I reati connessi al traffico di rifiuti: truffe per i contributi – il reato di cui all’art. 452 septies – la fattispecie di cui all’art. 452 bis del c.p.
di Giuseppe DE NOZZA

Relazione tenuta in occasione del Corso della Scuola Superiore della magistratura “Gli strumenti del diritto e del processo penale per il contrasto al traffico illecito di rifiuti” Roma 10 – 12 novembre del 2021.

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1)Il delitto di cui all’art. 452 septies del c.p.: “La tutela penale delle funzioni di controllo e di vigilanza in materia ambientale (ed in materia di igiene e di sicurezza sul lavoro)” p. 1

Il rapporto tra il delitto di traffico illecito di rifiuti e quello d’impedimento del controllo: un’ipotesi di connessione teleologica p. 1 - L’evoluzione dei contorni della fattispecie nel progredire dei lavori preparatori p. 3 - Il perimetro oggettivo di applicazione della fattispecie p. 6 - Il perimetro soggettivo di applicazione della fattispecie p. 7 - Gli ambiti di potenziale applicazione in concreto del delitto p. 8 - Gli ambiti ulteriori di potenziale applicazione in concreto del delitto d’impedimento del controllo in seno al Testo unico dell’Ambiente e nella legislazione di settore p. 13 - La confisca ed il delitto di impedimento del controllo p. 14 - La tipizzazione delle condotte di rilevanza penale ai sensi dell’art. 452 septies p. 15.

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2)Il delitto d’inquinamento ambientale p. 15

Il rapporto tra il delitto di traffico illecito di rifiuti e quello d’inquinamento ambientale: un’ipotesi di connessione da concorso formale o da continuazione dei reati p. 16 - La definizione di matrice ambientale e di inquinamento o di contaminazione potenziale ed in atto p. 17 - La definizione di ecosistema quale ulteriore oggetto della tutela penale del delitto di inquinamento ambientale p. 19 - L’inquinamento “mero” della matrice ambientale o dell’ecosistema – il limite inferiore del sistema di tutela introdotto dall’art. 452 bis del c.p. (il caso esaminato dalla sentenza della Sez. III della Corte di Cassazione, n. 50018 del 6.11.2018) p. 21 - I presupposti di applicazione del reato di cui all’art. 257 del TUA p. 24 - L’ inquinamento significativo e misurabile della matrice ambientale o dell’ecosistema (il caso esaminato dalla Corte di Cassazione, Sez. III, 30 gennaio 2020, n. 9736) p. 26 - L’alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema – il limite superiore del sistema di tutela introdotto con l’art. 452 bis del c.p. p. 28 - L’abusività della condotta di inquinamento p. 30- L’elemento psicologico del delitto d’inquinamento ambientale – la rilevanza anche del dolo eventuale (il caso esaminato da Cass. Pen., Sez. III, n. 26007 del 5.4.2019) p. 34 - Gli strumenti dell’accertamento del delitto d’inquinamento ambientale – la necessità di acquisire tempestivamente il contributo di una scienza autorevole p. 35 - Il delitto di morte o di lesioni come conseguenza non voluta del delitto d’inquinamento ambientale p. 39 - Il reato previsto dall’art. 452 bis del c.p. e la responsabilità amministrativa degli enti e delle società p. 41 - La confisca ed il delitto di inquinamento ambientale p. 43.

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3)Il rapporto tra il delitto di traffico illecito di rifiuti e quello di truffa o di appropriazione indebita in danno del CONAI – ancora una volta un caso di probabile connessione teleologica p. 43

La struttura del contributo ambientale CONAI p. 44 - La funzione del contributo CONAI p. 47 - Descrizione sintetica del ciclo di gestione dell’imballaggio in plastica gestito dal Corepla p. 50 – La truffa e l’appropriazione indebita in danno del Conai p. 52.

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4) Gli illeciti in tema di garanzie finanziarie prestate per la gestione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti – la relazione del 14 gennaio del 2021 della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti p. 56.

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5)La connessione tra il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies e gli altri reati e le conseguenze sull’individuazione del giudice competente per territorio p. 61.

1)Il delitto di cui all’art. 452 septies del c.p.: “La tutela penale delle funzioni di controllo e di vigilanza in materia ambientale (ed in materia di igiene e di sicurezza sul lavoro)”.

Il rapporto tra il delitto di traffico illecito di rifiuti e quello d’impedimento del controllo: un’ipotesi di connessione teleologica.

Il tema della connessione tra il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti e quello di impedimento del controllo di cui all’art. 452 septies involge una casistica così ricca e variegata da non consentire ex ante rigide classificazioni e tipizzazioni ma, con ogni probabilità e senza minimamente voler coltivare pretese di esaustività, la relazione di connessione che è più ragionevole immaginare nel concreto è quella prevista dall’art. 12 del c.p.p., lett. c), seconda ipotesi e, cioè, quella teleologica.

Si può immaginare, infatti, che si possa addivenire alla determinazione d’impedire lo svolgimento del controllo proprio al fine di occultare una pregressa attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti.

Non è immaginabile un contrasto efficace al complesso fenomeno del traffico illecito senza un efficace esercizio della funzione di controllo e di vigilanza ambientale ma, soprattutto, senza un serio ed efficace presidio a tutela del suo esercizio.

La funzione di controllo è un cardine dell’architettura del Testo unico ambientale, che ha disegnato il rapporto tra l’attività antropica e l’ambiente prevedendo la necessità del rilascio di un’autorizzazione e del controllo sull’osservanza dei contenuti dell’autorizzazione medesima e, più in generale, di quel complesso microcosmo normativo costituito dai precetti a tutela dell’ambiente.

La tutela della funzione di controllo preesisteva all’entrata in vigore della Legge 22 maggio 2015, n. 68, così come preesisteva la tutela del suo esercizio, seppur si trattasse della tutela generale predisposta dagli artt. 336 e 337 del c.p. e di quella avente carattere di specialità prevista dall’art. 137, comma 8, del TUA, in tema di controllo sugli scarichi.

Da un lato, un presidio di tutela avente le forme del delitto ma destinato ad esplicare la sua efficacia solo in presenza di un turbamento all’esercizio della funzione di controllo portato con violenza o con minaccia o con entrambe.

Dall’altro, uno costruito con la forma del reato contravvenzionale, punito con la pena dell’arresto fino a due anni, e destinato ad esplicare la sua efficacia solo in relazione all’esercizio della funzione di controllo sugli scarichi.

Con l’inevitabile materializzarsi di ampi vuoti di tutela in relazione a quei casi nei quali il turbamento alla funzione di controllo fosse stato portato non con la violenza o con la minaccia ma, ad esempio, con la frode, come nel caso in cui si fosse compromesso l’esercizio della funzione di controllo mutando artificiosamente, poco prima del suo avvio, lo stato dei luoghi.

All’esigenza di colmare questo vuoto di tutela ha obbedito l’introduzione del delitto d’impedimento del controllo, che può considerarsi presidio di tutela forte e di portata generale in una duplice direzione. 1

Forte perché tale presidio è stato configurato con le forme del delitto, punito con la reclusione da sei mesi a tre anni, e, quindi, con forme più solide di quelle di cui ha fatto uso il legislatore del TUA allorquando ha introdotto il comma 8 dell’art. 137.

Generale in una duplice direzione, perché si è colmato il vuoto di tutela in relazione alla condotta d’impedimento posta in essere con la frode e perché, con l’introduzione dell’art. 452 septies, ad essere presidiato dalla sanzione penale è l’esercizio di qualsivoglia funzione di controllo e di vigilanza ambientale, svolta da qualunque soggetto titolato per Legge ad esercitarla ed in qualunque ambito di materia, quindi, ben oltre il confine della materia degli scarichi.

Il minor carico di offesa all’interesse protetto - che il Legislatore del Codice penale di regola correla alla condotta di frode rispetto a quella di violenza o di minaccia - ha con ogni probabilità determinato la previsione di una cornice edittale meno grave di quella prevista per le fattispecie di violenza o minaccia e di resistenza ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio.

Altro tema è costituito dall’ampiezza del ventaglio degli strumenti dell’investigazione preliminare utilizzabili per accertare l’avvenuta commissione del reato e dall’ampiezza delle misure di cautela eventualmente richiedibili, ampiezza sulla quale, ovviamente, incide una cornice edittale che non consentirà l’uso di tutti gli strumenti dell’investigazione e la messa in campo di tutte le misure di cautela personale.

Ma la riflessione su tale tema nulla toglie ad una scelta del Legislatore che rimane strategica.

La nuova incriminazione è il prodotto di una consapevolezza forte del Legislatore, sopravvenuta all’iniziale stesura dei contenuti del disegno di Legge poi progredito verso l’approvazione delle due Camere.

Del delitto d’impedimento del controllo, infatti, non vi è traccia nella versione iniziale di quel disegno di Legge, che si è arricchito di tale contenuto in una seconda fase e, cioè, dopo una serrata riflessione sul se configurarlo come reato proprio o come reato comune.

L’esame e la valutazione dei lavori sia della Camera dei Deputati che del Senato offre molteplici spunti di riflessione ed è per tale ragione che si ritiene utile descrivere sinteticamente il relativo iter parlamentare.

L’evoluzione dei contorni della fattispecie nel progredire dei lavori preparatori.

La descrizione della genesi della riforma degli ecoreati sul tema rimanda alla seduta del 17 dicembre del 2013 della Camera dei Deputati, allorquando, ultimato il processo di unificazione di più atti d’iniziativa legislativa, veniva avviata la discussione della proposta di testo unificato di Legge “ C. 957 Micillo, C. 342 Realacci e C. 1814 Pellegrino, avente ad oggetto disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente e l’azione di risarcimento del danno ambientale, nonché delega al Governo per il coordinamento delle disposizioni riguardanti gli illeciti in materia ambientale” .

Nell’originaria formulazione il delitto d’impedimento del controllo non era contemplato: i contenuti caratterizzanti della proposta erano costituiti, infatti, dalle due nuove fattispecie di inquinamento ambientale e di disastro ambientale.

La tutela penale delle funzioni di controllo ha fatto il suo esordio il 14 gennaio del 2014, introdotta da più emendamenti e, cioè, dall’1.5, a firma dei Deputati Pellegrino, Zaratti, Zan, Daniele Farina e Sannicandro, dall’1.40, a firma dei Deputati Turco, Businarolo, Agostinelli, Bonafede, Ferraresi, Sarti e Colletti (emendamenti dal contenuto sostanzialmente sovrapponibile), e dall’1.23, a firma dei Deputati Bratti e Rossomando.

L’emendamento 1.5 introduceva, nel corpo dell’art. 452 - quinquies. 2., il delitto di “impedimento al controllo”.

Tale delitto veniva, però, costruito come reato proprio, cioè come reato commettibile solo dal titolare o dal gestore di un impianto (“ che, negando l’accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce o intralcia l’attività di controllo….) e, quindi, dal soggetto destinatario dell’autorizzazione ambientale nonché dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, prevedendosi, in quest’ultimo caso, un aumento della pena.

Si prevedeva, quindi, che, salvo che il fatto avesse costituito più grave reato, “ il titolare o il gestore di un impianto che, negando l’accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce o intralcia l’attività di controllo degli insediamenti o di parte di essi ai soggetti legittimati è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Se taluno dei reati di cui al presente titolo è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio o comunque abusando della sua qualità o dei suoi poteri, la pena della reclusione è aumentata di un terzo”.

L’emendamento 1.40 veniva depositato, come anticipato, con contenuti identici a quello dell’1.5 e con le uniche varianti costituite dal proposito di consegnare la nuova fattispecie all’art. 452 octies del c.p. e dalla mancata previsione della circostanza aggravante costituita dall’essere stato commesso il fatto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.

L’emendamento 1.23 introduceva, invece, all’art. 452 septies e, cioè, il delitto di “impedimento del controllo”, selezionando le condotte penalmente rilevanti in modo quasi sovrapponibile a quella che sarebbe poi stata la formulazione definitiva dell’attuale 452 septies del c.p.

Il delitto veniva, però, costruito come reato comune, commettibile, quindi, da chiunque, il quale, salvo che il fatto avesse costituito più grave reato , “negando l’accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e di controllo ambientali, ovvero ne compromette gli esiti” .

Nel primo emendamento si prevedeva la pena della reclusione da sei mesi a tre anni mentre, nel secondo, la cornice edittale veniva rinforzata dalla previsione della pena della reclusione da uno a quattro anni.

Nell’emendamento 1.23 il processo di selezione e di tipizzazione delle condotte si era arricchito del riferimento alla condotta di “ elusione” ed a quella di “compromissione degli esiti” dello svolgimento della funzione di controllo.

Quanto all’oggettività giuridica, anch’essa subiva un sensibile arricchimento, prevedendosi la sanzione penale a presidio dell’esercizio, oltre che della funzione di controllo, anche di quella di vigilanza in materia ambientale.

E’ con l’emendamento 1.168, a firma dei senatori Casson, Lumia, Caleo ed altri, presentato in occasione della discussione al Senato del testo unificato della proposta di Legge approvato dalla Camera dei Deputati, che veniva introdotto, nell’articolato del futuro art. 452 sexies, il riferimento alle materie dell’igiene e della sicurezza sui luoghi di lavoro, in tal modo potenziandosi in modo significativo il respiro applicativo della futura fattispecie, ma probabilmente, nel contempo, forse snaturandola in parte, data la scelta di allocarla nell’introducendo Titolo VI bis del Codice Penale, avente ad oggetto, però, i “soli” delitti contro l’ambiente. 2

L’esame e la valutazione dei Lavori parlamentari suggerisce che l’introduzione della fattispecie di reato di cui all’art. 452 septies sia il risultato di un processo di formazione progressiva di una moderna consapevolezza sulle reali necessità di una strategia efficace di contrasto al crimine ambientale, che tale non può considerarsi senza prevedere, oltre che la tutela diretta ed immediata del bene “finale” ambiente, anche quella anticipatoria dell’interesse c.d. “intermedio”, nella specie quello costituito dall’efficace e corretto svolgersi delle funzioni di controllo e di vigilanza in materia ambientale. 3

La nuova fattispecie è il risultato di un processo di sintesi delle due diverse impostazioni affacciatesi nel corso dei lavori preparatori, avendo il Legislatore mutuato dalla prima la cornice edittale e dalla seconda, invece, la configurazione del reato come delitto comune.

L’art. 452 septies prevede che del delitto in questione risponda, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, colui che: “ negando l’accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza o igiene del lavoro, ovvero ne compromette gli esiti…”.

Di tale fattispecie, che è, all’evidenza, a forma vincolata, non ne è stata prevista la variante colposa.

Il perimetro oggettivo di applicazione della fattispecie.

Secondo un’interpretazione sostanzialmente condivisa in dottrina, si è in presenza di una fattispecie di reato a forma vincolata, costruita selezionando tre condotte penalmente rilevanti ed alternative tra di loro.

La prima ha ad oggetto la negazione dell’accesso, termine che, secondo la dottrina, può avere significati differenti.

Secondo una parte di essa, tale formula allude a situazioni nelle quali si sia materializzata l’impossibilità materiale o fisica all’accesso, anche mediante condotta omissiva. 4

Secondo altra parte di essa, invece, tale formula richiamerebbe una fattispecie puramente dichiarativa. 5

La seconda condotta selezionata è quella consistente nell’avvenuta predisposizione di ostacoli, condotta che richiamerebbe, secondo la dottrina 6, situazioni nelle quali il gestore ha realizzato opere o tenuto condotte che abbiano reso disagevole il controllo, quali, ad esempio, la realizzazione di strutture poste a nascondimento di condutture abusive, di pozzetti di prelievo o di camini di emissione non autorizzati oppure la realizzazione di bypass per gli scarichi.

Infine la condotta di mutazione artificiosa dello stato dei luoghi interessati dal controllo, condotta alla quale la dottrina 7 riconduce, ad esempio, il seppellimento di cumuli di rifiuti nonché, proponendo un’interpretazione estensiva della formulazione della norma, anche le condotte di smontaggio e di rimozione di condutture abusive o di camini non autorizzati, condotte generative di ostacoli non in senso squisitamente materiale ma in senso “cognitivo”, nel senso che “ si tratta di condotte che frappongono all’autorità di controllo un ostacolo alla ricostruzione della realtà, impedendo loro di comprendere (o di comprendere tempestivamente) la configurazione dell’impianto e/o il suo reale impatto ambientale”.

Trattandosi di reato di evento, la compiuta configurazione della fattispecie impone che la condotta di ostacolo, tipizzata con forme vincolate ed alternative tra di loro, produca quale evento o l’impedimento o l’intralcio o l’elusione dell’esercizio della funzione di controllo o la compromissione dei relativi esiti. 8

Il perimetro soggettivo di applicazione della fattispecie.

Il tema stimola la riflessione sul se, all’ampio respiro applicativo dal punto di vista oggettivo, corrisponda pari ampiezza di applicazione della fattispecie anche dal punto di vista soggettivo.

La costruzione del reato come delitto comune rende la norma dell’art. 452 septies applicabile a chiunque, quindi non solo al soggetto portatore del titolo autorizzativo ma anche a quello sprovvisto di tale titolo ed ovviamente anche al pubblico ufficiale titolare della funzione di controllo.

Il delitto, però, non è entrato a far parte del catalogo dei reati ambientali che possono fungere da presupposto della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, responsabilità introdotta in modo postumo dal Decreto Legislativo del 7 luglio 2011, n. 121, dall’art. 2, comma II, che ha innovato il Decreto Legislativo dell’8 giugno 2011, n, 231, inserendo l’art. 25 undecies.

L’impedimento del controllo è uno dei pochi delitti contro l’ambiente del Titolo VI bis del Libro II del c.p., al pari di quello di omessa bonifica di cui all’art. 452 terdecies del c.p., a non essere stato inserito in quel catalogo.

Nel caso in cui, quindi, la turbativa alla funzione di controllo fosse arrecata da una decisione assunta nell’interesse o a vantaggio di uno dei soggetti di cui all’art. 1, comma II, del citato Decreto n. 231 del 2001 e, quindi, di una società o di un ente, il relativo vulnus non potrà che trovare rimedio sul terreno della “sola” responsabilità penale della persona fisica.

Sul tema del rapporto tra il delitto in questione e la responsabilità amministrativa della persona giuridica ha preso posizione, il 27 maggio del 2020, il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, parlando di “ disallineamento normativo” meritevole di riflessione da parte del Legislatore in prospettiva “de iure condendo”.

Ed in effetti, in data 17 ottobre del 2020, è stato depositato alla Camera dei Deputati il disegno di Legge comunemente noto “Terra Mia”, che si propone, tra gli obiettivi, anche quello di ulteriormente ampliare il catalogo dei delitti ambientali presupposto di responsabilità amministrativa degli enti, inserendovi, tra gli altri, anche quello di impedimento del controllo.

Un ulteriore spunto di riflessione sul tema della responsabilità amministrativa è generato, però, dall’esame dell’art. 452 octies, che contempla, per i delitti di cui agli artt. 416 e 416 bis del c.p., la specifica aggravante ad efficacia comune costituita dall’essere l’associazione per delinquere diretta, in via esclusiva o concorrente, allo scopo di commettere taluno dei delitti previsti dal Titolo VI bis del c.p. e, quindi, anche quello d’impedimento del controllo, configurando, altresì, l’ulteriore aggravante ad effetto speciale per il caso in cui dell’associazione per delinquere facciano parte anche pubblici ufficiali od incaricati di un pubblico servizio che esercitino funzioni o svolgano servizi in materia ambientale e, quindi, anche i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio titolari di una funzione di controllo e di vigilanza ambientale.

L’associazione per delinquere che si prefigga quale scopo sociale esclusivo o concorrente quello di arrecare turbativa all’esercizio della funzione di controllo, se del caso assoldando stabilmente al suo interno anche i pubblici ufficiali titolari della funzione medesima, e che trovi la genesi o il suo sviluppo in seno ad una società o ad un ente, nell’interesse o a vantaggio del quale agisca, è soggetto criminale il cui agire può dar luogo a responsabilità anche della società o dell’ente, rientrando l’art. 452 octies nel catalogo dei reati presupposto di responsabilità amministrativa in forza della previsione di cui alla lettera d) del citato art. 25 undecies.

Un ulteriore spunto di riflessione è generato da tale catalogo nella parte in cui, alla lettera c), configura la responsabilità amministrativa anche nel caso di violazione dell’art. 452 quinquies e, cioè, in relazione alla commissione dei delitti colposi d’inquinamento ambientale e di disastro ed a quello del pericolo del verificarsi di uno di questi due eventi.

A generare, quindi, la responsabilità amministrativa della società o dell’ente può essere sufficiente il solo creare il pericolo di un inquinamento o di un disastro ambientale, mentre non può esserlo il danno vero e proprio alla funzione di controllo, come ad esempio nel caso in cui se ne compromettano i relativi esiti.

Tale diversità d’impostazione merita vieppiù riflessione ove si consideri che la condotta che genera il pericolo di un inquinamento ambientale o di un disastro è assistita da una cornice edittale di minor gravità rispetto a quella prevista per il delitto d’impedimento.

Gli ambiti di potenziale applicazione in concreto del delitto.

L’introduzione di una tutela penale di portata generale della funzione di controllo non può esimere dallo sforzo ricostruttivo necessario a tipizzare gli ambiti di potenziale applicazione in concreto della fattispecie di cui all’art. 452 septies c.p., da quello di individuare e descrivere i contenuti della funzione di controllo e dei suoi parametri di giudizio nonché, infine, da quello di enucleare gli strumenti attraverso i quali tale funzione di controllo trova concreta attuazione, a partire proprio dallo specifico settore del ciclo dei rifiuti, settore nel quale, come anticipato, l’impedimento del controllo può trovare un senso ed un significato proprio nell’ottica di occultare un traffico illecito di rifiuti.

Nel settore del ciclo e della gestione dei rifiuti titolare della potestà di controllo è la Provincia, ma non solo.

Il fondamento normativo di tale potestà per è costituito dall’art. 197 del TUA, che testualmente recita:

In attuazione dell'articolo 19 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, alle province competono in linea generale le funzioni amministrative concernenti la programmazione ed organizzazione del recupero e dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, da esercitarsi con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente ed in particolare:

a) il controllo e la verifica degli interventi di bonifica ed il monitoraggio ad essi conseguenti;
b) il controllo periodico su tutte le attività di gestione, di intermediazione e di commercio dei rifiuti, ivi compreso l'accertamento delle violazioni delle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto;….

2. Ai fini dell'esercizio delle proprie funzioni le province possono avvalersi, mediante apposite convenzioni, di organismi pubblici, ivi incluse le Agenzie regionali per la protezione dell'ambiente (ARPA)…..

3. Gli addetti al controllo sono autorizzati ad effettuare ispezioni, verifiche e prelievi di campioni all'interno di stabilimenti, impianti o imprese che producono o che svolgono attività di gestione dei rifiuti. Il segreto industriale non può essere opposto agli addetti al controllo, che sono, a loro volta, tenuti all'obbligo della riservatezza ai sensi della normativa vigente.

4. Il personale appartenente al Comando carabinieri tutela ambiente (C.C.T.A.) è autorizzato ad effettuare le ispezioni e le verifiche necessarie ai fini dell'espletamento delle funzioni di cui all'articolo 8 della legge 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell'ambiente.

