TAR Campania (NA) Sez. V n. 3086 del 14 luglio 2020
Ambiente in genere.V.I.A. postuma

Di regola, la V.I.A. costituisce un giudizio di compatibilità ambientale naturalmente preventivo e avente ad oggetto, necessariamente, un elaborato progettuale non ancora realizzato ed ancora pienamente modificabile in vista del conseguimento dei risultati prefissati dalla disciplina ambientale; nondimeno, nell'ipotesi in cui un impianto preesistente all'introduzione della Direttiva sia stato oggetto di ulteriori lavori, compiuti successivamente all'entrata in vigore della Direttiva comunitaria n. 85/337/CEE del 1985, in materia ambientale, e non sottoposti al giudizio di compatibilità ambientale, la V.I.A. dovrà essere "recuperata" rispetto a tali lavori nella fase del rilascio dell'autorizzazione o anche in sede di rinnovo della stessa; inoltre, sempre con riferimento ad un impianto preesistente all'introduzione della Direttiva, la V.I.A. si impone allorché si debba procedere al ripristino dell’autorizzazione a seguito dell'avvenuta revoca a causa di irregolarità dell'impianto e ciò, si badi, secondo quanto emerge dalla divisata giurisprudenza costituzionale, anche in assenza del compimento di opere o lavori di sorta e dunque con riferimento "agli impianti esistenti.  In definitiva, dunque, il giudizio di valutazione di impatto ambientale c.d. "postumo", sebbene eccezionale, è, in linea di massima, ammesso in talune ipotesi, per garantire il c.d. "effetto utile" della Direttiva del 1985. (segnalazione Avv. M. Balletta)


Pubblicato il 14/07/2020

N. 03086/2020 REG.PROV.COLL.

N. 01084/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

(Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1084 del 2017, proposto da
Comune di Marigliano, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Maurizio Balletta, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Grazia Basile, in Napoli, via Giovanni Paladino, n. 2;

contro

Regione Campania, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Angelo Marzocchella, con domicilio eletto presso il suo studio in Napoli, via Santa Lucia 81;

nei confronti

Agenzia Regionale Protezione Ambiente (Arpa) - Campania, Asl Napoli 3 Sud, Ente Idrico Campano (Eic), quale Successore Ato3, Comune di San Vitaliano, non costituiti in giudizio;
Città Metropolitana di Napoli, in persona del Sindaco Metropolitano pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Giuseppe Cristiano, con domicilio digitale come da PEC estratta da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Napoli, piazza Matteotti 1;
Società Perna Ecologia S.R.L, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Lorenzo Lentini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Orazio Abbamonte in Napoli, viale Gramsci 16;

per l'annullamento:

a) del decreto n. 11 del 16.1.2017, a firma del dirigente della Regione Campania- DGC 05- UOD 17-UOD Autorizzazioni ambientali e rifiuti di Napoli, recante ad oggetto: “PERNA Ecologia srl- art. 208 del d.Legs. 152/06 smi Impianto di stoccaggio e trattamento di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi, sito nel comune di Marigliano (NA) alla via Ponte delle Tavole. Rinnovo autorizzazione” (comunicato all'ente ricorrente a mezzo PEC del 17.1.2017 ore 11.40 e pubblicato in BURC n.8 del 23.1.2017);

per quanto possa occorrere:

b) dei verbali delle sedute del 16.2.2015 (non conosciuto), 9.10.2015, 9.3.2016, 23.3.2016 (non conosciuto) della conferenza dei servizi convocata per il rilascio del provvedimento impugnato sub. a).


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Campania, della Città Metropolitana di Napoli e della Società Perna Ecologia S.R.L;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore all’udienza del giorno 23 giugno 2020, tenuta da remoto ai sensi del D.L. 18/2020 e succ. mod., il dott. Fabio Maffei e uditi i difensori come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.- Con il gravame in esame, il Comune ricorrente ha dedotto che la Regione Campania, con il provvedimento impugnato, aveva rinnovato l’autorizzazione unica alla gestione dei rifiuti pericolosi e non pericolosi alla società controinteressata, Perna Ecologia S.r.l., titolare dell’impianto di stoccaggio sito nel territorio comunale alla via Ponte Tappia.

L’impianto, originariamente autorizzato con decreto n. 25 del 21.1.2002 adottato dal Commissario di Governo per l’Emergenza Rifiuti e destinatario nel corso degli anni di diversi provvedimenti di rinnovo, non era mai stato sottoposto alla verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale.

In data 20.2.2014, la Perna Ecologia s.r.l. aveva domandato l’avvio del procedimento di rinnovo dell’autorizzazione ex art. 208 D.Legs. 152/06, preventivamente formulando la richiesta, pubblicata sul BURC n. 39 del 9.12.2013, di verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale ai sensi dell’art. 20 D.lgs. 152/06.

