Qualche annotazione comparata sulla pronuncia di inammissibilità per difetto assoluto di giurisdizione nel primo caso di Climate Change Litigation in Italia
(in nota a Trib. Roma 6 marzo 2024)
di Carlo Vittorio GIABARDO
pubblicato su giustiziainsieme.it. Si ringraziano Autore ed Editore
Sommario. 1. Introduzione. – 2. Due osservazioni su contenzioso climatico e i suoi effetti. – 3. Il precedente “Urgenda” e la responsabilità civile dello Stato per fatto illecito. 3.1. Fatto illecito e violazione dei diritti umani. – 4. “Urgenda”, “Juliana”, e la soluzione alla “questione politica”. – 4.1. – Un breve appunto critico. - 5. La vicenda italiana. Le argomentazioni degli attori. – 5.1. (Segue). Responsabilità del custode e “Public Trust Doctrine”. – 6. Insindacabilità della questione e difetto assoluto (e relativo) di giurisdizione.
1. Introduzione
Con sentenza pubblicata il 6 marzo 2024, il Tribunale di Roma, seconda sez. civ., ha dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione il cd. “Giudizio Universale”, il primo - ma non l’unico - caso di contenzioso climatico (Climate Change Litigation) in Italia[1].
Il 5 giugno 2021, gli attori – tra i molti, l’associazione “A Sud Ecologia e Cooperazione OdV” – hanno citato in giudizio lo Stato italiano – per esso, la Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente del Consiglio – mediante un’azione, in via principale, di responsabilità civile ex art. 2043 c.c. (e in via subordinata ad altri titoli), per l’inerzia di questo nell’affrontare adeguatamente a livello politico-normativo generale il problema del cambiamento climatico. In particolare, le associazioni lamentavano, tra le altre cose, l’insufficienza, alla luce di tutto un vasto contesto giuridico sovranazionale e scientifico, del “Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030” (cd. P.N.I.E.C., atto ministeriale e quindi di livello infra-legislativo). Secondo gli attori, questa programmazione comporterebbe una riduzione del 36 per cento delle emissioni generali di gas ad effetto serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, una percentuale considerata inadeguata per far fronte dell’emergenza. Veniva quindi chiesto al Tribunale (a) di dichiarare lo Stato responsabile civilmente a causa dall’inerzia nell’adottare obiettivi climatici più ambiziosi e «per l’effetto» (b) condannarlo a titolo di risarcimento del danno in forma specifica (art. 2058 c.c.) a adottare ogni misura necessaria per la riduzione del 92 per cento delle emissioni annuali entro il 2030.
L’Avvocatura Generale dello Stato ha eccepito per prima cosa il difetto assoluto di giurisdizione per essere la questione, così come formulata, riservata all’esclusiva gestione del potere politico. Il Tribunale, esaminata subito (in quanto logicamente pregiudiziale) questa eccezione di rito, la accoglie e, senza entrare nel merito delle pretese, pronuncia ex art. 37 c.p.c. il difetto assoluto di giurisdizione in relazione alla domanda risarcitoria, per non essere questa conoscibile da alcun giudice (pronuncia alla quale si accompagna quella del difetto relativo di giurisdizione, in ordine al solo ed eventuale sindacato di legittimità del P.N.I.E.C., per essere questa valutazione, nei termini indicati dal Tribunale, devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo).
2. Due osservazioni su contenzioso climatico e i suoi effetti
L’iniziativa processuale si inserisce nella già consolidata corrente globale della Climate Change Litigation, fenomeno di sempre maggior centralità nell’attuale governance internazionale ed europea di contrasto al cambiamento climatico[2]. In particolare, il caso italiano si innesta in quel numeroso insieme di processi civili intentati contro gli Stati – distinti da quelli intentati contro le imprese, soprattutto contro le cd. Carbon Majors, i grandi inquinatori del pianeta, ma anche, secondo sviluppi emergenti, contro istituti di credito[3] - con il fine di far dichiarare la loro responsabilità nella contribuzione al cambiamento climatico e ottenere una condanna specifica a un taglio delle emissioni (o a uno stop degli investimenti in imprese fortemente inquinanti, nel caso del contenzioso contro banche).
Questa tendenza nasce dalla sconsolata presa d’atto della incapacità, mancanza di volontà, o impotenza del potere politico nel prendere, e soprattutto tradurre in pratica, drastiche e immediate misure per mitigare l’aumento globale delle temperature. Ricorrere al potere giudiziario è quindi una strategia, che unisce scopi giuridici diretti e fini politici (nel senso di policy) indiretti, per vincere l’inazione dei soggetti – Stati o imprese - che più sono responsabili dell’immissione di gas climalteranti nell’atmosfera terrestre.
A questo proposito, mia siano consentite due riflessioni dal carattere generale:
(1) Da un punto di vista giuridico, il fenomeno induce a riflettere in maniera critica sulla misura e i limiti in cui il potere giurisdizionale può prendere decisioni che incidono su questioni che sono, a causa della rosa di interessi coinvolti e conseguenze a cascata, naturaliter politiche (o economico-imprenditoriali, nel caso del contenzioso contro imprese), i cui effetti possono non tener adeguatamente conto delle ricadute di sistema, e che pur ritengo siano importanti da calcolare. L’attività di risoluzione di un conflitto mediante l’applicazione del diritto a determinati fatti – ossia, ciò che una corte fa – ha per definizione un raggio di azione più circoscritto rispetto alla decisione politica. I confini del giudice sono quelli del caso ed egli non può (nel senso che non è attrezzato istituzionalmente) né comporre politicamente gli interessi in gioco né porsi il problema delle ripercussioni della propria decisione su altre sfere sociali.
