Pres. De Maio Est. Marini Ric. Italiano
Rifiuti. Trasporto in proprio di rifiuti pericolosi e iscrizione all’Albo. Questione di legittimità costituzionale
La disciplina contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006 re-introduce un obbligo di iscrizione all'Albo, seppure secondo formalità e requisiti semplificati, per le imprese che trasportano in proprio i rifiuti non pericolosi da esse stesse prodotti, così che risulta superato il contrasto con la disciplina comunitaria che aveva costituito oggetto della questione di costituzionalità sollevata con l'ordinanza 10328/2006. Sotto un profilo di ordine generale l'abrogazione dell'intero d.lgs. n.22 del 1997 rende, anche sotto questo aspetto, non più attuale il contrasto della disciplina nazionale con quella comunitaria. Va, peraltro, osservato, che il d.lgs. n.l52 del 2006 ha avuto cura di evitare problemi di
coordinamento e di continuità rispetto al regime degli atti amministrativi e delle posizioni giuridiche formatesi sotto la vigenza del d.lgs. n.22 del 1997, ma non ha inteso intervenire sul tema della successione delle leggi penali nel tempo, così che devono ritenersi applicabili gli ordinari principi fissati dall' art.2 del Codice penale e prima ancora quanto stabilito dall'art.25, comma secondo della Costituzione. Ciò significa che le condotte poste in essere nel periodo ricompreso tra la modifica introdotta con l' art.1, comma diciannovesimo della legge n.426 del 1998 e la data di entrata in vigore del d.lgs. n.152 del 2006 restano disciplinate dal quarto comma dell'art.30 del d.lgs. n.22 del 1997 nel ritenuto non conforme alla normativa comunitaria. Ne consegue che è rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.30, comma quarto del decreto legislativo n.22 del 1997, modificato dall'art. 1, comma diciannovesimo della legge n.426 del 1998, per violazione degli artt.ll e 117, comma primo, della Costituzione.
Svolgimento del processo
1. Con atto depositato il 22 luglio 2005 il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del 4-12 luglio 2005 con cui il Tribunale di Messina ha respinto la richiesta di riesame presentata contro il provvedimento di sequestro preventivo emesso dal G.i.p. presso il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto relativo ad un autocarro che trasportava materiale edile di scarto senza le previste autorizzazioni.
Il G.i.p. ha ritenuto sussistere i presupposti del sequestro con riferimento al reato di trasporto non autorizzato di rifiuti previsto dall’art. 51, comma primo, del d.lgs. n. 22 del 1997, avendo riferimento anche alle diverse ipotesi di reato previste sia dal successivo comma terzo, e cioè l’ipotesi di gestione di discarica abusiva, reato cui concorrono anche le condotte di approvvigionamento del materiale poi conferito, sia dal comma secondo, sotto il profilo dello smaltimento abusivo di rifiuti derivanti da attività di impresa.
2. Avverso tale provvedimento l’odierno ricorrente ha proposto richiesta di riesame sostenendo, in primo luogo, che egli fu sottoposto a controllo da parte della Guardia di Finanza mentre era alla guida di un automezzo della propria ditta che percorreva una via centrale di Barcellona Pozzo di Gotto. Mancherebbe, dunque, qualsiasi elemento che relazioni il materiale trasportato con una qualche discarica abusiva, dovendosi piuttosto prendere atto del fatto che il materiale era destinato alla discarica autorizzata gestita dalla ditta L.F. Recuperambiente. In secondo luogo, si sarebbe in presenza di trasporto in proprio di rifiuti non pericolosi, così che non sussisterebbero i presupposti del reato previsto dal primo comma dell’art. 51, citato, che si applica solo a chi trasporta materiale non pericoloso prodotto da terzi. Infine, contesta la legittimità del provvedimento in quanto costituirebbe reiterazione di atto di convalida di sequestro che aveva perduto efficacia perché decorsi inutilmente i termini di legge.
