Il potere ministeriale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica comunale nella nuova interpretazione data dal Consiglio di Stato

di Federico MAURI

 

Premessa normativa

La disciplina delle autorizzazioni paesaggistiche è stata riformata con il d. lgs. 42/2004 (cd. Codice dei beni culturali e del paesaggio) ed è il frutto di un lungo periodo di transizione.

Fino al 31.12.2009 infatti è rimasta in vigore la disciplina transitoria prevista dall’art. 159 del Codice. A partire dal 1.1.2010 è subentrata invece la nuova procedura di cui all’art. 146.

Le differenze fra i due regimi normativi sono le seguenti.

La vecchia disciplina attribuiva il potere autorizzativo alle Regioni che peraltro potevano a loro volta delegare detta funzione agli enti locali. Una volta ricevuta la richiesta da parte del diretto interessato, la Regione valutava la compatibilità dell’opera da eseguirsi con le prescrizioni in materia di tutela paesistica ed emetteva il relativo provvedimento entro 60 giorni dalla richiesta. Successivamente, comunicava detta attività al Sovrintendente e a questi trasmetteva i relativi atti; il Sovrintendente, entro 60 giorni dal ricevimento della documentazione, poteva emettere parere negativo ed annullare l’autorizzazione già concessa in sede regionale. Qualora il Sovrintendente fosse rimasto inerte, il suo silenzio era qualificato come assenso al rilascio dell’autorizzazione.

Il fatto che la stessa venisse concessa già dalla Regione, fatto salvo l’eventuale annullamento da parte dell’organo ministeriale, che il Sovrintendente si pronunciasse solo in ipotesi negative, ovvero in caso di diniego della compatibilità paesistica, e che il suo silenzio rilevava come silenzio assenso, era, assieme ad alcune lacune sulla tempistica e sui termini da rispettare, fonte di notevole incertezza. Le successive pronunce giurisprudenziali hanno solo in parte chiarito questi dubbi interpretativi.

La nuova disciplina ha il merito di aver risolto tutte le problematiche sopraelencate.

Il potere autorizzativo è sempre in capo alle Regioni, fatto salvo il potere di delega. Una volta ricevuta la richiesta e valutata l’eventuale compatibilità paesaggistica, la Regione ha quaranta giorni di tempo per trasmettere gli atti al Sovrintendente il quale è tenuto ad emettere parere vincolante nel termine di quarantacinque giorni dal ricevimento dei medesimi. Entro venti giorni da detto parere, la Regione rilascia l’autorizzazione o comunica il preavviso di provvedimento negativo ex art. 10 bis l. 241/1990. Qualora la Soprintendenza rimanga inadempiente, la Regione convoca una conferenza di servizi cui il Sovrintendente è tenuto a partecipare o, per lo meno, a rilasciare un parere scritto in merito. In caso di una sua ulteriore inerzia, la Regione provvede a rilasciare l’autorizzazione in via sostitutiva, anche mediante la nomina di un commissario ad acta.

Possiamo quindi notare come la nuova disciplina della materia sia intervenuta sui numerosi problemi inerenti la normativa precedente:

  • i tempi procedimentali vengono sensibilmente accorciati (40 e 45 giorni anziché 60 e 60);

  • viene fatta chiarezza sui termini dello stesso procedimento;

  • l’autorizzazione viene rilasciata non in via preventiva bensì solo dopo aver ricevuto il parere della Sovrintendenza;

  • vengono eliminati i numerosi dubbi circa l’eventuale silenzio del Sovrintendente che è ora obbligato a rilasciare il parere.

Particolarmente dibattuto è stato poi il potere di annullamento dell’autorizzazione paesistica che l’art. 149 co. 3 riconosceva al Sovrintendente. In particolar modo si discuteva su quali fossero i limiti fino ai quali detto controllo poteva spingersi, se si trattava di una mera analisi della legittimità dell’atto emesso in sede regionale o di un vero e proprio riesame nel merito dell’intervento edilizio.

Una recente pronuncia del Consiglio di Stato ha chiarito questi dubbi.