Questa osservazione critica è acuita dalla vicenda in commento, data l’altissima percentuale di riduzione delle immissioni richiesta dagli attori e la brevità del periodo di azione (un taglio del 92 per cento annuale rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030), anche se la concreta percentuale in sé non è comunque il punto centrale. A prescindere dal tema – che pure considero d’importanza capitale - della legittimazione democratica delle decisioni concernenti le policies ambientali, l’ipotetico accoglimento da parte del potere giudiziario della domanda avrebbe posto con tutta l’evidenza possibile le questioni (a) della fattibilità pratica, dalla prospettiva tecnico-politica, del rispetto degli ordini giudiziali di riduzione secondo determinate percentuali delle emissioni (fattibilità della quale, nel caso italiano, è lecito dubitare), e quindi (b) della concreta coercibilità di tali obblighi, soprattutto quando il destinatario è lo Stato e questo si dimostri inadempiente (coercibilità della quale mi sembra parimenti lecito dubitare[4]), e (c) della valutazione, da parte delle corti stesse, della bontà, effettività ed efficacia delle misure messe in campo ai fini dell’adempimento. Tutti questi aspetti a me paiono assolutamente cruciali se vogliamo collocare la discussione su un piano giuridico e mi suggeriscono l’adozione di un mix di cautela e realismo nelle valutazioni.
(2) Quanto appena detto prescinde del tutto dagli effetti extragiuridici del contenzioso climatico cd. “strategico” (strategic litigation). Questi effetti di sensibilizzazione e mobilitazione dell’opinione pubblica, che si ottengono anche in caso di sconfitta, sono anzi spesso ricercati dai ricorrenti in via prioritaria[5]. Ci troviamo quindi di fronte a una funzione – che anch’essa può e deve essere pensata criticamente sine ira et studio - dello strumento processuale civile come pungolo e segnalazione, essenzialmente nei confronti del potere politico, di una sofferenza nel corpo sociale che deve essere affrontata con tutta la serietà possibile[6].
3. Il precedente “Urgenda” e la responsabilità civile dello Stato per fatto illecito
Nonostante siano presenti alcune differenze, il precedente immediato e naturale per il caso che qui si commenta è la celeberrima vicenda “Urgenda vs. Paesi Bassi”, ricordata, seppur velocemente, anche nella motivazione della sentenza italiana (il che indica, tra parentesi, un “dialogo transnazionale tra corti”, la presenza di una community of courts – quanto meno European - su molti temi comuni, tra questi sicuramente quello del cambiamento climatico). Il “Santo Graal” - come è stato definito - di tutte le iniziative processual-climatiche successive[7].
Non è possibile qui esaminare a fondo il caso “Urgenda” nelle sue innumerevoli implicazioni teorico-giuridiche, politiche, economiche. Vorrei limitarmi qui a metterne in luce un punto cruciale, che è in comune con la controversia italiana, e cioè che gli attori olandesi che hanno adito il giudice ordinario lo hanno fatto con il proposito di ottenere in primo luogo una condanna civile dello Stato olandese a fare di più, ad essere più ambizioso a livello normativo, secondo le regole generali che disciplinano la responsabilità civile extracontrattuale. Salvo quanto dirò più avanti sul ruolo giocato dai diritti umani (v. in questo Par., in fine), gli attori olandesi non hanno tanto inteso asserire l’illegittimità della normativa interna per contrarietà alla Costituzione o per contrarietà a impegni cogenti assunti dallo Stato sul piano internazionale, ma in primis l’antigiuridicità dell’ “inerzia normativa” dal punto di vista del diritto privato. Questo è un elemento importante da sottolineare: nella climate change litigation, sia contro Stati sia contro imprese, spesso il diritto privato è utilizzato strumentalmente come “meccanismo regolatorio” per provocare un cambiamento nelle politiche pubbliche o aziendali, valevoli a larga scala[8].
Nel dettaglio, Urgenda et al. hanno citato in giudizio lo Stato sul presupposto che omettere di fortificare, intensificare gli obiettivi della legislazione vigente contro il cambiamento climatico fosse un comportamento contrario all’art. 162 del Libro 6° del Codice civile olandese – il corrispettivo del nostro art. 2043 c.c. – il quale stabilisce, in via generalissima e valevole per tutti i soggetti dell’ordinamento (Stato compreso) che colui che causa con colpa ad altri un danno ingiusto deve ripararlo (e quindi, ovviamente e in prima battuta, deve smettere di causarlo; cd. inibitoria)[9]. La sentenza di primo grado del Tribunale de L’Aja, che ha dato ragione agli attori, per esprimere quest’obbligazione civile dello Stato di non (continuare a) causare danni ingiusti attraverso una legislazione considerata troppo morbida, fa riferimento più volte al “duty of care”, un concetto che in origine appartiene alle categorie tradizionali della responsabilità civile per colpa (tort of negligence) dei Paesi di common law, ma che ha assunto, nel linguaggio giuridico globale, una valenza più generica e universale. Semplificando: con duty of care non s’intende null’altro che quel “dovere di cura” – “dovere di attenzione”, potremmo anche dire - che tutti i soggetti dell’ordinamento, incluso lo Stato, si devono gli uni agli altri reciprocamente (cd. principio del neminem o alterum non laedere)[10]. Tale dovere richiede che in tutte le attività intraprese ci si conformi a certi standard di condotta ragionevoli, anche al di là degli stretti obblighi di legge, e il cui mancato rispetto può dar luogo a responsabilità nel caso in cui si provochi un danno ingiusto. Nelle categorie di civil law e nel linguaggio del giurista italiano tutto questo ragionamento entra a comporre la nozione di colpa, per cui affermiamo che è colpevole (nel senso di non diligente, negligente) l’azione di quel soggetto che, pur sapendo (o dovendo sapere) che il proprio agire non rispetta certi standard di condotta comunemente accettati dalla propria comunità di appartenenza (pratiche consolidate, buone norme, direttive, regole soft, le migliori indicazioni tecnico-scientifiche, indirizzi condivisi, e via discorrendo), ebbene, nonostante ciò continui a porre in essere il comportamento. La citata disposizione del Codice civile olandese esprime tutto ciò richiamandosi al rispetto delle “rules of unwritten law” («ongeschreven recht», art. 6:162, comma 2), quelle regole non scritte alle quali ognuno deve adeguarsi, se vuole esser esente da colpa[11].
