Tumori “cellulari”
Note a margine di una sentenza che serve alla tutela della salute pubblica
di Stefano PALMISANO
Note a margine di una sentenza che serve alla tutela della salute pubblica
di Stefano PALMISANO
“Un ruolo quindi, almeno concausale, delle radiofrequenze nella genesi della neoplasia che ha patito il sig. Marcolin è ‘probabile’ (probabilità qualificata).”
Così la Corte d’appello di Brescia – Sezione lavoro nella sentenza (pag. 11) n. 614 del 10 dicembre 2009 (depositata il 22\12) relativa ad una richiesta di indennità per malattia professionale formulata vanamente all’Inail da un dirigente d’azienda, Innocente Marcolin (si riportano il nome e cognome di questa persona in quanto ormai di dominio pubblico), di una società del bresciano.
Il signor Marcolin assumeva di aver contratto, anche a causa di una lunga esposizione alle onde elettromagnetiche di un telefono cordless e di un telefono cellulare che usava sul posto di lavoro per varie ore al giorno, un ‘neurinoma del ganglio di Gasser’, un tumore benigno che colpisce i nervi cranici, in particolare il nervo acustico, mentre più rara è la localizzazione al V nervo cranico (trigemino), come nel caso di specie.”
Il principio con cui si sono aperte queste note è di quelli destinati ad aprire brecce nell’ordinamento giuridico.
E, tenendo conto della diffusione della materia, anzi degli oggetti concreti (cordless e cellulari), a base della vicenda in esame e del relativo pronunciamento giudiziale, più che brecce minacciano di essere voragini.
Se, infatti, passa definitivamente, anche a livello giurisprudenziale, l’assunto che vi è un rapporto causale tra esposizione a radiofrequenze, in pratica tra uso dei telefonini, e induzione di patologie, peraltro di natura neoplastica, e, soprattutto, se, com’è facile immaginare, non siamo che ai primi vagiti delle evidenze scientifiche in questa materia, il che vuol dire, più brutalmente, che non siamo che ai primi casi conclamati di malattie da cellulari, è altrettanto semplice ipotizzare che ben presto le azioni giudiziali di singoli per ottenere riconoscimenti di malattie professionali analoghe a quelle del signor Marcolin intaseranno i ruoli, già di loro non proprio esangui, dei Tribunali del lavoro.
A tacere dello scenario, tutt’altro che apocalittico, per cui il prevedibile diffondersi di patologie legate all’uso capillare di telefoni e cordless inneschi masse di azioni di risarcimento dei danni nei confronti delle case produttrici degli apparecchi in questione.
Azioni che ben si presterebbero a diventare “azioni di classe”, o class actions che dir si voglia, pure alla stregua di una versione di questo istituto sostanzialmente monca, quale quella che è stata introdotta recentemente nel nostro ordinamento giuridico.
Ma, se, come emerge dal caso che si affronta, le evidenze scientifiche questo nesso di causalità effettivamente disvelano, in linea teorica non v’è ragione alcuna perché a danno massivo ed invasivo alla salute pubblica non debba corrispondere una rifusione altrettanto consistente di quel nocumento da parte di chi, direttamente o indirettamente, lo ha cagionato.
Ciò anche se quella rivelata dalla causa di lavoro davanti alla Corte d’appello di Brescia è una “causalità debole” espressione del “modello probabilistico – induttivo” in “una situazione individuale”, come si legge a pag. 10 della sentenza che ci occupa.
Neanche questo, tuttavia, deve stupire, dato che il lasso di tempo tutto sommato ristretto intercorso dalla diffusione su larga scala nella nostra società (un decennio o poco più) degli strumenti tecnologici in questione impedisce di avere un quadro sufficientemente attendibile degli effetti di questi ultimi sulla salute umana, ossia, più precisamente, preclude ancora acquisizioni scientifiche connotate da caratteri maggiormente stringenti della predetta “causalità debole”.