Nell’ambito della convocata conferenza dei servizi per il rinnovo dell’autorizzazione, sia il Comune di Marigliano che l’ASL NA03 Sud avevano espresso parere negativo all’accoglimento della richiesta di rinnovo, in ragione sia dell’assetto urbanistico dell’area interessata, sia della necessità di assicurare la tutela di prevalenti interessi sanitari.

Nonostante ciò, la Regione aveva adottato il provvedimento di rinnovo dell’autorizzazione oggetto dell’odierna impugnazione.

Avverso il predetto provvedimento, il Comune ricorrente ha, in primo luogo, dedotto la violazione e la falsa applicazione dell’art 20 D. Legs. 152/06, poiché, rientrando l’impianto nell’ambito applicativo delimitato dall’ Allegato IV alla Parte II n. 7 lett. za) del D.Lgs. 152/06, doveva essere necessariamente sottoposto alla “verifica di assoggettabilità a V.I.A.” (c.d. screening).

Invero, secondo la declinata prospettazione, soltanto i rinnovi preceduti dalla valutazione di impatto ambientale potevano ritenersi sottrarsi alla reiterazione di quest’ultima, con esclusione, dunque, dei rinnovi di autorizzazioni la cui compatibilità ambientale, in sede di realizzazione dell’impianto e di autorizzazione all’esercizio degli stessi, non fosse stata precedentemente accertata.

In secondo luogo, ha censurato il gravato provvedimento sotto il profilo dell’eccesso di potere e del travisamento dei fatti, poiché il vigente PRG del Comune di Marigliano qualificava l’area come zona agricola, sicché l’impianto doveva ritenersi carente del requisito attinente alla compatibilità urbanistica.

Peraltro, il Comune di Marigliano non aveva mai rilasciato titoli edilizi per la costruzione di manufatti destinati alla gestione dei rifiuti, avendo esclusivamente, con la concessione edilizia in sanatoria n. 57 dell’11.7.1996, condonato un’opera abusiva in zona agricola, consistita “nella realizzazione di un prefabbricato e di locali deposito materiali ed automezzi”.

Inoltre, pur volendo attribuire all’originario decreto commissariale il valore di autorizzazione alla costruzione dell’impianto, tale decreto non aveva prodotto l’effetto di variante degli strumenti urbanistici ex art. 27, comma 5, D. Legs. 22/97, poiché il procedimento di cui agli art. 27, 28, 31 comma 6, 33 e 22 comma 11 d.lg. n. 22 del 1997 rivestiva una mera funzione acceleratoria della procedura per il rilascio delle autorizzazioni in tema di rifiuti, senza tuttavia escludere la necessità di conseguire gli atti di assenso richiesti dalla normativa urbanistica ed edilizia.

Infine, sosteneva l’illegittimità del provvedimento per violazione dell’art. 216 TULLSS/34, atteso che l’impianto, classificato industria insalubre di prima classe, avrebbe dovuto essere localizzato “lontano dalle abitazioni”, come prescritto dal comma 2 dell’art. 216 TULLSS/34.

Per contro, l’impianto non solo sorgeva ad una distanza di duecento metri da un agriturismo, ma era anche situato ad una distanza di 400 metri e di 500 m dal centro abitato rispettivamente dei Comuni di San Vitaliano e di Marigliano.

Prima della sua attivazione, poi, non era stata data comunicazione al Sindaco di Marigliano ai sensi del penultimo comma dell’art. 216 TULLSS/34 ai fini dell’esercizio del potere di tutela della salute pubblica.

Si sono costituite tutte le parti resistenti contestando la fondatezza del proposto gravame ed insistendo per la sua integrale reiezione.

In particolare, hanno evidenziato che l’impianto in questione non era sottoposto alla verifica di assoggettabilità (o a V.I.A.), poiché, ai sensi dell’art. 6 co. 5 D.Lvo 152/2006, la Valutazione di Impatto Ambientale riguardava solo i progetti che producessero impatti significativi e negativi sull’ambiente; circostanza quest’ultima esclusa dalla condotta istruttoria regionale.

L’impianto in contesa non doveva essere sottoposto, in sede di rinnovo dell’autorizzazione, a Verifica di Assoggettabilità a V.I.A. (e tantomeno a V.I.A.), trattandosi di un impianto preesistente che, nel corso degli anni, non aveva subito alcuna modifica sostanziale come attestato dalla stessa Regione Campania.