5. Nell'ambito delle competenze di cui al comma 1, le province sottopongono ad adeguati controlli periodici gli enti e le imprese che producono rifiuti pericolosi, le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti a titolo professionale, gli stabilimenti e le imprese che smaltiscono o recuperano rifiuti, curando, in particolare, che vengano effettuati adeguati controlli periodici sulle attività sottoposte alle procedure semplificate di cui agli articoli 214, 215, e 216 e che i controlli concernenti la raccolta ed il trasporto di rifiuti pericolosi riguardino, in primo luogo, l'origine e la destinazione dei rifiuti…..

6. Restano ferme le altre disposizioni vigenti in materia di vigilanza e controllo previste da disposizioni speciali.

E’ il legislatore, quindi, a fissare i parametri di giudizio che devono orientare lo svolgimento della funzione di controllo, individuandoli, nello specifico, nell’autorizzazione e, più in generale, nei precetti della parte quarta del Testo unico.

Quanto agli strumenti di cui avvalersi per esercitare tale funzione, il dato letterale della norma li tipizza individuandoli nell’ispezione, nella verifica e nel prelievo del campione, in quest’ultimo caso o di rifiuto o di matrice ambientale.

Non vi è esplicita menzione nella norma della richiesta di dati e di informazioni al gestore dei rifiuti come strumento di controllo dei contenuti della gestione medesima.

La mancata menzione non pare, però, tracciare i contorni della funzione di controllo ambientale in materia di rifiuti in modo “depotenziato” rispetto agli strumenti previsti in altri specifici settori, come ad esempio - e come si esporrà nel prosieguo - in tema d’inquinamento atmosferico.

La circostanza che il titolare dell’attività di gestione dei rifiuti non possa opporre agli “addetti al controllo” il segreto industriale è scelta legislativa che rassicura in ordine alla concreta possibilità - da parte degli addetti al controllo - di poter richiedere al titolare anche la consegna o la trasmissione di dati e/o di informazioni, addirittura anche di quelli “più sensibili”.

Per l’esercizio della funzione di controllo la provincia può avvalersi, mediante la stipula di un’apposita convenzione, dell’ARPA, che è agenzia istituzionalmente preposta a sostenere dal punto di vista tecnico l’esercizio del controllo da parte della regione di volta in volta competente, ma che, all’occorrenza quindi, i medesimi compiti può essere chiamata a svolgere a sostegno della provincia.

Vi è, però, un “plus” che attribuisce alla funzione di controllo sulla gestione dei rifiuti una sua identità peculiare, identità che può cogliersi non solo e non tanto nell’ampiezza degli strumenti del controllo, tra i quali il legislatore annovera anche la “verifica”, evidentemente di qualcosa che non siano luoghi o impianti ma altro, ma soprattutto nella cadenza di esercizio della potestà di controllo che, in materia di gestione dei rifiuti, deve avere natura “periodica” per espressa scelta del Legislatore nonché anche “adeguata” per una serie di attività “sensibili”, nella specie per quelle indicate al comma 5 del citato art. 197, tra le quali spicca, per importanza, l’attività di produzione del rifiuto pericoloso.

La previsione del requisito dell’adeguatezza pare indiziare la volontà di prevedere per determinate attività scansioni temporali della funzione di controllo non solo periodiche ma anche “ristrette”.

Titolare della potestà di controllo sull’attuazione della parte quarta del TUA è anche lo Stato e, per esso, il Ministero dell’Ambiente, della tutela del territorio e del mare, che, a tal fine, si avvale dell’ISPRA e può procedere ad “audit”.

Questa volta il fondamento normativo è l’art. 206 bis del TUA, che testualmente recita: “ 1. Al fine di garantire l'attuazione delle norme di cui alla parte quarta del presente decreto con particolare riferimento alla prevenzione della produzione della quantità e della pericolosità dei rifiuti ed all'efficacia, all'efficienza ed all'economicità della gestione dei rifiuti, degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio, nonché alla tutela della salute pubblica e dell'ambiente, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e del mare svolge, in particolare, le seguenti funzioni:

a) vigila sulla gestione dei rifiuti, degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio anche tramite audit nei confronti dei sistemi di gestione dei rifiuti di cui ai Titoli I, II e III della parte quarta del presente decreto;….

4. Per l’espletamento delle funzioni di vigilanza e controllo in materia di rifiuti, il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare si avvale dell’ISPRA, a tal fine utilizzando le risorse di cui al comma 6.

In tema d’inquinamento atmosferico, lo spazio applicativo del delitto in questione può materializzarsi in occasione, ad esempio, dei controlli previsti dall’art. 269 del TUA.

L’art. 269, comma I, prevede, infatti, che, per tutti gli stabilimenti che producono emissioni, deve essere richiesta un’autorizzazione da parte del gestore dello stabilimento.

L’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione è, in forza della lettera o) dell’art. 268, “la regione o la provincia autonoma o la diversa autorità indicata dalla legge regionale quale autorità competente al rilascio dell’autorizzazione…..; per gli stabilimenti sottoposti ad autorizzazione integrata ambientale e per gli adempimenti a questa connessi, l’autorità competente è quella che rilascia l’autorizzazione”.

In ragione di quanto previsto dalla lettera p) del medesimo art. 268, l’Autorità competente per il controllo è quella “ a cui la legge regionale attribuisce il compito di eseguire in via ordinaria i controlli circa il rispetto dell’autorizzazione e delle disposizioni del presente titolo, ferme restando le competenze degli organi di polizia giudiziaria”.

E’ sempre la lettera p) a prevedere che l’autorità competente a controllare l’osservanza dell’autorizzazione alle emissioni in atmosfera coincida di regola con quella competente al rilascio dell’autorizzazione medesima.

In materia di emissioni in atmosfera, quindi, le funzioni di controllo sono esercitate dalla regione o dalla diversa autorità indicata dalla legge regionale o dalla provincia autonoma o dall’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale per gli impianti sottoposti a tale regime autorizzatorio.

E’ a queste organizzazioni che fa riferimento il comma 9 dell’art. 269 del TUA allorquando prevede che “ L’autorità competente per il controllo è autorizzata ad effettuare presso gli stabilimenti tutte le ispezioni che ritenga necessarie per accertare il rispetto dell’autorizzazione. Il gestore fornisce a tale autorità la collaborazione necessaria per i controlli, anche svolti mediante attività di campionamento ed analisi e raccolta di dati ed informazioni, funzionali all’accertamento del rispetto delle disposizioni della parte quinta del presente decreto. Il gestore assicura in tutti i casi l’accesso in condizioni di sicurezza, anche sulla base delle norme tecniche di settore, ai punti di prelievo e di campionamento”.

L’esame della norma è foriero ancora una volta di plurimi spunti di valutazione.

Il primo ed il più importante di essi involge l’individuazione dei contenuti e degli strumenti di esercizio della funzione di controllo ambientale svolta dall’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione alle emissioni, individuazione che, come scritto, costituisce premessa irrinunciabile di qualunque sforzo teso a fissare il perimetro in concreto dell’oggetto della tutela penale predisposta dall’art. 452 septies del c.p.

La funzione di controllo è finalizzata ad accertare se la gestione dello stabilimento abbia avuto luogo nel rispetto dei contenuti dell’autorizzazione e delle norme – in questo caso ovviamente - della parte quinta del TUA, cioè delle norme in materia di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni atmosfera.

Gli strumenti di cui può avvalersi il concreto esercizio della funzione di controllo sono, in tema di inquinamento atmosferico, l’ispezione, il campionamento e l’analisi dell’aria nonché l’acquisizione dal gestore di dati ed informazioni concernenti la gestione dell’impianto.

Può immaginarsi che sia chiamato a rispondere del delitto di cui all’art. 452 septies del c.p., ad esempio, con condotta impeditiva l’imprenditore che neghi ai funzionari incaricati del controllo l’accesso ai punti di prelievo o di campionamento o non lo consenta in presenza delle necessarie condizioni di sicurezza o, addirittura, si spinga sino al punto di sbarrare fisicamente l’accesso a tali punti, in tal modo fisicamente impedendo l’esercizio della funzione di controllo.

Può immaginarsi che sia chiamato a rispondere del medesimo delitto, sempre con condotta impeditiva, l’imprenditore che fisicamente impedisca l’accesso al controllore che intenda procedere ad ispezione dello stabilimento.

Può immaginarsi che sia chiamato a rispondere del medesimo delitto, questa volta con condotta di intralcio, l’imprenditore che, alla richiesta di dati ed informazioni da parte dell’autorità di controllo, ne fornisca solo una parte o li fornisca in ritardo o addirittura li fornisca manipolati od alterati.

Il riferimento contenuto nella norma del comma 9 al fatto che l’autorità incaricata del controllo sia autorizzata ad effettuare presso gli stabilimenti “tutte le ispezioni che ritenga necessarie” induce ragionevolmente a ritenere che l’esercizio della funzione di controllo sia normativamente autorizzato ogni qual volta l’autorità di controllo riceva la notizia qualificata della violazione di una o più prescrizioni dell’autorizzazione o delle disposizioni della parte quinta del TUA, notizia della violazione che, proprio perché qualificata, rende necessario procedere al controllo e, quindi, ad ispezione.

La messa in campo e l’efficace operare degli strumenti del controllo non può prescindere, anche in questo caso, dalla collaborazione del gestore dell’impianto, che tale collaborazione, quindi, è obbligato a prestare.

In tema di controllo sugli scarichi, il fondamento normativo della relativa funzione è costituito dall’art. 128 del TUA, che prevede che l’autorità competente effettui il controllo degli scarichi sulla base di un programma che assicuri un periodico, diffuso, effettivo ed imparziale sistema di controlli.

E’ il successivo art. 129 a tipizzare gli strumenti del controllo, prevedendo che, a tal fine, possano essere utilizzate le ispezioni ed i prelievi necessari all’accertamento del rispetto dei valori limiti di emissione, per consentire i quali il gestore dello stabilimento ha l’obbligo di far accedere i rappresentanti dell’autorità di controllo.

Per gli scarichi contenenti le sostanze di cui alla Tabella 5 dell'Allegato 5 parte terza del TUA, si contempla la possibilità che l'autorità competente al rilascio dell'autorizzazione possa prescrivere, a carico del titolare dello scarico, l'installazione di strumenti di controllo in automatico, nonché le modalità di gestione degli stessi e di conservazione dei relativi risultati, che devono rimanere a disposizione dell'autorità competente al controllo per un periodo non inferiore a tre anni dalla data di effettuazione dei singoli controlli.

E’ poi la norma dell’art. 132 del TUA a contemplare, come si è scritto, una fattispecie di reato di natura contravvenzionale per il caso in cui – e sempre che il fatto non costituisca più grave reato - il titolare dello scarico non consenta l’accesso agli insediamenti da parte del soggetto incaricato del controllo ai fini di cui all’art. 101, commi 3 e 4, del medesimo Testo unico.

Di questa fattispecie di reato si è scritto in esordio allorquando si è sottolineata la natura strategica della scelta operata dal Legislatore con l’introduzione dell’art. 452 septies del c.p., introduzione pensata al fine di colmare il vuoto di tutela generato dall’inesistenza di una norma di pari contenuto nella materia dei rifiuti o in quella dell’inquinamento atmosferico.

Gli ambiti ulteriori di potenziale applicazione in concreto del delitto d’impedimento del controllo in seno al Testo unico dell’Ambiente e nella legislazione di settore.

Alla funzione di controllo ambientale e, quindi, ad un ambito di potenziale applicazione dell’art. 452 septies del c.p. è ragionevole possa ricondursi anche la funzione di verifica dell’adempimento della prescrizione prevista dall’art. 318 quater del Testo unico, a tenore del quale “ entro sessanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione ai sensi dell’art. 318 ter, l’organo accertatore verifica se la violazione è stata eliminata secondo le modalità ed i tempi indicati nella prescrizione”.

Nonché la funzione di controllo contemplata dall’art. 14 della Legge 22 febbraio 2001, n. 36 e, cioè, dalla Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici.

In forza del comma 4 della citata disposizione, il personale incaricato dei controlli per conto delle amministrazioni provinciali e comunali, nell’esercizio delle funzioni di vigilanza e di controllo, può accedere agli impianti che costituiscono fonte di emissioni elettromagnetiche e richiedere, in conformità alle disposizioni della Legge 7 agosto 1990, n. 241, i dati, le informazioni ed i documenti necessari per l’espletamento delle proprie funzioni.

Nonché, ed infine, la funzione di controllo prevista dal comma III dell’art. 14 e dalla lettera c) dell’art. 5 della Legge 26 ottobre 1995, n. 447, e, cioè, della Legge quadro sull’inquinamento acustico, combinato disposto in forza del quale il personale della provincia, che è l’autorità preposta al controllo, nell’esercizio di tale funzione e di quella di vigilanza, può accedere agli impianti ed alle sedi di attività che costituiscono fonte di rumore e richiedere i dati, le informazioni ed i documenti necessari per l’espletamento delle proprie funzioni, espletamento rispetto al quale il gestore della fonte del rumore non può opporre il segreto industriale.

Come si è scritto, non si è coltivata la pretesa dell’esaustività sul tema degli spazi di potenziale applicazione della norma, anche perché è stata introdotta una tutela generale e senza eccezioni di qualsivoglia funzione di controllo e di vigilanza ambientale, da qualunque soggetto svolta, quindi, anche quella svolta dagli organi di Polizia Giudiziaria che, nell’esercizio delle loro funzioni, agiscano con compiti di controllo o d’iniziativa o su delega della Magistratura. 9

Circoscrivere i contenuti e gli strumenti della funzione di controllo può essere d’ausilio, però, anche ad un ulteriore fine e, cioè, a quello di fissare il confine tra la funzione di controllo e quella di vigilanza, fine che appare meritevole di essere coltivato stante l’assenza sul punto di una presa di posizione definitoria da parte del Legislatore, che, spesso, pare fare uso indistintamente ed in modo equivalente di termini quali “ controllo”, “vigilanza” e “sorveglianza”.

Può ragionevolmente immaginarsi che il controllo costituisca una fase della vigilanza nonché il suo culmine, nel senso che il concreto svolgersi dell’attività di vigilanza può far emergere le condizioni o i presupposti perché si proceda all’atto di controllo, controllo il cui svolgimento si può imporre, ad esempio, a seguito dell’acquisizione, nel concreto esercizio della funzione di vigilanza, di una notizia qualificata di avvenuta violazione delle prescrizioni del titolo autorizzativo e, più in generale, delle norme di settore del TUA.

Così come può immaginarsi lo svolgimento di un atto di controllo anche senza il previo svolgimento di un’attività di vigilanza da parte del controllore, come nel caso di vigilanza svolta da un soggetto diverso dal titolare della potestà di controllo che, a quest’ultima, faccia una segnalazione qualificata di violazione (si può immaginare il caso di una segnalazione all’organo titolare della potestà di controllo da parte di un’associazione, ad esempio, come Legambiente).

La valutazione unitaria delle fonti normative richiamate consente di tracciare nei suoi connotati essenziali la struttura del sistema dei controlli, che pare ruotare intorno a due istituzioni con un ruolo centrale e, cioè, alla provincia ed alla regione, chiamate a svolgere tali compiti di controllo potendosi avvalere del sostegno tecnico di agenzie quali l’ARPA.

Sistema dei controlli nel quale recitano, comunque, un ruolo da protagonisti anche il Ministero dell’Ambiente ed il comune competente per territorio, che, al pari degli altri, sono chiamati a svolgere tali compiti facendo uso di strumenti tipizzati dalla Legge e, cioè, di quelli cui si è fatto riferimento descrivendo i singoli ambiti di potenziale applicazione della norma.

La confisca ed il delitto di impedimento del controllo.

Il delitto in esame appartiene al novero di quelli per i quali l’art. 452 undecies del c.p. prevede, in caso di condanna o di applicazione della pena ex art. 444 del c.p.p., la confisca delle cose che costituirono il prodotto o il profitto del reato o che servirono alla commissione del medesimo, fatto salvo il caso in cui tali cose appartengano a persona estranea al reato.

Si può ragionevolmente immaginare che l’istituto della confisca possa trovare applicazione in concreto in relazione alla fattispecie in esame nel caso, ad esempio, di condotta impeditiva posta in essere avvalendosi di mezzi meccanici o di condotta di compromissione degli esiti della funzione di controllo realizzata installando al camino di un impianto - che rilascia emissioni in atmosfera - un dispositivo in grado di rilasciare emissioni pulite destinate ad abbattere il valore di concentrazione degli inquinanti emessi da quell’impianto.

La tipizzazione delle condotte di rilevanza penale ai sensi dell’art. 452 septies.

I dati di conoscenza forniti dalla più che ventennale esperienza di applicazione, prima, del Decreto Legislativo n. 22 del 1997 e, poi, del vigente Testo unico sono stati posti a fondamento dello sforzo fatto da una parte della dottrina di tipizzare le condotte che, con maggiore frequenza, porranno all’ordine del giorno dell’interprete o dell’operatore il vaglio di ricorrenza della fattispecie in questione.

Senza alcuna pretesa di esaustività, sono state tipizzate quali condotte potenzialmente penalmente rilevanti quelle di seguito indicate 10:

  • Il diniego di accesso ai luoghi ove deve essere effettuato il controllo;

  • la predisposizione di bypass degli scarichi;

  • la sottrazione alla vista di una massiccia diluizione degli stessi;

  • la mirata riduzione dell’attività di un impianto;

  • l’occultamento di specifiche attività incidenti sul carico inquinante di un determinato processo produttivo;

  • il rifiuto della necessaria collaborazione che determini le conseguenze descritte dalla fattispecie in esame.

Ed, ancora, l’occultamento della documentazione esistente presso l’azienda, il c.d. giro bolla e l’informativa falsa o carente circa l’attività dell’azienda, “ informativa necessaria per impostare e valutare correttamente i controlli, rischiando, altrimenti, di comprometterne gli esiti degli stessi ”.11

§§§§

2)Il delitto d’inquinamento ambientale.

Il rapporto tra il delitto di traffico illecito di rifiuti e quello d’inquinamento ambientale: un’ipotesi di connessione da concorso formale o da continuazione dei reati.

Quello della connessione tra il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti ed il reato di cui all’art. 452 bis del c.p. è tema di straordinaria complessità sia sotto il profilo interpretativo che sotto quello più squisitamente applicativo. 12

È tema che pone all’ordine del giorno di chi è chiamato ad applicare le norme vigenti valutazioni che si proiettano sul terreno degli ecosistemi, della loro struttura e funzione, della misura del danno ad essi arrecato dalla condotta di traffico e, quindi, valutazioni che chiamano in causa l’analisi dell’intero microcosmo normativo costituito dalla disciplina del rifiuto e della sua gestione.

In quel microcosmo una posizione centrale ha assunto, da tempo, il concetto di matrice ambientale e, più di recente, a seguito dell’entrata in vigore della Legge 22 maggio 2015, n. 68, anche quello - più sofisticato - di ecosistema.

Il tema in trattazione richiama quel variegato e complesso spettro di situazioni concrete nelle quali dal compimento di una condotta di traffico illecito discenda come conseguenza, anche non voluta, il danno all’ecosistema o alla matrice ambientale.

I molteplici profili di complessità del tema iniziano ad innestarsi nel momento in cui si è chiamati a tipizzare il danno, a misurarne l’entità e l’estensione, ad accertarne la reversibilità o meno, valutazioni che conducono o possono condurre ad approdi interpretativi differenti sul tema, innanzitutto, della rilevanza penale del fatto di danno accertato e, poi, sul tema di quale rilevanza penale, se quella descritta nella fattispecie di disastro o quella descritta nel delitto d’inquinamento ambientale o, infine, quella descritta nel reato contravvenzionale previsto dall’art. 257 del TUA.

Il tema della connessione tra i due delitti involge la necessità di fissare i confini tra le diverse fattispecie richiamate o, più semplicemente, il limite inferiore e superiore di ciascuna delle tre fattispecie richiamate, che appaiono essere la proiezione normativa di un danno all’ambiente che è stato tipizzato con forme di aggressione via via sempre più gravi, sino a giungere allo stadio finale del danno irreversibile.

Ma ancor prima involge la necessità di riempire di contenuto i concetti di matrice ambientale e di ecosistema, perché intorno ad essi ruotano, rispettivamente, la riforma degli ecoreati e la parte quarta del TUA, il cui Titolo primo è dedicato alla disciplina della gestione del rifiuto mentre il secondo alla bonifica dei siti contaminati.

Su un articolato normativo di straordinaria ricchezza e complessità precettiva è stato, infatti, innestato, a poco meno di dieci anni dalla sua entrata in vigore, il novum normativo costituito dalla riforma degli ecoreati ed, in particolare, dal delitto d’inquinamento ambientale.

Termini o concetti quali matrice ambientale, contaminazione o inquinamento, infatti, preesistevano alla riforma degli ecoreati e facevano parte di un lessico legislativo, quello del TUA, che non si era sottratto all’apprezzabile sforzo di definirne il contenuto e l’essenza.

La definizione di matrice ambientale e di inquinamento o di contaminazione potenziale ed in atto.

La definizione di matrice ambientale rimanda all’art. 240, lett. a), del TUA, che, nel definire “il sito”, lo individua “ in un’area o porzione di territorio, geograficamente definita e determinata, intesa nelle diverse matrici ambientali (suolo, materiali di riporto, sottosuolo ed acque sotterranee) e comprensiva delle eventuali strutture edilizie ed impiantistiche presenti”.

La conferma che siano da classificare matrici ambientali il suolo, il sottosuolo e le acque sotterranee può cogliersi nell’art. 257 del medesimo Testo unico, che, nel tipizzare il reato di omessa bonifica di un sito contaminato, seleziona quale condotta penalmente rilevante propria quella dell’aver inquinato le matrici ambientali e, cioè, il suolo, il sottosuolo, le acque superficiali e quelle sotterranee e del non aver provveduto alla bonifica del sito in conformità al progetto approvato dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di cui agli art. 242 e ss.

Le matrici ambientali costituiscono uno dei due oggetti della tutela penale del delitto d’inquinamento ambientale, che, in una delle due varianti previste dall’art. 452 bis del c.p., si configura, infatti, proprio allorquando vi è compromissione o deterioramento (significativo e misurabile) del suolo, del sottosuolo e delle acque, aggiungendovi la matrice aria.

Sempre nel citato art. 240 si leggono due ulteriori definizioni che appaiono essenziali nell’individuazione del limite inferiore di applicazione della fattispecie del delitto d’inquinamento ambientale e, cioè, quella di sito potenzialmente contaminato e di sito contaminato.

In forza della lettera d) della norma richiamata, il sito è potenzialmente contaminato allorquando “ uno o più valori di concentrazione delle sostanze inquinanti rilevati nelle matrici ambientali risultino superiori ai valori di concentrazione soglia contaminazione (CSC), in attesa di espletare le operazioni di caratterizzazione e di analisi del rischio sanitario ed ambientale sito specifica, che ne permettano di determinare lo stato o meno di contaminazione sulla base delle concentrazioni soglia di rischio”.

In forza della successiva lett. e), è contaminato, invece, il sito nel quale “ i valori di concentrazione soglia di rischio (CSR), determinati con l’applicazione della procedura di analisi di rischio di cui all’allegato 1 della parte quarta del presente decreto e sulla base dei risultati del piano di caratterizzazione, risultino superati”.