In tal senso, dunque, sarà proprio la quantità e soprattutto la qualità degli studi scientifici, in particolare delle indagini epidemiologiche, a dirci se quella causalità è suscettibile di upgrade fino a diventare “certa”, tanto da poter esser posta a base di un giudizio di responsabilità anche penale nei confronti di chi questi apparecchi ha prodotto e\o di chi ha fatto usare (per esempio ai propri subalterni su un posto di lavoro) in maniera negligente o imprudente o imperita o, ancor peggio, in violazione di specifiche normative in materia di sicurezza sul lavoro.
In questo ultimo senso, infatti, ai fini di una dichiarazione di responsabilità penale di una persona per lesioni colpose, giacché questa sarebbe chiaramente l’ipotesi di reato, se non ancora peggio, è necessario l’accertamento di un nesso causale tra l’esposizione ad una determinata fonte di emissioni e l’insorgenza di una patologia sulla salute umana caratterizzato dal requisito della certezza.
Naturalmente, di una “certezza processuale”, come insegna la Suprema Corte nel suo più importante pronunciamento in materia (la c.d. “sentenza Franzese”), ormai diventata c.d. “ius receptum”, diritto consolidato, nel nostro ordinamento.
Una certezza, cioè, che viene acclarata sulla base degli ordinari canoni probatori del nostro processo penale (a partire, se del caso, da quelli contenuti nel fondamentale art. 192, c. 2 del codice di procedura penale per il quale “L'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”); non certo una certezza asseritamente “scientifica”, propugnata da una dottrina tanto prestigiosa quanto spesso impaniata in pregnanti conflitti d’interesse (giuristi che sono al contempo difensori di imputati eccellenti), in realtà a metà strada tra il matematizzante ed il metafisico (il noto, curioso, esempio perorato dal più illustre esponente di quella corrente dottrinale, F. Stella, per cui fino a che non saremo in grado di individuare “quando e dove potrà essere stata inalata quell’unica fibra di amianto che potrebbe essere responsabile delle malattie e dei tumori” non dovremmo poter condannare nessuno per lesioni o omicidio colposo).
Approccio interpretativo, sedicente “garantista”, quest’ultimo, che se iniziasse a trovare concrete e sistematiche applicazioni giurisprudenziali, significherebbe perciò stesso la sostanziale soppressione di pezzi significativi di intere branche del diritto penale: dal diritto penale del lavoro al diritto penale dell’ambiente.
Ciò non perché chi scrive sia un apostolo di quella “espansione del diritto penale”, per riprendere il titolo di un interessante libricino pubblicato qualche anno fa da uno studioso catalano, J. M. Silva Sanchez, tanto vibratamente stigmatizzata da più parti quando si tratta di determinate tipologie di reati di solito commessi da altrettanto ben individuate fasce sociali di soggetti, quanto pietosamente e unanimemente obliata, se non addirittura disinvoltamente giustificata, in presenza di categorie di illeciti penali e dei relativi, socialmente consuetudinari, autori di tutt’altro segno.
Ma solo perché quando ci si trova in presenza di condotte “sistemiche” tanto diffusivamente lesive di un bene giuridico fondamentale come la salute pubblica, quest’ultimo non può non godere anche di una forma di tutela penale da quei comportamenti spesso tanto scellerati quanto, per l’appunto, “di sistema”.
Perché questa tutela possa effettivamente esplicarsi, però, per tornare alla vicenda giudiziaria oggetto di questo scritto, o, forse meglio, perché una qualsiasi forma di tutela giuridica effettiva possa garantirsi alla salute pubblica nei confronti di attentati vecchi e nuovi, come quelli che ci occupano, è imprescindibile proprio il supporto scientifico, ossia il ruolo della scienza e degli scienziati quali primi custodi dell’ambiente e della salute pubblica di una società.
E qui si tocca il nervo più scoperto e dolente dell’intera vicenda, come peraltro emerge limpidamente dal procedimento giudiziario del sig. Marcolin e dalla sentenza della Corte d’appello di Brescia che lo ha definito.
Quella che si è giocata davanti all’Autorità Giudiziaria lombarda, infatti, è stata anche e soprattutto una tenzone a colpi di citazioni di studi scientifici, tutti sinteticamente riportati in sentenza, che hanno scandagliato l’ancora poco nitido rapporto tra esposizione a campi elettromagnetici ed effetti sulla salute umana.