Con la sentenza n. 2411 del 6.5.2013 i giudici di Palazzo Spada hanno stabilito i limiti del sindacato della Soprintendenza. L’ambito di intervento dell’organo ministeriale è limitato alla sola legittimità dell’autorizzazione paesaggistica, non potendo addentrarsi nell’esaminare nel merito il provvedimento di base. Tuttavia, rientrando nel sindacato di legittimità anche il profilo dell’eccesso di potere per vizio di motivazione, la Soprintendenza deve comunque vagliare, in relazione alla fattispecie concreta, la congruenza del giudizio di compatibilità paesaggistica dell’intervento da eseguirsi.

 

 

Il caso di specie

Simili criteri erano stati elencati solo poco tempo prima, sempre dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 1876 del 5.4.2013, Sez. VI.

Il caso di specie era riferito ad una richiesta di sanatoria presentata ai sensi dell’art. 39 della legge n. 724/1994 e relativa ad un manufatto in struttura prefabbricata ad uso autorimessa di circa 40 mq, realizzato, in assenza di permesso di costruire, in un’area di proprietà classificata agricola e soggetta a vincolo paesaggistico - ambientale, in località Belvedere, Vocabolo Sasso del Comune di Città di Castello (PG).

Su parere favorevole espresso dalla Commissione edilizia integrata (cd. C.e.i.), il Comune aveva emesso l’autorizzazione paesaggistica in data 7.1.1999. Con decreto dell’11.3.1999 la Soprintendenza per i beni ambientali dell’Umbria aveva annullato tale autorizzazione e di conseguenza il Comune aveva negato con provvedimento del 7.4.1999 il condono e, nella stessa data, emesso l’ordinanza di demolizione.

Il ricorrente successivamente impugnava il provvedimento della Soprintendenza e, per derivazione, i provvedimenti comunali ad essa collegati con ricorso proposto avanti il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria, lamentando l’illegittimità dei medesimi. Con la sentenza n. 304 del 23.7.2008, oggetto del presente appello, il Tar adito respingeva detto ricorso.

Il giudice di primo grado riteneva che, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, la Soprintendenza di Perugia non aveva travalicato i limiti del potere di controllo di legittimità ad essa spettante in materia, ma aveva bensì evidenziato un’insufficienza di motivazione del provvedimento oggetto di verifica, indicando in particolare, come ulteriore conferma dell’inadeguatezza della motivazione, che le condizioni imposte dal Comune non erano idonee a giustificare la compatibilità paesaggistica, stante le dimensioni del manufatto, i materiali usati per la costruzione e la sua collocazione in posizione isolata su terreni a prevalente destinazione agricola e visibile anche da lunghe distanze.

L’appellante chiedeva la riforma della sentenza oggetto di gravame, sostenendo che essa si basasse su un’applicazione non corretta dei principi regolatori della materia e che non rappresentasse in modo corretto lo stato di fatto.

Per la precisione, la parte sosteneva che il provvedimento ministeriale non si limitava ad un semplice controllo della legittimità degli atti impugnati, bensì integrava una vera e propria valutazione di merito differente da quella svolta dal Comune: in particolar modo, la Sovrintendenza, analizzando gli aspetti concreti della fattispecie esaminata, avrebbe erroneamente qualificato il vincolo di inedificabilità come tendenzialmente assoluto.

Conseguenza di quanto sopra esposto è stata l’erronea lettura data dal Tar dell’Umbria al principio giurisprudenziale che vieta alla Sovrintendenza, nell’esercizio del potere di annullamento delle autorizzazioni paesistiche ex art. 159 del Codice, un nuovo riesame nel merito della situazione di fatto. In particolar modo i giudici di primo grado avrebbero dato un’interpretazione eccessivamente formale a detto principio e, in aggiunta a ciò, non avrebbero esaminato gli aspetti concreti della vicenda che erano alla base dell’annullamento disposto dalla Soprintendenza, in tal modo aggirando i limiti posti dalla giurisprudenza al sindacato statale.

L’appello è stato considerato infondato.

La tesi sostenuta dalla parte si fondava su questa considerazione.