Il supero delle concentrazioni soglia di contaminazione in uno o più inquinanti presenti nella matrice indizia, quindi, lo stato di potenziale contaminazione del sito, sito che, invece, è tecnicamente contaminato quando, accertata la presenza di uno o più superi delle CSC, si acclari, tramite gli strumenti della caratterizzazione e dell’analisi di rischio sito specifica, l’esistenza anche di un rischio sanitario ed ambientale, la cui esistenza determina l’obbligo della messa in sicurezza e della bonifica di quel sito ai sensi della lett. c) del citato art. 240.

Vi è più di una ragione per ritenere che il legislatore del TUA abbia utilizzato i termini “contaminazione in atto” ed “ inquinamento” come sinonimi.

La prima è quella che rimanda alla lettera r) della norma in questione, che, nel definire il concetto d’inquinamento diffuso, lo tipizza proprio nella contaminazione delle matrici ambientali determinata da fonti diffuse e non imputabili ad una singola origine.

La seconda è il tenore testuale del citato art. 257, che seleziona la condotta penalmente rilevante utilizzando un doppio binario, da un lato quello dell’aver procurato l’inquinamento delle matrici per effetto del superamento delle concentrazioni soglia di rischio, dall’altro quello dell’aver omesso di bonificare il sito contaminato in conformità al progetto di bonifica approvato.

L’approdo di tale percorso di valutazione dei dati normativi è che l’inquinamento della matrice ambientale è da ritenersi materializzato allorquando la concentrazione di uno o più inquinanti nella matrice ambientale abbia determinato l’insorgenza di una situazione di rischio sanitario oltre che ambientale.

Solo indiziato è da reputarsi, invece, l’inquinamento della matrice allorquando si sia acclarata in essa solo la presenza di uno o più inquinanti in valori di concentrazione superiori al limite massimo previsto dal TUA e, nella specie, dalla Tabella 1 dell’allegato 5 del titolo quinto della parte quarta del Testo Unico.

Vi è da chiedersi se un inquinamento avente tali caratteristiche abbia assunto, in costanza di vigenza dell’art. 452 bis del c.p., la forma e la sostanza di un vero e proprio delitto ambientale o se, al contrario, l’inquinamento della matrice ambientale rilevante ai sensi dell’art. 452 bis del c.p. imponga l’accertamento di caratteristiche ulteriori rispetto a quelle costituite dal mero supero delle concentrazioni soglia di contaminazione o di quelle di rischio ed, in quest’ultimo caso, quale sia la linea di confine tra l’area del penalmente rilevante di cui all’art. 452 bis del c.p. e quella alla quale ricondurre tutte quelle situazioni in concreto nelle quali all’accertato inquinamento del sito non segue la sanzione penale ma “solo” l’obbligo giuridico della messa in sicurezza e della bonifica di esso ed eventualmente la sanzione penale alternativa prevista dall’art. 257 per l’ipotesi in cui la bonifica del sito abbia avuto luogo non in conformità al progetto approvato dall’autorità competente.

E’ il tema del limite inferiore della tutela penale predisposta dall’art. 452 bis del c.p., limite, scesi al di sotto del quale, non vi è più spazio per l’applicazione della sanzione penale, se non nelle residuali ipotesi previste dall’art. 257.

Una situazione d’inquinamento di una o più matrici causalmente riconducibile ad una condotta di traffico illecito di rifiuti che mancasse delle caratteristiche necessarie per superare verso l’alto quel limite finirebbe per esaurire i suoi effetti sul piano angusto della messa in sicurezza e della bonifica del sito inquinato, eventi del tutto eventuali e, soprattutto, di lunga prospettiva.

Può dirsi ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione l’indirizzo in forza del quale l’inquinamento tipizzato dall’art. 452 bis del c.p. impone l’accertamento in concreto di caratteristiche ulteriori rispetto al mero accertamento del supero delle concentrazioni soglia di contaminazione o di rischio, richiedendosi l’alterazione dell’originaria consistenza della matrice ambientale, l’alterazione, cioè, della struttura o della funzione della matrice, che deve distinguersi per significatività, misurabilità e reversibilità. 13

Ma, come si è scritto, l’oggetto della tutela penale introdotta con la nuova fattispecie d’inquinamento ambientale non si esaurisce nell’alterazione della matrice ambientale, essendo stata predisposta identica tutela anche per contrastare l’alterazione degli ecosistemi, quella della biodiversità ed, infine, quella della flora e della fauna.

La compiuta fissazione, quindi, del limite inferiore della tutela penale dell’art. 452 bis del c.p. impone la definizione del concetto di ecosistema.

La definizione di ecosistema quale ulteriore oggetto della tutela penale del delitto di inquinamento ambientale.

La Legge 22 maggio 2015, n. 68, non definisce il significato del termine ecosistema e, soprattutto, facendo uso dell’articolo indeterminativo “ un”, pare chiaramente lasciar intendere che di ecosistemi ne ritiene esistenti più di uno.

Una definizione del termine ecosistema non si rinviene, tra l’altro, in altra fonte normativa primaria (di ecosistema si legge una definizione nell’allegato 1 del D.P.C.M. del 27 dicembre del 1988, in tema di norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale, ove si definisce l’ecosistema un complesso di componenti e fattori fisici, chimici e biologici tra loro interagenti ed interdipendenti, che formano un sistema unitario ed identificabile per propria struttura, funzionamento ed evoluzione temporale ) e sul tema può annoverarsi, per quanto di conoscenza, un solo precedente della Corte di Cassazione 14, che a quel termine attribuisce il significato di “ ambiente biologico naturale, comprensivo di tutta la vita vegetale ed animale ed anche degli equilibri tipici di un habitat vivente”.

Quelle richiamate sono definizioni equivalenti di ecosistema, che rimandano alla definizione che dell’ecosistema ha dato l’ecologia, la quale lo ha definito come “ una porzione di biosfera (ovvero l’insieme della idrosfera, atmosfera e litosfera delimitata naturalmente e, cioè, il c.d. ecotopo o componente abiotica) in cui abitano gli organismi animali e vegetali che interagiscono tra di loro e con l’ambiente che li circonda (e, cioè, la c.d. biocenosi o componente biotica)”, termine coniato dall’ecologo inglese A. Tansley nel 1935.

La necessità di riempire di contenuto il termine ecosistema, facendo ricorso alla comune accezione, è stata ribadita dalla Suprema Corte di Cassazione all’indomani dell’entrata in vigore della Legge n. 68 del 2015 15.

L’ecosistema, secondo l’ecologia, è l’unita fondamentale dei sistemi ecologici e ne costituisce la prima e più elementare cellula, che lascia spazio, al livello immediatamente più elevato, al c.d. “bioma”, che è una struttura formata da più ecosistemi, ed, infine, alla biosfera, che, a sua volta, è una struttura alla cui formazione concorrono più biomi.

La fattispecie d’inquinamento ambientale presidia, quindi, ogni singolo ecosistema, senza distinzioni di sorta tra le diverse tipologie esistenti e, quindi, sia quelli naturali (e, cioè, gli ambienti che si sviluppano in maniera naturale lungo una successione ecologica) sia quelli artificiali (e, cioè, quelli derivanti da modificazioni antropiche).

Nonostante le diversità e le peculiarità che possono caratterizzare e distinguere tra di loro i molteplici ecosistemi, l’ecologia è piuttosto concorde nel ritenere sussistenti più tratti comuni nelle cellule di base del sistema ecologico e, nella specie, il loro essere sistemi aperti, interconnessi e stabili.

L’ecosistema è aperto perché scambia con l’esterno flussi di energia, materia ed informazione; è interconnesso perché interagisce con altri ecosistemi ed è stabile perché naturalmente dotato della capacità di autoregolazione, della capacità, cioè, di tornare ad uno stato di equilibrio dopo un disturbo temporaneo, in un lasso di tempo e con una velocità (la c.d. resilienza) che variano a seconda della complessità del singolo ecosistema e della natura e della forza del fattore di perturbazione.

Indipendentemente dall’esistenza e dall’impatto su di esso di un fattore esterno, nella specie di un agente inquinante, nel suo fisiologico funzionamento l’ecosistema si caratterizza per un equilibrio dinamico, perché l’interazione quotidiana tra la componente biotica e quella abiotica definisce di quell’equilibrio contenuti che, seppure impercettibilmente, sono oggetto di continue modificazioni nel tempo.

La capacità di autoregolazione e, quindi, la capacità di tornare ad uno stato di equilibrio dopo e nonostante l’intervento di un fattore di perturbazione esterno e, quindi, in ipotesi di un agente inquinante, costituisce l’essenza prima di un ecosistema, perché un ecosistema sul quale l’agente inquinante ha agito con tale e tanta forza da annullare la capacità di autoregolazione e, quindi, la capacità di ritornare ad uno stato di equilibrio è un’entità irreversibilmente alterata e, quindi, tecnicamente “morta”.

A mero titolo esemplificativo, si pensi all’iniezione od allo scarico reiterato nel tempo in un lago di piccole o medie dimensioni di grandi quantitativi di solventi clorurati o di altri composti chimici, il cui impatto sull’ecosistema è di così tale e tanta forza da cancellare la componente biotica del lago e da contaminare in modo irreversibile le matrici ambientali acqua e suolo.

L’inquinamento “mero” della matrice ambientale o dell’ecosistema – il limite inferiore del sistema di tutela introdotto dall’art. 452 bis del c.p. (il caso esaminato dalla sentenza della Sez. III della Corte di Cassazione, n. 50018 del 6.11.2018).

Proposta una definizione del termine “ecosistema” e richiamata quella che al termine “matrice ambientale” assegna il più volte richiamato art. 240 del TUA lett. a), appare agibile il percorso interpretativo che conduce alla definizione del c.d. limite inferiore della tutela predisposta dall’art. 452 bis del c.p., limite che può ragionevolmente fissarsi nell’alterazione della matrice ambientale o dell’ecosistema che non abbia il carattere della irreversibilità e che si caratterizzi, altresì, per significatività e misurabilità.

L’avvenuto accertamento, quindi, del supero dei valori massimi di concentrazione di uno o più inquinanti può non determinare necessariamente ed in modo automatico il configurarsi del delitto di inquinamento ambientale se, nel concreto, non sia vieppiù accertata l’avvenuta messa in discussione della struttura e della funzione della matrice e, quindi, un’alterazione significativa e misurabile di essa, con l’ulteriore surplus di necessità di prova costituito, per le sole matrici ambientali suolo e sottosuolo, dalla dimensione dell’alterazione che deve involgere porzioni estese o significative sia dell’uno che dell’altro.

Vi è da chiedersi se sia anche vero il contrario e, cioè, se la prova dell’alterazione reversibile, significativa e misurabile o della matrice ambientale o dell’ecosistema imponga necessariamente o necessariamente “ passi” per la dimostrazione in concreto dell’avvenuto supero di una o più CSC o della CSR ovvero se da tale prova se ne possa prescindere, consentendo all’interprete di poter percorrere un diverso ma parimenti efficace ed indiziante percorso di prova.

Sul tema pare estremamente concludente illustrare, anche considerando le finalità perseguite dal presente corso, il caso sul quale si è pronunciata la sentenza della terza Sezione penale della Corte di Cassazione, la n. 50018 del 6.11.2018, che ha affrontato il tema del limite inferiore del delitto d’inquinamento ambientale e, più nello specifico, quello del rapporto tra il traffico illecito dei rifiuti ed il “connesso” delitto d’inquinamento ambientale.

Il caso è quello degli operai di una società, si legge nella sentenza, che “ …in una cava….furono sorpresi a scaricare e movimentare, con mezzi della società, rifiuti speciali colà illecitamente depositati senza autorizzazione ed in ingenti quantità…(si accertò l’ abusivo sversamento in un’area di cava dismessa di centinaia di migliaia di metri cubi di rifiuti speciali di svariata origine, pericolosi e non, provenienti dalle operazioni di selezione e cernita effettuate dalla società….e la maggior parte del materiale rinvenuto in superficie appariva depositato di recente, per assenza di vegetazione o di altri segni lasciati da eventi atmosferici”.

L’area interessata dallo smaltimento illecito era costituita da una superficie stimata nell’ordine di 18.000 mq., area interessata dallo sversamento di rifiuti anche in “verticale” e, cioè, sino ad otto metri di profondità, con sostanziale riempimento di quasi tutto il sito di cava.

A ricorrere alla Suprema Corte era il difensore che deduceva la mancanza dei gravi indizi di colpevolezza del delitto di cui all’art. 452 bis del c.p., avendo il consulente tecnico del Pubblico Ministero certificato “ solo” la potenziale contaminazione del sito, contaminazione potenziale che l’imputato ricorrente, tra l’altro, non contestava in punto di fatto.

Ad essere oggetto di ricorso era un’ordinanza applicativa di una misura cautelare personale per il delitto di cui all’art. 452 bis del c.p.

Più nello specifico la consulenza tecnica del Pubblico Ministero aveva accertato il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione per siti ad uso verde pubblico, privato e residenziale, con riferimento al berillio, a più metalli pesanti, agli idrocarburi pesanti ed al PCB.

Gli esiti della consulenza tecnica del Pubblico Ministero avevano ricevuto ulteriore conferma negli accertamenti effettuati dalla competente ARPA.

Questo il principio di diritto formulato dalla Suprema Corte: “…sarebbe errato ritenere che per potersi affermare la sussistenza del reato previsto dall’art. 452 bis del c.p. si debba necessariamente accertare che ci si trovi di fronte ad un sito contaminato secondo la definizione di cui al decreto Legislativo n. 152 del 2006, art. 240, lett. e), i cui concetti elaborati in un differente contesto ed a diversi fini, in assenza di specifica previsione, non possono essere richiamati per definire gli elementi costitutivi del delitto introdotto dalla successiva Legge 22 maggio 2015, n. 68, come questa Corte ha già riconosciuto nelle decisioni infra immediatamente citate. Quanto al particolare profilo qui esaminato, deve osservarsi che il Decreto Legislativo n. 152 del 2006, art. 240 e le definizioni in esso contenute valgono a disciplinare l’attività di bonifica dei siti quale prevista dal Titolo 5 del decreto, in relazione ai profili di rischio sanitario ed ambientale sulla salute umana derivanti dall’esposizione prolungata all’azione delle sostanze presenti nelle matrici ambientali contaminate. Con riguardo al delitto di inquinamento ambientale, deve invece affermarsi il principio secondo cui il delitto di danno previsto dall’art. 452 bis del c.p.(al quale è tendenzialmente estranea la tutela della salute pubblica) ha quale oggetto di tutela penale l’ambiente in quanto tale e postula l’accertamento di un concreto pregiudizio a questo arrecato, secondo i limiti di rilevanza determinati dalla nuova norma incriminatrice, che non richiedono la prova della contaminazione del sito nel senso indicato dal Decreto Legislativo n. 152 del 2006, art. 240 e ss.”.

Il principio di diritto formulato dalla Suprema Corte è foriero di plurimi spunti di valutazione e di riflessione, soprattutto in relazione al concreto atteggiarsi dell’investigazione preliminare necessaria a provare la sussistenza del delitto di inquinamento ambientale.

Il primo rimanda a quella parte del principio di diritto che non ravvisa la normativa necessità di “passare”, in casi del tipo di quello esaminato dalla Suprema Corte, dalla prova dell’avvenuto superamento della concentrazione soglia di contaminazione anche solo per un inquinante tabellato, superamento che, come scritto, conferisce all’area di indagine lo stato di “sito potenzialmente contaminato”.

Tale percorso di prova, infatti, di regola, richiede al Pubblico Ministero – per poter essere efficacemente intrapreso e concluso - la messa in campo di competenze tecniche particolarmente qualificate, non sempre così facili da reperire e, soprattutto, particolarmente onerose dal punto di vista economico.

Tale percorso di prova, di regola, impone il prelievo garantito (ex art. 360 del c.p.p.) di un campione rappresentativo della matrice ambientale indagata, prelievo che, di regola, impone la predisposizione di un, seppur embrionale, piano di caratterizzazione dell’area da indagare, il compimento di carotaggi e le conseguenziali operazioni di analisi del campione prelevato.

In casi del tipo di quelli portati al vaglio della Suprema Corte vi è da chiedersi quale possa essere l’alternativo percorso di prova, diverso da quello costituito dall’accertamento dell’eventuale supero delle CSC nella matrice ambientale indagata, percorso da intraprendere per giungere al risultato finale di ritenere provato in ciascuno dei suoi elementi costitutivi il delitto di inquinamento ambientale.

In un caso del tipo di quelli portati al vaglio della Suprema Corte, caso nel quale la Corte ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza del delitto di cui all’art. 452 bis del c.p. rigettando, quindi, il ricorso dell’imputato, sarebbe stato possibile contestare il delitto di inquinamento ambientale senza far leva sui risultati della consulenza tecnica che conclamavano il sito quale area potenzialmente contaminata e valorizzando solamente, quindi, il dato costituito dallo sversamento nell’area, con condotte reiterate nel tempo, di centinaia di migliaia di metri cubi di rifiuti speciali anche pericolosi, sversamento che aveva interessato una superficie di terreno di poco inferiore ai due ettari e per una profondità di otto metri?

Può essere proprio questo il terreno di prova su cui può esprimere tutta la sua forza caratterizzante del delitto di inquinamento ambientale il profilo della significatività e della misurabilità dell’alterazione reversibile della matrice ambientale, marcando, in modo ancor più nitido, il limite inferiore della tutela penale predisposta dall’art. 452 bis del c.p. e la sua netta autonomia concettuale dalle previsioni contenute nel TUA.

L’enorme quantità dei rifiuti abusivamente smaltiti, il loro essere rifiuti speciali anche pericolosi, l’essere stato tale smaltimento illecito reiterato nel tempo, l’avere interessato una porzione estesa del suolo (18000 mq.) nonché una porzione estesa del sottosuolo (lo smaltimento illecito aveva interessato l’area anche in verticale sino ad otto metri di profondità) potevano costituire parametri più che esaustivi per desumere che, nel caso concreto, l’azione umana avesse arrecato un’alterazione ad una o più matrici ambientali “significativa” ed, in un caso del tipo di quelli esaminati, anche “misurata”.

Può ragionevolmente ritenersi, però, che l’accertamento tecnico sulle matrici ambientali interessate dallo sversamento illecito di migliaia di metri cubi di rifiuti recuperi tutta la sua forza rappresentativa, ad esempio sul terreno dell’indagine finalizzata ad accertare se l’alterazione abbia avuto il carattere della irreversibilità e, quindi, sul terreno della dimensione ed estensione del danno alla matrice, sia nell’ottica di un giudizio sulla rilevanza penale del fatto (e quale rilevanza penale) sia nell’ottica dello svolgimento di un dibattimento, che impone all’accusa di provare il fatto contestato al di là di ogni ragionevole dubbio e, quindi, un onere probatorio decisamente più consistente di quello previsto dall’art. 273 del c.p.p., comma I.

E, probabilmente, anche, che tale accertamento tecnico recuperi tutta la sua forza rappresentativa proprio sul terreno della significatività dell’inquinamento, perché non si intravedono, ad oggi, fattori ostativi dal punto di vista concettuale quanto meno ad ipotizzare come significativo un inquinamento che abbia caratterizzato una sola matrice - ma con superi accertati di più sostanze inquinanti o anche solo di una sola di esse ma per valori centinaia o migliaia di volte superiori al limite di Legge - o, addirittura, che abbia caratterizzato più matrici ambientali, compresa l’acqua o l’aria e, cioè, le matrici per le quali il legislatore che ha introdotto l’art. 452 bis del c.p. non ha previsto gli ulteriori requisiti dell’estensione e della significatività, invece previsti per il suolo ed il sottosuolo.

Parimenti non si intravedono ostacoli dal punto di vista concettuale a ritenere integrata la fattispecie in questione anche in caso di accertato supero della concentrazione soglia di rischio, supero che, come scritto, presuppone che, a valle di una complessa e spesso interminabile procedura amministrativa, si accerti l’esistenza non solo di un rischio per l’ambiente ma, addirittura, anche per la salute umana.

Anche al ricorrere di casi di tal fatta potrebbe trovare applicazione tale fattispecie, eventualmente nella forma di cui all’art. 452 quinquies, comma secondo, e, cioè, nella forma costituita dall’aver generato una situazione di pericolo d’inquinamento ambientale.

Di certo il principio di diritto cristallizzato nella pronuncia di legittimità richiamata vale ad escludere automatismi valutativi agganciati a numeri o a soglie o a valori tabellati.

I presupposti di applicazione del reato di cui all’art. 257 del TUA.

Il mancato superamento del limite inferiore della tutela predisposta dall’art. 452 bis del c.p. determina l’attrazione dei fatti di accertato supero delle CSC nell’area del “penalmente irrilevante”, cioè, nell’area del “mero” obbligo di messa in sicurezza e di bonifica del sito contaminato e, cioè, del sito nel quale si sia accertata la presenza, oltre che di un rischio ambientale, anche del rischio sanitario e, quindi, l’avvenuto supero della CSR.

Fatti salvi i casi nei quali le peculiarità del caso concreto abbiano finito per radicare anche la sussistenza degli elementi costitutivi del reato contravvenzionale punito con la pena alternativa di cui all’art. 257 del TUA.

Il reato contravvenzionale citato è stato interessato, nel corso dei suoi ormai quindici anni di vigenza, da un’evoluzione spiccata e progressiva dell’interpretazione che di esso ha dato la Suprema Corte, evoluzione che ha prodotto quale effetto quello di attenuare la portata obiettivamente residuale di questa fattispecie, presidiando con la sanzione penale aree che, nella primissima interpretazione della Suprema Corte, erano state valutate del tutto estranee all’ambito oggettivo di applicazione della fattispecie, in coerenza piena, peraltro, con un lessico legislativo che a quella fattispecie pareva aver dato una dimensione periferica.

Ad essere selezionata quale condotta tipica è stata, in primis, quella dell’aver cagionato l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio, ove non si sia, nel contempo, provveduto alla bonifica in conformità al progetto approvato dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di cui agli artt. 242 e ss.

In secundis, la condotta di mancata effettuazione della comunicazione di cui all’art. 242, che dà luogo ad una fattispecie di reato di natura contravvenzionale, punita con pena alternativa, seppur in modo meno grave rispetto alla prima.

A determinare l’inasprimento del trattamento sanzionatorio, con la comminatoria sia della pena dell’arresto che di quella dell’ammenda, è, invece, la circostanza che l’inquinamento sia stato provocato da sostanze pericolose.

Il lessico utilizzato per la costruzione della fattispecie richiama l’avvenuto superamento delle concentrazioni soglia di rischio ed il non aver bonificato il sito in conformità al progetto approvato dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di cui all’art. 242 e ss. del TUA.

Il richiamo all’avvenuto supero delle CSR pareva confinare la portata oggettiva della fattispecie ai siti contaminati e non anche a quelli solo potenzialmente contaminati, siti contaminati in relazione ai quali l’iter previsto dall’art. 242 del TUA si fosse spinto sino al punto dell’avvenuta approvazione del progetto di bonifica, approvazione alla quale avesse, però, fatto seguito una non conforme attuazione del progetto da parte del responsabile dell’inquinamento, evidentemente sul presupposto che tale condotta, giuridicamente qualificata come condizione obiettiva di punibilità intrinseca a contenuto negativo, avesse determinato un ulteriore aggravarsi dell’offesa all’interesse protetto già perpetrata dalla condotta d’inquinamento. 16

L’interpretazione successiva della Suprema Corte, a partire dall’anno 2010, ha potenziato il respiro applicativo della norma, prevedendo che il reato di cui all’art. 257 si configuri anche in una fase cronologicamente antecedente a quella innescata dall’adozione del progetto di bonifica ma a quest’ultima, però, intimamente collegata e, cioè, quella dell’aver impedito la stessa formazione del progetto di bonifica e, quindi, la sua realizzazione, non attuando il piano di caratterizzazione necessario per la predisposizione del piano di bonifica. 17

Nonché ritenendo il reato in questione configurabile, oltre che in relazione alle operazioni di bonifica, anche a quelle di messa in sicurezza. 18

Dall’ambito oggettivo di applicazione della fattispecie in commento esula, quindi, l’avvenuto accertamento del supero della concentrazione soglia di contaminazione, in ipotesi anche in misura di gran lunga superiore al limite di Legge ed anche in caso di avvenuto accertamento di superi di più sostanze inquinanti, fatti questi, quindi, destinati a ricadere nell’area del “penalmente irrilevante” ove si sia accertato che il limite inferiore della fattispecie di cui all’art. 452 bis del c.p. non sia stato superato.

