltro sensibilmente difformi dalle indicazioni contenute nei numerosi report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change) e, soprattutto, omettendo di predisporre, sviluppare ed attuare – in tempo utile – un efficace quadro normativo nazionale di contrasto al cambiamento climatico. 

Accertata, dunque, l’esistenza di tali evidenti inadempimenti rispetto al dovere di lotta al cambiamento climatico, i giudici di Strasburgo dichiarano l’inerzia dello Stato svizzero nell’adozione delle misure necessarie a proteggere il diritto alla vita privata e familiare dei ricorrenti (art. 8 CEDU), dal quale deducono il basilare diritto di ogni singolo individuo «a una protezione effettiva da parte delle autorità statali contro i gravi effetti negativi, causati dal cambiamento climatico, sulla loro vita, la salute, il benessere e la qualità della vita».

La CEDU, argomenta la Corte, impone agli Stati parti di proteggere i diritti e le libertà stabiliti nella Convenzione e di adottare misure adeguate per la vita e il benessere dei propri cittadini, qualora sussista un “real and imminent threat” di cui i medesimi abbiano (o avrebbero dovuto avere) conoscenza. Sebbene non possa comportare l’imposizione di oneri impossibili o sproporzionati, l’art. 8 CEDU obbliga, comunque, ciascuno Stato ad implementare misure effettivamente idonee a prevenire un aumento delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera terrestre e della temperatura media globale oltre livelli indicati nei report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change,sì da scongiurare eventuali effetti negativi irreversibili sui diritti umani.

4. Qualche riflessione conclusiva.

La rivoluzionaria decisione della Corte EDU inaugura un nuovo approccio globale all’azione climatica, consolidando l’idea (sposata anche da chi scrive) che, per affrontare efficacemente i problemi che hanno natura e struttura transgenerazionale, quali sono certamente le emergenze derivanti dalla questione climatica, la strategia più solida sul piano giuridico e più coerentemente percorribile sia quella dei diritti umani. 

A fronte dell’insufficiente livello di vincolatività delle obbligazioni climatiche attualmente previste in ambito internazionale ed europeo e del conseguente approccio “lassista” adottato dagli Stati nella lotta al cambiamento climatico, che – secondo l’Emissions Gap Report 2023: Broken Record – Temperatures hit new highs, yet world fails to cut emissions (again) del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) – avrebbe comportato un incremento delle emissioni globali di gas serra dell’1,2% dal 2021 al 2022, raggiungendo un nuovo primato di 57,4 gigatonnellate di anidride carbonica equivalente (GtCO₂e), pare, infatti, che la prospettiva dei diritti possa fornire un valore aggiunto, consentendo di superare la logica della reciprocità che sottende al diritto internazionale dell’ambiente (e che invece, nel contesto della tutela dei diritti umani, risulta marginale, se non addirittura inesistente[7]), nonché lo scarso livello prescrittivo degli obblighi climatici.

L’aspetto più innovativo della decisione è, tuttavia, rappresentato dall’individuazione esplicita di una correlazione tra l’innaturale variabilità climatica e il diritto umano (desunto da un’interpretazione estensiva dell’art. 8 CEDU) a fruire di una protezione effettiva contro i gravi effetti negativi che il cambiamento climatico costituisce per il godimento dei diritti umani, quali la salute, il benessere, la qualità della vita e la vita stessa.

In sintesi, secondo il percorso logico-argomentativo della Corte, obbligo primario di ogni Stato contraente è di adottare ed implementare norme efficaci e misure concrete in grado di mitigare gli attuali (e potenzialmente irreversibili) effetti del cambiamento climatico. Detto obbligo, derivante dalla relazione causale intercorrente tra il fenomeno del cambiamento climatico e il godimento dei diritti enunciati nella CEDU, impone che ogni Stato garantisca, in modo tempestivo ed efficace, «rights that are practical and effective, not theoretical and illusory».

Ricorrendo all’argomento dei diritti umani, i giudici di Strasburgo deducono, dunque, l’esistenza di un duty of care dello Stato elvetico, ravvisabile nella concreta adozione di provvedimenti idonei a mitigare gli effetti potenzialmente irreversibili del cambiamento climatico e interferenti negativamente con il godimento dei diritti umani, la cui protezione richiede che le disposizioni della CEDU (come pure, a parere di chi scrive, quelle contenute nel Preambolo dell’Accordo di Parigi) siano interpretate e applicate in modo da garantirne un concreto ed effettivo esercizio.