Da una parte uno studio Oms (Organizzazione mondiale della sanità) – Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro), del 2000, ripreso dall’Inail, che sostanzialmente escludeva conseguenze negative sulla salute.
Dall’altra una serie di indagini di vari autori, tra cui in particolare il c.d. “gruppo Hardel”, su cui si sorreggevano le deduzioni e le richieste del ricorrente e, soprattutto, poste a base delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, concentrate tra il 2005 ed il 2009, per i quali, invece, pur con diverse sfumature, le esposizioni in questione, in pratica l’uso di cordless e cellulari, sulla salute delle persone sono decisamente meno innocue di quanto emerga dallo studio dell’ente istituzionalmente preposto su base planetaria alla ricerca sul cancro.
A due di questi lavori, in particolare, mette conto dedicare un po’ di attenzione, per la puntualità e l’acutezza dei rilievi che vi sono contenuti.
Nel primo caso, si tratta di una c.d. “review” della International Commission on Non – Ionizing Radiation Protection, ossia di una revisione critica della quasi totalità delle indagini epidemiologiche effettuate fino al 2009 sul tema in questione.
L’elemento più significativo di questo studio è costituito dal disvelamento dei vari “bias”, ossia le distorsioni che connotano le opere oggetto di revisione: “modalità di arruolamento, assenza di un gruppo di controllo con ricorso a registri di popolazione, impossibilità di standardizzare entità e durata complessiva di esposizione.”
Per gli autori della revisione, gli “errori sistematici” in esame sono di tale entità che, allo stato attuale, seppur non vi sia “una convincente evidenza del ruolo delle radiofrequenze nella genesi dei tumori”, ciononostante gli studi presi in esame, in quanto così pesantemente inficiati, “non ne hanno escluso l’associazione” (“…. these studies have too many deficiencies to rule out an association.”)
Il secondo lavoro, anch’esso recentissimo (2009), a firma di M. Kundi, pur affermando che il rischio derivante da queste esposizioni sarebbe basso, asserisce altresì che “l’esposizione può incidere sulla storia naturale della neoplasia in vari modi: interagendo nella fase iniziale di induzione, intervenendo sul tempo di sviluppo dei tumori a lenta crescita, come i neurinomi, accelerandola ed evitando la possibile naturale involuzione.”
In pratica, queste esposizioni si comporterebbero come un vero e proprio cancerogeno “completo”, in grado, cioè, di innescare come di far progredire la malattia neoplastica.
La Corte ha ritenuto decisamente più affidabili gli studi citati dal C.T.U. e dalla difesa del sig. Marcolin (di cui si sono accennati i due probabilmente più significativi) rispetto a quello della Iarc, praticamente l’unico, su cui l’Inail aveva fondato il suo pervicace rifiuto di erogare le doverose prestazioni assistenziali nei confronti del lavoratore malato.
Lo ha fatto principalmente per la ragione che lo studio dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, “risalente al 2000 e basato su dati, ovviamente, ancora più risalenti, non tiene conto dell’uso più recente, ben più massiccio e diffuso, di tali apparecchi e del fatto che si tratta di tumori a lenta insorgenza: pertanto gli studi del 2009, basati su dati più recenti, sono di per sé più attendibili.”
Considerazioni, queste, che riportano direttamente a quelle sviluppate ed agli scenari socio-giudiziali ipotizzati all’inizio di questo lavoro.
V’è, però, un altro elemento che la Corte d’appello ha tenuto ben presente nel suo percorso motivazionale sulla questione della rispettiva affidabilità degli studi scientifici discordanti tra loro e del quale non ha mancato di dare puntualmente atto in sentenza: “inoltre, a differenza dello studio IARC, co-finanziato dalle ditte produttrici di telefoni cellulari, gli studi citati dal dott. Di Stefano (consulente tecnico d’ufficio della Corte, n.d.r.) sono indipendenti.”
Con ogni probabilità, questo, per una sentenza della magistratura italiana, è un principio della stessa epocale portata innovativa di quello riportato nel primo periodo di questo scritto sul quale ci si è soffermati fino a questo punto.