All’area del penalmente irrilevante si ritiene vada ricondotto anche l’avvenuto supero della concentrazione soglia di rischio, perché il tenore letterale della norma citata e l’interpretazione che di essa hanno cristallizzato le pronunce di legittimità sul tema spinge decisamente più in avanti il confine dell’area in cui ha inizio il fatto penalmente tipico, tipicità destinata a materializzarsi nel solo caso in cui la bonifica abbia avuto luogo in difformità dal relativo progetto e, quindi, in un segmento della procedura amministrativa collocato nella parte finale di essa.

L’esclusione di qualsivoglia automatismo valutativo e la portata residuale della fattispecie di cui all’art. 257 tracciano, quindi, un’area “ grigia”, dai confini e dai contorni non così nitidamente definiti, con prevedibili conseguenze sul terreno dell’applicazione in concreto delle fattispecie in questione.

L’ inquinamento significativo e misurabile della matrice ambientale o dell’ecosistema (il caso esaminato dalla Corte di Cassazione, Sez. III, 30 gennaio 2020, n. 9736).

Se la significatività dell’alterazione della matrice o dell’ecosistema costituisce il limite inferiore della tutela penale introdotta con l’art. 452 bis del c.p., parimenti complesso è riempire questo termine di un significato preciso ed univoco che consenta di orientare l’altrettanto complesso giudizio di tipicità del fatto concreto, giudizio che è inevitabilmente destinato ad oscillare tra un polo costituito – al più - da un reato contravvenzionale punito con pena alternativa ed un altro costituito da un delitto la cui cornice edittale può proiettarsi sino agli otto anni di reclusione ove ricorrano i casi dell’aggravante ad efficacia comune prevista dal comma II dell’art. 452 bis del c.p.

L’attribuzione all’aggettivo “significativo” di un preciso significato è opera complicata da un Legislatore che non ha previsto soglie dimensionali o numeriche che valessero da bussola nel percorso d’interpretazione della norma e, con ogni probabilità, proprio la complessità dell’opera di riempimento di questo contenuto ha spinto verso la denuncia di un deficit di determinatezza della fattispecie di cui all’art. 452 bis del c.p.

Ancora una volta un ausilio rilevante riviene dall’esame delle pronunce della Suprema Corte ed, in particolare, di quella della Sez. III, 30 gennaio del 2020, n. 9736.

Ancora una volta ad esser messo in discussione era un provvedimento applicativo di una misura cautelare personale fondata su gravi indizi di colpevolezza per il delitto di cui all’art. 452 bis del c.p., assumendosi cagionata la compromissione ed il deterioramento significativo e misurabile di un ecosistema marino, nella specie quello dei fondali marini di Punta Campanella e Capri, in conseguenza di un’attività di pesca del corallo rosso mediterraneo svolta in assenza di titolo autorizzativo e con modalità vietate, nella specie mediante la pesca subacquea con uso di bombole e rottura del substrato roccioso, con la previsione che il ripristino delle condizioni ambientali alterate avrebbe richiesto circa 50 anni, sempre che medio tempore non fossero intervenuti nuovi raccolti o altri fattori di perturbazione di questo ecosistema marino.

Ad essere stati abusivamente sottratti a quell’ecosistema marino erano stati circa tre chilogrammi di corallo rosso.

Si denunciava alla Suprema Corte, tra le altre censure, l’illegittimità costituzionale dell’art. 452 bis del c.p. per violazione degli artt. 25 della Costituzione e 7 della CEDU, sostenendosi che la fattispecie in questione era indeterminata perché non era possibile apprezzare oltre quale limite la contaminazione divenisse inquinamento ambientale, essendo vaghi e generici i parametri della significatività e della misurabilità.

Si assumeva che il fatto accertato fosse da ricondurre nel perimetro di applicazione del D.M. del 21.12.2018 del Ministero delle Politiche Agricole ed alimentari, avente ad oggetto la disciplina della pesca del corallo e le sanzioni in caso di pesca in assenza di licenza.

La questione d’incostituzionalità veniva dichiarata manifestamente infondata ma, prima ancora di affrontare le ragioni di tale valutazione di manifesta infondatezza, la Suprema Corte stringeva il focus proprio sul parametro della “significatività”, parametro che portava ad escludere dal perimetro della tipicità tutte quelle forme di alterazione dell’ecosistema che “ non avessero inciso in modo apprezzabile sull’interesse protetto” e che non si prestassero ad essere misurate solo sulla base di dati oggettivi, quindi dati controllabili e confutabili.

I due parametri, che, secondo la Suprema Corte, richiamavano due diverse connotazioni dell’offesa all’interesse protetto, una incidente sul piano della gravità, l’altra sul piano dell’accertamento, avevano concorso, con il loro preciso ed univoco significato, alla costruzione di una fattispecie di reato sufficientemente determinata; la Corte si determinava, quindi, alla declaratoria di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale perché il lessico utilizzato dal legislatore si caratterizzava per significato univoco, sia sotto il profilo della tipizzazione degli eventi di danno penalmente rilevanti - saldamente agganciati al requisito dell’apprezzabilità dell’offesa all’interesse protetto ed a quello della verificabilità oggettiva dell’offesa medesima - sia sotto il profilo della precisa declinazione dell’oggetto della condotta, costituito o dalla matrice ambientale o dall’ecosistema.

Ad esser, quindi, tipica ai sensi dell’art. 452 bis del c.p. è l’alterazione apprezzabile e verificabile della originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, sia che essa abbia assunto la forma della “compromissione” sia che abbia assunto quella del “ deterioramento”.

Compromissione” da intendersi, secondo la Corte, quale condizione di “squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell’ecosistema medesimi e che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo ed ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare”.

Deterioramento” da intendersi, invece, “ quale condizione di squilibrio strutturale, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi e che consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da rendere necessaria per il ripristino una attività non agevole”.

Sul tema del significato da attribuire ai termini “compromissione” e “deterioramento” l’indirizzo interpretativo della Suprema Corte è ormai consolidato. 19

Il fatto portato al vaglio della Suprema Corte era, quindi, da valutarsi tipico ai sensi dell’art. 452 bis del c.p., fattispecie di reato destinata a trovare applicazione in quanto reato più grave rispetto a quelli contravvenzionali previsti dagli artt. 7 ed 8 del Decreto Legislativo 9 gennaio del 2012, n. 4, in tema di pesca illegale.

L’alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema – il limite superiore del sistema di tutela introdotto con l’art. 452 bis del c.p.

L’irreversibilità dell’alterazione dell’ecosistema costituisce il limite superiore della tutela predisposta dall’art. 452 bis del c.p.

Indipendentemente dall’esistenza e dall’impatto su di esso di un fattore esterno, nella specie di un agente inquinante, nel suo fisiologico funzionamento l’ecosistema si caratterizza per un equilibrio dinamico, perché l’interazione quotidiana tra la componente biotica e quella abiotica definisce di quell’equilibrio contenuti che, seppure impercettibilmente, sono oggetto di continue modificazioni nel tempo.

La capacità di autoregolazione e, quindi, la capacità di tornare ad uno stato di equilibrio dopo e nonostante l’intervento di un fattore di perturbazione esterno e, quindi, in ipotesi di un agente inquinante, costituisce l’essenza prima di un ecosistema, perché un ecosistema sul quale l’agente inquinante ha agito con tale e tanta forza da annullare la capacità di autoregolazione e, quindi, la capacità di ritornare ad uno stato di equilibrio è un’entità irreversibilmente alterata e, quindi, tecnicamente morta.

A mero titolo esemplificativo, si pensi all’iniezione od allo scarico reiterato nel tempo in un lago di piccole o medie dimensioni di grandi quantitativi di solventi clorurati o di altri composti chimici, il cui impatto sull’ecosistema è di così tale e tanta forza da cancellare la componente biotica del lago e da contaminare in modo irreversibile le matrici ambientali acqua e suolo.

La fattispecie di disastro ambientale presidia, quindi, ogni singolo ecosistema contro l’impatto su di esso di un qualsivoglia agente o fattore inquinante che abbia determinato l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di quell’ecosistema e, quindi, abbia in concreto cancellato la capacità del sistema di ridarsi e ritrovare un nuovo punto di equilibrio.

Sul terreno della prova, la dimostrazione dell’avvenuta alterazione irreversibile dell’equilibrio, a parere di chi scrive, non può prescindere, fatte salve le peculiarità dei singoli casi concreti che possono caratterizzarsi per evidenze apprezzabili ictu oculi, dal supporto e dall’ausilio di specifiche e consolidate esperienze e competenze tecnico scientifiche, quali quelle dispiegabili sul campo dagli Organi tecnici dello Stato e delle Regioni, quali ISPRA ed ARPA, o quali quelle acquisibili al procedimento o al processo penale con le forme della consulenza tecnica o della perizia.

La dimostrazione di un’alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema impone l’acquisizione al procedimento penale o al processo, da un lato, di qualificate conoscenze delle caratteristiche chimico-fisiche e biologiche dell'inquinante immesso, dall'altro un’altrettanta qualificata valutazione dei meccanismi naturali di degradazione chimica o biologica o di allontanamento fisico dell'inquinante che l'ambiente ricettore è in grado di sviluppare nei confronti dell'inquinante medesimo.

Particolarmente complesso, in punto di prova, si rivelerà l’accertamento delle capacità “auto-depurative dell'ambiente ricettore”, che costituisce un aspetto sito specifico da valutarsi caso per caso, alla luce della valutazione dei fenomeni locali di capacità degradativa che i diversi meccanismi fisici, chimici o biologici, sono in grado di sviluppare nel particolare contesto territoriale considerato.

Questo specifico accertamento non potrà che essere condotto con contenuti e metodi di volta in volta diversi in relazione alle peculiarità del caso concreto, tenendo, ovviamente, presente che la natura irripetibile dell’accertamento impone il ricorso alle forme di cui all’art. 360 del c.p.p.

Più nello specifico, le professionalità di supporto necessarie per svolgere tali accertamenti sono, tendenzialmente, quelle del chimico e del biologo per la valutazione delle caratteristiche intrinseche di degradabilità o di rimovibilità dell'inquinante immesso e quelle degli esperti in scienze ambientali (chimica ambientale, biologia dell'ambiente, idrologia) per la valutazione dei fenomeni operanti nell'ambiente ricettore.

Un’ulteriore riflessione si impone con riferimento a quelle situazioni di gravissima compromissione dell’equilibrio di un ecosistema che, pur non avendo il carattere della irreversibilità, si prestino ad essere ripristinate e riportate alla condizione di equilibrio in tempi lunghissimi o, comunque, non rapportabili con le categorie dell’agire umano.

Un aspetto, infatti, che si rivela necessario accertare e valutare è come debba essere considerato l'orizzonte temporale della reversibilità, vale a dire se sia possibile individuare dei limiti numerici di tempo che costituiscano l’esplicitazione del concetto di irreversibilità ed eventualmente attingendo a quale fonte.

Su questo aspetto la valutazione non potrà che essere indicativa, tenendo conto, tuttavia, del fatto che esistono orizzonti temporali molto diversi tra:

  1. un inquinante biodegradabile o volatile (ad esempio, l’alcool o il composto ammoniacale) immesso nel suolo o in un'acqua di lago, la cui scomparsa avviene in tempi valutabili nell'ordine dei giorni o dei mesi;

  2. un inquinante, come un idrocarburo, sversato in mare o lungo un litorale, per il quale esistono meccanismi biologici naturali di degradazione, con tempi, tuttavia, nell'ordine degli anni;

  3. o, infine, una specie refrattaria, non solubile e non volatile quali microinquinanti clorurati o IPA, destinati a permanere nella matrice contaminata per tempi di decine o centinaia di anni.

Appare ragionevole ritenere, allo stato, che la fattispecie di disastro ambientale di cui all’art. 452 quater, comma II, n. 1, possa ritenersi integrata al ricorrere di situazioni di compromissione dell’ecosistema quali quelle descritte, a mero titolo esemplificativo, al precedente punto tre, situazioni che, pur non potendosi definire tecnicamente e teoricamente irreversibilmente compromesse, si prestano, però, ad essere recuperate in più decenni o secoli 20.

L’abusività della condotta di inquinamento.

L’abusività della condotta di inquinamento ambientale costituisce connotato che deve caratterizzare qualsivoglia alterazione reversibile, significativa e misurabile della matrice ambientale o dell’ecosistema.

Trattasi di clausola di illiceità speciale che, al pari delle altre clausole di illiceità speciale, è stata utilizzata dal Legislatore per connotare fatti già di per sé illeciti - perché penalmente rilevanti - di un ulteriore profilo di illiceità, di carattere evidentemente extra penale.

L’abusività del fatto che ha cagionato l’alterazione è anch’esso terreno di prova e, quindi, al pari di quanto già fatto con riferimento agli altri elementi costitutivi della fattispecie, essenziale appare definire il più analiticamente possibile il contenuto ed il significato della locuzione utilizzata dal Legislatore.

La Legge 22 maggio del 2015, n. 68, ha costituito, come detto, il prodotto del recepimento – tardivo - in Italia della direttiva n. 99 del 2008 del Parlamento Europeo e del Consiglio, in tema di tutela penale dell’ambiente, con la quale il Legislatore comunitario si è posto l’obiettivo di alzare in modo significativo il livello di tutela del bene ambiente nel territorio dell’Unione, promuovendone una più efficace tutela.

Dopo aver tipizzato agli artt. 3 e 4 i fatti da far assurgere ad illecito penale, con il successivo art. 5 la direttiva ha previsto che ciascuno Stato membro debba adottare tutte le misure necessarie per assicurare che i reati di cui ai precedenti artt. 3 e 4 siano puniti con sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive.

Ad una logica di tutela penale efficace, proporzionata e dissuasiva ha obbedito l’introduzione, con la Legge n. 68 del 2015, in un sistema normativo sino a quel momento costruito sul versante sanzionatorio – salvo rare eccezioni - con il ricorso al reato contravvenzionale, di fattispecie di reato di natura delittuosa, punite, quindi, con sanzioni più gravi.

Il richiamo alla direttiva n. 99 del 2008 appare essenziale per illuminare la logica e la ratio di fondo della Legge n. 68 del 2015 e lo è ancor di più sullo specifico terreno della abusività della condotta, perché la direttiva, nel tipizzare all’art. 3 i fatti che i singoli legislatori nazionali avrebbero dovuto far assurgere ad illecito penale, subordina la rilevanza penale degli stessi al ricorrere di una duplice condizione e, cioè, da un lato, che gli stessi abbiano il carattere dell’illiceità e, dall’altro, che siano posti in essere intenzionalmente (e, quindi, con dolo) o, quanto meno, per grave negligenza (e, quindi, per colpa).

Il connotato di illiceità che, secondo il Legislatore dell’Unione Europea, deve contraddistinguere le attività destinate ad essere tipizzate come reato è riempito di significato dal precedente art. 2 della medesima direttiva, ove si definiscono illecite le attività che:

  1. violano gli atti legislativi adottati ai sensi del Trattato CE ed elencati nell’allegato A);

  2. violano gli atti legislativi adottati ai sensi del trattato Euratom ed elencati nell’allegato B), ma in questo caso in relazione alle sole attività previste dal medesimo Trattato Euratom;

  3. violano gli atti legislativi o i regolamenti amministrativi o le decisioni adottate da un’autorità competente di uno Stato membro che dia attuazione alla legislazione comunitaria di cui ai punti nn. 1 e 2.

Nella costruzione del Legislatore dell’Unione Europea, quindi, i fatti di reato da tipizzarsi da parte di ciascuno Stato devono, oltre che essere - sul piano della colpevolezza – riconducibili alla cosciente volontà di commetterli in capo al soggetto autore o, quanto meno, dallo stesso prevedibili e, quindi, evitabili, caratterizzarsi di un ulteriore requisito, chiaramente individuato nell’essere quei fatti, oltre che colpevolmente commessi, anche contra ius e, cioè, in violazione di Legge.

Con ogni probabilità, il senso e la portata della presenza della locuzione abusivamente è proprio quello di dare attuazione alla direttiva n. 99 del 2008, nella parte in cui circoscrive la rilevanza penale dei fatti facendo uso del doppio criterio della colpevolezza e dell’illiceità.

Sull’interpretazione della portata e del significato da attribuirsi alla locuzione abusivamente sin da subito si è acceso un vivace e franco dibattito nella dottrina del diritto penale dell’ambiente ma spunti significativi d’interpretazione si possono cogliere anche nella relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione 21.

Si è argomentato in dottrina che la clausola abusivamente richiami il requisito di illiceità imposto dalla direttiva n. 99 del 2008, che, come detto, demanda al Legislatore nazionale di tipizzare nuove fattispecie di reato, colpevoli e, soprattutto, contra ius, e, quindi, fa obbligo al singolo Stato di connotare di una nota speciale di illiceità i fatti di grave compromissione della matrice o dell’ecosistema.

L’essenzialità di quella clausola sia nella direttiva che nella legislazione italiana che l’ha recepita è stata argomentata valorizzando, nell’ottica di un equo e chiaro contemperamento degli interessi in gioco o, rectius, in conflitto nella delicata materia della tutela penale dell’ambiente, la necessità di delimitare l’ambito del rischio consentito e, soprattutto, nell’ottica di un corretto bilanciamento tra i poteri di uno Stato di diritto, in cui spetta al potere legislativo ed a quello esecutivo di individuare il livello di inquinamento tollerabile perché socialmente accettato ed al potere giudiziario di sanzionare condotte di inquinamento che hanno superato quel livello 22.

Secondo tale impostazione, l’introduzione della locuzione abusivamente è avvenuta nell’ottica di ritenere configurabile e provata la fattispecie in questione solo in presenza di un’alterazione della matrice o dell’ecosistema generata da una condotta colpevole ma, soprattutto, illecita o perché sprovvista di titolo autorizzativo e, quindi, clandestina o perché posta in essere in violazione ed in aperto contrasto con le prescrizioni contenute nel titolo autorizzativo medesimo.

Nel perimetro dell’abusività sono da collocarsi, quindi, i fatti di inquinamento posti in essere in violazione di una norma di Legge - e, data la portata omnicomprensiva della locuzione utilizzata, di una qualsivoglia norma di Legge – e/o delle prescrizioni contenute nei singoli titoli autorizzativi.

Sulla portata generale della clausola di illiceità speciale, val la pena evidenziare che l’originaria stesura della norma subordinava la punibilità della condotta di inquinamento al fatto che la medesima fosse posta in essere “ in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificatamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale ”, in tal modo, all’evidenza, restringendo l’ambito di applicazione della fattispecie ai soli casi in cui, da un lato, la normativa violata fosse stata posta a specifica tutela del bene ambiente (con esclusione, quindi, di quelle condotte causative dell’inquinamento ambientale poste in essere in violazione di altre normative, quali, ad esempio, quella posta a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro) e, nell’ambito di essa, ai soli casi in cui la condotta fosse stata già tipizzata dal Legislatore quale illecito penale od amministrativo.

La stesura definitiva della fattispecie supera l’originaria impostazione e, con l’introduzione della più ampia e generale locuzione abusivamente, proietta l’ambito oggettivo di applicazione della stessa ben oltre l’orizzonte del diritto penale dell’ambiente, estendendolo anche ai fatti di alterazione della matrice o dell’ecosistema causati per infrazione di regole poste a tutela di interessi diversi da quello squisitamente ambientale 23 ed, in ipotesi, anche ad alterazioni causate per infrazione alle regole del diritto europeo di immediata applicazione e di futura adozione 24.

Con la pacifica conseguenza che, essendo diversa l’oggettività giuridica tutelata, ben può ipotizzarsi il concorso tra la fattispecie di inquinamento ambientale ed il diverso reato di natura formale previsto dalla disciplina posta a tutela dei beni od interessi diversi da quello ambientale, mentre deve, invece, valutarsi l’assorbimento, nella più grave fattispecie prevista dal titolo VI bis del c.p., del diverso reato di natura formale a tutela dell’ambiente.

Su questo specifico terreno dell’illiceità della condotta, si è sottolineato in dottrina che, abbandonando l’originaria stesura della norma e recependo la più generale ed omnicomprensiva locuzione abusivamente, il Legislatore nazionale ha dato attuazione alla direttiva con rigore maggiore di quello richiesto dalla direttiva medesima, che, circoscrivendo, all’art. 2, lett. A), i, l’illiceità alla violazione degli atti legislativi adottati ai sensi del Trattato CE ed elencati nell’allegato A, evidentemente rimandava per la definizione dell’illiceità della condotta alla sola violazione di norme poste a specifica tutela dell’ambiente, quali quelle, per l’appunto, elencate nell’allegato A al Trattato medesimo 25.

Spunti significativi di valutazione, come anticipato, si colgono anche nella relazione del Massimario della Corte di Cassazione 26, nel quale si suggerisce di riempire di contenuto la locuzione abusivamente, attingendo al significato che ad essa ha attribuito il consolidato orientamento della Corte di Cassazione in tema di traffico illecito di rifiuti 27, fattispecie anch’essa costruita con il ricorso alla nota di illiceità speciale e, quindi, di ritenere abusiva la condotta di inquinamento ambientale:

  1. nel caso d’assenza di un titolo autorizzativo allo svolgimento dell’attività che ha determinato l’alterazione della matrice o dell’ecosistema;

  2. in presenza di un titolo autorizzativo nel frattempo scaduto;

  3. in presenza di un titolo autorizzativo frutto o provento di pactum sceleris o, comunque, di altri fatti penalmente rilevanti e, per questa ragione, “disapplicabile” dal giudice ordinario;

  4. in presenza di un titolo autorizzativo manifestamente illegittimo;

  5. in presenza di un titolo pienamente valido ed efficace, in relazione a tutte quelle situazioni in cui la condotta di inquinamento è stata posta in essere in violazione delle prescrizioni e dei limiti contenuti nel titolo autorizzativo medesimo.

Quello dell’abusività della condotta è terreno di prova, quindi, sul quale le valutazioni in punto di diritto sono destinate a svolgere un ruolo essenziale e, quindi, quello della clausola di illiceità speciale è tra i momenti più delicati e complessi della più ampia valutazione che porta a ritenere sussistente - perché provata - la fattispecie in questione, perché impone valutazioni che, investendo l’esistenza, l’ambito di applicazione e l’oggettività giuridica di un numero piuttosto ampio di microsistemi normativi e di provvedimenti amministrativi, vedrà impegnati in primissima persona, prima il pubblico ministero titolare delle indagini e, successivamente il giudice del processo.

