In
questi ultimi anni, il legislatore è intervenuto frequentemente e in termini
sempre più puntuali e attenti in campo ambientale (si pensi, tra gli altri, al
D.Lgs. 4 agosto 1999 n.372, sulla prevenzione e riduzione integrata
dell'inquinamento e al D.Lgs. 11 maggio 1999, n.152, sulla tutela delle acque
dall'inquinamento, recentemente modificato con il D.Lgs. 18 agosto 2000, n.258).
In
particolare, in materia di incendi boschivi, si è assistito, in un primo
momento, ad un approccio emergenziale, quale immediata reazione ai numerosi e
catastrofici incendi che si sono verificati puntualmente nelle precedenti
stagioni estive e con maggiore veemenza in quest'ultima. Ciò ha dato vita al
D.L. 4 agosto 2000, n.220 (pubbl. in G.U. del 7 agosto 2000 n.183), che ha
determinato l'inasprimento e la creazione di nuove fattispecie penali, quale
primo strumento diretto a porre un freno alla spinta criminosa sottostante il
verificarsi di tali tragici eventi. Pur tuttavia, a tal uopo, è doveroso
sottolineare che nell'ottica di un sistema garantista e ispirato al principio di
legalità, quale è il nostro, l'utilizzazione di una legislazione emergenziale
e d'urgenza, in campo penale, è univocamente respinta dalla dottrina e dalla
giurisprudenza costituzionale, anche per l'insufficienza di risultati positivi
concreti, nel caso di specie.
Sebbene,
il Decreto Legge in questione, nonostante la pausa estiva, sia stato prontamente
convertito in legge, (L. 6 ottobre 2000, n.275, con modificazioni, pubbl. in
G.U. del 7 ottobre 2000 n.235), il legislatore, probabilmente stimolato dal
clima di insoddisfazione sorto fra gli operatori del settore, ha mutato
approccio, dando vita ad un provvedimento legislativo, quale la L. 21 novembre
2000, n.353 (pubbl. in G.U. del 30 novembre 2000, n.280), infinitamente più
esaustivo e inteso a creare una serie di strumenti legislativi finalizzati ad
assicurare una tutela preventiva ad ampio raggio con il coinvolgimento di più
soggetti istituzionali operanti sia a livello statale che a livello locale.
Se,
infatti, i precedenti provvedimenti legislativi si sono limitati ad intervenire
in ambito penale, quest'ultima legge, sostituendosi in
toto agli stessi, coordina e determina in ambito amministrativo le
competenze e i poteri d'intervento, da un lato, degli organi
dell'amministrazione statale, identificati, in
primis, nel Ministro delegato per il coordinamento della protezione civile e
nell'Agenzia di protezione civile, e, dall'altro, degli enti territoriali,
principalmente della Regione.
La
Regione, in particolar modo, ai sensi dell'art.3 commi 1 e 2, deve emanare un
piano regionale per la programmazione delle attività di previsione, prevenzione
e lotta attiva contro gli incendi boschivi, non oltre centocinquanta giorni
dalla deliberazione delle linee guida e delle direttive "deliberate,
entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, dal
Consiglio dei Ministri". Tale piano regionale, secondo i criteri
delineati dall'art.3 comma 3, concerne un ampio ambito di attività di
monitoraggio, di prevenzione e di previsione degli incendi boschivi (art.3 comma
3 lett. g) ), nonché, tra l'altro,
l'individuazione di aree precorse dal fuoco nell'anno precedente (art.3 comma 3
lett. b) ) e di aree a rischio
d'incendio boschivo (art.3 comma 3 lett. c)
). Meritevole di nota è la disposizione di cui alla lett. l)
del medesimo articolo, che
attribuisce alla Regione la facoltà di prevedere interventi sostitutivi del
proprietario inadempiente nell'attività di pulizia e manutenzione delle aree a
più elevato rischio; d'altro canto, sempre per lo svolgimento di tali attività,
l'art.4 comma 3 dispone la possibilità di concedere contributi ai titolari di
aree boscate, con ciò determinando
una notevole intromissione dello Stato nella sfera proprietaria, per finalità
di prevenzione e tutela del patrimonio ambientale.