La sentenza di primo grado (24 giugno 2015) accettò questa lettura[12]. I Paesi Bassi, continuando ad avere una legislazione poco ambiziosa, non in linea con gli obiettivi di contenimento delle temperature ricercati negli accordi internazionali e in disarmonia con le indicazioni scientifiche (atti che – si noti - sono in gran parte, o nella loro totalità, di soft law), stanno causando – o causeranno irreversibilmente – con colpa un danno ingiusto, quantomeno ai propri residenti. Danno ingiusto perché va a vulnerare quel diritto fondamentale a vivere in un “clima stabile” o in un clima “compatibile con una buona vita umana”[13]. Lo Stato sarebbe venuto meno al suo duty of care. È negligente perché non ha conformato la propria azione legislativa a quello “standard non scritto” di diligenza normativa, quando invece avrebbe dovuto farlo. La sua è una “colpa omissiva”. Ma come si è dato contenuto a questo “standard non scritto”? Attraverso la Costituzione olandese, gli artt. 2 e 8 della C.E.D.U. (v. anche infra), la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e i principi che ne formano parte, gli Accordi di Parigi, e soprattutto attraverso i reports scientifici dell’IPCC. Tutta questa mole di atti e documenti, dalla natura tra loro diversissima, hanno avuto un ruolo per così dire “determinativo”, nel senso che riempiono e danno contenuto effettivo e tangibile all’altrimenti indefinibile requisito del “dovere di cura”. Il loro effetto - nel ragionamento del Tribunale di primo grado de L’Aja - è quindi indiretto, mediato, giacché definiscono la doverosità dell’azione entrando attraverso la porta lasciata aperta dalla disposizione general-generica del principio del neminem laedere (si potrebbe anche dire che ciò che è soft è divenuto hard attraverso la clausola generale della responsabilità civile).
Alla luce di tutto ciò, il Tribunale di primo grado ha condannato con sentenza immediatamente esecutiva lo Stato a diminuire (un facere infungibile) le emissioni annuali di gas climalteranti all’interno dei propri confini di una percentuale fissata dai giudici del 25 per centro entro il 2020 e del 40 per cento entro il 2030 (considerati un “fair share”), valori maggiori di quelli che la legislazione del Paese aveva sovranamente fissato.
3.1. (Segue). Fatto illecito e violazione dei diritti umani
È noto che la sentenza è stata poi confermata sia in secondo grado (9 ottobre 2018) sia dal Tribunale Supremo (20 dicembre 2019), ma con una piega argomentativa differente, che merita essere ben enfatizzata[14]. Pur riconoscendo in via del tutto generale l’esistenza di un “dovere di cura”, fondato sulle categorie civilistiche, dello Stato verso i propri cittadini, le Corti di secondo e ultimo grado hanno giustificato la condanna sulla base prioritaria della violazione diretta da parte dei Paesi Bassi dei diritti umani riconosciuti dalla C.E.D.U. (ragionamento che invece il giudice di prime cure aveva escluso), e concretamente l’art. 2 (“diritto alla vita”) e l’art. 8 (“diritto alla vita privata e famigliare”), senza dilungarsi sulla configurabilità o meno di un tort da parte dello Stato. Vi è stato pertanto un passaggio dal tort ai human rights[15]. È quest’ultima base – ritengo – quella destinata ad aver maggior peso e successo nelle iniziative future di climate litigation, soprattutto contro gli Stati. Su questo preciso punto di diritto, infatti, si è recentissimamente espressa a favore la Corte E.D.U. (Grand Chamber) nel caso KlimaSeniorinnen vs. Switzerland, riconoscendo la violazione diretta dell’art. 8 della Convenzione (“diritto alla vita privata e famigliare”) nel comportamento dello Stato svizzero irrispettoso degli obblighi climatici di mitigazione[16]. La vicenda merita un approfondimento a parte, ma è indubbio fin da ora che l’argomentazione basata sulla violazione diretta di un diritto umano (human-right based) avrà una preminenza speciale.
4. “Urgenda”, “Juliana” e la soluzione alla “questione politica”
Si intuisce come questi processi pongano tutta una serie di difficoltà di “traducibilità” del fenomeno del cambiamento climatico nelle categorie tipiche del diritto privato (diritto soggettivo, ingiustizia del danno, colpa, nesso causale) e, di riflesso, del diritto processuale civile (legittimazione attiva e passiva, prova, mezzi di coazione del comportamento), con le quali i giuristi di molte giurisdizioni e latitudini sono soliti lavorare. Difficoltà che certo non sono insuperabili e anzi devono esserlo (sono dell’opinione che è il diritto che deve adattarsi ai bisogni che di volta in volta sorgono nel corpo sociale, e non viceversa; è il diritto al servizio della vita, non la vita a servizio del primo), ma che non possono nemmeno essere liquidati come cavillosi nonsense[17].
A monte, però, l’elemento giuridico-politico di maggior peso nel caso “Urgenda” è un altro, e che è risultato dirimente anche nella decisione italiana, almeno per ora. È legittimamente pronunciabile da parte di una corte (ordinaria) una condanna dello Stato a fare di più, ad avere una legislazione più ambiziosa, con l’indicazione di precise percentuali di raggiungimento, oppure un tale ordine sconfina nell’attività politica in senso stretto? E come si può tentare di tracciare (con quali criteri) il discrimine, che è certo mobile, non nitido, tra ambito della decisione politica (creazione di diritto) e ambito della decisione giurisdizionale (applicazione di diritto), tra legittimo dominio della legislation e legittimo dominio dell’adjudication?