Si tratta, con ogni probabilità o, quanto meno, nel maggior numero di casi, di valutazioni che impongono acquisizioni documentali, quali quelle aventi ad oggetto le autorizzazioni all’esercizio delle singole attività, per poi procedere alla verifica di conformità o meno - con il dettato autorizzativo ed, in particolar modo, con le sue prescrizioni - della condotta osservata in concreto dal soggetto che ha cagionato l’alterazione, verifica indispensabile per desumerne il carattere, oltre che colpevole, anche illecito.

Sul tema dei contenuti della clausola di illiceità in commento si è espressa la Suprema Corte con la sentenza della Sez. III, n. 28732 del 27.4.2018, in tema di captazione di acqua pubblica di un lago ad uso privato in violazione dell’art. 17 del R.D. n. 1775 del 1933, consolidando il principio di diritto secondo cui: “ La condotta abusiva di inquinamento ambientale, idonea ad integrare il delitto di inquinamento ambientale di cui all’art. 452 bis del c.p., comprende non soltanto quella svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali – ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale – ovvero di prescrizioni amministrative”. 28

L’elemento psicologico del delitto d’inquinamento ambientale – la rilevanza anche del dolo eventuale (il caso esaminato da Cass. Pen., Sez. III, n. 26007 del 5.4.2019).

Il tema della connessione tra il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies del c.p. e quello d’inquinamento ambientale presenta, tra gli altri, un profilo di particolare interesse in relazione a quelle situazioni concrete nelle quali il progetto illecito perseguito contempla come conseguenza – non voluta ma accettata della condotta di traffico dei rifiuti - l’alterazione significativa ma reversibile dell’ecosistema o della matrice ambientale.

Il riferimento è al profilo del dolo eventuale nel delitto d’inquinamento, l’onere della cui prova è decisamente meno gravoso di quello relativo alla prova del dolo specifico nel delitto di traffico.

Ancora una volta appare concludente il richiamo all’indirizzo della Suprema Corte, che, su questo specifico tema, si è pronunciata con la sentenza della Sez. III, n. 26007 del 5.4.2019.

Al vaglio della Corte veniva portato un provvedimento cautelare, questa volta di natura reale ed avente ad oggetto un impianto di depurazione delle acque urbane affidato in gestione ad una società.

Dell’impianto era stato disposto il sequestro preventivo perché, mediante l’utilizzo di una telecamera, la Polizia giudiziaria aveva documentato che i reflui fognari venivano, tramite un bypass, convogliati, senza alcun trattamento, in una condotta sottomarina e poi in mare.

Era dato condiviso da tutte le parti processuali che il bypass esistesse da tempo, così come era parimenti condiviso l’ulteriore dato in forza del quale la realizzazione del bypass preesisteva all’affidamento in gestione dell’impianto di depurazione alla società al centro dell’investigazione preliminare, società la quale, del resto, articolava la sua difesa proprio sull’elemento psicologico del reato, argomentandone l’insussistenza.

Ed è proprio da questo caso che la Corte prendeva le mosse per confermare la legittimità del provvedimento cautelare di sequestro preventivo, affermando che, ai fini della configurabilità del dolo del delitto di inquinamento, è sufficiente la volontà di abusare del titolo amministrativo di cui si ha la disponibilità, con la consapevolezza di poter determinare un inquinamento ambientale, trattandosi di fattispecie di reato costruita ricorrendo al dolo generico e, quindi, sussistente anche in caso di dolo eventuale.

Conseguente il principio di diritto formulato in forza del quale: “ atteso che risulta…..che la società affidataria del servizio fosse perfettamente consapevole dell’esistenza del bypass ….., non rivestendo alcun rilievo la doglianza sul difetto dell’elemento psicologico del reato. Ed, invero, nell’ipotesi di inquinamento ambientale, nel caso in cui, come quello sub iudice, più siano i soggetti garanti della tutela del bene giuridico oggetto di tutela penale, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela impostogli dalla Legge ed, in particolare, ciascuno per andare esente da responsabilità neppur può invocare neppure l’esaurimento del rapporto obbligatorio, fonte dell’obbligo di garanzia e l’eventuale subingresso in tale obbligo di terzi, ove il perdurare della situazione giuridica si riconduca alla condotta colpevole dei primi”.

Gli strumenti dell’accertamento del delitto d’inquinamento ambientale – la necessità di acquisire tempestivamente il contributo di una scienza autorevole.

Una delle ragioni per le quali è parso concludente spendere delle riflessioni, oltre che sui principi di diritto elaborati dalla Suprema Corte, anche sulle peculiarità dei singoli casi che hanno generato quei principi, risiede in un dato di natura obiettiva comune alle pronunce oggetto di commento e, più in generale, alle pronunce della Suprema Corte sul delitto in trattazione e, cioè, quello che si tratta di pronunce rese sulla legittimità di provvedimenti cautelari personali o reali a carico di persona fisica e non di sentenze di primo o di secondo grado, pronunciate, quindi, a seguito dell’instaurazione del contraddittorio e sulla base di prove in grado di superare l’oltre ogni ragionevole dubbio.

Il terreno sul quale tali pronunce sono sopravvenute è quello della c.d. alta probabilità del cagionare una compromissione o un deterioramento significativo e misurabile dei beni tutelati e non quello decisamente più impegnativo della certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sussistenza di un fatto penalmente tipico e colpevole.

Su un terreno parimenti agevole per l’accusa è stata resa la sentenza della III Sezione della Suprema Corte n. 28732 del 27.4.2018, chiamata a vagliare la legittimità dell’ordinanza del Tribunale di Civitavecchia di conferma di un decreto di perquisizione e di sequestro emesso dalla Procura della Repubblica di quella sede giudiziaria, avente ad oggetto gli impianti idraulici utilizzati per ripetuti ed abusivi prelievi di acqua dal lago di Bracciano.

Al rigetto del ricorso proposto da chi quel sequestro aveva subito si addiveniva anche sulla base della formulazione del principio di diritto in forza del quale “ ai fini dell’accertamento del reato d’inquinamento ambientale la verifica della sussistenza dei requisiti della compromissione o del deterioramento non richiede necessariamente l’espletamento di accertamenti tecnici specifici”.

Il principio veniva formulato a valle di un percorso argomentativo che val la pena di essere testualmente richiamato: “ Sebbene non possa escludersi la necessità, in determinati casi, di verifiche anche volte ad accertare la sussistenza ed il grado di compromissione o deterioramento di singole matrici ambientali o di un intero ecosistema, possono senz’altro verificarsi situazioni nelle quali simili situazioni siano di macroscopica evidenza, come nel caso di distruzione di flora o fauna immediatamente percepibili, ovvero quando, una volta individuato un determinato contesto ambientale e le caratteristiche che lo contraddistinguono, possano poi direttamente apprezzarsi le conseguenze della condotta contestata. Ciò è avvenuto, ad esempio, nel caso esaminato nella più volte citata sentenza Catapano (n.d.r. Cass. Pen. Sez. III, n. 18934 del 15.3.2017), laddove si dava conto del fatto che il Tribunale, dopo aver dato atto del fondamentale ruolo svolto dalle oloturie nel contesto ambientale marino nel quale sono inserite…, aveva preso in considerazione, ai fini della sussistenza del fumus del reato, la quantità del pescato, la diffusione del fenomeno ed il significativo spostamento dei pescatori dalle zone storicamente frequentate, documentato dalle annotazioni di polizia giudiziaria e dalle attività di diretta osservazione. Si tratta, senza dubbio, di indagini non sempre agevoli, da effettuare anche tenendo conto delle condivisibili preoccupazioni espresse dalla dottrina, allorquando viene fatto notare che l’accertamento delle conseguenze della condotta potrebbe, in alcuni casi, comportare la necessità di un confronto con situazioni preesistenti, impossibile o, comunque, di difficile attuazione in zone industrializzate o fortemente antropizzate per le quali non sono disponibili dati di confronto, ma che non rendono certo indispensabile il ricorso a consulenze o perizie” .

Il riferimento è alla sentenza della III Sezione della Cassazione n. 18934 del 15.3.2017 (Catapano), nella quale l’evento di danno all’ecosistema era stato ritenuto perfezionato nel depauperamento della fauna in una determinata zona con una drastica eliminazione degli esemplari ivi esistenti e, cioè, delle oloturie.

Sullo sfondo del principio di diritto enunciato e del percorso argomentativo che ne ha sostenuto la formulazione è sin troppo semplice intravedere il tema del sofisticato rapporto tra il processo penale e le sue esigenze di accertamento da un lato, e la scienza e la tecnica dall’altro e, soprattutto, quello del come e con quali criteri selezionare la scienza e la tecnica da spendere nel processo penale.

Rapporto destinato a proiettarsi nel concreto delle situazioni nelle quali la prova al di là di ogni ragionevole dubbio dell’alterazione dell’ecosistema o della matrice non si presenti di “ macroscopica evidenza”.

Microcosmo di situazioni nelle quali è più che ragionevole immaginare, soprattutto quando gli interessi messi in gioco dall’investigazione o dal processo siano di particolare importanza o facciano capo a soggetti economicamente “forti”, che sia proprio la Difesa della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato a “mettere in campo” il contributo della scienza o della tecnica e, quindi, a far valere la multifattorialità della causa dell’inquinamento ambientale o la mancanza del nesso di causalità tra la condotta e l’alterazione dell’ecosistema o della matrice o, addirittura, la sua irreversibilità.

Oggetto di riflessione è, quindi, se, nella prospettiva del superamento dell’oltre ogni ragionevole dubbio, la scienza o la tecnica o entrambe possano svolgere un ruolo in una moderna ed efficace strategia di contrasto al crimine ambientale e, se si, quale scienza e, cioè, solo quella condivisa dalla comunità scientifica o anche quella non avente tale caratteristica.

La scelta della scienza alla quale attingere è tema che involge direttamente la responsabilità del magistrato di volta in volta procedente ed è tema sul quale una scelta non all’altezza della complessità dell’accertamento può “costare” o il buon esito dell’investigazione preliminare o addirittura quello del processo.

Allorquando si fa riferimento all’accertamento ambientale ed alla sua sofisticazione e complessità, si fa evidentemente riferimento proprio al fatto che la lettura di un’alterazione dell’ecosistema o della matrice può imporre la necessità di acquisire anche più competenze tecniche.

Con ogni probabilità, il terreno di prova costituito dal nesso causale tra l’evento di danno e la condotta colpevole ed abusiva del soggetto inquinatore costituisce il banco di prova più duro da affrontare e superare nel lungo, laborioso e, con ogni probabilità, economicamente costoso sentiero da percorrere per giungere al risultato della prova della sussistenza del reato d’inquinamento ambientale.

La prova del nesso causale in genere impone accertamenti e valutazioni complesse ed articolate e tale prova è destinata ad imporre sforzi ricostruttivi ancor più impegnativi nella materia degli ecoreati, nella quale, almeno in termini statisticamente più significativi a voler valorizzare il dato esperienziale, l’inquinamento, con effetti reversibili o irreversibili sull’ecosistema, costituisce la risultante delle azioni od omissioni imputabili quasi mai ad una sola persona ma, molto più spesso, all’agire o all’omettere di un numero ampio e molteplice di soggetti, come nel caso di avvicendamento nella gestione o nella proprietà di una fonte inquinante di diverse società e, quindi, di diverse persone fisiche, in relazione alle quali appare necessario valutare il peso in termini eziologici del singolo contributo di ciascuna di esse.

Piuttosto di frequente, quindi, l’accertamento del nesso causale imporrà la ricostruzione del peso specifico di ciascun contributo causale, con l’ineludibile conseguenza che tale sforzo ricostruttivo diverrà sempre più complesso quanto più si sarà costretti a tornare indietro nel tempo, pur potendosi giovare tale sforzo di un importante contrappeso costituito dal raddoppio dei termini di prescrizione.

L’inquinamento ambientale, però, non è solo la risultante dell’azione combinata nel tempo, anche in un lungo lasso di tempo, di una molteplicità di soggetti ma costituisce, altresì, con pari frequenza statistica, il prodotto dell’agire combinato di una molteplicità di fonti inquinanti allocate nel medesimo spazio, l’una a poca distanza dall’altra e, molto spesso, parti di identici processi produttivi, gestiti ed alimentati ricorrendo spesso alla medesima materia prima.

A mero titolo esemplificativo, può essere d’ausilio sul punto richiamare le peculiarità di alcuni poli industriali del nostro Paese, caratterizzati dalla presenza di più impianti di produzione di energia elettrica, l’uno a qualche centinaio di metri o a qualche chilometro di distanza dall’altro, tutti alimentati con l’impiego del carbone o del petrolio e provare ad immaginare quanto possa essere davvero impegnativo e complicato, in punto di prova, misurare e stimare l’impatto di danno – irreversibile o meno – prodotto sulla qualità delle matrici ambientali aria, suolo e falda superficiale dalla dispersione nell’ambiente circostante sia delle polveri del carbone nella fase che precede l’avvio in caldaia della materia prima che delle ceneri leggere generate dal processo di combustione del carbone medesimo.

La complessità dell’accertamento del nesso causale è destinata a moltiplicarsi in tutte quelle aree del nostro paese contraddistinte dall’acronimo SIN e, cioè, nei siti di bonifica di interesse nazionale, istituiti, i primi, dalla Legge n. 426 del 1998 e, cioè, in quelle aree del nostro Paese, molto spesso estese per migliaia di ettari sulla terra e sul mare, nelle quali il livello di inquinamento ha assunto dimensioni ingentissime, da vera emergenza nazionale, avendo attinto tutte o quasi le matrici ambientali, sì da imporre bonifiche finanziabili, per l’enormità della spesa, solo con fondi pubblici.

Proprio in quelle aree, la prova del nesso causale è destinata ad approdare a picchi di ineguagliabile difficoltà perché proprio la concentrazione in un medesimo sito, l’una a poca distanza dall’altra, di molteplici fonti inquinanti, spesso espressione di medesimi processi produttivi, determina la diabolica situazione in cui ciascuna delle fonti inquinanti agisce da fattore di confondimento dell’origine dei danni generati dall’altra.

Non pare revocabile in dubbio che, nel disegno complessivo della riforma, il ruolo di fulcro e di baricentro possa e debba essere attribuito alle nuove fattispecie di inquinamento e disastro, costruite sia l’una che l’altra (quelle punite a titolo di dolo perché la variante colposa attribuisce rilevanza anche alla mera situazione di pericolo) come fattispecie di evento, nella specie l’alterazione reversibile od irreversibile dell’ecosistema e della matrice ambientale, in relazione alle quali, quindi, è da ritenersi imprescindibile la prova del nesso causale diretto ed immediato, anche solo in termini di concausa, tra l’evento di inquinamento e la condotta colpevole ed abusiva del soggetto inquinatore.

Non è rimasta del tutto estranea al Legislatore della riforma la tecnica di costruzione dell’illecito penale imperniata sull’attribuzione di rilevanza penale a condotte che, indipendentemente ed ancor prima del fatto che abbiano cagionato un evento, assurgono a reato perché, in astratto od in concreto, pericolose e, quindi, idonee a mettere in pericolo il bene ambiente, come avvenuto nel caso delle fattispecie di cui all’art. 452 sexies, con la quale si è tipizzata la condotta di traffico ed abbandono di materiale ad alta radioattività, e di quella di cui all’art. 452 quinquies.

Ed è più che ragionevole ritenere che la costruzione della fattispecie da ultimo richiamata come reato non di evento ma di condotta, non di danno ma di pericolo astratto o concreto, produca un riverbero sul terreno della prova degli elementi costitutivi del reato, dispensando l’interprete e, soprattutto, il magistrato da lunghi e faticosi sforzi ricostruttivi della catena causale.

La complessità dell’accertamento del danno all’ambiente impone, a parere di chi scrive, quindi, la necessità per il magistrato di “munirsi” tempestivamente del sostegno e della collaborazione della scienza e della tecnica e di creare le condizioni perché possa materializzarsi l’osmosi dei dati e delle informazioni tra l’Organo di polizia giudiziaria ed il consulente tecnico, facendosi fatica ad immaginare profili dell’accertamento che non involgano contestualmente la necessità di accertare che un determinato fatto ha avuto luogo nonché quella di accertare il se e la misura della perturbazione al bene ambiente arrecata da quel fatto così come accertato.

La “tempestività” nella scelta del sostegno di una scienza e di una tecnica “autorevole” può, invece, essere decisiva nel creare le condizioni perché la persona imputata del delitto di inquinamento ambientale valuti conveniente il ricorso ad un rito alternativo.

Valga, in proposito, un richiamo, a mero titolo esemplificativo, ad uno dei casi esaminati nel corpo della presente trattazione e, cioè, a quello relativo all’avvenuto riempimento di una cava con centinaia di migliaia di metri cubi di rifiuti speciali anche pericolosi e, cioè, al caso sul quale si è pronunciata la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 50018 del 6.11.2018.

In un caso del genere, vi è da riflettere su quanto si sarebbe complicato, ragionando in una prospettiva di superamento dell’oltre ogni ragionevole dubbio, l’onere probatorio del Pubblico Ministero che avesse proceduto alla contestazione del delitto d’inquinamento ambientale senza preoccuparsi di accertare, ricorrendo ad una consulenza tecnica, se ed in che misura l’accertato smaltimento illecito di centinaia di migliaia di metri cubi di rifiuti avesse determinato il superamento delle CSC nelle matrici ambientali suolo e sottosuolo.

Vi è da riflettere su quale percorso sarebbe stato necessario intraprendere per provare, in un caso del genere e nella prospettiva del superamento dell’oltre ogni ragionevole dubbio, l’autonomia concettuale e strutturale del delitto in questione rispetto al reato contravvenzionale di cui al comma 3 dell’art. 256 del TUA.

In altri termini, su come provare la messa in discussione della struttura o della funzione della matrice senza fare ricorso alla scienza ed alla tecnica nonché ad una misurazione di tale “messa in discussione” saldamente agganciata al superamento di limiti legislativamente fissati, soprattutto nell’ottica proprio della “significatività”, parametro che richiama il concetto di misura.

La necessità dell’instaurazione del contradditorio sin dalla fase dell’investigazione preliminare ed il peso specifico notevolissimo rivestito dalla scienza e dalla tecnica costituiscono, a parere di chi scrive, i connotati salienti dell’investigazione preliminare destinata al contrasto del crimine ambientale, connotati che valgono a conferire a questa tipologia d’investigazione autonomia spiccata rispetto alle altre tipologie d’investigazione.

Il delitto di morte o di lesioni come conseguenza non voluta del delitto d’inquinamento ambientale.

Il tema è quello dell’art. 452 ter del c.p. e, cioè, del caso in cui dal compimento di una condotta d’inquinamento ambientale derivino, come conseguenza non voluta dal reo, lesioni personali con prognosi superiore a venti giorni, lesioni gravi o gravissime o la morte di una o più persone o addirittura entrambe le evenienze.

Al ricorrere dell’una o dell’altra delle evenienze o di entrambe, la cornice edittale del delitto di inquinamento ambientale subisce inasprimenti via via progressivi.

Si tratta di variante del delitto d’inquinamento sulla cui natura giuridica sono state proposte letture di diversa ispirazione.

Secondo un primo orientamento si tratterebbe di un’ipotesi di delitto aggravato dall’evento morte o lesioni, costruito sulla falsariga dell’art. 586 del c.p., con il precipuo scopo di inasprire il trattamento sanzionatorio tutte le volte in cui la proiezione dell’offesa al bene tutelato si dilata sino a colpire anche la vita o l’incolumità fisica delle persone. 29

Secondo un più recente orientamento, invece, potrebbe essere ragionevole ipotizzare che non si sia in presenza di una fattispecie autonoma di reato ma, al più, di una serie di circostanze aggravanti. 30

A sostegno del primo militano il fatto che la morte e/o le lesioni come conseguenza non voluta siano inserite in un autonomo corpo normativo, quello dell’art. 452 ter del c.p., avente un autonomo nomen juris, caratterizzato da pene autonomamente individuate ma, soprattutto, il dato obiettivo della consegna al secondo comma dell’art. 452 bis del c.p. delle circostanze aggravanti del delitto in trattazione. 31

A sostegno del secondo la circostanza che dell’art. 452 ter del c.p. il legislatore non abbia fatto menzione né nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti e delle società né in materia di confisca né in quella del raddoppio dei termini di prescrizione, circostanza che può trovare una ragionevole giustificazione solo nella scelta di configurare l’art. 452 ter del c.p. come aggravante del delitto d’inquinamento ambientale. 32

Quale che sia la natura giuridica dell’art. 452 ter e, cioè, quella di circostanza aggravante suscettibile di bilanciamento o di delitto aggravato dall’evento, sottratto in quanto tale al giudizio di bilanciamento, un ulteriore dato merita di essere evidenziato e, cioè, che una previsione di analogo contenuto non è stata introdotta con riferimento al reato di disastro ambientale, che pure, più dell’inquinamento ambientale, pare poter proiettare gli effetti ben oltre il bene giuridico tutelato e, cioè, ben oltre il danno alla matrice ambientale o all’ecosistema. 33

In ipotesi il vuoto di tutela in relazione al delitto di disastro ambientale potrebbe rivelarsi più apparente che reale, sol che si tenga conto che il comma II dell’art. 452 quater, n. 3, configura il disastro ambientale anche al ricorrere di un’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo. 34

Potrebbe, quindi, ragionevolmente ipotizzarsi che lo spazio oggettivo di applicazione della fattispecie in commento copra quelle situazioni nelle quali, pur essendosi proiettata l’azione offensiva ben oltre il bene tutelato, non si sia in concreto radicata l’offesa o la messa in pericolo della pubblica incolumità nel significato che a questo termine ha univocamente assegnato il comma II, n. 3, della citata disposizione e tanto benché alla condotta d’inquinamento ambientale abbia fatto seguito la morte o le lesioni anche in danno di più persone.

Il reato previsto dall’art. 452 bis del c.p. e la responsabilità amministrativa degli enti e delle società.

Il comma VIII dell’art. 1 della Legge 22 maggio 2015, n. 68 ha profondamente inciso il tessuto normativo dell’art. 25 undecies del Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, inserendo nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa la gran parte dei delitti contro l’ambiente ed, in particolare, il delitto di cui all’art. 452 bis del c.p.

Lo statuto della responsabilità amministrativa con reato presupposto il delitto in questione è stato disegnato dal legislatore del 2015 dosando la tipologia e la misura delle sanzioni in rapporto alla gravità via via crescente dei fatti di alterazione dell’ecosistema e della matrice ambientale.

Partendo dalla scelta fatta per la forma di alterazione meno grave e, cioè, quella commessa con colpa (si tratta dell’ipotesi di cui alla lett. c) del comma I dell’art. 25 undecies), l’unica sanzione prevista è quella di natura pecuniaria, fissata in una cornice che va dalle duecento alle cinquecento quote, sanzione da applicarsi sia nel caso in cui si sia accertato che l’alterazione sia stata reversibile sia nel caso in cui, invece, il danno all’ambiente abbia assunto il carattere dell’irreversibilità.

Trattamento uniforme che genera qualche perplessità sol che si consideri la diversa consistenza dell’offesa all’interesse protetto che caratterizza i due reati presupposto e che potrebbe far sorgere il legittimo sospetto che situazioni diverse siano state trattate in modo uniforme, in danno del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione.

Tale considerazione acquisisce ancor più consistenza ove si tenga conto che un trattamento uniforme è previsto anche e soprattutto in relazione alla responsabilità penale della persona fisica.