L'inadempienza
della Regione a tale obbligo, giustifica un intervento sostitutivo del Ministro
delegato per il coordinamento della protezione civile, il quale "predispone
le attività di emergenza per lo spegnimento degli incendi boschivi" ex
art.3 comma 4.
Il
piano regionale suddetto, si pone come strumento giuridico che opera a
monte, dal quale dipende l'operatività di una serie di attività che si
pongono a valle e che sono ad esso
strettamente connessi.
Esse
sono individuate, da un lato, nelle attività formative e informative di cui
agli artt.5 e 6, dall'altro, negli interventi di cui all'art.7, intitolato
significativamente "Lotta attiva
contro gli incendi boschivi".
Le
prime sono dirette ad incentivare la crescita e lo sviluppo di una effettiva
educazione ambientale in ambito
scolastico, anche attraverso "l'organizzazione
di corsi di carattere tecnico-pratico rivolti alla preparazione di soggetti per
le attività previsione, prevenzione degli incendi boschivi e lotta attiva ai
medesimi", e a promuovere una informazione ad ampio raggio rivolta alla
popolazione sulle cause che producono l'innesco
di un incendio e le condotte da tenere in
situazioni di pericolo. Il secondo tipo di interventi consiste in una serie
ampia e articolata di strumenti tecnici volti a contrastare attivamente il
verificarsi di episodi di incendio boschivo, con il coinvolgimento coordinato di
mezzi e strutture appartenenti allo Stato e alla Regione. Tra l'altro, è
doveroso segnalare la possibilità, da parte della Regione, di avvalersi di
personale appartenente ad organizzazioni di volontariato, adeguatamente formato
e fisicamente idoneo, ai sensi dell'art.7 comma 3 lett.b).
Questa facoltà rappresenta un riconoscimento altamente significativo
dell'attività svolta da tempo dalle associazioni ecologiste, nel campo della
prevenzione e del monitoraggio, e dell'apporto concreto ed efficace che tali
organizzazioni, quali espressioni della sensibilità e della partecipazione
della società civile, danno e possono dare in tale ambito.
In
termini applicativi, il perno su cui ruota l'intera legge è rappresentato dalla
definizione di incendio boschivo, delineata dall'art.2, il quale stabilisce che "per
incendio boschivo si intende un fuoco con suscettività a espandersi su aree
boscate, cespugliate o arborate, comprese eventuali strutture e infrastrutture
antropizzate poste all'interno delle predette aree, oppure su terreni coltivati
o incolti e pascoli limitrofi a dette aree". Il legislatore sembra
optare per una nozione ampia che si discosta dalle formulazioni adottate dalla
giurisprudenza precedente per quanto concerne la fattispecie incriminatrice
speciale di cui all'art.423 c.p. La giurisprudenza, infatti, tendeva ad
identificare l'incendio in quei fenomeni di ingenti proporzioni con particolare
forza distruttiva, tali da porre in pericolo l'incolumità di un numero
indefinito di persone[1].
A tal proposito, occorre rilevare che tale diversa e più estesa definizione,
adottata dal legislatore, si giustifica per assicurare un tipo di tutela più
adeguata al bene che è diretta a proteggere. Infatti, il novello art.423 bis
c.p., che sanziona penalmente "chiunque
cagioni un incendio su boschi selve
o foreste ovvero su vivai forestali destinati al rimboschimento propri o
altrui", si pone in rapporto di specialità rispetto all'art.423 c.p.
Tale fattispecie penale, sebbene sia inserita nel titolo VI dedicato ai delitti
contro l'incolumità pubblica, e, in particolare, al capo I relativo ai delitti
di comune pericolo mediante violenza, ad una più attenta lettura, individua,
quale principale bene giuridico oggetto di tutela penale, il bene ambientale,
comprendente i boschi, le selve e le foreste in generale, e, solo
secondariamente, protegge l'incolumità pubblica per i pericoli derivanti da
tali fenomeni distruttivi.