Infondata era anche la deduzione in ordine all’assenza del requisito di compatibilità urbanistica, poiché i Decreti Commissariali nn. 25/2002 e 955/2003 avevano autorizzato il progetto realizzativo dell’impianto di trattamento rifiuti, ai sensi dell’art. 27 D.Lvo 22/1997, con effetti di variante urbanistica semplificata,

Non sussisteva, infine, neppure la pretesa violazione dell’art. 216 R.D. 1265/1934, poiché la Regione Campania, con il Decreto Dirigenziale 11/2017, aveva accertato espressamente sia che l’impianto controverso non produceva emissioni in atmosfera di sostanze inquinanti, sia che eventuali emissioni di polveri erano immediatamente captate ed introdotte in impianti di depurazione, così da escludersi la loro immissione nell’aria.

All’esito della udienza del 23 giugno 2020 e della discussione orale tenuta ai sensi dell’art. 4 D.L. 28/2020, la causa è stata riservata in decisione.

2.- Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito esposte.

2.1.- Lo scrutinio del primo motivo di ricorso, volto in sintesi a censurare l’impugnato provvedimento autorizzatorio per non essere mai stato l’impianto in contestazione sottoposto a VIA nonostante la specifica previsione posta dall’Allegato IV1, Parte II n. 7 lett. za) del D.Lgs. 152/06, impone di compiere una serie di precisazioni con riferimento all'istituto della V.I.A. nella sua peculiare declinazione comunemente designata come "VIA postuma".

Viene in rilievo la discussa problematica afferente all'ammissibilità di una valutazione d'impatto ambientale da compiersi su impianti preesistenti all'entrata in vigore della disciplina e che, come tali, non sono mai stati sottoposti ad un giudizio di compatibilità con il contesto ambientale in cui sono stati localizzati.

Come rilevato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 209 del 2011, "Si deve segnalare innanzitutto che né la direttiva n. 85/337/CEE, né il cosiddetto Codice dell'ambiente (decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante "Norme in materia ambientale") disciplinano espressamente l'ipotesi di rinnovo di autorizzazione o concessione riguardanti un'attività avviata in un momento in cui non era prescritto l'obbligo di sottoposizione a VIA. Pertanto, la giurisprudenza comunitaria e quella nazionale sono state chiamate a dare risposta al quesito se sia possibile - stante il carattere preventivo della VIA, riguardante piani e progetti - estendere l'obbligo di effettuarla ad opere per le quali tale valutazione non era necessaria al momento della loro realizzazione".

Di regola, dalla disciplina positiva, in considerazione di quelle che sono le finalità e l'oggetto della valutazione d'impatto ambientale, emerge l'inammissibilità di una V.I.A. effettuata successivamente alla realizzazione di una determinata opera, essendo, in linea generale, oggetto della valutazione il progetto di un'opera o di una sua modifica ancora da attuare: valutare, infatti, un progetto che è già stato realizzato ed edificato, ai fini della sua localizzazione e progettazione, vanifica gli obiettivi che il legislatore euro-unitario e nazionale si sono prefissati, ovverosia giudicare ex ante se la localizzazione e la realizzazione di una determinata opera, per come progettata, sia conciliabile con il determinato contesto geografico prescelto per la sua costruzione e, ove questo interrogativo sortisca una risposta favorevole, quale sia la soluzione progettuale che permetta di ottimizzare l'edificazione dell'opera con i preminenti valori presidiati mediante l'istituto in esame.

Rimarca questa affermazione quanto autorevolmente sostenuto dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 120 del 2010, allorché si evidenzia che "La valutazione di impatto ambientale deve essere effettuata in relazione al progetto definitivo e non può essere rimessa alla fase esecutiva della progettazione, dato che solo nella prima fase è configurabile una strategia preventiva, secondo le finalità della procedura di VIA".

Nondimeno, nella medesima sentenza, la Corte Costituzionale ha individuato una serie di ipotesi in cui il giudizio di compatibilità ambientale possa esprimersi sul progetto già realizzato e, dunque, sull'opera esistente.

Secondo la Corte Costituzionale, infatti, si "può, quindi, affermare che la sottoponibilità a VIA degli impianti esistenti si pone, qualora non esista un'autorizzazione originaria, o in dipendenza dell'avvenuto accertamento di irregolarità dell'impianto ovvero in conseguenza della revoca dell'autorizzazione che ripristini una situazione pre-autorizzatoria per cui il conseguimento di un nuovo titolo è subordinato all'esperimento della procedura di VIA”.

Al riguardo l'art. 29 del Codice dell'ambiente dispone che "in caso di annullamento in sede giurisdizionale o di autotutela di autorizzazioni o concessioni rilasciate previa valutazione di impatto ambientale o di annullamento del giudizio di compatibilità ambientale, i poteri di cui al comma 4 sono esercitati previa nuova valutazione di impatto ambientale".

Analogamente, si pone la necessità della VIA ogni volta che si debba procedere al rinnovo dell'autorizzazione in presenza di rilevanti mutamenti dell’originaria configurazione dell’impianto ovvero quando, da un regime di provvisorietà autorizzativa, si passi alla necessaria verifica in funzione del conseguimento di un'autorizzazione definitiva.