Affermare che il vaglio di attendibilità di uno studio scientifico citato in un processo, e dunque, in ultima istanza, che l’accertamento delle responsabilità individuali a base di quest’ultimo, vadano effettuati anche sulla base dell’indipendenza degli autori di quello e degli studi “contrapposti” significa, anche in tal caso, aprire letteralmente un’epoca nuova nella giurisprudenza di questo paese in materia di tutela della salute, pubblica e privata; una fase nella quale l’accertamento giudiziario sia finalmente sempre ispirato a lucidi e onesti criteri di perseguimento della verità sostanziale, tanto più eticamente, prim’ancora che giuridicamente, doverosi quanto più si verta in un contesto di lesioni gravi, se non peggio, patite da una persona, da un lavoratore, o di devastanti attentati all’ambiente.
Perché, evidentemente, così non sempre è stato, se è vero, come è vero, che grandi procedimenti penali che avevano a base enormi danni a persone ed ecosistemi si sono “definiti” con sentenze di assoluzione, quando non proprio con incommentabili ordinanze di archiviazione, fondamentalmente basate sulle risultanze di studi scientifici che escludevano, rectius che “non provavano”, il nesso causale tra l’esposizione ad una o più determinate sostanze e l’insorgenza di alcune, in certi casi di una lunga serie di, patologie.
Studi scientifici che, alla stregua del rivoluzionario quanto ovvio canone interpretativo statuito dalla Corte d’appello di Brescia, risultavano ictu oculi al di sotto di ogni sospetto.
Né vi sarebbe alcuna plausibile ragione per ritenere che quella regola di giudizio usata dalla Corte d’appello di Brescia in un procedimento civil - assistenziale, quella fondata sulla verifica dell’indipendenza degli studi scientifici, non debba esser trasposta tout court anche in ambito penale; anzi, in quest’ultimo essa sarebbe vieppiù “di casa” stante la precipua finalità del processo penale di accertamento della verità materiale.
Da questo ultimo assunto dell’Autorità giudiziaria lombarda non possono non scaturire alcune considerazioni finali.
1) Il fatto che una Corte d’appello riconosca in una sentenza l’elementare verità per cui uno studio indipendente è, di suo, più credibile rispetto ad uno studio co-finanziato dalle società produttrici dell’oggetto “incriminato” nel processo in cui quella sentenza si è resa non vuol dire certo che si debbano rigettare a priori le offerte delle industrie di finanziamento di studi e ricerche scientifiche.
Vuol solo dire che queste ultime, o meglio molte di loro, specie tra le più grosse e potenti, debbono fare un sentito mea culpa per aver preordinatamente utilizzato, ossia commissionato numerosissimi, sedicenti studi scientifici come una sorta di “fattori di confondimento” atipici, dolosi, la cui unica ragion d’essere epistemologica era quella di assolvere preventivamente prodotti e produttori da ogni sospetto di nocività, nei confronti di lavori scientifici che, invece, tendevano ad accertare i reali effetti sulla salute pubblica e sull’ambiente di quegli stessi prodotti.
Ma, soprattutto, significa che, per il futuro, le imprese devono solennemente impegnarsi a non fabbricare più quegli inverosimili ed inverecondi fattori di confondimento.
Devono farlo anche per non trascinare in un immeritato vortice di discredito pregiudiziale pure quei lavori scientifici che, anche se finanziati dalle industrie, dovessero risultare tuttavia corretti scientificamente.
Devono farlo le aziende e con loro gli scienziati che a quell’utilizzo “improprio”, per usare una litote, della loro alta funzione si sono prestati.
2) Il pubblico, ossia gli enti pubblici preposti istituzionalmente alla ricerca scientifica in chiave di tutela dell’ambiente e della salute pubblica, non può e non deve, comunque, abdicare anzitutto al suo ruolo di controllo e validazione scientifica degli studi privati; ma anche alla ricerca scientifica effettuata direttamente, con mezzi e persone appartenenti organicamente all’ente pubblico. Il che significa che le strutture pubbliche a carattere scientifiche dovrebbero esser trattate e, soprattutto, finanziate dallo Stato e dagli altri enti pubblici, territoriali e non, in maniera quantomeno più seria (ci vuole davvero poco) di come accade oggi.