A questo proposito, sempre nell’ottica di un contributo comparato, davvero interessante sarebbe anche la lettura dell’altro leading case, ancora pendente negli Stati Uniti, che ha posto con forza questo tema dei limiti del controllo giurisdizionale sulle politiche energetiche di uno Stato (in quel caso, dell’amministrazione federale) alla luce dell’emergenza climatica. Mi riferisco alla saga Juliana vs. United States[18]. Non è questa la sede per addentrarci negli infiniti rivoli di una battaglia processuale complessissima e dal percorso tutt’altro che lineare. Mi basta qui solo rilevare come il problema del se questa questione sia riservata al potere politico o no - cd. “political question doctrine” – è ancora in questo momento il principale terreno di scontro. In un primo tempo, la corte federale di primo grado (Stato dell’Oregon) aveva deciso per il no (cioè: la questione non è inerentemente ed esclusivamente politica e quindi può essere decisa da un giudice); in seguito la corte d’appello federale (Ninth Circuit) ha ribaltato la decisione e propeso, con una maggioranza di due a uno, per il sì (ossia: il processo deve fermarsi per “difetto assoluto di giurisdizione”); infine di nuovo la corte di primo grado ha ribadito il proprio no, quando gli attori, nel frattempo, si sono limitati a chiedere un provvedimento meramente dichiarativo (declaratory judgment) dell’illiceità delle politiche, e non anche una vera e reale condanna dello Stato alla revisione dei piani energetici, come invece era stato chiesto all’inizio (una differenza non da poco).
Torniamo al più vicino caso Urgenda. Il governo olandese ha reiterato l’eccezione di “politicità” della questione in tutti e tre i gradi di giudizio. Secondo questo, un’eventuale decisione condannatoria nei confronti dello Stato, da parte di un giudice, al raggiungimento di certi obiettivi climatici precisi, anche senza l’indicazione dei mezzi per conquistarli, si porrebbe in contrasto con il principio della separazione dei poteri (o principio dei “trias politica”, come dice la Corte), pilastro dei moderni regimi democratici.
Vale la pena leggere le argomentazioni con le quali i giudici olandesi si sono liberati di questa eccezione[19]. Nella sentenza del Tribunale di primo grado (Sez. E, punto 4.95) si legge testualmente che nei Paesi Bassi non vi è una “totale separazione” (“full separation”; “volledige scheiding”) tra i poteri dello Stato, in questo caso esecutivo e giudiziario. La distribuzione delle funzioni tra questi è piuttosto orientata a ottenere un “bilanciamento” (“balance”; “evenwicht”), di modo che nessuno dei tre assuma una primazia sopra gli altri. Ciascuno quindi ha una propria area di doveri e responsabilità. Rientra tra le funzioni del potere giudiziario, talvolta sotto forma potere, talaltra di dovere, valutare le azioni della politica, sotto il profilo della loro “legalità” (“lawfulness”; “rechtmatigheidsoordeel”). Questo controllo – prosegue il Tribunale – non è un controllo politico, ma deve limitarsi all’“applicazione del diritto” (“application of law”; “de toepassing van het recht”). Ciò comporta che le corti devono esercitare “grande cautela”, “grande moderazione” (“great caution”; “grote terughoudendheid”) quando si tratta di decisioni che implicano anche considerazioni d’ordine politico (“policy-related questions”; “beleidsmatige afwegingen”), che si riflettono, cioè, su una molteplicità d’interessi e sulla “struttura e organizzazione della società”. Detto ciò (punto 4.98), la Corte conclude che la controversia presentata all’attenzione è decidibile.
Qui vediamo che il Tribunale introduce una distinzione sfuggentissima – che è poi anche centrale nel caso “Juliana” – tra questioni che probabilmente, o anzi di sicuro, avranno una ricaduta politica (il che non impedisce a una corte di deciderle) e questioni che sono soltanto, o inerentemente, politiche (espressione d’indirizzo politico; in “Juliana” si fa l’esempio della scelta di uno Stato di entrare in guerra). Secondo il Tribunale dell’Aja rientrerebbero tra queste (punto 4.101) solo le concrete determinazioni di comeraggiungere il risultato finale giudizialmente obbligato, ma non l’obiettivo finale di riduzione. Lo Stato – precisa il provvedimento, prima di pronunciare la condanna definitiva – avrà quindi assoluta libertà (“full freedom”; “de volle… vrijheid”) di portare aventi le misure legislative che meglio crede. Soltanto in questo spazio può muoversi la libertà del potere politico e solo in questa auto-limitazione dei giudici si manifesta quella “moderazione” (“terughoudendheid”) della Corte nell’esercizio dei poteri affidati dalla legge.
4.1. (Segue). Un breve appunto critico
Questa parte della motivazione è senza dubbio molto ben argomentata, ma lungi dall’essere esente da problemi nella sostanza.
Innanzitutto, è del tutto evidente la porosità della demarcazione tra temi che hanno anche ricadute politiche e temi che sono soltanto politici. Credo che pochi negherebbero la presenza di una componente fortemente discrezionale nel delineare questa linea di confine. Di certo ciò non scandalizza coloro che adottano un approccio realista. Ciò però comporta – e dirlo con chiarezza non mi sembra affatto banale - che esista una zona grigia di potere che gli organi giurisdizionali possono occupare, oppure no, la quale non è determinabile con criteri oggettivi (i.e., puramente giuridici). Non si nega che esista una differenza tra ambito legittimo della decisione giudiziale e un (ristretto) ambito politico insindacabile; anzi, nella maggior parte dei casi questo dilemma non si pone nemmeno, perché risulta chiaro dove una certa questione si posiziona. Qui invece si afferma, realisticamente, che vi sono alcuni casi difficili, hard cases – come quello in esame - dove la distinzione in parola è il prodotto di argomentazioni, più o meno buone, di circostanze storiche, di fattori contingenti e sociali o, nel peggiore dei casi, di un braccio di ferro tra poteri (debolezza dell’uno, forza dell’altro). In ogni caso, la linea è mutevole.