Quanto esplicitato nella sentenza richiamata era peraltro stato enunciato, seppure in modo più sintetico, dalla sentenza n. 69 del 2010 della Corte Costituzionale.

Invero, va inoltre ricordato, come peraltro fatto dalla già citata sentenza n. 209 del 2011 della Corte Costituzionale, che la Corte di Giustizia ha avuto modo di statuire che "...nell'ipotesi in cui risultasse che, a partire dall'entrata in vigore della direttiva 85/337, lavori o interventi fisici che devono essere considerati progetto ai sensi di questa direttiva siano stati realizzati sul sito (…) senza che il loro impatto ambientale sia stato oggetto di valutazione in una fase anteriore al procedimento di autorizzazione, spetterebbe al giudice del rinvio tenerne conto nella fase del rilascio dell'autorizzazione di gestione e di garantire l'effetto utile della direttiva vegliando a che la detta valutazione sia realizzata almeno in questa fase del procedimento" (sentenza 17 marzo 2011, in causa C-275/09).

A parere del Collegio, emerge dunque, in sintesi, il seguente quadro di principi di cui doverosamente tenere conto nel presente giudizio:

- di regola, la V.I.A. costituisce un giudizio di compatibilità ambientale naturalmente preventivo e avente ad oggetto, necessariamente, un elaborato progettuale non ancora realizzato ed ancora pienamente modificabile in vista del conseguimento dei risultati prefissati dalla disciplina ambientale (così, da Corte Costituzionale 26.03.2010 n. 120);

- nondimeno, nell'ipotesi in cui un impianto preesistente all'introduzione della Direttiva sia stato oggetto di ulteriori lavori, compiuti successivamente all'entrata in vigore della Direttiva comunitaria n. 85/337/CEE del 1985, in materia ambientale, e non sottoposti al giudizio di compatibilità ambientale, la V.I.A. dovrà essere "recuperata" rispetto a tali lavori nella fase del rilascio dell'autorizzazione o anche in sede di rinnovo della stessa (così, da Corte di Giustizia, 17 marzo 2011, in causa C-275/09);

- inoltre, sempre con riferimento ad un impianto preesistente all'introduzione della Direttiva, la V.I.A. si impone allorché si debba procedere al ripristino dell’autorizzazione a seguito dell'avvenuta revoca a causa di irregolarità dell'impianto e ciò, si badi, secondo quanto emerge dalla divisata giurisprudenza costituzionale, anche in assenza del compimento di opere o lavori di sorta e dunque con riferimento "agli impianti esistenti" (cfr.: Corte Costituzionale 26.03.2010 n. 120).

In definitiva, dunque, il giudizio di valutazione di impatto ambientale c.d. "postumo", sebbene eccezionale, è, in linea di massima, ammesso in talune ipotesi, per garantire il c.d. "effetto utile" della Direttiva del 1985.

Di recente, inoltre, con la modifica del T.U. apportata dal D.Lgs. n. 104 del 2017, in attuazione della Direttiva n. 2014/52/UE del 2014, il legislatore ha individuato un'ulteriore ipotesi in cui la V.I.A. è espressa "ora per allora", ovverosia rispetto ad un progetto che è stato già compiutamente realizzato.

Si tratta del caso disciplinato dall'art. 29, comma 3, secondo cui "Nel caso di progetti a cui si applicano le disposizioni del presente decreto realizzati senza la previa sottoposizione al procedimento di verifica di assoggettabilità a VIA, al procedimento di VIA ovvero al procedimento unico di cui all'articolo 27 o di cui all'articolo 27-bis, in violazione delle disposizioni di cui al presente Titolo III, ovvero in caso di annullamento in sede giurisdizionale o in autotutela dei provvedimenti di verifica di assoggettabilità a VIA o dei provvedimenti di VIA relativi a un progetto già realizzato o in corso di realizzazione, l'autorità competente assegna un termine all'interessato entro il quale avviare un nuovo procedimento e può consentire la prosecuzione dei lavori o delle attività a condizione che tale prosecuzione avvenga in termini di sicurezza con riguardo agli eventuali rischi sanitari, ambientali o per il patrimonio culturale. Scaduto inutilmente il termine assegnato all'interessato, ovvero nel caso in cui il nuovo provvedimento di VIA, adottato ai sensi degli articoli 25, 27 o 27-bis, abbia contenuto negativo, l'autorità competente dispone la demolizione delle opere realizzate e il ripristino dello stato dei luoghi e della situazione ambientale a cura e spese del responsabile, definendone i termini e le modalità. In caso di inottemperanza, l'autorità competente provvede d'ufficio a spese dell'inadempiente. Il recupero di tali spese è effettuato con le modalità e gli effetti previsti dal testo unico delle disposizioni di legge relative alla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato approvato con regio decreto 14 aprile 1910, n. 639".