3) Infine, alla luce della sentenza della Corte d’appello di Brescia, forse non avevano tutti i torti quegli scienziati che già qualche tempo fa, partendo dall’analisi di alcune recenti pubblicazioni IARC in cui si criticavano le valutazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per quanto riguarda gli effetti dell’ambiente sul rischio di cancro nell’uomo, a partire dalla centrale questione della relazione tra tumore al polmone ed inquinamento atmosferico, denunciavano che “il gruppo ambientale di IARC fruisce del contributo delle associazioni europee di produttori di petrolio e di asfalto (dal 2° rapporto biennale IARC)”, tanto da far “presumere l’esistenza di un forte legame tra alcuni autori con gli interessi dell’industria” e da far metter “in dubbio fortemente l’indipendenza” degli stessi autori e delle loro pubblicazioni scientifiche su questo argomento.
In tal senso, su questo ultimo profilo relativo a IARC messo a nudo dalla sentenza in esame, la sensazione finale è di grande amarezza: per l’autentico downgrade di credibilità scientifica in cui è precipitato, evidentemente per sue responsabilità, il più importante ente mondiale per la ricerca sul cancro.
Quell’ente che sotto la guida di Renzo Tomatis, fino a meno di vent’anni fa, aveva raggiunto vette di affidabilità e prestigio scientifico, anche e soprattutto sotto il profilo dell’indipendenza delle sue ricerche, che ne facevano un autentico punto di riferimento per tutti coloro che avessero a cuore il perseguimento della c.d. “prevenzione primaria”, ossia la difesa vera, in chiave seriamente preventiva, della salute pubblica e dell’ambiente.
Lo stesso Tomatis che, per riprendere la categoria dei “bias” citata nella sentenza della Corte d’appello di Brescia, in una pubblicazione del 2005, scritta a quattro mani con il dott. Valerio Gennaro dell’Istituto per la ricerca sul cancro di Genova, aveva denunciato espressamente proprio i “business bias”, ossia le “distorsioni nel mondo degli affari”, che davano addirittura il titolo all’articolo in questione apparso sull’International Journal of Occupational and Environmental Health (in www.salutepubblica.org/uploadtest/Ricerca/epidemiologia%20distorta.pdf).
Un saggio il cui emblematico sottotitolo era “Come gli Studi Epidemiologici possano Sottostimare o Fallire nell’ Individuare Accresciuti Rischi di Cancro e Altre Malattie” e nel quale l’attacco del relativo abstract era oltremodo illuminante: “Malgrado dichiarino la prevenzione primaria come loro scopo, gli studi di potenziali fattori di rischio occupazionale ed ambientale per la salute finanziati, sia direttamente che indirettamente dall’industria, è probabile che abbiano risultati negativi.”
I famosi “falsi negativi”; ma forse, più correttamente, si dovrebbe dire i famosi falsi studi.
Fasano, 1\3\2010
Stefano Palmisano
Così la Corte d’appello di Brescia – Sezione lavoro nella sentenza (pag. 11) n. 614 del 10 dicembre 2009 (depositata il 22\12) relativa ad una richiesta di indennità per malattia professionale formulata vanamente all’Inail da un dirigente d’azienda, Innocente Marcolin (si riportano il nome e cognome di questa persona in quanto ormai di dominio pubblico), di una società del bresciano.
Il signor Marcolin assumeva di aver contratto, anche a causa di una lunga esposizione alle onde elettromagnetiche di un telefono cordless e di un telefono cellulare che usava sul posto di lavoro per varie ore al giorno, un ‘neurinoma del ganglio di Gasser’, un tumore benigno che colpisce i nervi cranici, in particolare il nervo acustico, mentre più rara è la localizzazione al V nervo cranico (trigemino), come nel caso di specie.”
Il principio con cui si sono aperte queste note è di quelli destinati ad aprire brecce nell’ordinamento giuridico.