3. Il Tribunale, richiamate e fatte proprie integralmente le motivazioni del provvedimento emesso dal G.i.p., dopo avere respinto l’eccezione preliminare relativa alla reiterazione del provvedimento di sequestro da parte del Giudice, ha ritenuto sussistere il fumus del reato previsto dall’art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997. Afferma il Tribunale che le modalità non regolari del trasporto dei rifiuti (assenza del formulario recante, tra l’altro, le indicazioni circa la provenienza e la destinazione) risultano in contrasto con la possibilità che gli stessi venissero accettati da qualsiasi discarica autorizzata, e che le dichiarazioni della persona trasportata sul mezzo, un dipendente del Sig. Italiano, nella loro genericità non confermerebbero la prospettiva di un trasporto in discarica autorizzata.
4.
Avverso l’ordinanza del
Tribunale è stato presentato, in data
Con primo motivo si lamenta violazione dell’art. 606, lett. b) c.p.p. per errata applicazione dell’art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997 e violazione dell’art. 606, lett. e) c.p.p. per manifesta illogicità del provvedimento. Posto che il Sig. Italiano trasportava in proprio materiali edili di scarto, e quindi rifiuti non pericolosi, non sussisterebbe per lui alcun obbligo di autorizzazione al trasporto, che, invece, sussiste con riferimento ai rifiuti pericolosi anche se trasportati da chi li produce.
Con secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 606, lett.b) c.p.p. con riferimento ai commi secondo e terzo dell’art. 51 citato, nonché dell’art. 606, lett. e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione. Il reato di discarica abusiva sussisterebbe solo in ipotesi di abbandono definitivo di prodotti di scarto in un’area a ciò destinata con carattere di stabilità (scarico abituale di rifiuti nello stesso luogo); di tale condotta mancherebbe nel caso di specie ogni elemento indiziante. Tale carenza risulterebbe dimostrata dal fatto che il provvedimento del G.i.p. finisce per considerare l’ipotesi di applicazione non del terzo, ma del secondo comma dell’art. 51, e cioè l’ipotesi di abbandono di rifiuti da parte dell’imprenditore, mentre nel corso dell’udienza di riesame è stato dimostrato che il Sig. Italiano trasportava rifiuti derivanti da lavori presso una propria abitazione, e quindi agiva non come imprenditore, ma quale privato.
Con terzo motivo si lamenta violazione dell’art. 606, lett. b) c.p.p. con riferimento agli artt.12 e 15 del d.lgs. n. 22 del 1997, nonché dell’art. 606, lett. e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione. Ai sensi dell’art. 12 citato, infatti, il Sig. Italiano avrebbe potuto compilare e consegnare il formulano al momento del conferimento in discarica o anche immediatamente dopo. Inoltre, il successivo art. 15 prevede che non vi sia obbligo di formulario in caso di rifiuti prodotti in propri e trasportati senza eccedere i trenta chilogrammi o i trenta litri al giorno.
4.
Chiamata a decidere sul
ricorso, a seguito di camera di consiglio del
La motivazione dell’ordinanza, che per il suo contenuto costituisce l’antecedente logico della presente decisione, viene qui riportata:
3 - Dalla
lettura del
decreto dispositivo del sequestro preventivo e dalla impugnata
ordinanza del
tribunale del riesame, risulta in linea di fatto che
l’autocarro sequestrato
trasportava rifiuti speciali provenienti da attività di
demolizione edilizia,
ma non risulta che tali rifiuti fossero sicuramente destinati a una
discarica.
In linea di diritto, inoltre,
l’attività di trasporto e deposito di
rifiuti in una discarica da parte di terzi estranei alla
titolarità della
discarica stessa configurerebbe solo un’operazione di
smaltimento (compresa
nella categoria Dl dell’Allegato 13 del D.Lgs. 22/1997), e
non già una
operazione di gestione della discarica, che invece è stata
ipotizzata in via
alternativa da entrambi i giudici di merito.