Il compimento di un giudizio di compatibilità ambientale compiuto ex post, ovverosia a progetto già realizzato, e ad opera dunque esistente, reca con sé talune peculiarità, rispetto alla disciplina generale, che sono state espresse dalla giurisprudenza appena richiamata, e che sono rilevanti anche per la compiuta disamina del caso di specie.

In particolare, la fondamentale pronuncia n. 209 del 2011 della Corte Costituzionale, evidenzia - riferendosi, nello specifico, alla norma regionale di cui si stava scrutinando la legittimità costituzionale, ma enunciando al contempo un principio di carattere generale della presente disciplina - che, quando il giudizio di compatibilità ambientale è postumo, il giudizio di V.I.A. deve fare in modo che "...l'effetto utile della direttiva n. 85/337/CEE sia comunque raggiunto, senza tuttavia rimettere in discussione, nella loro interezza, le localizzazioni di tutte le opere e le attività ab antiquo esistenti. Ciò sarebbe contrario al ragionevole bilanciamento che deve esistere tra l'interesse alla tutela ambientale ed il mantenimento della localizzazione storica di impianti e attività, il cui azzeramento - con rilevanti conseguenze economiche e sociali - sarebbe l'effetto possibile di un'applicazione retroattiva degli standard di valutazione divenuti obbligatori per tutti i progetti successivi al 3 luglio 1988, data di scadenza del termine di attuazione della suddetta direttiva, già definita "spartiacque" dalla sentenza n. 120 del 2010 di questa Corte".

Non va peraltro dimenticato, quanto ai progetti la cui delibazione è rimessa in sede regionale, che, anche con riferimento ad opere già esistenti, e sottoposte o meno a V.I.A., ben può effettuarsi un giudizio di compatibilità ambientale, ove si proponga una modifica o un'estensione dell'impianto o dell'opera.

Come già evidenziato in precedenza, nel caso delle opere elencate nell'Allegato IV alla Parte Seconda (ossia, i "Progetti sottoposti alla verifica di assoggettabilità di competenza delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano"), tuttavia, il giudizio di compatibilità ambientale riguarderà il progetto di modifica o di ampliamento dell'impianto (e non si estenderà pertanto all'intera opera), sempre che ne ricorra il presupposto positivamente contemplato dalla disciplina, vale a dire la possibilità che si verifichino "notevoli ripercussioni negative sull'ambiente".

Nondimeno, è naturale che, per giudicare l'impatto ambientale della modifica operata, non potrà non tenersi conto anche dell'impianto preesistente, ove ciò si renda necessario, perché, ad es., gli effetti di quanto progettato si possono apprezzare soltanto tenendo conto dell'intera struttura e dell'intero processo produttivo (cfr.: T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 24/12/2019, n. 2254).

2.2.- Alla luce delle coordinate ermeneutico-giurisprudenziali sopra delineate, ritiene il Collegio di dover muovere da un’attenta disamina della vicenda fattuale sottesa all’odierna controversia.

Emerge per tabulas, come peraltro puntualmente riportato nel corpus motivazionale dell’impugnato provvedimento, che la Società Perna Ecologia, titolare di un complesso immobiliare di circa 3.500 mq, situato in via Ponte delle Tavole di Marigliano, originariamente ricompreso in zona “E” agricola del vigente P.R.G., durante il regime emergenziale, aveva presentato alla struttura commissariale, in data 29.01.2000, ai sensi dell’art. 27 D.lgs. n 22/1997, un progetto per la realizzazione di un opificio finalizzato all’attività di stoccaggio rifiuti da svolgersi nell’impianto sopra individuato.

Il Presidente della Giunta Regionale, nella qualità di Commissario di Governo Emergenza Rifiuti, dopo aver acquisito il nulla-osta urbanistico del Comune di Marigliano (nota n. 8423/2001) ed il parere igienico-sanitario favorevole (nota n. 1337/2001), aveva approvato il progetto di tale impianto di stoccaggio, con decreto n. 25 del 21.02.2002, ai sensi dell’art. 27 D.Lvo 22/1997.

L’autorizzazione all’esercizio era stata subordinata alla preventiva acquisizione, da parte della Provincia di Napoli, di un attestato di conformità tra opere eseguite e progetto approvato.

La Regione Campania, quindi, acquisito il parere di conformità rilasciato dalla Provincia di Napoli, con Decreto Dirigenziale n. 955 del 9.05.2003, aveva autorizzato l’esercizio dell’attività di stoccaggio, prorogando più volte, negli anni successivi, la concessa autorizzazione mediante plurimi decreti dirigenziali non oggetto di alcuna impugnazione.