Il decreto di annullamento impugnato avrebbe apparentemente contestato la sussistenza di un vizio di legittimità circa la motivazione dell’autorizzazione rilasciata, ma in realtà avrebbe di fatto espresso una pura valutazione di merito dissonante rispetto a quella del Comune, cui tale giudizio è attribuito ex lege. Nello specifico non sussisterebbe detto vizio di motivazione, diversamente da quanto ritenuto dal Tar, poiché, a ben vedere, la motivazione ritenuta mancante sarebbe racchiusa nelle prescrizioni cui la Commissione edilizia integrata ha subordinato il proprio parere favorevole.

Partendo dal presupposto che la funzione propria della motivazione del provvedimento amministrativo è unicamente quella di rendere conoscibile l’iter logico-giuridico seguito dell’amministrazione nell’emanazione dell’atto, secondo l’appellante tali condizioni sarebbero state in concreto idonee a giustificare la valutazione positiva di compatibilità paesistica, considerato che lo stesso decreto di vincolo (d.m. 6 maggio 1968) era motivato con argomenti generici, che si trattava di vincolo relativo, e dunque non implicante un divieto assoluto di edificabilità, e che il manufatto era di dimensioni modeste.

L’appellante dunque sosteneva che la motivazione del provvedimento impugnato fosse adeguata da un punto di vista “quanto meno sostanziale” e che dunque la sentenza del Tar dell’Umbria sarebbe stata eccessivamente rigorosa e formale nella misura in cui aveva rilevato che il Comune non aveva esplicitato in positivo le ragioni della ritenuta compatibilità.

Dette argomentazioni sono poi risultate infondate, in quanto il verbale della Commissione edilizia integrata si limitava all’espressione di parere favorevole subordinatamente alla tinteggiatura del manufatto nelle tonalità del giallo composto con il bianco e degli infissi con colore opaco e non riflettente, ed alla messa a dimora di alberature schermanti nelle essenze autoctone in numero di almeno dieci esemplari. Come è facile intuire, si tratta di una motivazione generica e meramente assertiva della compatibilità dell’opera rispetto al contesto ambientale, senza che vengano spiegate le specifiche ragioni per cui dette condizioni sono state ritenute adeguate a garantire l’interesse tutelato dal vincolo.

Pertanto l’opinione del giudice di primo grado, secondo cui la Soprintendenza aveva colto un reale vizio di legittimità inerente un difetto di motivazione del parere paesaggistico favorevole tale da giustificarne l’annullamento, è stata avallata dal Consiglio di Stato.

Ed è vero, come osservato dall’appellante, che tali argomentazioni non sono riferite al provvedimento in sè bensì agli aspetti concreti della fattispecie esaminata. Tuttavia, ciò non consente di scovare una presunta illegittimità del suddetto annullamento. Anzi, è proprio dall’analisi del caso concreto che, secondo il Consiglio di Stato, bisogna partire per verificare l’illegittimità dell’autorizzazione e l’ampiezza del vizio di motivazione, dal momento che in quest’analisi vengono evidenziati i parametri cui la valutazione di compatibilità doveva attenersi e che non sono stati valutati dal Comune quali, per l’appunto, le concrete e specifiche caratteristiche sia del manufatto abusivo sia del relativo contesto ambientale e la ricerca di un contemperamento di questi due interessi.

Perciò quando l’autorità statale, ai sensi dell’art. 159 co. 2 del Codice, esercita i poteri di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune, l’atto di annullamento si può limitare a constatare il difetto di motivazione della medesima autorizzazione, ma nulla osta che la Soprintendenza si soffermi sulle esigenze sostanziali di tutela dell’area, per rimarcare ancor più la necessità di una adeguata motivazione dell’autorizzazione anche in relazione ad alcuni specifici aspetti concernenti lo stato dei luoghi.

Corollario di quanto sopra esplicato è il seguente. Nell’esercizio dei poteri di annullamento predetti, il Ministero non può effettuare un secondo esame nel merito della vicenda, in contrasto con quello effettuato prima facie dall’ente competente a rilasciare l’autorizzazione; ciò non toglie, tuttavia, che il controllo della legittimità ed opportunità del provvedimento non possa basarsi anche su elementi tratti dall’osservazione della fattispecie concreta.

Alla luce delle ragioni sopra elencate, l’appello è stato respinto.