Sotto entrambi i profili, quindi, non
può configurarsi il fumus del
reato di cui all’art. 51, comma 3, del D.Lgs. 22/1997, ma
solo quello del reato
di cui all’art. 51, comma 1, dello stesso decreto, per
trasporto di rifiuti da
parte di soggetto non abilitato, che è del resto il reato
che il g.i.p. aveva
ravvisato, sia pure in via subordinata, nella sua ordinanza del
Neppure può configurarsi il fumus del
reato di cui al secondo comma del
medesimo art. 51, per abbandono o deposito incontrollato di rifiuti da
parte di
un titolare d’impresa, non perché
l’indagato non agisce nella sua qualità di
imprenditore, bensì perché la sua
attività si era limitata al trasporto senza
arrivare all’abbandono o al deposito incontrollato dei
rifiuti trasportati.
“4 - In
conclusione, il
sequestro preventivo dell’autocarro col carico di rifiuti
speciali, guidato da
Antonino Italiano, sarebbe legittimo ai sensi dell’art. 321
c.p.p. perché
ricorrerebbe sia l’astratta configurabilità del
reato di cui all’art. 51, comma
1, D.Lgs. 22/1997, sia il pericolo che la libera
disponibilità dell’autocarro
potesse facilitare la reiterazione del reato da parte del suo
proprietario.
Non c’è dubbio, infatti, che
Antonino Italiano, quando fu sorpreso
mentre trasportava materiali derivanti da attività di
demolizione, era nell’esercizio
della sua qualità d’imprenditore edile. Sul punto,
la tesi del ricorrente,
secondo cui egli agiva invece come privato perché
trasportava rifiuti
provenienti dalla demolizione di un muro della sua abitazione,
è una mera
asserzione fattuale inammissibile in sede di legittimità.
Più in particolare, il predetto reato
sarebbe integrato dal fatto che
l’indagato trasportava rifiuti speciali non pericolosi senza
essere iscritto
nell’Albo nazionale delle imprese previsto
dall’art. 30 del D.Lgs. 22/199 7. Va
quindi esaminato il primo motivo di ricorso.
Al riguardo bisogna osservare che il comma 4
dell’art. 30, così come
modificato dall’art. 1, comma 19, della legge
Poiché non risulta che Antonino Italiano
trasportasse rifiuti prodotti
da terzi, ma risulta anzi che trasportava rifiuti derivanti dalla sua
stessa
attività d’imprenditore edile, egli non sarebbe
obbligato alla iscrizione all’Albo
nazionale e non avrebbe commesso il reato di cui al più
volte citato art. 51,
comma 1, D. Lgs. 22/1997.
“5 - Sennonché
la
predetta disposizione del comma 4 dell’art. 30,
così come modificato dalla
citata legge 426/1998, appare in contrasto con la direttiva 91/156/CEE
che, nel
suo art. 12, stabilisce che “gli stabilimenti o le imprese
che provvedono alla
raccolta o al trasporto di rifiuti a titolo professionale, o che
provvedono
allo smaltimento o al recupero di rifiuti per conto di terzi
(commercianti o
intermediari) devono essere iscritti presso le competenti
autorità qualora non
siano soggetti ad autorizzazione “. Invero, le imprese che provvedono professionalmente
al trasporto di
rifiuti, contemplate dalla direttiva, comprendono anche quelle che
professionalmente trasportano rifiuti da esse stesse prodotte, che
invece la disposizione
di legge italiana esclude.
Nel dare attuazione a questa direttiva comunitaria
col D.Lgs. 22/1997,
il legislatore nazionale in un primo tempo si era perfettamente
adeguato all’art.
12 della direttiva, stabilendo testualmente che “le imprese
che svolgono a
titolo professionale attività di raccolta e trasporto di
rifiuti e le imprese
che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi, anche se da esse
prodotti (...)
devono essere iscritte all’Albo “.
Ma in un secondo tempo, novellando la
disposizione mediante l’art. 1, comma 19, legge 426/1998, ha
violato l’art. 12,
laddove ha escluso dall’obbligo d’iscrizione
all’Albo nazionale l’imprenditore
che a titolo professionale trasporti rifiuti (non pericolosi) per conto
proprio, cioè rifiuti da lui stesso prodotti.