Da
ciò ne consegue che, mentre l'incendio, ai sensi dell'art.423 c.p. assume
rilievo penale nell'ottica della minaccia che può derivarne alla pubblica
incolumità, per la sussistenza del reato di cui all'art.423 bis c.p. si
prescinde da tale parametro, essendo la norma diretta a tutelare, innanzitutto,
il patrimonio forestale della Nazione e, di riflesso, l'incolumità pubblica.
Tale interpretazione viene confermata dalla irrilevanza della titolarità della
cosa incendiata nella nuova fattispecie penale. Diversamente, nell'incendio
doloso di cosa propria, ai sensi dell'art.423 comma 2, per superare la soglia
della punibilità è necessario accertare che dal fatto sia derivato un pericolo
concreto per la incolumità pubblica, giustificando, in tal modo, la
responsabilità penale per una condotta che, altrimenti, determinerebbe una
ipotesi di esercizio legittimo del diritto di proprietà, ex art.51 c.p. Il
legislatore ha inteso, quindi, elevare la soglia della punibilità configurando
l'art.423 bis c.p. come una ipotesi di reato di pericolo presunto a prescindere
dalla appartenenza della cosa incendiata, e parificandolo, in tal senso, alla
fattispecie di cui al primo comma dell'art.423 c.p., che, invece, riguarda
esclusivamente l'incendio doloso di cosa non propria. D'altro canto, ha voluto
rafforzare la tutela del bene ambientale, che, in tale ottica, dev'essere
protetto al di là dalla sua appartenenza o meno ad un soggetto, in quanto la
sua lesione provoca un danno alla collettività in generale.
Questo
è, a mio parere, un ulteriore segno della volontà legislativa di scalfire la
tradizionale concezione del diritto di proprietà, quale signoria assoluta sul
bene, che deve ormai cedere di fronte all'importanza di gran lunga maggiore di
particolari interessi collettivi.
L'aspetto
più innovativo di tale normativa è sicuramente da ravvisarsi nelle
disposizioni normative inserite nell'art.10 che stabiliscono una serie di
vincoli di destinazione concernenti le zone boschive e i pascoli "i
cui soprassuoli abbiano subito un incendio". Innanzitutto, tali zone
devono mantenere la destinazione che essi avevano prima dell'incendio per almeno
quindici anni. Il vincolo in questione dev'essere richiamato, a pena di nullità,
in tutti gli atti di compravendita di aree e immobili situati nelle zone
suddette. Inoltre, viene fatto divieto, da un lato, di realizzare qualsiasi tipo
di costruzione finalizzato ad
insediamenti civili e attività produttive, salvo sia stata rilasciata prima
dell'incendio la relativa autorizzazione o concessione, e, dall'altro, di
praticare, "limitatamente ai
soprassuolo delle zone boscate percorsi dal fuoco", il
pascolo e la caccia.
La
ratio di tale disposizione è meritevole di particolare attenzione, in quanto ha
lo scopo di contrastare quel diffuso malcostume, che è poi il movente
principale della maggiorparte degli incendi dolosi che si verificano in Italia,
consistente nel sottrarre al patrimonio forestale sempre più vaste aree per
destinarle ad attività costruttive o ad attività di pascolo. Infatti,
normalmente, una volta verificatosi l'incendio e distrutto il bosco o la foresta
che ricopriva il suolo, la zona diventava facile preda di quanti avevano
l'intenzione di realizzare fabbricati e costruzioni di varia natura o svolgere
attività di pascolo, poiché decadevano gli eventuali vincoli posti a
salvaguardia delle stesse.