Considerato che le pronunce della Corte EDU hanno efficacia esecutiva indiretta per gli Stati europei, è probabile che la sentenza annotata influenzi le centinaia climate litigations attualmente pendenti in Europa. 

Quel che, comunque, si auspica è che essa possa riorientare le future politiche di contrasto ai cambiamenti climatici, contribuendo all’ormai improcrastinabile positivizzazione di un autonomo diritto umano al clima stabile e sicuro, sì da rafforzare «il percorso già delineato dalla Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, dal Protocollo di Kyoto e, da ultimo, dall’Accordo di Parigi»[8] e consentire agli organi internazionali preposti alla tutela dei diritti umani e al decisore politico-giudiziario di appurare il rispetto da parte degli Stati dei rispettivi obblighi in materia di cambiamenti climatici e, conseguentemente, di censurare l’eventuale inadeguatezza delle misure di adattamento e di mitigazione adottate.

[1] Il contributo è il frutto di riflessioni contenute in un più ampio lavoro monografico in corso di pubblicazione.

[2] OHCHR, Report of the Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights on the Relationship between Climate Change and Human Rights, U.N. Doc. A/HRC/10/61, 15 gennaio 2009. Il nesso tra climate change e diritti umani è stato esplicitamente riconosciuto anche dal Comitato Onu per i diritti umani, nel General Comment n. 36/2018 (UNHRC, General Comment n. 36 (2018) on Article 6 of the International Covenant on Civil and Political Rights, on the Right to life, U.N. Doc. CCPR/C/GC/36, 30 October 2018, par. 62), laddove ammette che il cambiamento climatico e uno sviluppo non sostenibile costituiscono i principali pericoli per il godimento del diritto alla vita da parte delle generazioni presenti e future.

[3] Secondo il Global Climate Litigation Report: 2023 Status Review dell’United Nations Environment Programme (UNEP), «the 2020 Litigation Report identified 1,550 cases brought in 39 jurisdictions, including international or regional courts, tribunals, quasi- judicial bodies or other adjudicatory bodies, such as special procedures of HRC, arbitration tribunals, international adjudicatory bodies and the European Union. As at 31 December 2022, the cumulative number of cases tracked in the Sabin Center’s databases has increased, with 2,180 climate change cases filed in 65 jurisdictions».

[4] L’espressione è di P.L. PETRILLO, Il costituzionalismo climatico. Note introduttive, in DPCEonline, 2023, 245. 

[5] In argomento cfr. A. BOYLE, Climate Change, the Paris Agreement and Human Rights, in Int. and Comparative Law Quarterly, 2018, 759 ss.; A. SAVARESI, Climate change and human rights: Fragmentation, interplay and institutional linkages, in S. DUYCK, S. JODOIN, A. JOHL, The Routledge Handbook of Human Rights and Climate Governance, New York, 2018, 31 ss.. Contra, J. KNOX, Special Rapporteur on the Environment and Human Rights, UNHRC, Report of the Special Rapporteur on the Issue of Human Rights Obligations Relating to the Enjoyment of a Safe, Clean, Healthy and Sustainable Environment: Climate Change Report, UN Doc A/HRC/31/52 (2016).

[6] Cfr., ad es., Guerra e al. c. Italia, ric. n. 116/1996/735/932, sent. 19 febbraio 1998; Öneryldiz c. Turchia, ric. n. 48939/99, sent. 30 novembre 2004; Tătar c. Romania, ric. n. 67021/01, sent. 27 gennaio 2009; Budayeva e al. c. Russia, ricc. nn. 15339/02, 21166/02, 20058/02, 11673/02 e 15343/02, sent. 20 marzo 2008; Kolyadenko e al. c. Russia, ricc. nn. 17423/05, 20534/05, 20678/05, 23263/05, 24283/05 e 35673/05, sent. 28 febbraio 2012.

[7] E. CORCIONE, Diritti umani, cambiamento climatico e definizione dello standard di condotta, in Diritti umani e diritto internazionale, 2019, 200.

[8] A. PISANÒ, Il diritto al clima. Una prima concettualizzazione, in L’ircocervo, 2021, 283.

La sentenza commentata è visibile qui