E, tenendo conto della diffusione della materia, anzi degli oggetti concreti (cordless e cellulari), a base della vicenda in esame e del relativo pronunciamento giudiziale, più che brecce minacciano di essere voragini.
Se, infatti, passa definitivamente, anche a livello giurisprudenziale, l’assunto che vi è un rapporto causale tra esposizione a radiofrequenze, in pratica tra uso dei telefonini, e induzione di patologie, peraltro di natura neoplastica, e, soprattutto, se, com’è facile immaginare, non siamo che ai primi vagiti delle evidenze scientifiche in questa materia, il che vuol dire, più brutalmente, che non siamo che ai primi casi conclamati di malattie da cellulari, è altrettanto semplice ipotizzare che ben presto le azioni giudiziali di singoli per ottenere riconoscimenti di malattie professionali analoghe a quelle del signor Marcolin intaseranno i ruoli, già di loro non proprio esangui, dei Tribunali del lavoro.
A tacere dello scenario, tutt’altro che apocalittico, per cui il prevedibile diffondersi di patologie legate all’uso capillare di telefoni e cordless inneschi masse di azioni di risarcimento dei danni nei confronti delle case produttrici degli apparecchi in questione.
Azioni che ben si presterebbero a diventare “azioni di classe”, o class actions che dir si voglia, pure alla stregua di una versione di questo istituto sostanzialmente monca, quale quella che è stata introdotta recentemente nel nostro ordinamento giuridico.
Ma, se, come emerge dal caso che si affronta, le evidenze scientifiche questo nesso di causalità effettivamente disvelano, in linea teorica non v’è ragione alcuna perché a danno massivo ed invasivo alla salute pubblica non debba corrispondere una rifusione altrettanto consistente di quel nocumento da parte di chi, direttamente o indirettamente, lo ha cagionato.
Ciò anche se quella rivelata dalla causa di lavoro davanti alla Corte d’appello di Brescia è una “causalità debole” espressione del “modello probabilistico – induttivo” in “una situazione individuale”, come si legge a pag. 10 della sentenza che ci occupa.
Neanche questo, tuttavia, deve stupire, dato che il lasso di tempo tutto sommato ristretto intercorso dalla diffusione su larga scala nella nostra società (un decennio o poco più) degli strumenti tecnologici in questione impedisce di avere un quadro sufficientemente attendibile degli effetti di questi ultimi sulla salute umana, ossia, più precisamente, preclude ancora acquisizioni scientifiche connotate da caratteri maggiormente stringenti della predetta “causalità debole”.
In tal senso, dunque, sarà proprio la quantità e soprattutto la qualità degli studi scientifici, in particolare delle indagini epidemiologiche, a dirci se quella causalità è suscettibile di upgrade fino a diventare “certa”, tanto da poter esser posta a base di un giudizio di responsabilità anche penale nei confronti di chi questi apparecchi ha prodotto e\o di chi ha fatto usare (per esempio ai propri subalterni su un posto di lavoro) in maniera negligente o imprudente o imperita o, ancor peggio, in violazione di specifiche normative in materia di sicurezza sul lavoro.
In questo ultimo senso, infatti, ai fini di una dichiarazione di responsabilità penale di una persona per lesioni colpose, giacché questa sarebbe chiaramente l’ipotesi di reato, se non ancora peggio, è necessario l’accertamento di un nesso causale tra l’esposizione ad una determinata fonte di emissioni e l’insorgenza di una patologia sulla salute umana caratterizzato dal requisito della certezza.
Naturalmente, di una “certezza processuale”, come insegna la Suprema Corte nel suo più importante pronunciamento in materia (la c.d. “sentenza Franzese”), ormai diventata c.d. “ius receptum”, diritto consolidato, nel nostro ordinamento.