Di conseguenza, va problematizzata anche la distinzione, fatta propria dalla decisione Urgenda, tra pronuncia di un ordine finale relativo all’ottenimento di certe percentuali molto precise di riduzione delle emissioni (“ambito legittimo del potere giudiziario”) e le concrete modalità politico-legislative di raggiungimento delle stesse (“ambito legittimo del potere politico”). Tant’è che sia la Corte d’appello federale statunitense (Ninth Circuit) nel caso “Juliana”[20] sia anche, in Europa, il Tribunale di primo grado di Bruxelles nella vicenda analoga a Urgenda, ossia “Klimatzaak vs. Regno del Belgio” (17 giugno 2021)[21] hanno considerato non pronunciabili vere e proprie condanne in forma specifica nei confronti dello Stato, per sconfinamento in attività legislativa (anche se, in quest’ultimo caso, la Corte d’Appello di Bruxelles ha di recente ribaltato la decisione e emesso un provvedimento condannatorio[22]). Ha scritto la Corte d’Appello Federale nel caso Juliana che «it is beyond the power of a […] court to order, design, supervise, or implement the plaintiffs’ requested remedial plan», dato che «any effective plan would necessarily require a host of complex policy decisions entrusted, for better or worse, to the wisdom and discretion of the executive and legislative branches». Anche soltanto la fissazione di un obiettivo finale di riduzione «plainly require consideration of “competing social, political, and economic forces,” which must be made by the People’s elected representatives, rather than by federal judges interpreting the basic charter of Government for the entire country» (p. 25)[23]. Chi ha ragione? Da parte mia, arduo mi pare non vedere la componente valutativa, di scelta, di compromesso (e quindi politica) nella difficile determinazione delle percentuali, ma soltanto quella tecnico-scientifica, come se quest’ultima si presentasse come del tutto oggettivizzata nei dati.
5. La vicenda italiana. Le argomentazioni degli attori
Guardiamo ora il caso italiano. Lo Stato, esattamente come nel caso “Urgenda”, viene chiamato in giudizio sulla base principale dell’art. 2043 c.c., norma di diritto privato (cfr. Par. VI, att. cit.[24]). L’inerzia (normativa, legislativa, esecutiva) dell’Italia sarebbe foriera di un danno ingiusto, in quanto idonea di per sé a ledere, già da ora o comunque in un futuro ravvicinatissimo, un diritto fondamentale e personale tutelato quantomeno implicitamente a livello costituzionale e sovranazionale (il “diritto a vivere in un clima stabile e compatibile con la vita umana”); cosicché il potere pubblico sarebbe tenuto fin da subito a impedirne l’imminente e potenzialmente irreversibile accadimento. Dall’atto di citazione emerge che l’omissione dello Stato è considerata colposa nel senso in cui ci siamo già dilungati precedentemente: nonostante vi sia, da parte della autorità pubbliche, «piena conoscenza e assoluta consapevolezza» (VI.11, att. cit.) della gravità del fenomeno e di quello che sarebbe richiesto per evitare il danno, le misure necessarie non verrebbero ancora messe a regime. Queste sono ricavate da tutta la serie materiali internazionali ed europei enumerati nella prima parte della domanda (ancora una volta: la UNFCCC, gli Accordi di Parigi, i Reports dell’IPCC; v. IV.2), oltre, più in generale, alle acquisizioni scientifiche della comunità. A parere degli attori è soprattutto il non essersi conformato a queste ultime che va inteso come sintomo e manifestazione della negligenza dello Stato, idonea a fondare la sua responsabilità civile. Sarebbe un’applicazione della cd. “riserva di scienza” (VI.11), quale limite alla discrezionalità per il potere pubblico[25]. Come in “Urgenda”, tutto questo corpus politico-tecnico-scientifico entra a individualizzare la colpa, ex art. 2043 c.c., nell’omissione dello Stato.
Capiamo che gli attori hanno quindi inteso contestare l’intera politica energetica e ambientale italiana, vista nella sua generalità. Questa poi essenzialmente si esprime nei documenti programmatici del potere esecutivo, soprattutto il “Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima” (P.N.I.E.C., v. infra), atto congiunto ministeriale di programmazione, peraltro in questo momento in fase di aggiornamento. Secondo le valutazioni tecnico-scientifiche di Climate Analytics (una istituzione no-profit tedesca) allegate dagli attori (ma contestate dallo Stato convenuto), le misure contenute nel Piano porterebbero a una diminuzione solo del 36 per cento delle immissioni annuali, rispetto ai valori del 1990[26]. Gli attori, invece, richiedevano una diminuzione in una percentuale del 92 per cento «ovvero in quell’altra, maggiore o minore, in corso di causa accertanda». Evidenziamo che, invece, nessuna percentuale specifica era stata richiesta dai ricorrenti olandesi.
5.1. (Segue). Responsabilità del custode e “Public Trust Doctrine”
Una menzione merita il fatto che gli attori, in subordine, hanno argomentato la responsabilità dello Stato anche a un diverso titolo, ossia quello della responsabilità del custode per le «cose» che ha in custodia, exart. 2051 c.c. (tipico esempio, nel nostro ordinamento, di responsabilità oggettiva), cfr. VI.13, att. cit. Se ben colgo, il ragionamento è questo: la cosa custodita (in questa particolare accezione, l’atmosfera, il clima terrestre) è sul punto di causare un danno agli esseri umani (una violazione al diritto a vivere in un clima stabile); pertanto, se ne ricava che è responsabilità del custode (qui, lo Stato, colui che ha in custodia il clima, che ha ed esercita una disponibilità materiale su di esso) fare tutto ciò che è scientificamente possibile per impedire la materializzazione – imminente e certa, ancorché futura – del danno (salvo la prova del caso fortuito). Dall’art. 2051 c.c. viene desunto quindi un obbligo di prendersi cura della cosa, a beneficio di coloro che potrebbero venirne danneggiati. In questa custodia della “cosa-clima” sarebbe poi implicito anche un successivo “dovere di consegna” di questa alle generazioni future (VI.17, att. cit.).