I
divieti sopra esposti dovrebbero costituire un efficace deterrente a tali tipi
di condotte illecite. L'operatività della disposizione in questione è
subordinata alla realizzazione di un apposito catasto da parte dei Comuni, i
quali, entro novanta giorni dalla data di approvazione del piano regionale, "devono
censire i soprassuoli già percorsi dal fuoco nell'ultimo quinquennio"
ai sensi dell'art.10 comma 2.
La
legge, inoltre, è affiancata da una serie di sanzioni amministrative, in caso
di violazioni dei divieti sopra analizzati, le quali, per alcune ipotesi,
risultano essere inadeguate e insufficienti per svolgere una qualche funzione
deterrente.
Infine,
a corredo di tali misure sanzionatorie, il comma 8 dell'art.10 prevede il
diritto al risarcimento del danno ambientale, rinviando all'art.18 della L. 8
luglio 1986, n.349. A tal uopo, questa disposizione normativa introduce dei
significativi criteri di quantificazione del danno, infatti, nell'ambito di tale
valutazione, il giudice deve tener conto "dell'ammontare
delle spese sostenute per la lotta attiva e la stima dei danni al soprassuolo e
al suolo".
Il
legislatore interviene nuovamente sulla questione controversa del danno
ambientale, con la volontà di ovviare a quelle lacune che sono state causa,
fino ad oggi, di una marginale applicazione di tale figura di illecito civile[2].
Ciò deriva dal fatto che il bene ambientale è un tipo di bene non suscettibile
di valutazione economica, in termini di mercato. Già con la legge n.349/86 si
tentò di individuare una serie di criteri che il giudice deve tener presente
per la liquidazione equitativa del danno, quali:
a)
la gravità della colpa individuale;
b)
il costo necessario per il ripristino;
c)
il profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo
comportamento lesivo.
Tali
parametri, fin dall'inizio, sono stati considerati, da dottrina e
giurisprudenza, di difficile ed incerta applicazione, oltre che indici della
natura sanzionatoria e non soltanto riparatoria del risarcimento. In seguito,
con l'art.58 del D.Lgs. n.152/99, nell'ambito della materia disciplinata da tale
provvedimento legislativo, si
introdusse una vera e propria ipotesi di quantificazione del danno
predeterminata per legge, che opererebbe nel caso in cui fosse impossibile
stimare in maniera precisa il danno, salvo prova contraria, individuando quale
entità minima del risarcimento la somma relativa alla sanzione pecuniaria
amministrativa o alla sanzione penale concretamente applicata.
Per
quanto concerne tale ipotesi, vengono mossi i medesimi rilievi critici sopra
rilevati, secondo cui tali previsioni determinano un ulteriore allontanamento
dell'illecito ambientale dalla sfera della responsabilità extracontrattuale, ai
sensi dell'art.2043 c.c., per avvicinarla a finalità più spiccatamente
sanzionatorie.
Una
inversione di tendenza sembra si possa ravvisare, a mia modesto avviso, in
quest'ultima disposizione coniata dal legislatore, in quanto il riferimento
espresso alle spese sostenute per la
lotta attiva e alla stima dei danni al soprassuolo e al suolo, implicano un
reinquadramento di tale figura di illecito nello schema risarcitorio prefigurato
dall'art.2043 c.c., il quale prevede una quantificazione del danno rapportata ai
pregiudizi in concreto subiti.
Si
auspica, quindi, che questo ulteriore intervento legislativo possa stimolare
l'applicazione concreta di tale fattispecie di responsabilità civile che,
tuttora, a causa delle numerose controversie e incertezze riscontrate in ambito
operativo, stenta a decollare.
[1] Si veda Cass. pen. sez. I, sent. 2 maggio 1995, n.1802; Cass. pen. sez. IV, sent. 20 febbraio 1989, n.2805.
[2] Mi permetto di rinviare, per quanto concerne l'analisi dell'intera tematica relativa al danno ambientale, all'inquadramento del problema da parte della dottrina e della giurisprudenza e alla configurazione di tale illecito civile nella legislazione recente, allo scritto da me redatto in collaborazione con il dott. G. Cassano, Il danno ambientale, IPSOA, 2000.