Una certezza, cioè, che viene acclarata sulla base degli ordinari canoni probatori del nostro processo penale (a partire, se del caso, da quelli contenuti nel fondamentale art. 192, c. 2 del codice di procedura penale per il quale “L'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”); non certo una certezza asseritamente “scientifica”, propugnata da una dottrina tanto prestigiosa quanto spesso impaniata in pregnanti conflitti d’interesse (giuristi che sono al contempo difensori di imputati eccellenti), in realtà a metà strada tra il matematizzante ed il metafisico (il noto, curioso, esempio perorato dal più illustre esponente di quella corrente dottrinale, F. Stella, per cui fino a che non saremo in grado di individuare “quando e dove potrà essere stata inalata quell’unica fibra di amianto che potrebbe essere responsabile delle malattie e dei tumori” non dovremmo poter condannare nessuno per lesioni o omicidio colposo).
Approccio interpretativo, sedicente “garantista”, quest’ultimo, che se iniziasse a trovare concrete e sistematiche applicazioni giurisprudenziali, significherebbe perciò stesso la sostanziale soppressione di pezzi significativi di intere branche del diritto penale: dal diritto penale del lavoro al diritto penale dell’ambiente.
Ciò non perché chi scrive sia un apostolo di quella “espansione del diritto penale”, per riprendere il titolo di un interessante libricino pubblicato qualche anno fa da uno studioso catalano, J. M. Silva Sanchez, tanto vibratamente stigmatizzata da più parti quando si tratta di determinate tipologie di reati di solito commessi da altrettanto ben individuate fasce sociali di soggetti, quanto pietosamente e unanimemente obliata, se non addirittura disinvoltamente giustificata, in presenza di categorie di illeciti penali e dei relativi, socialmente consuetudinari, autori di tutt’altro segno.
Ma solo perché quando ci si trova in presenza di condotte “sistemiche” tanto diffusivamente lesive di un bene giuridico fondamentale come la salute pubblica, quest’ultimo non può non godere anche di una forma di tutela penale da quei comportamenti spesso tanto scellerati quanto, per l’appunto, “di sistema”.
Perché questa tutela possa effettivamente esplicarsi, però, per tornare alla vicenda giudiziaria oggetto di questo scritto, o, forse meglio, perché una qualsiasi forma di tutela giuridica effettiva possa garantirsi alla salute pubblica nei confronti di attentati vecchi e nuovi, come quelli che ci occupano, è imprescindibile proprio il supporto scientifico, ossia il ruolo della scienza e degli scienziati quali primi custodi dell’ambiente e della salute pubblica di una società.
E qui si tocca il nervo più scoperto e dolente dell’intera vicenda, come peraltro emerge limpidamente dal procedimento giudiziario del sig. Marcolin e dalla sentenza della Corte d’appello di Brescia che lo ha definito.
Quella che si è giocata davanti all’Autorità Giudiziaria lombarda, infatti, è stata anche e soprattutto una tenzone a colpi di citazioni di studi scientifici, tutti sinteticamente riportati in sentenza, che hanno scandagliato l’ancora poco nitido rapporto tra esposizione a campi elettromagnetici ed effetti sulla salute umana.
Da una parte uno studio Oms (Organizzazione mondiale della sanità) – Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro), del 2000, ripreso dall’Inail, che sostanzialmente escludeva conseguenze negative sulla salute.
Dall’altra una serie di indagini di vari autori, tra cui in particolare il c.d. “gruppo Hardel”, su cui si sorreggevano le deduzioni e le richieste del ricorrente e, soprattutto, poste a base delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, concentrate tra il 2005 ed il 2009, per i quali, invece, pur con diverse sfumature, le esposizioni in questione, in pratica l’uso di cordless e cellulari, sulla salute delle persone sono decisamente meno innocue di quanto emerga dallo studio dell’ente istituzionalmente preposto su base planetaria alla ricerca sul cancro.
A due di questi lavori, in particolare, mette conto dedicare un po’ di attenzione, per la puntualità e l’acutezza dei rilievi che vi sono contenuti.
Nel primo caso, si tratta di una c.d. “review” della International Commission on Non – Ionizing Radiation Protection, ossia di una revisione critica della quasi totalità delle indagini epidemiologiche effettuate fino al 2009 sul tema in questione.
L’elemento più significativo di questo studio è costituito dal disvelamento dei vari “bias”, ossia le distorsioni che connotano le opere oggetto di revisione: “modalità di arruolamento, assenza di un gruppo di controllo con ricorso a registri di popolazione, impossibilità di standardizzare entità e durata complessiva di esposizione.”