Questa conclusione è ora consacrata, con
effetti vincolanti per
l’ordinamento italiano, dalla recente sentenza
Poiché non v’è
dubbio che la direttiva 91/156/CEE, e in particolare il
suo art. 12, non ha efficacia diretta nell’ordinamento
italiano, e poiché la
sentenza dichiarativa della Corte di giustizia europea ha la stessa
immediata
efficacia della disposizione comunitaria interpretata (v. per tutte
Corte
costituzionale,
Nell’inerzia del legislatore, la
dichiarazione d’incostituzionalità da
parte del giudice delle leggi è il mezzo attraverso cui lo
Stato italiano può
dare esecuzione alla menzionata sentenza della Corte di giustizia
europea.
“6 - La
non manifesta
infondatezza della questione risulta chiaramente dalle considerazioni
precedenti, essendo indiscutibile - dopo
la sentenza
Altrettanto evidente è la rilevanza
della questione, essendo la norma
denunciata chiaramente inerente alla regiudicanda dedotta davanti a
questo
giudice di legittimità. Per valutare il fumus del reato di
cui all’art. 51,
comma 1, D.Lgs. 22/199 7, infatti, è necessario applicare
l’art. 30, comma 4,
così come novellato dalla predetta norma della legge
426/1998, a meno che
questa sia dichiarata incostituzionale.
La rilevanza diventa più problematica se
si considera che la norma
denunciata (nuovo testo dell’art. 30, comma 4), escludendo
l’obbligo d’iscrizione
all’Albo nazionale per gli imprenditori che esercitano la
raccolta e il
trasporto di rifiuti non pericolosi da essi stessi prodotti, ha
modificato in
senso favorevole al reo la precedente disposizione (testo originario
dell’art.
30, comma 4), depenalizzando per i suddetti imprenditori non iscritti
all’Albo
il reato di cui all’art. 51, comma 1.
Emerge così il noto problema del
sindacato di costituzionalità sulle
norme penali di favore, cioè delle norme che, per
determinati soggetti o
ipotesi, abrogano o modificano in senso favorevole al reo precedenti
norme
incriminatrici.
“7 – Com’è ben noto a
codesta Corte, muovendo dalla considerazione che l’eventuale
accoglimento della
eccezione d’illegittimità costituzionale della
norma penale più favorevole non
potrebbe influire sull’esito del giudizio a quo per il
principio d’irretroattività
di cui all’art. 25, comma 2, Cost. e all’art. 2,
comma 1, cod. pen., si è
tratta in passato la conclusione che le eccezioni
d’incostituzionalità delle
norme penali di favore sono “tipicamente”
irrilevanti, con la conseguenza che
dette norme restano sottratte al controllo costituzionale.
Ma in seguito il problema è stato diversamente risolto, a partire dalla sentenza 148/1983, che ha argomentato la rilevanza e l’ammissibilità delle questioni d’illegittimità costituzionale sulle norme penali di favore in base al duplice argomento secondo cui l’accoglimento della questione: a) verrebbe comunque a incidere sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e si rifletterebbe sullo schema argomentativo della relativa motivazione; b) avrebbe comunque un “effetto di sistema” la cui valutazione spetta ai giudici comuni e non al giudice costituzionale. E ciò perché, senza vanificare la garanzia dell’art. 25 Cost., anche le norme penali di favore devono sottostare al sindacato di costituzionalità, “a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile “.
Nel caso di specie, poi, va aggiunto un ulteriore,
decisivo, argomento.
L’eventuale sentenza di accoglimento cagionerebbe
l’abrogazione della norma
denunciata con effetto ex nunc, e quindi, in forza dell’art.