In caso, invece, di accertata commissione del delitto di cui all’art. 452 bis del c.p., alla sanzione pecuniaria si salda, in forza del comma I bis del citato art. 25 undecies, anche la sanzione interdittiva tra quelle previste dall’art. 9 del Decreto n. 231 del 2001, che non potrà spingersi come durata oltre l’anno (e senza alcuna predeterminazione nel minimo), in deroga al comma II dell’art. 13 del citato Decreto, che, in chiave generale, prevede per le sanzioni interdittive una durata minima non inferiore a tre mesi ed una durata massima non superiore a due anni.

La mancata inclusione nel catalogo della fattispecie di reato di cui all’art. 452 ter del c.p. determina quale conseguenza la non configurabilità della responsabilità amministrativa nel caso in cui da uno dei fatti previsti dall’art. 452 bis del c.p. derivi, come conseguenza non voluta dal reo, la lesione personale o la morte di una o più persone o entrambe queste evenienze.

Sempre che non si radichi o prevalga quell’indirizzo interpretativo secondo il quale la norma da ultimo citata si limita a prevedere circostanze aggravanti del delitto d’inquinamento ambientale, suscettibili di essere “ recuperate” in chiave di previsione inespressa di responsabilità amministrativa da parte del Legislatore mediante il richiamo nel catalogo dei reati presupposto della sola fattispecie base di cui all’art. 452 bis del c.p. 35

In caso, invece, di accertata alterazione irreversibile e, quindi, di disastro, oltre alla sanzione pecuniaria fissata in una cornice da quattrocento ad ottocento quote, si salda la sanzione interdittiva applicabile con l’intervallo di tempo previsto in chiave generale per tutte le tipologie di sanzioni interdittive dal citato art. 13 del Decreto.

In caso, infine, di accertata esistenza di un’associazione per delinquere diretta, in via esclusiva o concorrente, alla commissione dei delitti in questione, la sanzione pecuniaria subisce un sensibile inasprimento andandosi a posizionare in una cornice compresa tra le trecento e le mille quote, senza previsione, in questo caso, della comminatoria anche della sanzione interdittiva.

Come scritto in altra parte della presente relazione, quello dell’esaustività ai fini di un moderno ed efficace contrasto al crimine ambientale del catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa è stato terreno sul quale ha preso posizione il Procuratore Generale della Corte di Cassazione 36, parlando di un “disallineamento normativo” meritevole di una riflessione da parte del Legislatore in prospettiva di una eventuale riforma.

In quel caso si faceva riferimento al delitto d’impedimento del controllo che non è entrato a far parte di quel catalogo, così come di quel catalogo parte della dottrina ha propugnato un ulteriore arricchimento con l’introduzione anche del delitto di omessa bonifica di cui all’art. 452 terdecies37 , delitto che, al pari di quello di impedimento del controllo, non ha, quindi, idoneità normativa a fungere da delitto presupposto di responsabilità amministrativa.

La confisca ed il delitto di inquinamento ambientale.

Il delitto in esame appartiene al novero di quelli per i quali l’art. 452 undecies del c.p. prevede, in caso di condanna o di applicazione della pena ex art. 444 del c.p.p., la confisca delle cose che costituirono il prodotto o il profitto del reato o che servirono alla commissione del medesimo, fatto salvo il caso in cui tali cose appartengano a persona estranea al reato.

Tale regime di confisca, che contempla anche quella per equivalente, non è stato, però, previsto per le ipotesi di inquinamento con morte o lesioni come conseguenza non voluta, di inquinamento ambientale colposo e di pericolo di inquinamento, anche in tal caso materializzandosi, come conseguenza della scelta del legislatore, una situazione di “ disallineamento normativo” meritevole di riflessione in prospettiva de iure condendo.

§§§§

3)Il rapporto tra il delitto di traffico illecito di rifiuti e quello di truffa o di appropriazione indebita in danno del CONAI – ancora una volta un caso di probabile connessione teleologica.

Tra le ragioni che possono dare la stura all’organizzazione di un traffico illecito di rifiuti vi può essere – e lo insegna il dato esperienziale – anche e soprattutto l’esigenza di ridurre o contenere il costo di smaltimento del rifiuto e, quindi, anche quella di abbattere la quantità di contributo ambientale dovuto al Consorzio nazionale imballaggi, contributo deputato a sostenere economicamente il sofisticato sistema di riutilizzo del rifiuto d’imballaggio.

La gestione dei rifiuti d’imballaggio e degli imballaggi è disciplinata dagli artt. 217 e ss. del TUA ed è ispirata, tra le altre finalità, a quella di prevenire e ridurne l’impatto sull’ambiente, al fine di assicurarne, quindi, un elevato livello di tutela (art. 217, comma I, del citato Testo unico).

L’individuazione del perimetro di tale disciplina è agevolata dallo sforzo definitorio del legislatore del Testo unico di cui si coglie traccia più o meno ovunque in quel tessuto normativo ed a tale regola non fa eccezione il microcosmo normativo costituito dagli artt. 216 e ss.

La lettera a) del comma I dell’art. 218 definisce imballaggio “ il prodotto, composto di materiali di qualsiasi natura, adibito a contenere determinate merci, dalle materie prime ai prodotti finiti , a proteggerle, a consentire la loro manipolazione e la loro consegna dal produttore al consumatore o all’utilizzatore, ad assicurare la loro presentazione nonché gli articoli a perdere usati a tale scopo ”.

La lettera f) del comma I dell’art. 218 definisce, invece, rifiuto d’imballaggio “ ogni imballaggio o materiale di imballaggio, rientrante nella definizione di rifiuto di cui all’art. 183, comma I, lett. a), esclusi i residui della produzione ”.

E’ evidente che ciò che costituisce in un determinato momento storico rifiuto di imballaggio era, prima di quel momento, un imballaggio vero e proprio, bene prodotto da un determinato operatore economico ed acquistato da un altro operatore che evidentemente tanto fa per poterlo poi utilizzare come contenitore di merce di qualsivoglia natura da immettere sul mercato.

La struttura del contributo ambientale CONAI.

Il sistema di gestione di questa tipologia di rifiuti è governato da una molteplicità di principi o criteri, tra i quali quello che più di tutti costituisce il fondamento normativo del contributo ambientale al Consorzio nazionale imballaggi è quello di cui alla lettera a) del comma 2 dell’art. 219, in forza del quale: “…. individuazione degli obblighi di ciascun operatore economico, garantendo che il costo della raccolta differenziata, della valorizzazione e della eliminazione dei rifiuti di imballaggio sia sostenuto dai produttori e dagli utilizzatori in proporzione alla quantità di imballaggi immessi sul mercato nazionale e che la pubblica amministrazione organizzi la raccolta differenziata”.

Si tratta di una delle numerose applicazioni di alcuni dei principi fondanti il sistema di gestione dei rifiuti e, cioè, da un lato, quello in forza del quale “chi inquina paga” e, dall’altro, quello della responsabilità condivisa tra gli operatori economici coinvolti nel ciclo di gestione.

Il costo del quale si è appena fatta menzione è sostenuto sia dal produttore dell’imballaggio che dall’utilizzatore del medesimo mediante la corresponsione al Consorzio nazionale imballaggi di un contributo espresso nelle forme di una determinata somma di denaro per tonnellata di imballaggio immessa sul mercato.

E’ la lettera h) del comma III dell’art. 224, intitolato “ Consorzio nazionale imballaggi”, a definire i contenuti di tale contributo, prevedendo che “ il CONAI…..ripartisce tra i produttori e gli utilizzatori il corrispettivo per i maggiori oneri della raccolta differenziata di cui all’art. 221, comma 10, lett. b), nonché gli oneri per il riciclaggio e per il recupero dei rifiuti di imballaggio conferiti al servizio di raccolta differenziata, in proporzione alla quantità totale, al peso ed alla tipologia del materiale di imballaggio immesso sul mercato nazionale, al netto della quantità di imballaggi usati riutilizzati nell’anno precedente per ciascuna tipologia di materiale. A tal fine determina e pone a carico dei consorziati, con le modalità individuate dallo statuto, anche in base alle utilizzazioni ed ai criteri di cui al comma 8, il contributo denominato contributo ambientale CONAI” (n.d.r. in acronimo denominato CAC)”.

La norma appena illustrata è essenziale per l’individuazione del soggetto titolare del diritto al contributo, di quello titolare dell’obbligo di versarlo ed, infine, dei criteri che presiedono alla sua commisurazione.

Soggetto titolare del diritto al contributo ambientale è il Consorzio nazionale imballaggi, che, per espressa previsione del comma I dell’art. 224, ha la personalità giuridica di diritto privato senza fine di lucro ed è governato da uno statuto approvato con decreto del Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, previo concerto con il Ministro delle attività produttive.

Si tratta, quindi, di un soggetto giuridico di natura privata, sul cui operato lo Stato esercita un’influenza significativa perché quell’operato è regolato da uno statuto che richiede l’approvazione di ben due ministri.

Soggetto titolare dell’obbligo di versare il contributo al CONAI è il produttore e l’utilizzatore dell’imballaggio, i quali, all’evidenza, sono anch’essi soggetti privati e, cioè, operatori economici.

Il contributo da pagarsi da parte del produttore o dell’utilizzatore dell’imballaggio ha, quindi, la natura di corrispettivo destinato a sostenere gli oneri economici gravanti sul CONAI, nella specie il corrispettivo per i maggiori oneri relativi alla raccolta differenziata dei rifiuti d’imballaggio conferiti al servizio pubblico per i quali al CONAI venga richiesto il ritiro nonché gli oneri correlati a finanziare il riutilizzo e la destinazione a recupero energetico del rifiuto d’imballaggio medesimo.

La misura di tale corrispettivo è fissata - per espressa previsione di Legge - proprio dal CONAI, il quale la determina ponderando una serie di criteri, tra i quali svolgono funzione guida la quantità, il peso e la tipologia del materiale di imballaggio immesso sul mercato nazionale.

La determinazione delle specifiche modalità della “ posa a carico dei consorziati” del contributo in questione è, invece, demandata dalla norma citata alle previsioni statutarie.

I dati normativi illustrati consentono un primo approdo ermeneutico e, cioè, che il contributo in questione non orbita per alcuna ragione al di fuori di un rapporto squisitamente privatistico, quello, cioè, tra un operatore economico che produce o utilizza l’imballaggio ed un consorzio, il CONAI, avente personalità giuridica di diritto privato, il quale è titolare nei confronti dei consorziati di un diritto di credito avente ad oggetto una somma di denaro parametrata non sul reddito o sul patrimonio del soggetto consorziato ma, più semplicemente, sul volume e sulla tipologia degli imballaggi immessi sul mercato, imballaggi i quali, in proiezione, sono destinati a divenire rifiuti dei quali il CONAI deve finanziare il ritiro, provvedendo, poi, ad adoperarsi perché gli stessi siano o riutilizzati, ove possibile, e, quindi, reimmessi nel ciclo produttivo, oppure destinati a recupero energetico.

Si tratta, quindi, di un contributo non dovuto allo Stato ma, soprattutto, non avente le caratteristiche né del tributo diretto né, tanto meno, di quello indiretto.

Non presenta, infatti, le caratteristiche del tributo diretto perché la base della sua commisurazione non è costituita né dal reddito né dal patrimonio del consorziato, né, tanto meno, quello del tributo indiretto, non potendosi considerare manifestazione indiretta di capacità contributiva l’immissione sul mercato di un determinato volume e/o tipologia di imballaggi, ma, al più, invece, “ segno diretto della immissione nell’ambiente di rifiuti di un certo tipo ” .38

Si tratta, peraltro, di un contributo che il produttore dell’imballaggio incassa da colui al quale ne cede la proprietà e l’utilizzo e che deve essere riversato entro un determinato termine sul conto del CONAI.

Il dettaglio dell’operazione di riscossione e di riversamento del contributo è disciplinato dall’art. 14 dello statuto del Consorzio, nella formulazione vigente a seguito delle modifiche approvate dall’assemblea dei consorziati il 14 luglio del 2021.

L’analisi di quel dettaglio è essenziale per completare la riflessione sulla natura giuridica del contributo.

Testualmente prevede la lettera c) del comma 1 del citato art. 14: “ le somme dovute dai produttori e utilizzatori di imballaggi sono sempre prelevate, sulla base di una specifica indicazione in fattura dell’ammontare del contributo ambientale CONAI dovuto e della tipologia del materiale di imballaggio oggetto della cessione, dal soggetto che effettua nel territorio nazionale la prima cessione ad un utilizzatore”.

La successiva lettera d) prevede che “ nel caso in cui gli imballaggi siano immessi al consumo senza che si realizzi una cessione ad un utilizzatore nel territorio nazionale, spetta al soggetto che immette al consumo l’imballaggio vuoto o pieno il versamento delle somme corrispondenti ai costi di cui alla lettera a); nel caso in cui la cessione avvenga invece ad un soggetto che intenda a sua volta cedere l’imballaggio vuoto o pieno fuori dal territorio nazionale, le somme innanzi indicate non sono dovute, su dichiarazione e sotto la responsabilità del cessionario”.

Ed ancora la lettera e): “ le somme prelevate…. sono versate al CONAI, rispettivamente dal soggetto percettore o debitore entro novanta giorni dal termine di liquidazione dell’iva concernente la relativa operazione, indicando la tipologia del materiale di imballaggio”.

Ed ancora la lettera f): “ le somme prelevate….. sono soggette a vincolo di destinazione e non appartengono al soggetto percettore, che, fino al versamento previsto dalla lettera e), ne ha la mera disponibilità precaria ”.

Ed, infine, la lettera g): “ le somme versate al CONAI ai sensi della precedente lettera e) sono da questo incassate in nome e per conto dei consorzi costituiti ai sensi dell’art. 223 del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ed entrano a far parte dei loro mezzi propri, concluse le convenzioni di cui al comma 3 e salvo quanto previsto nello stesso comma 3, lettere e) ed f), nonché nel comma 4”.

Di quel contributo, quindi, il percettore e, cioè, di regola il produttore dell’imballaggio ne ha una mera disponibilità precaria, alla quale si accompagna la piena consapevolezza, proprio in ragione dello status di consorziato CONAI, che quel denaro appartiene ai singoli consorzi di filiera, in nome e per conto dei quali il CONAI provvede ad incassarlo, provvedendo subito dopo a riversarlo in favore dei consorzi medesimi.

In altri termini, il percettore il contributo incassa essendo consapevole, però, sin dall’origine che il denaro incassato è di proprietà di altri.

La funzione del contributo CONAI.

Il tema della funzione del contributo CONAI rimanda a quel sofisticato sistema normativo ed industriale costituito dal riciclo e dal recupero del rifiuto di imballaggio, rifiuto che il sistema impone sia reimmesso nel ciclo produttivo ed, ove ciò non sia possibile, destinato al recupero energetico, in tal modo riducendo al minimo la quota parte di imballaggio destinata allo smaltimento.

Per conseguire la finalità descritta il consorzio CONAI si avvale dei c.d. consorzi di filiera, ognuno dei quali è deputato all’attuazione di un segmento omogeneo di tale finalità e, quindi, al riciclo ed al recupero di sei diverse tipologie di imballaggi e, cioè, la plastica, la carta, il vetro, il metallo, nella specie l’alluminio e l’acciaio, ed, infine, il legno.

Si tratta di tipologie di rifiuto di imballaggio che sono immesse nel mercato nazionale in quantità decisamente diverse, con una netta prevalenza della plastica e della carta, che costituiscono, quindi, le tipologie d’imballaggio che, più delle altre, alimentano la consistenza del contributo nazionale, che, nel suo complesso e salvo il dettaglio che ci si accinge ad illustrare, è ammontato nell’anno 2020 ad oltre un miliardo di euro.

Quello del riciclo e del recupero – e, quindi, del minor smaltimento possibile - del rifiuto d’imballaggio rappresenta un caso di economia circolare, tra i primissimi ad essere stati concepiti dall’Unione europea, che a questa tipologia di rifiuto destinava uno specifico corpus normativo e, cioè, la direttiva n. 94/62, poi aggiornata con la direttiva n. 2004/12 ed, infine, con le direttive nn. 2018/851 e 2018/252, normazione europea che ha trovato attuazione in Italia in un apposito titolo del TUA destinato specificamente alla gestione degli imballaggi e, cioè, nell’art. 217 (e ss.) che testualmente prevede:

Il presente titolo disciplina la gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio sia per prevenirne e ridurne l'impatto sull'ambiente ed assicurare un elevato livello di tutela dell'ambiente, sia per garantire il funzionamento del mercato, nonché per evitare discriminazioni nei confronti dei prodotti importati, prevenire l'insorgere di ostacoli agli scambi e distorsioni della concorrenza e garantire il massimo rendimento possibile degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio, in conformità alla direttiva 94/62/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 dicembre 1994 , come integrata e modificata dalla direttiva 2004/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio , di cui la parte quarta del presente decreto costituisce recepimento nell'ordinamento interno. I sistemi di gestione devono essere aperti alla partecipazione degli operatori economici interessati.

2. La disciplina di cui al comma 1 riguarda la gestione di tutti gli imballaggi immessi sul mercato nazionale e di tutti i rifiuti di imballaggio derivanti dal loro impiego, utilizzati o prodotti da industrie, esercizi commerciali, uffici, negozi, servizi, nuclei domestici, a qualsiasi titolo, qualunque siano i materiali che li compongono. Gli operatori delle rispettive filiere degli imballaggi nel loro complesso garantiscono, secondo i principi della "responsabilità condivisa", che l'impatto ambientale degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio sia ridotto al minimo possibile per tutto il ciclo di vita.

3. Restano fermi i vigenti requisiti in materia di qualità degli imballaggi, come quelli relativi alla sicurezza, alla protezione della salute e all'igiene dei prodotti imballati, nonché le vigenti disposizioni in materia di trasporto e sui rifiuti pericolosi.”

E’ il comma II della richiamata previsione normativa a fondare la complessità normativa, organizzativa ed industriale del sistema di gestione degli imballaggi e dei relativi rifiuti, disegnando un’architettura organizzativa soggettivamente complessa perché concepita con un soggetto giuridico privato e senza fine di lucro al centro del sistema e, cioè, il consorzio CONAI, e con più operatori di filiera per ciascuna tipologia d’imballaggio, i quali, ognuno per la filiera assegnatagli in gestione, garantiscono “ che l'impatto ambientale degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio sia ridotto al minimo possibile per tutto il ciclo di vita”, in ossequio, come scritto, ad uno dei principi informatori del TUA e, cioè, a quello in forza del quale “chi inquina paga”.

Ognuno dei consorzi di filiera è deputato, quindi, alla “spesa” della “sua” quota parte di contributo ambientale, contributo nella sua interezza incassato dal CONAI ed immediatamente riversato sul conto di ciascun consorzio di filiera.

Il CONAI agisce per il conseguimento degli obiettivi di riciclaggio e recupero fissati dalla Legge ed, a tal fine, vigila su ciascun consorzio di filiera, promuovendone ed assicurandone il coordinamento tra di loro e con gli operatori economici coinvolti.

Nello specifico svolge la funzione di controllo e di coordinamento di ben sette consorzi di filiera, nella specie uno per ciascun materiale omogeneo di produzione dell’imballaggio e, quindi, del successivo rifiuto d’imballaggio.

Il consorzio COREPLA ha in gestione la filiera dell’imballaggio prodotto con la plastica; il BIOREPACK quella dell’imballaggio prodotto con la plastica biodegradabile e compostabile; il COMIECO quella dell’imballaggio prodotto con la carta ed il cartone; il COREVE quella dell’imballaggio prodotto con il vetro; il RICREA quella dell’imballaggio prodotto con l’acciaio; il CIAL quella dell’imballaggio prodotto con l’alluminio ed, infine, RILEGNO quella dell’imballaggio prodotto con il legno.

Ciascuno di questi consorzi, al pari del CONAI - consorzio, quest’ultimo, al quale hanno aderito, al 31.12.2020, circa 760.191 aziende, tra produttori e utilizzatori (con una quota dell’1% di produttori e del restante 99% di utilizzatori) - ha la struttura di soggetto giuridico di diritto privato e senza fine di lucro ed è preposto al materiale ritiro dei rifiuti di imballaggio della stessa tipologia su tutto il territorio nazionale, rifiuti che il consorzio di filiera ha la funzione di destinare al riciclaggio con la nuova re immissione nel ciclo produttivo ed al recupero ed, ove tanto non sia possibile, allo smaltimento utilizzando la “ sua” quota parte di contributo nazionale.

L’assunzione da parte del produttore d’imballaggi della sua quota parte di responsabilità condivisa non ha quale contraltare la partecipazione obbligatoria ad uno dei consorzi di filiera su indicati, prevedendo il sottosistema normativo forme di assunzione alternativa di quella quota parte di responsabilità.

Più nello specifico, è l’art. 221 del TUA a disegnare più forme di assunzione di tale responsabilità, prevedendo testualmente, al comma 3, che: “…. Per adempiere agli obblighi di riciclaggio e di recupero nonché agli obblighi della ripresa degli imballaggi usati e della raccolta dei rifiuti di imballaggio secondari e terziari su superfici private, e con riferimento all'obbligo del ritiro, su indicazione del Consorzio nazionale imballaggi di cui all' articolo 224 , dei rifiuti di imballaggio conferiti dal servizio pubblico, i produttori possono alternativamente:

a) organizzare autonomamente, anche in forma associata, la gestione dei propri rifiuti di imballaggio su tutto il territorio nazionale;

b) aderire ad uno dei consorzi di cui all' articolo 223 ;

c) attestare sotto la propria responsabilità che è stato messo in atto un sistema di restituzione dei propri imballaggi, mediante idonea documentazione che dimostri l'autosufficienza del sistema, nel rispetto dei criteri e delle modalità di cui ai commi 5 e 6 …..

Alla partecipazione, quindi, ad uno dei consorzi di filiera di cui all’art. 223 del TUA, il Legislatore nazionale ha affiancato la possibilità di creare ed aderire a consorzi autonomi ed, addirittura, quella di produrre l’imballaggio senza adesione a nessun consorzio, a patto e condizione di dimostrare l’avvenuta creazione di un’economia circolare dell’imballaggio all’interno dello specifico ciclo produttivo svolto dall’operatore economico.

Di sistemi autonomi di gestione degli imballaggi ne operano sul mercato nazionale tre, tutti nel settore della plastica, nella specie:

  • l’ALIPLAST , sistema autonomo per la gestione dei propri rifiuti di imballaggi flessibili in PE, ascrivibili al circuito commerciale ed industriale;

  • il CONIP, sistema autonomo di gestione del rifiuto di imballaggio costituito da casse e pallet in plastica dei propri consorziati a fine ciclo vita;

  • il CORIPET, sistema autonomo di gestione degli imballaggi in PET per liquidi alimentari.

Come si è scritto, la gestione del contributo nazionale ambientale è di competenza e di pertinenza del Consorzio nazionale imballaggi, il quale ne fissa la misura nel rispetto dei principi fissati dal TUA, ne definisce la procedura di dichiarazione da parte del singolo produttore - che, come detto, applica quel contributo al momento della “prima cessione” dell’imballaggio all’utilizzatore - e, soprattutto, provvede ad incassarlo, eventualmente promuovendo sia l’azione civile che quella penale necessarie al suo recupero coattivo, agendo, in ciascuno di questi momenti, in nome e per conto dei consorzi di filiera in ragione di quanto previsto da ciascuna convenzione stipulata tra il CONAI ed il singolo consorzio di filiera medesimo.