Questo argomento non occupa la stessa centralità di quello dell’art. 2043 c.c. nel contesto della lite. Penso però sia importante citarlo perché, pur “creativo”, non è peregrino, giacché richiama alla mente – per accostamento – una dottrina spesso impiegata nelle iniziative di Climate Change Litigation negli Stati Uniti, e cioè quella della “public trust”. Questa dottrina è stata centrale, tra gli altri, nel caso statunitense “Juliana” a cui ho fatto riferimento poco fa ed è servita come colonna argomentativa nel provvedimento in cui la giudice federale di primo grado, Ann Aiken, nel 2016, ha ricavato un diritto al clima a partire dalla Costituzione americana[27]. In base a questa ricostruzione del common law, lo Stato sarebbe l’af-fidatario(il paradigma è quello fiducia, della consegna fiduciaria) e il gestore di certe risorse naturali essenziali, per conto non solo delle generazioni presenti, ma anche di quelle future. Il modello è quello del trust: lo Stato (l’amministrazione pubblica) deve agire come un trustee, che amministra i beni in suo possesso a beneficio della popolazione presente e di quella a venire (i settlors e i beneficiaries del trust, nella metafora), con lealtà, prudenza e saggezza, a maggior ragione in riferimento a quei “beni pubblici globali” (global commons, quali l’atmosfera) che non possono essere affidati alla governance privata[28].
La dottrina è elegante ed affascinante. Ma a patto di prestare attenzione ai rischi di semplificazioni eccessive, sempre insiti nelle metafore accattivanti, che possono far perdere di vista tutti gli scogli (d’ordine pratico, politico, tecnico, amministrativo), i vincoli (di tempo, di denaro) e le molteplici stratificazioni di competenze nella difficilissima arte dell’amministrazione della cosa pubblica.
6. Insindacabilità della questione e difetto assoluto (e relativo) di giurisdizione
Il Tribunale di Roma ha ravvisato il difetto assoluto di giurisdizione in relazione alla pretesa risarcitoria generale, accogliendo l’eccezione dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la richiesta così come costruita (cioè: illiceità della “scarsa ambizione normativa” perché lesiva di un diritto soggettivo a un clima stabile) implica per forza una valutazione d’ordine politico-legislativo, in quanto tale riservata, appunto, ai poteri esecutivo o legislativo. L’effetto empirico di questo giudizio – desume il Tribunale di Roma - si tradurrebbe in pratica in un ordine di legiferare in una determinata maniera, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. In effetti questa deduzione non si può negare. Né, nella sostanza, lo avevano negato le corti olandesi: solo che quelle, come abbiamo visto, avevano fatto rientrare la fissazione delle percentuali di riduzione quali limiti alla discrezionalità politica nell’alveo dei legittimi compiti del potere giurisdizionale, lasciando però intoccata, a mio avviso, tutta la portata problematica di una tale affermazione (v. supra).
Il Tribunale di Roma propende invece per la politicità della questione e pertanto per la sua insindacabilità da parte di qualsiasi giudice, anche amministrativo (difetto assoluto di giurisdizione). Nel far ciò, la motivazione cita le massime della Corte di cassazione – riportate nella loro astrattezza - che ravvisano il difetto assoluto quando manca «nell'ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio» e la domanda non è conoscibile «né in astratto, né in concreto, da alcun giudice». Vengono richiamati due precedenti: Cass. Sez. Un., Ord. n. 15601/2023 e Cass. Sez. U. Ord. n. 15058/2023. La prima, se andiamo a vedere bene, si riferisce al caso della contestazione portata da un gruppo di cittadini mediante azione popolare all’attenzione del giudice amministrativo relativa alla scelta di un Comune veneto di concedere la cittadinanza onoraria all’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro; contestazione quindi di un atto amministrativo, giudicata non giustiziabile per assenza di un “parametro giuridico” di valutazione[29]. La seconda si riferisce alla richiesta di risarcimento dei danni, avanzata davanti al giudice ordinario, derivanti dalla mera assenza di norme a tutela di specifici interessi di specifiche categorie di persone (nella fattispecie, la maternità delle donne avvocato): cd. danno da “inattività legislativa”, non configurabile. In entrambi questi casi la Suprema Corte ha ravvisato il difetto assoluto di giurisdizione.
Per avvallare poi la non esistenza (nel merito) di un diritto soggettivo azionabile “a una buona legislazione” o - nelle parole del Tribunale - di un «diritto soggettivo dei cittadini a un corretto esercizio del potere legislativo»[30] (fuori naturalmente delle diversissime doglianze di tipo costituzionale), la motivazione porta gli esempi del rigetto (nel merito) della richiesta di risarcimento dei danni a una Regione per aver promulgato una norma poi dichiarata incostituzionale (Cass. n. 23730/2016, cd. danno da “attività legislativa”) o della stessa richiesta, rivolta allo Stato, per mancata o tardiva trasposizione di una Direttiva (all’epoca) CEE (Cass. S.U. n.9147/2009: ma con l’importante specificazione in nota[31]).
Resta aperta, invece, come correttamente afferma il Tribunale, la possibilità di avanzare la puntuale doglianza del P.N.I.E.C., in quanto atto della pubblica amministrazione (ministeriale), davanti al giudice amministrativo, ma solo «sotto il profilo della adeguatezza, coerenza e ragionevolezza» rispetto agli obiettivi di riduzione già individuati a livello europeo. Ricordiamo che il P.N.I.E.C. è atto di pianificazione generale, disciplinato dal Reg. UE 2018/1999 (che prevede l’obiettivo finale della riduzione del 55 per cento delle immissioni entro il 2030), e la cui redazione e attuazione sono poste sotto la vigilanza della Commissione europea. Ora, la possibilità di ricorrere alla giustizia amministrativa per la contestazione dell’adeguatezza di atti dell’amministrazione in relazione al cambiamento climatico è già stata esplorata con successo nell’ordinamento francese più d’una volta. In particolare, nel 2022 il Conseil d'État parigino, su ricorso della piccola città costale di Grande-Synthe, ha condannato l’amministrazione centrale a intraprendere tutte le misure necessarie per assicurare il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle immissioni già fissati dalla legge interna (e quindi auto-assunti dallo Stato stesso) e dal diritto europeo[32]. Strada, questa, meno ambiziosa, se così si può dire, di quella qui tentata nel caso in commento - e cioè della contestazione globale e generale delle aspirazioni climatiche statali - in quanto l’ipotetico processo davanti al T.A.R. sarebbe necessariamente vincolato, per la natura stessa del giudizio di legittimità amministrativa, ai target già fissati dalle leggi interne e soprattutto dalla governance europea esistente: obiettivi che, invece, i ricorrenti, da quanto si ricava, intendevano proprio impugnare.