25, comma 2,
Cost., non potrebbe portare alla condanna dell’indagato
Antonino Italiano per
il fatto anteriormente commesso. E tuttavia potrebbe portare alla
conferma del
sequestro preventivo dell’autocarro da lui utilizzato per il
trasporto dei
rifiuti, in forza della consolidata giurisprudenza secondo cui la
misura
cautelare di cui all’art. 321 c.p.p. ha carattere reale, in
quanto prescinde
dalla personale responsabilità della persona sottoposta alle
indagini (v. fra
le sentenze massimate Cass. Sez. III, n. 1428 del
“8 - Questo
approdo
ermeneutico non è scalfito dalle numerose statuizioni di
codesta Corte che
hanno ribadito l’inammissibilità delle sentenze
additive contra reum per
rispetto dell’art. 25, comma 2, Cost., stante la strutturale
diversità delle
due ipotesi.
Infatti, quando è dedotta la questione
di costituzionalità di una norma
penale di favore, la sentenza di accoglimento ha carattere ablativo
della
deroga oggettiva o soggettiva introdotta, con l’effetto di
ripristinare la
piena portata normativa di una norma incriminatrice preesistente. Al
contrario,
la sentenza additiva di accoglimento (che dichiara incostituzionale la
norma
sospettata “nella parte in cui non prevede” etc.)
ha l’effetto di creare ex
novo una norma incriminatrice o di ampliare la portata di una
fattispecie
penale esistente, usurpando in entrambi i casi una prerogativa
spettante alla
discrezionalità del legislatore e violando il principio
d’irretroattività dei
reati e delle pene.
(Diverso sembra il caso della sentenza 440/1995, in
cui, con un
meccanismo di tipo ablatorio, il giudice delle leggi, in forze del
principio di
uguaglianza, ha esteso il reato di bestemmia della divinità
anche a tutela
delle religioni non cattoliche, creando così una nuova
figura di reato, che
però non era applicabile al fatto contestato nel processo a
quo).
Per diversa ragione l’approdo della
sentenza 148/1983 non appare
intaccato neppure dalla recente sent. 161/2004 Corte cost., la quale ha
escluso
la possibilità di estendere l’ambito di
applicazione della norma incriminatrice
di cui all’art. 2621 cod. civ. (false comunicazioni sociali),
come sostituito
dall’art. 1 D.Lgs.
Tale essendo la ratio decidendi, essa non
può essere applicata ai casi -
come quello presente - in cui la norma denunciata per
incostituzionalità è una norma penale di favore,
la quale “sottrae” determinate
ipotesi (nel caso specifico, il trasporto di rifiuti non pericolosi
effettuato
da un imprenditore per conto proprio) a una norma incriminatrice
generale
(derivante dal combinato disposto degli artt. 30 e 51, comma 1, D.Lgs.
22/1997
nel loro testo originario). In altri termini, facendo cadere per
incostituzionalità la modifica che l‘art. 1, comma
19, della legge
“9 - Analogo
problema
si è presentato alla Corte di giustizia europea, chiamata ex
art. 234 (già 177)
del Trattato CE a interpretare la nozione comunitaria di rifiuto, e a
saggiarne
la compatibilità con quella ridefinita dal legislatore
italiano attraverso l’art.
14 del D.L.
Al riguardo, la sentenza Niselli, premesso che
“una direttiva non può
avere l’effetto, di per sé e indipendentemente da
una norma giuridica di uno
Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di
aggravare la
responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione
delle sue
disposizioni”, preso
atto che
il fatto contestato all’imputato era stato commesso sotto il
vigore delle
disposizioni incriminatrici di cui al D.Lgs 22/1997, e prima
dell’entrata in
vigore dell’art. 14 D.L. 138/2002, ha concluso che non vi era
“motivo di
esaminare le conseguenze che potrebbero discendere dal principio di
legalità
delle pene per 1 ‘applicazione della direttiva
75/442” (parr. 29 e
30).