Si tratta, quindi, di una struttura che eroga servizi in favore dei consorzi di filiera, in nome e conto dei quali agisce, finanziando l’erogazione di tali servizi con una quota parte del contributo nazionale incassato, quota fissata, per l’anno 2020, nella misura del 2,3% del contributo incassato 39.

Con riferimento all’anno 2020, il contributo ambientale dichiarato ha ammontato a circa 1085 milioni di euro e di questa rilevantissima somma di denaro 678 milioni di euro pertengono a contributi dichiarati dai produttori di imballaggi che hanno fatto uso della plastica, 218 milioni di euro, invece, a contributi dichiarati dai produttori di imballaggi che hanno fatto uso della carta.

A farla, quindi, da “padroni” nel sistema della gestione degli imballaggi, sono la plastica e la carta, che, insieme, generano 896 milioni circa di contributo nazionale.

Dall’1 gennaio del 2018, il contributo ambientale CONAI è stato differenziato in tre fasce, poi divenute 3 + 1 dall’1 gennaio del 2019, e, cioè, nelle fasce A, B, B1, B2, C, fascia, quest’ultima, nella quale rientrano gli imballaggi non selezionabili né riciclabili allo stato delle tecnologie attuali e per i quali, quindi, con decorrenza dall’1 gennaio del 2021, il CAC è fissato in 660 euro per tonnellata.

Gli imballaggi classificati in fascia A - e, cioè, nella fascia degli imballaggi selezionabili e riciclabili da circuito “commercio ed industria” – generano una quota di contributo per tonnellata pari a 150 euro.

Quelli, invece, classificati in fascia B – e, cioè, nella fascia degli imballaggi destinati prevalentemente al circuito domestico e selezionabili nonché riciclabili – generano una quota di contributo per tonnellata che oscilla, a seconda dei casi, da 208 a 560 euro.

Descrizione sintetica del ciclo di gestione dell’imballaggio in plastica gestito dal Corepla.

Il sistema di gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio in plastica riveste, nel mercato nazionale, un ruolo assolutamente centrale, da un lato perché genera quasi il 70% del contributo nazionale dichiarato e, dall’altro, perché si tratta di un sistema nel quale agiscono complessivamente, tra consorzi ex art. 223 del TUA e soggetti autonomi, ben cinque organizzazioni, coordinate e vigilate dal CONAI.

Tutti gli imballaggi in plastica che vengono immessi sul mercato nazionale generano un contributo nazionale che è incassato dal CONAI ed è immediatamente riversato sui conti del consorzio COREPLA, sia che si tratti di imballaggi destinati al consumo domestico e, quindi, destinati prima o poi a divenire rifiuti urbani, sia che si tratti di imballaggi destinati all’utilizzo nel circuito delle imprese e, quindi, destinati prima o poi a divenire rifiuti speciali.

La ripartizione dei flussi che alimentano i futuri rifiuti da imballaggio è piuttosto costante nel tempo, con i due terzi di questo flusso che è costituito da imballaggi domestici e la restante parte da imballaggi da utilizzarsi nell’ambito del circuito della produzione, della distribuzione e della commercializzazione non al dettaglio delle merci.

I due terzi di questo flusso hanno, quindi, origine nella fisica separazione della plastica da parte dei cittadini, con l’avvio, quindi, della raccolta differenziata, raccolta che viene gestita nei rispettivi territori da ciascun comune, il quale provvede al ritiro a domicilio della plastica.

Il ciclo prosegue con il successivo conferimento della frazione di rifiuto differenziata nei centri comprensoriali (CC), piattaforme destinate, oltre che a ricevere il materiale, anche a ripulirlo e pressarlo, preparandolo, quindi, per il successivo passaggio nei centri di selezione secondaria (CSS), ove la frazione di rifiuto viene sottoposta ad un trattamento finalizzato a generare prodotti omogenei per polimero, tipologia e colore, che, comunque, permangono quali rifiuti e come rifiuti fuoriescono dal CSS, con il codice europeo rifiuti ER 191204.

Gli scarti di questo processo di selezione vengono avviati a smaltimento in discarica, mentre i sottoprodotti non riciclabili generati da tale processo di selezione sono destinati al recupero energetico e, quindi, trasformati in combustibile da rifiuti, destinato ad alimentare o i termovalorizzatori o i cementifici in sostituzione dei combustibili fossili.

La frazione di rifiuto riciclabile, invece, viene ceduta dal COREPLA e nuovamente immessa sul mercato, entrando nella disponibilità degli operatori economici che, con quel materiale riciclato, provvederanno a produrre nuovi imballaggi, consentendo al ciclo di ripartire all’insegna di un principio di economia circolare.

I rapporti tra i centri di selezione secondaria ed il COREPLA sono regolati da un contratto stipulato sulla scorta di un contratto nazionale tipo.

La truffa e l’appropriazione indebita in danno del CONAI.

La ricostruzione dei tratti salienti del sofisticato sistema normativo, organizzativo ed industriale di gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggi si è rivelata essenziale anche al precipuo scopo di tipizzare le situazioni in cui questo sistema può entrare in crisi e, cioè, quelle situazioni nelle quali il contributo nazionale ambientale non perviene alla disponibilità del consorzio CONAI, deputato, tra le altre cose, ad incassarlo e a riversarlo immediatamente sul conto del consorzio di filiera.

Si tratta di situazioni caratterizzate da matrici differenti ma che in comune presentano un medesimo denominatore e, cioè, il mancato incasso da parte del consorzio nazionale imballaggi di denari stimati - dalla relazione di accompagnamento al bilancio del citato consorzio approvato in relazione all’esercizio 2020 - in 19,6 milioni di euro annui, ammontando a tale cifra il volume di contributi recuperati dal Consorzio nell’esercizio del 2020, di cui 12.649.000 di euro circa relativi agli imballaggi in plastica e 2.326.000 di euro circa relativi agli imballaggi in carta.

Al fine di recuperare il contributo nazionale non versato, il CONAI, solo nell’anno 2020, ha avviato 600 controlli, portandone a compimento nell’anno 220, portando, altresì, avanti una capillare attività di monitoraggio delle sue banche dati, che ha prodotto quali risultati, nel primo caso, l’adesione d’ufficio di ben 600 aziende che non si erano consorziate spontaneamente, nel secondo la regolarizzazione spontanea di oltre 2000 imprese.

Il mancato incasso da parte del CONAI del contributo nazionale può, innanzi tutto, trovare causa nella decisione dell’operatore economico consorziato - nell’ottica di praticare prezzi di mercato più concorrenziali rispetto agli altri produttori di imballaggi – di non riscuotere da parte dell’utilizzatore - al momento della prima cessione - il contributo dovuto, contributo che, evidentemente, avrebbe dovuto entrare nella c.d. “ mera disponibilità precaria” del percettore ma che in quella disponibilità non è mai entrato per scelta del percettore medesimo.

Sul punto si richiama la lettera f) del già citato art. 14 dello statuto del CONAI, a tenore del quale: “ le somme prelevate….. sono soggette a vincolo di destinazione e non appartengono al soggetto percettore, che, fino al versamento previsto dalla lettera e), ne ha la mera disponibilità precaria ”.

Al ricorrere di tali situazioni pare ragionevole ipotizzare che il fatto di mancata riscossione del contributo dovuto non possa essere sussunto nell’alveo del reato di appropriazione indebita per mancanza, sin dall’origine, di una situazione di possesso del denaro ed, a valle, quindi ed a maggior ragione, di una condotta di appropriazione del denaro dovuto al CONAI.

Al ricorrere di tali situazioni, pare ragionevole ipotizzare che la mancata riscossione del contributo esaurisca i suoi effetti sul piano del rapporto interno tra il consorzio e l’operatore consorziato inadempiente, venendo in rilievo quale inadempimento di uno degli obblighi consortili, il più importante tra l’altro, con conseguente comminatoria di una sanzione commisurata alla gravità dell’infrazione ex art. 8 dello statuto consortile.

Ove, invece, si sia accertato che la mancata riscossione del contributo abbia acquisito il carattere della stabilità e della reiterazione nel tempo, in tal modo atteggiandosi quale sostanziale gestione degli imballaggi in violazione delle forme di cui al più volte citato art. 221 del TUA, comma III, può ragionevolmente ipotizzarsi che il fatto dismetta il carattere del mero illecito civile societario per assurgere al rango di illecito amministrativo, nella specie di quello di cui all’art. 261 del TUA che prevede che il produttore che non provveda ad organizzare un sistema per l’adempimento degli obblighi di cui all’art. 221, comma III, soggiaccia, altresì, ad una sanzione amministrativa pecuniaria da quindicimila cinquecento euro a quarantaseimilacinquecento euro, sanzione amministrativa da irrogarsi con le forme dell’ordinanza ingiunzione da parte della Provincia nel cui territorio è stata commessa la violazione e, nei soli casi delle sanzioni previste dall’art. 261, comma 3, in relazione al divieto di cui all’art. 226, comma I, da parte del comune competente per territorio.

Ad un diverso spettro di situazioni possono, invece, ricondursi tutti quei casi in cui il produttore consorziato abbia, in occasione della prima cessione, riscosso il contributo CONAI, omettendo, però, di riversarlo tempestivamente al consorzio alla scadenza del termine fissato nello statuto consortile.

Sul punto si richiama la lettera e) del citato art. 14 dello statuto consortile, a tenore del quale: “ le somme prelevate…. sono versate al CONAI, rispettivamente dal soggetto percettore o debitore, entro novanta giorni dal termine di liquidazione dell’iva concernente la relativa operazione, indicando la tipologia del materiale di imballaggio”.

Al ricorrere di questi casi, può più che ragionevolmente ipotizzarsi che il produttore percettore del contributo ponga in essere una condotta di appropriazione tipica ai sensi dell’art. 646 del c.p., avendo acquisito del denaro la disponibilità precaria, disponibilità accompagnata dalla piena consapevolezza dell’altruità di quel denaro e da una chiara ed inequivocabile volontà di rapportarsi rispetto ad esso uti dominus, omettendo di riversarlo in favore del CONAI alla scadenza del termine appena citato e, cioè, entro novanta giorni dal termine di liquidazione dell’IVA concernente la relativa operazione, impedendo, in tal modo, che il contributo potesse essere speso per la destinazione di scopo prevista dall’art. 217 e ss. del TUA.

Al ricorrere dei relativi presupposti e, cioè, nel caso in cui il volume del contributo riscosso e non versato dal consorziato acquisisca la consistenza necessaria a radicare l’aggravante dell’aver cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all’art. 61 del c.p., n. 7, il reato diverrà procedibile non più a querela di parte ma d’ufficio.

Procedibilità d’ufficio che al fatto tipico concorrerà ad imprimere anche il particolare rapporto esistente tra il CONAI e l’operatore economico consorziato, rapporto caratterizzato da una prestazione d’opera alla quale l’operatore economico si obbliga in favore del consorzio, prestazione d’opera il cui abuso conferisce al fatto quella nota ulteriore di disvalore penale tipizzata al n. 11 dell’art. 61 del c.p.

Secondo l’indirizzo pressoché costante della Suprema Corte, infatti, “ …la circostanza aggravante comprende le ipotesi di prestazione d’opera in senso lato, ovvero le situazioni caratterizzate da un obbligo di facere implicante relazione fiduciaria tra il soggetto attivo ed il soggetto passivo; infatti ciò che rileva ai fini della sussistenza della circostanza in parola è l’abuso della relazione fiduciaria da parte dell’autore, il quale approfitta di una situazione di minore attenzione della vittima, determinata proprio dall’affidamento che questa ripone nell’obbligo dell’altro, per commettere un reato a suo danno”. 40

In ragione del comma 11 dell’art. 4 del regolamento consortile, “ entro il giorno venti del mese successivo al periodo di riferimento, il soggetto percettore o debitore deve calcolare sulla base delle fatture emesse…il contributo prelevato o dovuto nel periodo precedente distinguendo gli importi relativi a ciascuna tipologia di materiale d’imballaggio. Entro lo stesso termine, gli importi risultanti da tale liquidazione devono essere comunicati al CONAI, mediante il modello di dichiarazione e con le modalità approvate dal consorzio; gli stessi importi devono, quindi, essere versati al CONAI entro novanta giorni dal termine di liquidazione dell’IVA relativa alle operazioni effettuate nel periodo oggetto della dichiarazione”….

Può ragionevolmente immaginarsi che il consorziato che riscuota il contributo e che non abbia alcuna intenzione di versarlo in tutto od in parte al CONAI si determini a completare il disegno illecito o omettendo la relativa dichiarazione o redigendo una dichiarazione falsa nei contenuti, una dichiarazione, cioè, che non dia conto e menzione di tutte o parte delle prime cessioni di imballaggi effettuate nel periodo di riferimento, in tal modo ridimensionando il volume del contributo da versarsi ed, in ipotesi, anche dichiarando il nulla a doversi al CONAI.

Nell’ipotesi in cui il mancato versamento del contributo riscosso sia “ coperto” dal consorziato mediante la predisposizione di una dichiarazione o, comunque, di documenti ideologicamente falsi, vi è da riflettere sul significato da attribuire a tale segmento della condotta illecita, che appare caratterizzato dal nesso teleologico tipizzato come aggravante al n. 2 dell’art. 61 del c.p., con la variante, in questo spettro di situazioni, che, al fine di occultare un’appropriazione indebita continuata e pluriaggravata, si pone in essere un fatto che, di per sé, non costituisce reato, versandosi in ipotesi di dichiarazione dal contenuto falso predisposta da un privato, avente ad oggetto solo il volume complessivo delle operazioni fatturate e destinata ad un altro soggetto privato e, quindi, in quanto tale non penalmente rilevante.

In tali casi a fare uso dell’atto falso è proprio l’operatore economico che lo ha predisposto e, quindi, in quanto tale, non può essere chiamato a risponderne dell’uso ex art. 489 del c.p., salve ovviamente le peculiarità che possano di volta in volta arricchire la materialità dei singoli fatti sotto la lente di ingrandimento e che concettualmente, ove colui che falsifichi l’atto sia persona diversa da colui che poi ne abbia fatto uso, possono contemplare in concreto nella sua pienezza il nesso teleologico di cui al citato n. 2 dell’art. 61 del c.p.

Ad escludere l’applicazione, poi, in situazioni di tal fatta della fattispecie di falso in registri e notificazioni milita, in modo decisivo, la circostanza che tale falso assume rilevanza penale solo nel caso in cui il destinatario della falsificazione di un registro o di una notificazione sia l’autorità di pubblica sicurezza, titolare di un potere d’ispezione sui primi come sulle seconde, ma a questa tipologia di autorità non pare assimilabile il CONAI.

Ciò non toglie, però, a questo specifico segmento della condotta proprio la materialità che è tipica di quelle condotte che, dopo la commissione di un reato, si prefiggono quale scopo quello di occultarlo, in questo caso al controllo del soggetto avente diritto alla percezione del contributo.

In altri termini, nello spettro di situazioni descritte, ad essere stata commessa è un’appropriazione indebita in danno del consorzio, alla quale ha fatto seguito, in chiave di occultamento della distrazione, una condotta di falsificazione della documentazione destinata al consorzio medesimo, documentazione, come scritto, di natura esclusivamente privata.

Infine un’ultima tipologia di situazioni che può ragionevolmente tipizzarsi è quella in cui la predisposizione di documentazione ideologicamente falsa abbia indotto in errore il CONAI, inducendolo ad un atto di disposizione patrimoniale, che, senza quell’errore, non avrebbe compiuto, venendo in rilievo, in questa tipologia di situazioni, una condotta tipica ai sensi dell’art. 640 del c.p., anche questa aggravata dall’abuso di una prestazione d’opera e dall’eventuale danno patrimoniale di rilevante gravità.

A questa tipologia di situazioni potrebbe, a mero titolo esemplificativo, ricondursi quella di cui alla lettera d) dell’art. 14 dello Statuto consortile e, cioè, l’operazione di cessione dell’imballaggio pieno o vuoto in favore di soggetto che intenda a sua volta cederlo fuori dal territorio nazionale.

Si tratta di situazione in relazione alla quale il CAC non è dovuto su dichiarazione scritta e sotto la responsabilità del cessionario. Nel caso in cui a determinarsi alla predisposizione di documentazione ideologicamente falsa sia il primo cessionario e, quindi, l’utilizzatore e per effetto di tale dichiarazione falsa il consorzio riconosca come inesistente un credito di cui, in realtà, sarebbe titolare, rinunciando alla sua riscossione, può ritenersi che agli artifizi e raggiri posti in essere mediante documentazione falsa si saldi quell’atto di disposizione patrimoniale che della truffa è elemento costitutivo, con il conseguente profilarsi della fattispecie di cui all’art. 640 del c.p.

Quello della truffa e dell’appropriazione indebita in danno della contribuzione dovuta al CONAI è terreno non esplorato dalla Suprema Corte di Cassazione, che, su questo tema, è intervenuta con due pronunce di inammissibilità del ricorso, avverso una sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Milano (Cass. Sez. II, n. 1765 del 22.6.2018) ed un’altra da quella di Torino (Cass. Sez. II, n. 40 del 14.1.2021), in entrambi i casi su contestate appropriazioni indebite di contributi ambientali dovuti al CONAI.

La citata sentenza della Corte d’Appello di Milano, la n. 4659 del 21 luglio 2017, nel confermare la condanna di primo grado, irrogata per truffa aggravata, era addivenuta alla riqualificazione del reato ritenuto in primo grado da truffa aggravata in appropriazione indebita, argomentando che la qualificazione giuridica del fatto come truffa fosse stata erroneamente formulata stante la mancanza, nel caso di specie, di plurimi elementi costitutivi del reato di truffa: “ in particolare dell’induzione in errore cui far conseguire l’atto di disposizione patrimoniale: non vi è stata invero alcuna cooperazione da parte del consorzio persona offesa quanto alla depauperatio patrimonii, dipendendo il lucro cessante da un omesso versamento del soggetto attivo e/o da una sua dichiarazione infedele”.

Il caso sottoposto al giudizio della Corte d’appello di Milano era quello di un imprenditore accusato inizialmente di truffa aggravata, per aver, per alcune annualità, omesso la dichiarazione di avvenuta riscossione del contributo al CONAI, per altre annualità, invece, per aver predisposto documentazione falsa nel contenuto, dichiarando di avere riscosso contributi in misura inferiore a quella reale.

§§§§

4)Gli illeciti in tema di garanzie finanziarie prestate per la gestione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti – la relazione del 14 gennaio del 2021 della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti.

L’art. 208 del TUA, dettato in tema di autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti, prevede, al comma 11, lettera g), che l’autorizzazione contempli, tra i contenuti “ obbligatori”, anche quello relativo alle garanzie finanziarie, “ che devono essere prestate solo al momento dell'avvio effettivo dell'esercizio dell'impianto; a tal fine, le garanzie finanziarie per la gestione della discarica, anche per la fase successiva alla sua chiusura, dovranno essere prestate conformemente a quanto disposto dall' articolo 14 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36 ”.

La norma da ultimo citata concorre a definire la disciplina di tale specifico ambito di materia, prevedendo, al comma I, che “ la garanzia per l’attivazione e la gestione operativa della discarica, comprese le procedure di chiusura, assicura l’adempimento delle prescrizioni contenute nella autorizzazione e deve essere prestata per una somma commisurata alla capacità autorizzata dalla discarica ed alla classificazione della stessa ai sensi dell’articolo 4”.

Al comma II della medesima norma si specifica che “La garanzia per la gestione successiva alla chiusura della discarica assicura che le procedure di cui all’art. 13 siano eseguite ed è commisurata al costo complessivo della gestione post operativa”.

Il comma III prevede che la garanzia di cui al comma I sia trattenuta per almeno due anni dalla data di comunicazione di cui all’art. 12, comma 3, del citato decreto legislativo mentre quella di cui al comma II sia trattenuta per almeno trent’anni dalla medesima data.

La Legge 10 giugno 1982, n. 348, dettata in tema di costituzione di cauzioni con polizze fideiussorie a garanzia di obbligazioni verso lo Stato ed altri enti pubblici, tipizza, all’art. 1, i modi nei quali deve essere costituita tale garanzia, nella specie individuandoli a scelta del soggetto obbligato:

in una reale e valida cauzione ai sensi dell’art. 54 del regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato, approvato con Regio decreto del 23 maggio 1924, n. 827, e successive modificazioni;

in una fidejussione bancaria rilasciata da aziende di credito di cui all’art. 5 del Regio decreto 12 marzo 1936, n. 375, e successive modificazioni ed integrazioni;

in una polizza assicurativa rilasciata da imprese di assicurazione debitamente autorizzate all’esercizio del ramo cauzioni ed operanti nel territorio della Repubblica in regime di libertà di stabilimento o di libertà di prestazione di servizi.

Quella delle garanzie finanziarie destinate a proteggere l’ambiente e la salute per tutto il ciclo di vita dell’impianto di smaltimento e di recupero dei rifiuti è materia sulla quale è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 67 del 2014, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, comma II, della Legge della regione Puglia 28 dicembre 2006, n. 39, recante norme relative all’esercizio provvisorio del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2007.

Nella motivazione della citata sentenza, che ha definito la materia delle garanzie finanziarie connesse alla gestione delle discariche ambito materiale “ riconducibile alla materia della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, di esclusiva competenza statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, testualmente si legge: “… anche nel caso di specie la norma evocata a parametro dal rimettente (art. 195, comma II, lettera g), del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, disciplinando le garanzie finanziarie da prestarsi in favore delle regioni per la gestione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti, interviene in ambito materiale funzionalmente connesso….a garantire livelli adeguati e non riducibili di tutela ambientale su tutto il territorio nazionale….Ne consegue che la norma regionale censurata, attribuendo alla potestà regolamentare tale disciplina, viola l’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione e l’art. 195, comma II, lett. g), del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, non potendosi riconoscere – contrariamente a quanto dedotto dalla Regione Puglia – alcuna potestà legislativa regionale in subiecta materia”.

La pronuncia chiudeva il percorso argomentativo formulando l’auspicio che “ lo Stato provvedesse sollecitamente a definire i criteri generali per la determinazione delle garanzie finanziarie dovute dai gestori degli impianti di recupero e smaltimento dei rifiuti, secondo il disposto del più volte richiamato art. 195, comma 2, lett. g), del Decreto Legislativo n. 152 del 2006”.

Il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, dando corso all’auspicio formulato dalla Corte Costituzionale, predisponeva lo schema di regolamento avente ad oggetto la determinazione dei requisiti e delle capacità tecniche e finanziarie per l’esercizio dell’attività di gestione dei rifiuti, trasmettendolo al Consiglio di Stato per l’espressione del prescritto parere.

Il Consiglio di Stato, con atto n. 693, del 20 marzo del 2018, sospendeva l’espressione del parere in attesa che il Ministero dell’Ambiente fornisse gli elementi ed i chiarimenti richiesti nel corpo della motivazione del parere medesimo.

Nello schema di regolamento un ruolo centrale lo rivestiva l’art. 7, dettato in tema di criteri generali per la determinazione delle garanzie finanziarie per le discariche di cui all’art. 14 del Decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36, che prevedeva che per la gestione di esse dovessero essere prestate la garanzia finanziaria per l’attivazione e la gestione operativa, comprese le procedure di chiusura, e la garanzia finanziaria per la gestione successiva alla chiusura della discarica.

Si prevedeva, altresì, che la prima garanzia dovesse avere una durata pari a quella dell’autorizzazione, maggiorata di due anni, mentre la garanzia finanziaria successiva alla chiusura della discarica, che avrebbe dovuto essere prestata contestualmente alla prima, avrebbe dovuto avere una durata non inferiore ai trent’anni.