[1] La sentenza è reperibile online, tra gli altri in https://www.ambientediritto.it/wp-content/uploads/2024/03/Sentenza-causa-climatica-giudizio-universale-Tribunale-Ordinario-di-Roma-Seconda-sezione-civile-Causa-n.39415-2021.pdf. Dico che questo non è l’unico caso perché risulta al momento pendente la causa intentata il 9 maggio 2023, sempre presso Il Tribunale di Roma, da Greenpeace Onlus e ReCommon APS (e altri attori) contro ENI S.p.A. e i suoi due maggiori azionisti, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti S.p.A.
[2] Per una visione d’insieme che dà conto della complessità del fenomeno, cfr., recentissimamente, E. D’Alessandro, D. Castagno (a cura di), Reports & Essays on Climate Change Litigation (Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino), Torino, 2024, interamente disponibile al link https://iris.unito.it/handle/2318/1956352. Con aderenza alla vicenda italiana, v. ancora le considerazioni di D. Castagno, Le procès pour l’environnement et le climat en droit italien: potentialités, limites et alternatives dans un cadre de contentieux «stratégiques», in Rev. Int. Droit Comp., 2023, 583 e seg. Per un’analisi che affronta le principali difficoltà dal punto di vista del diritto sostanziale e processuale, S. Vincre, A. Henke, Il contenzioso “climatico”: problemi e prospettive, in BioLaw Journal. Rivista di Biodiritto, 2023, 137 e seg. (disponibile all’indirizzo https://teseo.unitn.it/biolaw/article/view/2704). Dell’importanza della governance di tipo giudiziale nelle iniziative di contrasto al cambiamento climatico avevo parlato in Giabardo, Climate Change Litigation, State Responsibility and the Role of Courts in the Global Regime: Towards a “Judicial Governance” of Climate Change?, in B. Pozzo, V. Jacometti (a cura di), Environmental Loss and Damage in a Comparative Law Perspective, Intersentia, 2021, 393 e seg.
[3] Il caso più emblematico di contenzioso climatico contro imprese è Milieudefensie vs. Shell, deciso in Olanda in primo grado nel 2021 con la vittoria dell’associazione ambientalista (ora in grado d’appello). Altri casi al momento pendenti sono quelli contro ENI (in Italia), contro Total (in Francia), contro Holcim, uno dei maggiori produttori di cemento al mondo (in Svizzera), contro RWE, colosso dell’energia elettrica (in Germania). Per quanto riguarda il contenzioso climatico “bancario” – che ha caratteristiche sue proprie, seppur accostabili – si segnalano, in Europa, la controversia contro la Banca Nazionale del Belgio (dichiarata inammissibile) e quella contro BNP Paribas (pendente a Parigi), ed è già stata comunicata l’intenzione di agire contro ING (in Olanda).
[4] Problematicissimo, a mio avviso, l’uso di misure coercitive, in questa e in altre ipotesi simili.
[5] Pertanto, almeno in alcuni casi, forse non parlerei nemmeno di effetti “indiretti”. Sul fenomeno, G. Ganguly, J. Setzer, V. Heyvaert, If At First You Don’t Succeed: Suing Corporations for Climate Change, in Oxford Journal of Legal Studies, 2018, 841 e seg.
[6] Contro quest’uso strumentale del processo nel contenzioso climatico cfr. la dura presa di posizione della High Court of Justice londinese (Business and Property Courts) nel caso ClientEarth v Shell’s Board of Directors [2023] EWHC 1137 (Ch): «However, it seems to me that where the primary purpose of bringing the claim is an ulterior motive in the form of advancing ClientEarth’s own policy agenda with the consequence that, but for that purpose, the claim would not have been brought at all, it will not have been brought in good faith» (Justice W. Trower). V. anche la decisione seguente, in senso confermativo, ClientEarth v Shell Plc [2023] EWHC 1897 (Ch).
[7] L’espressione “casi Santo-Graal”, usata criticamente, è di K. Bower, Lessons From a Distorted Metaphor: The Holy Grail of Climate Litigation, in Transnational Environmental Law, 2020, 347 ss.
[8] L’uso in chiave “regolatoria” del diritto privato non è certo fenomeno nuovo, specialmente nelle giurisdizioni di common law, ma richiederebbe un approfondimento a parte. V. comunque D. Kysar, The Public Life of Private Law: Tort Law as a Risk Regulation Mechanism, in European Journal of Risk Regulation, 2018, 48 e seg.
[9] Si può leggere Il testo dell’art. in questione, tradotto in inglese, in https://wilmap.stanford.edu/country/netherlands.
[10] Salvo poi vedere l’esatta estensione e le limitazioni d’ordine soggettivo e oggettivo di tale dovere. La questione eccede lo scopo di questa analisi. Comunque, per uno studio del problema applicato all’ambito della Climate Change Litigation, v. già D. Hunter, J. Salzman, Negligence in the Air: The Duty of Care in Climate Change Litigation, in University of Pennsylvania Law Rev., 2007, 1741 e seg.
[11] Cfr., nell’ordinamento italiano, la definizione di colpa data dall’art. 43, comma 3, c.p. (nella parte in cui fa riferimento all’ «inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline»).
[12] Il testo ufficiale in olandese della sentenza di primo grado è reperibile in https://uitspraken.rechtspraak.nl/details?id=ECLI:NL:RBDHA:2015:7145&showbutton=true&keyword=urgenda&idx=6. Quello in lingua inglese, a cura della stessa corte, in https://uitspraken.rechtspraak.nl/details?id=ECLI:NL:RBDHA:2015:7196
[13] La tendenza sembra quindi essere quella a elaborare di un diritto autonomo e separato “a un clima stabile” (cd. “right to a stable climate” o “right to climate stability”), anche se tale diritto, a dire il vero, potrebbe già essere incluso e implicito in quello all’ambiente, evitando il moltiplicarsi delle categorie (v., a proposito, la nuova e ampia formulazione dell’art. 9 Cost. italiana, ove il riferimento all’ “ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi”). V. anche infra, nota 16.