Diverso è il caso affrontato
più di recente dalla stessa Corte europea,
Grande Sezione, chiamata a risolvere in via pregiudiziale la questione
se il
trattamento sanzionatorio più favorevole previsto dai
novellati artt. 2621
(false comunicazioni sociali) e 2622 (false comunicazioni sociali in
danno dei
soci o dei creditori) cod. civ. fosse o meno adeguato in relazione
all’art. 6
della prima direttiva comunitaria sul diritto societario (sentenza
La sentenza ha osservato che il principio
dell’applicazione retroattiva
della pena più mite fa parte integrante delle tradizioni
costituzionali comuni
degli Stati membri e dei principi generali del diritto comunitario
(parr. 68 e
69); e ha concluso che “la prima direttiva sul diritto
societario non può
essere invocata in quanto tale dalle autorità di uno Stato
membro nei confronti
di imputati nell’ambito di procedimenti penali,
poiché una direttiva non può
avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una
legge interna di uno
Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare
la
responsabilità penale degli imputati” (par. 78 e
dispositivo).
Basti rilevare in proposito che, nel caso esaminato
dalla corte
europea, né gli originari artt. 2621 e 2622 cod. civ., che
prevedevano un
trattamento sanzionatorio più severo, e sotto la vigenza dei
quali erano stati
commessi i reati contestati, né i nuovi artt. 2621 e 2622
cod. civ., che hanno
introdotto un trattamento penale più mite, costituiscono
attuazione di
direttive comunitarie; sicché si comprende
l’affermazione secondo cui una
direttiva comunitaria, per se stessa e senza la mediazione di leggi
nazionali
di attuazione, non possa determinare o aggravare una
responsabilità penale
nella soggetta materia. Mentre nel caso della disciplina sui rifiuti,
la
direttiva comunitaria è stata trasposta
nell’ordinamento nazionale attraverso
il D.Lgs. 22/1997, che ha previsto in aggiunta un sistema sanzionatorio
a
presidio della disciplina stessa, sicché né la
previsione della responsabilità
penale, né la sua limitazione derivano direttamente dalla
direttiva
comunitaria, essendo, invece, state introdotte, la prima
dall’art. 51 del
D.Lgs. 22/1997 e la seconda dall’art. 1, comma 19, della
legge 426/1998. Nella
presente vicenda processuale, quindi, non può farsi ricorso
al principio
statuito nella suddetta sentenza comunitaria del 3m maggio 2005,
proprio perché
presupposto di questo principio è la mancanza di norme
nazionali attuative
della direttiva comunitaria.
“10 - Infine,
la
rilevanza e ammissibilità della questione di
legittimità costituzionale del
testo novellato dell’art. 34, comma 4, D.Lgs. 22/1997 trova
conforto in
numerose sentenze di codesta Corte, che, proprio in materia di rifiuti,
hanno
dichiarato la illegittimità costituzionale di varie leggi
regionali che avevano
depenalizzato lo stoccaggio provvisorio non espressamente autorizzato
di rifiuti
tossici e nocivi (n. 306/1992; n. 437/1992; n. 194/1 993) o
l’accumulo
temporaneo di rifiuti tossici e nocivi (sent. 213/1991), o che avevano
escluso
dagli impianti di smaltimento di rifiuti gli impianti di depurazione
per conto
terzi di rifiuti liquidi, così esonerando la loro gestione
dall’obbligo di
autorizzazione (sent. 173/1998).
In questi casi la caducazione delle norme
legislative regionali per
contrasto con fonti normative gerarchicamente superiori, costituzionali
e
comunitarie, è perfettamente sovrapponibile alla richiesta
caducazione del
testo novellato del richiamato art. 30 per contrasto col diritto
comunitario;
ed ha gli stessi effetti sul trattamento penale degli imputati
nell’ambito dei
processi principali.
Per tutte queste ragioni non sembra potersi
dubitare della rilevanza
della questione.”
5. Con ordinanza n. 126 del
Osserva
1. Le condotte contestate al Sig. Italiano risalgono all’anno 2005 e, come evidenziato nell’ordinanza di questa Corte n. 10328/2006, sono successive alla modifica apportata al comma quarto dell’art. 30 d.lgs. n. 22 del 1997 dal comma diciannovesimo dell’art. 1 legge n. 426 del 1998. Tale modifica escludeva dal novero delle condotte punibili il trasporto operato senza iscrizione all’Albo nazionale di rifiuti non pericolosi prodotti nell’ambito della propria attività di impresa. Deve concludersi che la condotta di trasporto di rifiuti effettuata dal Sig. Italiano, correttamente qualificata ai sensi del comma primo dell’art. 51 d.lgs. n. 22 del 1997 dalla citata ordinanza, non risultava penalmente rilevante secondo la normativa in vigore.