Da ultimo, la Società Perna aveva presentato alla Regione Campania un progetto volto a conseguire il rinnovo dell’autorizzazione unitamente al suo ampliamento, onde consentire l’inserimento di nuove tipologie di rifiuti pericolosi da trattare, in ordine al quale aveva domandato la verifica di assoggettabilità a V.I.A.

La Società, nel corso della relativa Conferenza dei Servizi, tuttavia, aveva rinunciato a tale progetto di implementazione dell’impianto con nuove tipologie di rifiuti ed al relativo procedimento di verifica di assoggettabilità a V.I.A., resosi necessario ai soli fini della valutazione di tale modifica sostanziale.

Pertanto, non essendosi reso necessario procedere alla verifica di compatibilità ambientale in ordine alla proposta variante progettuale, in quanto espressamente abbandonata dalla ricorrente, la Regione Campania, con il Decreto Dirigenziale n. 11 del 16.01.2017, oggetto dell’odierna impugnazione, aveva autorizzato il rinnovo della autorizzazione per l’esercizio dell’impianto di stoccaggio, ai sensi dell’art. 208 D.Lvo 152/2006, non essendo intervenuta alcuna variazione, quantitativa o qualitativa, in ordine alle linee produttive dei rifiuti da trattare.

2.3.- La predetta ricostruzione, pertanto, appare idonea a confutare le argomentazioni su cui s’innerva la prima delle articolate censure, poiché, in applicazione degli orientamenti giurisprudenziali unionali e nazionali sopra riportati, appare evidente che, in assenza di un progetto di implementazione della portata dell’impianto ad initio assentita, ovvero di una sua variazione qualitativa, non si imponeva la sottoposizione a VIA postuma dell’impianto originariamente realizzato.

In primo luogo, corroborano tale conclusione i principi ribaditi, anche di recente dalla Corte di Giustizia Europea secondo cui, in merito alla questione della VIA postuma, in caso di omissione di una VIA prescritta dal diritto dell'Unione, gli Stati membri hanno l'obbligo di eliminare le conseguenze illecite di detta omissione non ostando il diritto dell'Unione a che una tale valutazione sia effettuata a titolo di regolarizzazione, dopo la costruzione e la messa in servizio dell'impianto interessato, alla duplice condizione, da un lato, che le norme nazionali che consentono tale regolarizzazione non offrano agli interessati l'occasione di eludere le norme di diritto dell'Unione o di disapplicarle e, dall'altro, che la valutazione effettuata a titolo di regolarizzazione non si limiti all'impatto futuro di tale impianto sull'ambiente, ma prenda in considerazione altresì l'impatto ambientale intervenuto a partire dalla sua realizzazione.

Tuttavia, le autorità nazionali chiamate a pronunciarsi in tale contesto devono altresì tenere conto dell'impatto ambientale generato dall'impianto a partire dalla sua realizzazione, nulla ostando a che, in esito a tale valutazione, le stesse concludano che non sia necessaria la sottoposizione dell’impianto ad una nuova VIA (cfr. Corte giustizia UE, sez. VI , 28/02/2018, n. 117).

Tanto è avvenuto nella presente fattispecie, poiché l’impugnato Decreto Dirigenziale n. 11/2017, nel prendere atto dell’assenza di una modifica sostanziale dell’impianto assentito rispetto all’originaria autorizzazione, ha escluso qualsiasi profilo di impatto ambientale negativo rappresentando che: “l’attività di cui trattasi non produce emissioni in atmosfera di sostanze inquinanti che possano arrecare danni all’ambiente circostante in quanto le emissioni delle polveri, COV, ammoniaca etc, indicate nelle allegate tabelle, prodotte dalle operazioni relative a sversamenti accidentali di rifiuti o al travaso di qualche tanica rotta vengono captate attraverso impianto mobile carrellato di aspirazione e depurazione dell’aria e non immesse in atmosfera”.

In secondo luogo, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente Comune, trattandosi di impianto preesistente rispetto alla normativa impositiva della sua sottoposizione a VIA, il Collegio non può esimersi dal rilevare che, in caso di stabilimenti preesistenti all'introduzione della disciplina ambientale, la soluzione della delocalizzazione non sarebbe stata percorribile dall’amministrazione regionale, ostandovi la teorica dei diritti quesiti e, in buona sostanza, il principio di affidamento (principio, questo, di rango euro-unitario), sicché il punto di equilibrio fra la tutela delle contrapposte situazioni in conflitto (prosecuzione dell'attività d'impresa - tutela ambientale) avrebbe dovuto essere necessariamente rinvenuto nell'individuazione delle migliori "soluzioni" disponibili per la mitigazione dell'impatto ambientale da parte dell'amministrazione procedente, le quali avrebbero dovuto essere doverosamente adottate dall'impresa per poter continuare lo svolgimento della sua attività produttiva.