[14] V. le sentenze in https://climatecasechart.com/non-us-case/urgenda-foundation-v-kingdom-of-the-netherlands/
[15] Enfatizzano l’importanza di entrambi i fondamenti di “Urgenda”, anche con riferimenti alla vicenda italiana prima che fosse decisa, M. Fermeglia, R. Luporini, ‘Urgenda-Style’ Strategic Climate Change Litigation in Italy: A Tale of Human Rights and Torts?, in Chinese Journal of Environmental Law, 2023, 345 e seg.
[16] https://www.echr.coe.int/w/grand-chamber-hearing-concerning-switzerland#
[17] Chi si è occupato del tema ha messo in luce da un lato queste difficoltà, ma dall’altro anche le possibilità di adattamento del diritto privato all’esigenza di far fronte alla sfida climatica; v., a proposito, D. Kysar, Professore alla Stanford Law School, che in un celebre articolo si chiedeva non cosa il diritto privato potesse fare per il cambiamento climatico, ma, al contrario, cosa quest’ultimo potesse fare per il diritto privato; v. What Climate Change Can Do About Tort Law, in Environmental Law, 2011, 1 e seg. Più di recente, soprattutto per quanto riguarda le dottrine di common law, J. Rossi, J. B. Ruhl, Adapting Private Law for Climate Change Adaptation, in Vanderbilt Law Review, 2023, 827 e seg. Mi permetto di rinviare anche a Giabardo, Climate Change Litigation and Tort Law. Regulation Through Litigation?, in Diritto e Processo, Annuario Giuridico dell’Università degli Studi di Perugia, 2020, 361 e seg., disponibile in https://www.rivistadirittoeprocesso.it/upload/Riviste/Rivista_2019.pdf
[18] Il caso risulta pendente dal 2015. Ha quindi attraversato tre amministrazioni USA (quella di Obama, di Trump e di Biden) ed è probabilissimo che entri nella quarta. La vicenda è stata caratterizzata da un’aggressiva strategia processuale da parte dell’amministrazione federale, orientata in tutti i modi a far dichiarare il processo inammissibile e a impedirne la prosecuzione (ad es., attraverso l’uso di molteplici motions to dismiss o di w). Per un assaggio della complessità della sua traiettoria, e per chi volesse approfondire, https://climatecasechart.com/case/juliana-v-united-states/
[19] V. supra, nt. 12.
[20] https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/case-documents/2020/20200117_docket-18-36082_opinion.pdf
[21] V. la decisione, in francese, in https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/non-us-case-documents/2021/20210617_2660_judgment.pdf
[22] Sempre in francese, v. https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/non-us-case-documents/2023/20231130_2660_judgment-1.pdf
[23] Ancora https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/case-documents/2020/20200117_docket-18-36082_opinion.pdf
[24] L’atto di citazione è consultabile sul sito web della campagna, https://giudiziouniversale.eu/wp-content/uploads/2023/07/Atto-di-citazione-A-Sud-VS-Stato-Italiano-2021.pdf
[25] Con chiarezza, su questo preciso fattore, M. Carducci, voce Cambiamento climatico (diritto costituzionale), in Dig. disc. pubb., (agg.), 2021, 51 ss., spec. 69 ss., a cui rimando anche per ulteriori riferimenti.
[26] Si contestano, inoltre, la “Strategia italiana di lungo termine sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra” (https://www.mase.gov.it/sites/default/files/lts_gennaio_2021.pdf), il “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (PNRR, nelle parti rilevanti), nonché i “Contributi Determinati Nazionali” (Nationally Determined Contributions, cd. NDC) della UE, comprensivi di quelli italiani.
[27] https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/case-documents/2016/20161110_docket-615-cv-1517_opinion-and-order-2.pdf, soprattutto la Part IV (pag. 36 e seg.).
[28] Sul punto, v. l’analisi di Fanetti, La Public Trust Doctrine: dalle origini alla Climate Change Litigation, in The Cardozo Electronic Law Bulletin, 2022, 1 seg. (online). Ma vedi anche i numerosi spunti per il comparatista in B. Pozzo, Climate Change Litigation in a Comparative Law Perspective, in F. Sindico, M. Mbengue (a cura di), Comparative Climate Change Litigation: Beyond the Usual Suspects, 2021, 593 e seg.
[29] V. il cenno alla vicenda in R. Conti, Atto politico vs giustizia “politica”. Quale bilanciamento con i diritti fondamentali?, in Giustizia Insieme, 2 novembre 2023, in https://www.giustiziainsieme.it/en/costituzione-e-carta-dei-diritti-fondamentali/2941-atto-politico-vs-giustizia-politica-quale-bilanciamento-con-i-diritti-fondamentali
[30] Pag. 13 della sentenza.
[31] Ovviamente in quest’ultimo caso s’intende che la responsabilità dello Stato non è di tipo aquiliano (ex art. 2043 c.c.) e quindi non ne soggiace ai limiti, ma è autonoma (la responsabilità patrimoniale dello Stato, in queste ipotesi, è riconosciuta fin dalla sentenza della Corte di Giustizia Francovich del 1991). Sul tema, più in generale, molto interessante quanto detto da A. Pizzorusso, La responsabilità dello Stato per atti legislativi in Italia, in Foro it., 2003, V, p. 175 ss
[32] Conseil d'État, Commune de Grande-Synthe, 31 marzo 2022, n. 427301. V. anche, l’anno scorso, CE, Commune de Grande-Synthe, 10 maggio 2023, n. 467982, dove, in sede esecutiva, l’ordine all’amministrazione statale è stato ribadito, ma senza che a questo venisse aggiunta una astreinte (cioè, una misura coercitiva).