In forza di tale previsione, quindi, il gestore dell’impianto di recupero e smaltimento dei rifiuti avrebbe dovuto prestare una garanzia destinata a coprire un arco di tempo di almeno 42 anni e, cioè, i dieci anni almeno previsti per l’esercizio della discarica, i due di surplus ed, infine, i trenta di fase post chiusura.

Sul citato schema di regolamento emendato dal Ministero e ritrasmesso, il Consiglio di Stato rendeva, in data 8 ottobre del 2019, un nuovo parere interlocutorio, chiedendo al Ministero la trasmissione degli atti di concerto dei Ministri per lo Sviluppo economico, della Salute e dell’Interno nonché di quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, parere interlocutorio al quale ne seguiva addirittura un terzo, il n. 1055 del 4 giugno del 2020, con nuova ritrasmissione dello schema del regolamento al Ministero per ulteriori modifiche ed integrazioni, anche di forma.

A fronte di un obbligo di garanzia chiamato a coprire poco meno di mezzo secolo, è ragionevole immaginare che sia la banca che l’assicurazione richiedano al gestore dell’impianto un impegno economico proporzionato ad una garanzia di così ampia durata, con l’ineludibile conseguenza che possano rivelarsi economicamente più convenienti – ma anche meno affidabili dal punto di vista della solvibilità – gli operatori esteri o, addirittura, che il gestore dell’impianto si determini a prestare polizze assicurative o fidejussioni bancarie false o fasulle.

Sul tema del vuoto legislativo venutosi a creare a seguito della citata sentenza della Corte Costituzionale, così come su quello della prestazione di garanzie false o d’incerta escutibilità si è conclusa, il 14 gennaio del 2021, l’indagine della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad essi correlati, che ha approvato all’unanimità la relazione sulle garanzie finanziarie nel settore delle discariche.

Tra gli illeciti più comuni emersi a seguito della capillare attività d’inchiesta compaiono le false polizze assicurative, l’abusivismo e l’insolvenza dei soggetti garanti, illeciti e criticità del sistema delle garanzie alle quali sono state dedicate le pagg. 36 e ss. della relazione.

Tra le criticità la relazione segnala, da un lato, la difficoltà delle imprese che gestiscono rifiuti di prestare le garanzie finanziarie relative alle operazioni di post gestione degli impianti di discarica, difficoltà dovuta al rifiuto opposto dalle imprese di assicurazione autorizzate all’esercizio del ramo cauzioni e dagli istituti di credito di garantire un arco di tempo che si proietta su trent’anni e che prevede a carico del gestore costi particolarmente elevati nella fase di post gestione delle discariche.

Dall’altro, l’effettiva possibilità di escussione delle garanzie prestate in ragione sia dell’insolvenza sopravvenuta del soggetto gestore sia dell’abbandono da parte di quest’ultimo dell’impianto di gestione.

Tra gli illeciti la relazione segnala le false garanzie fideiussorie e le false polizze assicurative.

Alla pag. 40 della relazione si legge testualmente: “ Le assicurazioni false, secondo quanto emerso dall’inchiesta della DDA di Brescia, sono di due tipi: polizze “fasulle”, cioè società assicurative vere e proprie con sede in Romania ed in Bulgaria, dietro cui, però, non esiste una reale copertura finanziaria; e polizze “false”, i cui documenti ingannevoli e creati ad arte proverrebbero da “antichi e prestigiosi Paesi dell’Unione Europea”.

Sul tema dell’abusivismo, alla pag. 42 della relazione, si legge che tale fenomeno consiste in una: “ pericolosa tipologia di illecito finanziario perpetrato da soggetti non abilitati all’esercizio di attività che, per legge, sono riservate a operatori preventivamente autorizzati, i quali devono essere iscritti, previa verifica dei necessari requisiti, in appositi albi pubblici e costantemente sottoposti alla vigilanza delle autorità di settore. Il fenomeno in parola si riscontra sia con riferimento al settore finanziario che a quello assicurativo….I casi di abusivismo si manifestano sempre più attraverso l’attivazione su siti internet utilizzati per la truffaldina promozione e vendita di prodotti ovvero per veicolare offerte da parte di soggetti non abilitati”.

Le argomentazioni in punto di fatto e di diritto illustrate rendono possibile la formulazione di valutazioni sulla rilevanza penale degli illeciti connessi alla prestazione delle garanzie che la Commissione parlamentare d’inchiesta ha riferito essere emersi dalla capillare e minuziosa attività d’indagine svolta.

La prestazione di garanzie bancarie o assicurative false appare condotta idonea, quanto meno e salve le peculiarità di volta in volta manifestate dal singolo caso concreto, a trarre in inganno il pubblico ufficiale chiamato a valutare se rilasciare l’autorizzazione di cui all’art. 208 del TUA e, cioè, l’autorizzazione avente ad oggetto la realizzazione e la gestione di un impianto di smaltimento o di recupero dei rifiuti anche pericolosi.

Per effetto della prestazione di garanzie false o fasulle, il pubblico ufficiale che rilascia l’autorizzazione di cui alla citata norma attesta la sussistenza - in capo a colui che presenta la relativa domanda alla regione competente per territorio - di tutte le condizioni e prescrizioni alle quali fa riferimento il comma 11 dell’art. 208, che analiticamente elenca gli elementi destinati a concorrere alla definizione del contenuto “ obbligatorio” della citata autorizzazione.

Quel pubblico ufficiale, quindi, attesta come sussistente anche la condizione di avvenuta prestazione delle garanzie finanziarie, alle quali, come scritto, è dedicata la portata precettiva della lettera g) del comma 11 del citato 208 del TUA.

Attestazione all’evidenza ideologicamente falsa, stante la falsità della documentazione avente ad oggetto l’avvenuto rilascio della garanzia, falsità nella quale il pubblico ufficiale incorre, però, in ragione dell’inganno perpetrato in suo danno dal privato che richiede il rilascio dell’autorizzazione.

Lo schema della rilevanza penale del fatto potrebbe cogliersi nel combinato disposto degli artt. 48 e 479 del c.p. e, cioè, nel falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale indotto in inganno dal privato istante, falso ideologico del quale, in ragione del precetto di cui all’art. 48 del c.p., deve essere chiamato a rispondere, al posto del pubblico ufficiale, il privato istante che ha perpetrato l’inganno.

Sul tema del falso ideologico del pubblico ufficiale indotto in errore perché ingannato dal privato istante si sono pronunciate a più riprese le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, dapprima con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, e successivamente con la sentenza 24 settembre del 2007, n. 35488, di conferma dell’orientamento delle prime SS.UU., orientamento rispetto al quale erano andate di contrario avviso successive sentenze della Suprema Corte a sezioni semplici.

Le Sezioni Unite hanno concordemente affermato che tutte le volte in cui un pubblico ufficiale adotta un provvedimento, a contenuto descrittivo o dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, dell’esistenza delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 del c.p., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera.

Il provvedimento del pubblico ufficiale, infatti, è ideologicamente falso in quanto adottato sulla base di un presupposto che in realtà non esiste.

Di tale falso, ovviamente, non risponde il pubblico ufficiale perché in buona fede in quanto tratto in inganno, bensì il soggetto che lo ha ingannato.

Le Sezioni unite hanno argomentato, infatti, che il procedimento di formazione di qualsivoglia atto amministrativo prevede come primo momento l’accertamento dei presupposti, accertamento che viene compiuto dalla stessa autorità che deve porre in essere l’atto o direttamente, o più frequentemente sulla base di documenti che possono consistere in atti pubblici e certificati rilasciati da altre autorità.

E, quindi, se detti documenti, certificati sono falsi, materialmente o ideologicamente, deriva anche che la conseguente attestazione circa l’esistenza dei presupposti è falsa.

Alla medesima conclusione pare legittimo potersi giungere a maggior ragione nel caso in cui a rilasciare la garanzia sia soggetto bancario od assicurativo non autorizzato, casi nei quali la garanzia deve ritenersi parimenti inesistente e, quindi, parimenti ideologicamente falsa l’attestazione ad essa relativa presente nel titolo autorizzativo.

§§§§

5)La connessione tra il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies e gli altri reati e le conseguenze sull’individuazione del giudice competente per territorio.

La parte conclusiva della presente relazione affronta il tema delle ripercussioni - sul piano squisitamente processuale - generate dall’esistenza di una relazione di connessione ex art. 12 del c.p.p. tra il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies del c.p. e gli altri reati, in ipotesi anche più gravi del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti ed eventualmente commessi anche al di fuori del territorio del distretto di Corte d’Appello in cui si assume commesso il traffico illecito.

Il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies fa parte, infatti, ex art. 51, comma 3 bis, del c.p.p., del catalogo dei reati per i quali le funzioni di Pubblico Ministero sono attribuite all’Ufficio di Procura avente sede presso il Tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente.

La relazione di connessione ex art. 12 può instaurarsi in concreto tra il delitto di traffico illecito di rifiuti ed altri reati, in ipotesi anche più gravi, commessi tutti nel territorio dello stesso distretto o tra il delitto di cui all’art. 452 quaterdecies ed altri fatti di reato commessi fuori da quel territorio.

La relazione di connessione per poter essere apprezzata impone necessariamente il ricorso alla struttura ed alla formulazione del capo d’imputazione, ivi compresa l’indicazione del tempo ma, soprattutto, del luogo del commesso reato.

Il ricorso al capo d’imputazione appare percorso irrinunciabile a meno che il capo d’accusa non sia viziato, nella sua struttura e formulazione, da errori di tale e tanta consistenza da essere apprezzabili addirittura ictu oculi.

Sul tema in questione esistono valutazioni difformi da parte delle singole Sezioni della Suprema Corte, al cui interno appaiono essersi profilati due orientamenti di legittimità, uno dei quali espressione della I Sezione ed un altro, invece, della III.

Al primo orientamento sono riconducibili, tra le altre, le pronunce di Cass. Sez. I, n. 16123 del 12.11.2018, Cass. Sez. I, n. 43599 del 5/7/2017, Cass. Sez. IV, n. 4484 del 9.12.2015 ed, infine, Cass. Sez. II, n. 6783 del 13.11.2008.

Al secondo, invece, Cass. Sez. III, n. 52512 del 22 maggio del 2014.

Lo specifico terreno sul quale si sono proiettate le differenti valutazioni è quello della portata della deroga cui ha dato luogo l’introduzione nel c.p.p. del catalogo dei reati di cui all’art. 51, comma 3 bis, rispetto al principio fissato dall’art. 16 del c.p.p., in forza del quale “ la competenza per territorio per i procedimenti connessi rispetto ai quali più giudici sono ugualmente competenti per materia appartiene al giudice competente per il reato più grave e, in caso di pari gravità, al giudice competente per il primo reato”.

Secondo il primo degli orientamenti citati – quello definito consolidato dalla stessa Suprema Corte nell’ultima delle sue pronunce in ordine di tempo – l’art. 51 comma 3 bis del c.p.p. comporta una deroga “ assoluta ed esclusiva” alle regole sulla competenza per territorio, anche fuori dagli ambiti distrettuali “ perché stabilisce la vis actractiva del reato ricompreso nelle attribuzioni di quell’Ufficio inquirente nei confronti dei reati connessi anche se di maggiore gravità, con la conseguenza che, ai fini della determinazione della competenza, occorre avere riguardo unicamente al luogo di consumazione del reato previsto nel catalogo suindicato” (cfr. p. 9).

Secondo, invece, l’isolata pronuncia di legittimità del 2014, ove il delitto in connessione, pur rientrando nel catalogo di cui all’art. 51 comma 3 bis del c.p., non abbia necessariamente la struttura tipica del delitto associativo – ed è il caso, per l’appunto, del delitto di cui all’art. 452 quaterdecies del c.p. - “ dovrebbe ritenersi che il principio espresso dall’art. 51, comma 3 bis, c.p.p., vada inteso nei termini, peraltro testualmente conformi al dettato normativo, secondo i quali il trasferimento della funzione inquirente operi entro i limiti del distretto, subordinatamente alla preventiva individuazione dell’ufficio giudiziario competente secondo gli ordinari criteri e comportando esclusivamente il trasferimento della competenza dalla ordinaria sede circondariale a quella distrettuale, in ragione dell’attribuzione delle funzioni inquirenti alla locale Procura della Repubblica in sede capoluogo di distretto…..Solo se interpretata nei più ridotti termini che ora precedono, la traslazione della competenza al giudice distrettuale può essere ritenuta compatibile con i principi costituzionali, apparendo diversamente irragionevole ed inutilmente destinata a violare la regola del giudice naturale ed a comprimere il diritto di difesa dell’indagato prima ed, eventualmente, dell’imputato poi”. (cfr. p. 15).

Il numero delle pronunce di legittimità espressione del primo orientamento e, soprattutto, il loro essere sopravvenute a quella appena citata del 2014 ha fatto propendere l’ultima pronuncia di legittimità in ordine di tempo nella direzione della mancanza dei presupposti per la chiamata in causa delle Sezioni Unite, potendosi ritenere il primo orientamento ormai definitivamente consolidatosi.

Anche alla luce di un ulteriore dato di valutazione valorizzato nella sentenza n. 16123 del 12.11.2018, che fa leva sul fatto che, pur potendosi il delitto di attività organizzate per il traffico illecito atteggiarsi nel concreto delle dinamiche criminali quale delitto non associativo, pur tuttavia esso, comunque, rimanda, nel profilo caratterizzante della fattispecie, a situazioni nelle quali per ritenersi configurato il reato è necessario che sia predisposta un’organizzazione professionale seppur rudimentale, con allestimento di mezzi ed impiego di capitali, con cui gestire in modo continuativo ed illegale ingenti quantitativi di rifiuti e, quindi, situazioni assimilabili a quelle che usualmente caratterizzano il concreto manifestarsi del delitto associativo.

Il caso che ha generato la richiamata sentenza, pronunciata in sede di conflitto negativo di competenza sollevato dal GUP del Tribunale di Roma avverso quello di Milano, era quello delle acque di sentina del porto di Livorno trasportate in territorio lombardo, ove venivano miscelate con altre sostanze senza rispettare il ciclo di recupero previsto dalla Legge e, successivamente, messe in commercio - nella condizione quindi ancora di rifiuto speciale pericoloso - per il consumo come olio per combustione destinato agli usi civili o industriali.

Brindisi – Roma, 10 - 12 novembre del 2021.

Giuseppe DE NOZZA

1 Sul delitto d’impedimento del controllo e, più in generale, sulla riforma degli ecoreati si evidenziano i contributi di MOLINO P. , Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Settore penale, “Novità legislative: Legge n. 68 del 22 maggio 2015, recante disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”, 29 maggio del 2015; RAMACCI L. , “Prime osservazioni sull’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel codice penale e le altre disposizioni della Legge 22 maggio 2015, n. 68”, pubblicato su Lexambiente.it l’8 giugno del 2015 nonché RAMACCI L. , Diritto penale dell’ambiente, Piacenza, 2015; TELESCA M. , “Osservazioni sulla Legge n. 68 del 2015 recante disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente:ovvero i chiaroscuri di una agognata riforma”, pubblicato su Diritto penale contemporaneo il 17 luglio del 2015; AMENDOLA G ., “Ecoreati: il nuovo delitto di impedimento del controllo. Primi appunti”, pubblicato su Lexambiente.it il 18 dicembre del 2015; GALLO M ., “Ispezioni, il reato di impedimento del controllo tra luci ed ombre”, Guida al lavoro, anno 2015, Fasc. n. 31; POSTIGLIONE A. , “Recenti sviluppi in Italia della tutela penale dell’ambiente”, Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, anno 2015, fasc. speciale, parte I; PARODI C., GEBBIA M., BORTOLOTTO M., CORINO V ., “I nuovi delitti ambientali (legge 22 maggio 2015, n. 68)”, Milano, 2015; RUGA RIVA C. , “Il delitto di impedimento del controllo (art. 452 septies). La tutela di funzioni ambientali assurge a bene giuridico esplicito”, pubblicato su Lexambiente.it il 3 novembre del 2017 nonché, sempre di RUGA RIVA C ., “I nuovi ecoreati, Commento alla Legge 22 maggio 2015, n. 68”, Torino, 2015 e “Diritto penale dell’ambiente”, III ed., Torino, 2016; SALVI G. , Intervento del Procuratore Generale della Corte di Cassazione al seminario in videoconferenza organizzato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati sul tema: “La legge 22 maggio 2015, n. 68, sui delitti ambientali sei anni dopo”, Roma, 27 maggio del 2020, contributo scritto in collaborazione con il Consigliere della Corte di Cassazione FIMIANI P .

2 Su tale estensione della portata applicativa della norma ha manifestato perplessità parte della dottrina, evidenziando che appare incomprensibile la ragione per la quale in un titolo del Codice penale dedicato ai delitti contro l’ambiente abbia potuto trovare spazio un ambito di materia, quello della igiene e della sicurezza dei luoghi di lavoro, del tutto diverso da quello oggetto della tutela. In tale direzione TELESCA M. , op. cit., pag. 31 e ss.; di contrario avviso sul punto, invece, AMENDOLA L. , op. cit., secondo il quale la scelta del legislatore del 2015 appare ragionevole, essendo l’igiene e la sicurezza dei luoghi di lavoro settore strettamente collegato a quello della tutela ambientale perché, nel concreto atteggiarsi delle realtà industriali, non può scindersi la tutela della salute all’interno ed all’esterno della fabbrica.

3 RUGA RIVA C. , Il delitto di impedimento del controllo (art. 452 septies del c.p.). La tutela di funzioni ambientali assurge a bene giuridico esplicito, già cit.

4 RUGA RIVA C. , Il delitto di impedimento del controllo (art. 452 septies del c.p.). La tutela di funzioni ambientali assurge a bene giuridico esplicito, già cit.

5 PARODI C., GEBBIA M., BORTOLOTTO M., CORINO V ., op. già cit.

6 RUGA RIVA C. , Il delitto di impedimento del controllo (art. 452 septies del c.p.). La tutela di funzioni ambientali assurge a bene giuridico esplicito, già cit.

7 RUGA RIVA C. , Il delitto di impedimento del controllo (art. 452 septies del c.p.). La tutela di funzioni ambientali assurge a bene giuridico esplicito, già cit.

8 RUGA RIVA C. , Il delitto di impedimento del controllo (art. 452 septies del c.p.). La tutela di funzioni ambientali assurge a bene giuridico esplicito, già cit.

9 AMENDOLA G., op. già cit.

10 RAMACCI L. , Prime osservazioni sull’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel codice penale e le altre disposizioni della Legge 22 maggio 2015, n. 68, op. già cit.

11 AMENDOLA G. , op. già cit.

12 Sul delitto di inquinamento ambientale si segnalano i contributi di DI FIORINO E. e PROCOPIO F. , “Inquinamento ambientale: La Cassazione riempie di contenuti la nuova fattispecie incriminatrice”, di commento a Cass. Sez. III, 3 novembre 2016, n. 46170, pubblicato su Giurisprudenza penale web 2016, 12; nonché MELZI d’ERIL C ., “L’inquinamento ambientale a tre anni dall’entrata in vigore”, pubblicato su Diritto Penale contemporaneo 7/2018.

13 Sul punto Cfr. Cass. Pen. Sez. III, n. 46170 del 21.9.2016; Cass. Pen. Sez. III, n. 10515 del 27.10.2016; Cass. Pen. Sez. III, n. 15865 del 31.1.2017 e, da ultimo, Cass. Pen. Sez. III, n. 50018 del 6.11.2018; nonché MOLINO P. , op. già cit .

14 In tal senso Cfr. Cass. Sez. III, n. 3147, del 6 aprile del 1993.

15 In tal senso MOLINO P. , op. già cit.

16 Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 3 marzo 2009, n. 9492, ed, in costanza di vigenza dell’art. 17 del Decreto Legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, anche Cass. Pen., Sez. III, 9 luglio 2007, n. 26479.

17 Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 6 ottobre 2010, n. 35774; Cass. Pen., Sez. IV, 13 luglio 2016, n. 29627, e Cass. Pen., Sez. III, 30 aprile del 2019, n. 17813.

18 Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 27 febbraio 2014, n. 9619.

19 Cfr., oltre la sentenza in commento, anche Cass. Pen., Sez. III, n. 46170 del 21.9.2016, e Cass. Pen., Sez. III, n. 15865 del 31.1.2017.

20 In questa direzione si è espresso MOLINO P. , op. già cit. Sul tema del disastro ambientale si segnalano Cass. Pen., Sez. IV, n. 46876 del 7.11.2019; Cass. Pen., Sez. III, n. 9418 del 16.1.2018; Cass. Pen., Sez. III, n. 29091 del 18.6.2018; Cass. Pen., Sez. I, n. 58023 del 17.5.2017; Cass. Pen., Sez. III, n. 46189 del 14.7.2011; Cass. Pen., Sez. IV, n. 36626 del 5.5.2011; Cass. Pen., Sez. V, n. 40330 dell’11.10.2006.

21 Sul punto MOLINO P. , op. già cit .

22 In tal senso RUGA RIVA C. , “Ancora sul concetto di abusivamente nei delitti ambientali: replica a Gianfranco Amendola”, pubblicato su Lexambiente.it il 6 luglio del 2015 .

23 MOLINO P. , op. già cit.

24 SIRACUSA L. , “ La Legge 22 maggio 2015, n. 68, sugli “ecodelitti”: una svolta quasi epocale per il diritto penale dell’ambiente”, contributo pubblicato sul sito Diritto penale contemporaneo il 9 luglio del 2015;

25 RUGA RIVA C. , “Il nuovo delitto di inquinamento ambientale”, pubblicato su Lexambiente.it il 23 giugno del 2015;

26 MOLINO P. , op. già cit.

27 RAMACCI L ., “Prime osservazioni sull’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel codice penale e le altre disposizioni della Legge 22 maggio 2015, n. 68”, op. già cit.

28 Si tratta di pronuncia di legittimità in linea ed in sintonia con la precedente sul medesimo tema di Cass. Pen., Sez. III, n. 46170 del 21.9.2016, in tema di inquinamento di acque marine derivante da un’attività di bonifica di fondali effettuata in spregio delle relative prescrizioni progettuali.

29 MOLINO P. , op. già cit., nonché RUGA RIVA C. , I nuovi ecoreati. Commento alla Legge 22 magio 2068, n. 15, op. già cit .

30 RAIMONDO M. , “La responsabilità degli enti per i delitti e le contravvenzioni ambientali: Godot è arrivato?”, p. 28 e ss., pubblicato su Diritto Penale contemporaneo.

31 RUGA RIVA C. , I nuovi ecoreati. Commento alla Legge 22 magio 2068, n. 15, op. già cit.

32 RAIMONDO M. , op. già cit.

33 MOLINO P., op. già. cit.

34 MOLINO P., op. già. cit.

35 RAIMONDO M. , op. già cit.

36 SALVI G ., op. già cit.

37 RAIMONDO M. , op. già cit.

38 Così testualmente Cass. Civ., Sez. I, n. 24970 del 6 novembre del 2013, pubblicata sul sito Lexambiente.it il 14 dicembre del 2016 .

39 Cfr. relazione sulla gestione e sul bilancio del Conai per l’anno 2020, pubblicata sul sito istituzionale del consorzio.

40 Così testualmente Cass. Pen., Sez. II, n. 23765 dell’ 8 giugno 2016.