La responsabilizzazione di entrambe le parti (la Regione, che deve farsi carico di indicare puntualmente le "soluzioni" da adottare; l'imprenditore, che deve adottarle per continuare lo svolgimento della sua attività in quella determinata area) costituisce lo strumento per contemperare le esigenze della produzione con le ragioni dell'ambiente.

In altri termini, nonostante il procedimento di VIA. miri ad individuare le "soluzioni più idonee" al perseguimento degli obiettivi di cui all'art. 4, commi 3 e 4, lettera b), la possibilità della c.d. "opzione zero" deve essere, in linea di principio, esclusa allorché il giudizio ambientale riguardi stabilimenti già in essere, per i quali s’impone la salvaguardia dell'attuale localizzazione, tentando, per quanto possibile, di renderla compatibile con l'ambiente circostante.

Non può, dunque, addivenirsi alla chiusura di uno stabilimento preesistente alla normativa ambientale, in spregio a quei principi ed a quelle regole di salvaguardia dei diritti quesiti cui rimandano i precedenti giurisprudenziali prima indicati, senza aver esplorato in modo compiuto e completo la possibilità di conformarlo alle migliori tecniche di utilizzo, compatibili con la normativa ambientale.

Ritiene, dunque, il Collegio che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente Comune, non potendosi contemplare la c.d. "opzione zero", l’Amministrazione e l’impresa debbano sempre necessariamente e lealmente collaborare per ricercare quella che rappresenti la soluzione maggiormente consentanea alla salvaguardia dei valori ambientali, ovverosia affinché si individui il massimo miglioramento ottenibile delle prestazioni ambientali dello stabilimento, vero e proprio "punto di equilibrio" affinché non emerga, in situazioni come quella in esame, un "diritto tiranno" (Corte cost., 23/03/2018, n. 58).

Da quanto precede discende l’infondatezza del primo mezzo di gravame.

3.- Parimenti privo di pregio è anche il secondo degli articolati mezzi di gravame con cui il ricorrente Comune ha revocato in dubbio la compatibilità dell’impianto autorizzato con le prescrizioni poste dal vigente PRG.

Orbene, l’infondatezza della censura emerge qualora si consideri che il Commissario Straordinario, con l’originario decreto autorizzativo n. 25/2002, aveva approvato il progetto realizzativo dell’impianto, ai sensi dell’art. 27 D.Lvo 22/97, in tal modo ascrivendo al provvedimento autorizzativo anche la portata effettuale di variante urbanistica semplificata.

È ben noto, difatti, che, ai sensi dell'art. 27, d.lg. 5 febbraio 1997 n. 22, la realizzazione di nuovi impianti di smaltimento o recupero di rifiuti, anche pericolosi, è demandata alla Regione cui spetta, tramite la persona del responsabile, esaminare il progetto definitivo dell'impianto ed acquisire la valutazione d'impatto ambientale, ove necessaria, e indire la conferenza dei servizi cui partecipano i responsabili degli uffici regionali competenti e i rappresentanti degli enti locali interessati; segue da ciò che l'approvazione regionale del progetto e l'autorizzazione alla realizzazione dell'impianto, una volta esaurita l'istruttoria tecnica ed espletata la conferenza dei servizi, sostituisce ogni altro provvedimento di competenza di organi regionali, provinciali e comunali e costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico comunale, oltre a comportare la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza e indifferibilità dei lavori (cfr.: Consiglio di Stato, sez. V, 28/11/2008, n. 5910).

In termini più esplicativi, il provvedimento conclusivo di approvazione del progetto e di autorizzazione alla realizzazione ed alla gestione degli impianti di raccolta e smaltimento rifiuti opera anche in funzione sostitutiva di visti, autorizzazioni e concessioni degli enti partecipanti, costituendo, all'occorrenza, variante allo strumento urbanistico e dichiarazione di pubblica utilità, urgenza e indifferibilità dei lavori, così da assorbire in via definitiva ogni specifica manifestazione di volontà decisoria degli altri soggetti istituzionali. Ne consegue che la localizzazione dell'impianto può essere autorizzata anche su un'area incompatibile secondo le previsioni dello strumento urbanistico, il quale, in tal caso, resta automaticamente variato in senso conforme alla destinazione dell'impianto autorizzato, senza necessità di attivare previamente la complessa procedura dello strumento urbanistico prevista dalla normativa di settore (cfr.: T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 01/04/2015, n. 1883).

4.- Analoga sorte compete alle restanti censure sollevate dal ricorrente Comune al fine di sostenere che dal carattere insalubre dell’impianto discendesse la sua illegittima localizzazione essendo collocato ad una distanza dai centri abitati limitrofi inferiore a quella prescritta.