2.
L’esclusione delle condotte di
trasporti dei propri rifiuti non pericolosi dal novero dei
comportamenti
vietati contrastava con le disposizioni comunitarie, giusta la chiara
lettera
dell’art. 12 della direttiva 91/156/CE e
l’interpretazione fornita dalla Corte
di Giustizia con la citata sentenza del
3.
L’ordinanza della Corte
costituzionale n. 126 del 2007 non ha considerato detta questione
inammissibile, ma ha preso atto dell’emanazione da parte del
legislatore
italiano di una nuova e complessiva normativa in tema di rifiuti,
circostanza
che ha indotto a restituire gli atti a questa Corte perché
valuti il permanere
della rilevanza della questione alla luce dello jus superveniens.
4. Ritiene la Corte di dover rilevare a tale proposito anche la circostanza che l’art. 264, comma I, lett. i) del d.lgs. n. 152 del 2006 include espressamente il d.lgs. n. 22 del 1997 tra le disposizioni di legge abrogate a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina.
5. Con riferimento alla materia oggetto del presente giudizio e con riferimento alla indicazione fornita dal Giudice delle leggi, si deve evidenziare che l’art. 212 del d.lgs. n.l52 del 2006 prevede una nuova disciplina dell’Albo nazionale dei gestori ambientali, ed in particolare stabilisce:
- al comma quinto che “L’iscrizione all’Albo è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta
e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, di bonifica di siti, di bonifica...”;
- al comma settimo che “le imprese che effettuano attività di raccolta e trasporto dei rifiuti devono prestare idonee garanzie finanziarie a favore dello Stato.
- al comma ottavo che “le imprese che esercitano la raccolta e il trasporto di propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e regolare nonché le imprese che trasportano i propri rifiuti pericolosi in quantità che non eccedano... non sono sottoposte alle garanzie finanziarie di cui al comma sette e sono iscritte all’Albo regionale territorialmente competente senza che la richiesta stessa sia soggetta a valutazione ... e senza che vi sia l’obbligo di nomina del responsabile tecnico..
6. Può, dunque, affermarsi che la disciplina contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006 re-introduce un obbligo di iscrizione all’Albo, seppure secondo formalità e requisiti semplificati, per le imprese che trasportano in proprio i rifiuti non pericolosi da esse stesse prodotti, così che risulta superato il contrasto con la disciplina comunitaria che aveva costituito oggetto della questione di costituzionalità sollevata con l’ordinanza 10328/2006.
7. Può affermarsi, altresì, che sotto un profilo di ordine generale l’abrogazione dell’intero d.lgs. n. 22 del 1997 rende, anche sotto questo aspetto, non più attuale il contrasto della disciplina nazionale con quella comunitaria.
8. Va, peraltro, osservato, che il d.lgs. n. 152 del 2006 ha avuto cura di evitare problemi di coordinamento e di continuità rispetto al regime degli atti amministrativi e delle posizioni giuridiche formatesi sotto la vigenza del d.lgs. n. 22 del 1997 (si veda la citata lett. i dell’art. 264), ma non ha inteso intervenire sul tema della successione delle leggi penali nel tempo, così che devono ritenersi applicabili gli ordinari principi fissati dall’art. 2 del Codice penale e prima ancora quanto stabilito dall’art. 25, comma secondo della Costituzione.