In merito, rammenta il Collegio il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui il carattere insalubre dell'impianto industriale non costituisce di per sé solo motivo sufficiente per vietarne la localizzazione, l'adeguamento o il potenziamento, atteso che la classificazione delle lavorazioni insalubri ai sensi dell'art. 216, T.U. n. 1265 del 1934 non si pone come limite all'attività edilizia ma opera sul distinto versante della tutela sanitaria della popolazione ed implica non già un divieto assoluto di svolgere lavorazioni insalubri bensì la verifica delle condizioni indispensabili perché esse possano svolgersi senza pregiudizio per la salute pubblica. Ne discende che, nell'ambito della destinazione di un'area del territorio comunale deputata, in forza dell’operata variante semplificata, a ospitare impianti industriali o ad essi assimilati, non possono essere aprioristicamente inibite particolari tipologie di insediamenti produttivi, posto che una simile scelta non rientrerebbe nell'ambito della disciplina urbanistica ma concreterebbe esercizio, illegittimo, delle ben diverse funzioni di igiene pubblica da parte dell’ente comunale (cfr.: T.A.R. Veneto, sez. I, 01/10/2002, n.5931).

Pertanto, nel caso delle varianti limitate, ovvero ad oggetto specifico, non coerenti con la destinazione zonale presente nella pianificazione generale, non possono essere esclusivamente invocati i criteri posti alla base del PRG e desumibili dall'insieme dei principi sottesi allo strumento urbanistico generale onde giustificare la delocalizzazione di un impianto insalubre ai sensi dell'art. 216 r.d. n. 1265 del 1934, allorquando con l’adottata variante ad oggetto specifico ne era stata precedentemente consentita la permanenza in loco, essendo sempre necessaria la specifica indicazioni delle ragioni sottese a tali diverse scelte urbanistiche.

Ai sensi dell'art. 216 r.d. 27 luglio 1934 n. 1265, dunque, l'adozione di provvedimenti repressivi delle industrie insalubri presuppone l'accertamento in concreto di un'effettiva situazione di pericolo per la salute pubblica, in quanto l'installazione nell'abitato, o in prossimità di questo, di un'industria insalubre non è di per sé vietata in assoluto, ed è consentita in determinate circostanze ed in particolari condizioni, se accompagnata dall'introduzione di particolari metodi produttivi o cautele in grado di escludere qualsiasi rischio di compromissione della salute del vicinato (cfr.: T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 05/02/2013, n.145).

L'art. 216 r.d. 27 luglio 1934 n. 1265, in definitiva, mentre impone che le industrie insalubri di prima classe, cioè quelle produttive di vapori, gas o altre esalazioni insalubri e pericolose per la salute umana, siano isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni, non reca tuttavia alcuna prescrizione per quanto attiene alle distanze minime dalle abitazioni civili, il che consente che quelle eventualmente imposte dal piano regolatore possano essere derogate, qualora sia dimostrato che l'esercizio dell'attività non reca pregiudizi alla salute del vicinato (cfr.: Consiglio di Stato, sez. V, 04/09/2013, n. 4409; Consiglio di Stato, sez. V, 07/04/2004, n. 1964).

Applicando i menzionati principi all’odierna fattispecie, osserva il Collegio come la preventiva partecipazione dell’ente comunale alla conferenza dei servizi che aveva adottato la contestata autorizzazione, elideva la necessità della successiva comunicazione al Sindaco in ordine alla prosecuzione dell’attività svolta dall’impianto.

Inoltre, il concesso rinnovo era stato disposto dall’ente regionale svolgendo la preventiva necessaria verifica, come sopra precisato, in ordine all’assenza di immissioni in atmosfera, possibili fonti di pregiudizio per l’ambiente e la salute dei cittadini.

Anche tale motivo di gravame, pertanto, non coglie nel segno, con la conseguenza che, resistendo il provvedimento impugnato a tutte le sollevate censure, l’impugnazione si è rivelata del tutto infondata e, in quanto tale, deve essere respinta.

7.- Quanto alle spese di giudizio, il carattere sensibile degli interessi coinvolti dalla vicenda in contesa, nonché la non agevole ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, inducono a disporne l’integrale compensazione tra tutte le parti costituite, con la sola eccezione, stante l’esito del giudizio, del contributo unificato, che resta a carico dell’amministrazione ricorrente.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania – Napoli (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge;

spese compensate, ad eccezione del contributo unificato, nella misura versata, che resta a carico del Comune di Marigliano.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Napoli nella camera di consiglio, riunita mediante collegamento da remoto ai sensi del comma 6, art. 84, DL. 18/2020, del giorno 23 giugno 2020 con l'intervento dei magistrati:

Maria Abbruzzese, Presidente

Diana Caminiti, Consigliere

Fabio Maffei, Referendario, Estensore