9. Ciò significa che le condotte poste in essere nel periodo ricompreso tra la modifica introdotta con l’art. 1, comma diciannovesimo della legge n. 426 del 1998 e la data di entrata in vigore del d.lgs. n. 152 del 2006, e pertanto anche quelle contestate all’odierno ricorrente, restano disciplinate dal quarto comma dell’art. 30 del d.lgs. n. 22 del 1997 nel testo ritenuto non conforme alla normativa comunitaria. E’ pacifico, infatti, che la normativa introdotta nel 2006 risulta per il Sig. ltaliano meno favorevole, con la conseguenza che questa Corte dovrebbe esaminare il presente ricorso applicando la normativa in vigore al momento del fatto. Tale conclusione sembra conservare attualità alla questione di legittimità sollevata con la citata ordinanza n. 10328/2006.
10. A tal proposito si deve considerare che con sentenza n. 394 del 2006 la Corte costituzionale ha affrontato esplicitamente il tema delle pronunce che rimuovono una normativa sopravvenuta e restituiscono vigenza a disposizioni aventi, sul piano penale, effetti meno favorevoli per la parte privata. Premessa la centralità del principio fissato dall’art. 25, comma secondo, della Costituzione, il giudice delle leggi ha ribadito (in linea con la giurisprudenza formatasi a partire dalla sentenza n. 148 del 1983) che “lo scrutinio di costituzionalità anche in malam partem, delle c.d. norme penali di favore ... si connette all’ineludibile esigenza di evitare la creazione di «zone franche» dell’ordinamento sottratte al controllo di costituzionalità”. La sentenza prosegue evidenziando che “il principio di legalità impedisce certamente alla Corte di configurare nuove norme penali; ma non le preclude decisioni ablative di norme che sottraggono determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo”; in tali casi, infatti, “l’effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune...”
Il Giudice delle leggi, nella sentenza citata, ha avuto modo di chiarire che le norme penali di favore non sono quelle che “delimitano” l’area di intervento di una norma incriminatrice e in tal modo “concorrono alla definizione della fattispecie di reato”, bensì “quelle che ‘sottraggono’ una certa classe di soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva.”
11. Ritiene questo Giudice che i principi così affermati dalla Corte costituzionale consentano di concludere che, nel caso in esame, il controllo di legittimità ben potrebbe dirigersi verso la disposizione introdotta nel 1998 che, escludendo la disciplina di rigore nei confronti di una specifica tipologia di trasporti di rifiuti, ha “sottratto” quelle e solo quelle condotte all’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice e si è posta in contrasto con la disciplina comunitaria, meritando con ciò le in equivoche censure della Corte di Giustizia.
12. Ritiene inoltre che l’attualità della questione di legittimità non possa essere esclusa con l’argomento che l’intera normativa contenuta nel d.lgs. n. 22 del 1997 è stata abrogata dal d.lgs. n. 152 del 2006. Infatti, per quanto esposto in precedenza, l’applicazione al caso in esame delle regole fissate da quest’ultimo provvedimento legislativo deve essere ritenuta non percorribile in quanto meno favorevole (art. 2, comma quarto c.p.) e potenzialmente contrastante con i principi fissati dall’art. 25 della Costituzione. Da ciò consegue che la posizione del Sig. Italiano va ancora esaminata alla luce della disposizione contenuta nel comma quarto dell’art. 30 del d.lgs. n. 22 del 1997, come modificato dalla citata legge n. 426 del 1998, e quindi nella formulazione oggetto dei rilievi di legittimità sollevati da questa Corte con l’ordinanza n. 10328 del 2006.
In altri termini, preso atto che la motivazione e le conclusioni dell’ordinanza n. 126 del 2006 della Corte Costituzionale sembrano presupporre la rilevanza della questione sollevata da questa Corte con l’ordinanza n. 10328/2006, deve ritenersi che tale rilevanza conservi nel caso in esame la propria attualità in quanto non risulta in concreto applicabile lo jus superveniens che ha costituito, secondo le indicazioni della Corte Costituzionale, l’oggetto del nuovo esame di questo Giudice.
13. Va ritenuto, infine, che la questione conservi il carattere di non manifesta infondatezza nei termini ampiamente illustrati con la citata ordinanza n. 10328/2006 di questa Corte, che è stata in precedenza integralmente riportata nella sua parte motiva.