Per gli autori della revisione, gli “errori sistematici” in esame sono di tale entità che, allo stato attuale, seppur non vi sia “una convincente evidenza del ruolo delle radiofrequenze nella genesi dei tumori”, ciononostante gli studi presi in esame, in quanto così pesantemente inficiati, “non ne hanno escluso l’associazione” (“…. these studies have too many deficiencies to rule out an association.”)
Il secondo lavoro, anch’esso recentissimo (2009), a firma di M. Kundi, pur affermando che il rischio derivante da queste esposizioni sarebbe basso, asserisce altresì che “l’esposizione può incidere sulla storia naturale della neoplasia in vari modi: interagendo nella fase iniziale di induzione, intervenendo sul tempo di sviluppo dei tumori a lenta crescita, come i neurinomi, accelerandola ed evitando la possibile naturale involuzione.”
In pratica, queste esposizioni si comporterebbero come un vero e proprio cancerogeno “completo”, in grado, cioè, di innescare come di far progredire la malattia neoplastica.
La Corte ha ritenuto decisamente più affidabili gli studi citati dal C.T.U. e dalla difesa del sig. Marcolin (di cui si sono accennati i due probabilmente più significativi) rispetto a quello della Iarc, praticamente l’unico, su cui l’Inail aveva fondato il suo pervicace rifiuto di erogare le doverose prestazioni assistenziali nei confronti del lavoratore malato.
Lo ha fatto principalmente per la ragione che lo studio dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, “risalente al 2000 e basato su dati, ovviamente, ancora più risalenti, non tiene conto dell’uso più recente, ben più massiccio e diffuso, di tali apparecchi e del fatto che si tratta di tumori a lenta insorgenza: pertanto gli studi del 2009, basati su dati più recenti, sono di per sé più attendibili.”
Considerazioni, queste, che riportano direttamente a quelle sviluppate ed agli scenari socio-giudiziali ipotizzati all’inizio di questo lavoro.
V’è, però, un altro elemento che la Corte d’appello ha tenuto ben presente nel suo percorso motivazionale sulla questione della rispettiva affidabilità degli studi scientifici discordanti tra loro e del quale non ha mancato di dare puntualmente atto in sentenza: “inoltre, a differenza dello studio IARC, co-finanziato dalle ditte produttrici di telefoni cellulari, gli studi citati dal dott. Di Stefano (consulente tecnico d’ufficio della Corte, n.d.r.) sono indipendenti.”
Con ogni probabilità, questo, per una sentenza della magistratura italiana, è un principio della stessa epocale portata innovativa di quello riportato nel primo periodo di questo scritto sul quale ci si è soffermati fino a questo punto.
Affermare che il vaglio di attendibilità di uno studio scientifico citato in un processo, e dunque, in ultima istanza, che l’accertamento delle responsabilità individuali a base di quest’ultimo, vadano effettuati anche sulla base dell’indipendenza degli autori di quello e degli studi “contrapposti” significa, anche in tal caso, aprire letteralmente un’epoca nuova nella giurisprudenza di questo paese in materia di tutela della salute, pubblica e privata; una fase nella quale l’accertamento giudiziario sia finalmente sempre ispirato a lucidi e onesti criteri di perseguimento della verità sostanziale, tanto più eticamente, prim’ancora che giuridicamente, doverosi quanto più si verta in un contesto di lesioni gravi, se non peggio, patite da una persona, da un lavoratore, o di devastanti attentati all’ambiente.
Perché, evidentemente, così non sempre è stato, se è vero, come è vero, che grandi procedimenti penali che avevano a base enormi danni a persone ed ecosistemi si sono “definiti” con sentenze di assoluzione, quando non proprio con incommentabili ordinanze di archiviazione, fondamentalmente basate sulle risultanze di studi scientifici che escludevano, rectius che “non provavano”, il nesso causale tra l’esposizione ad una o più determinate sostanze e l’insorgenza di alcune, in certi casi di una lunga serie di, patologie.
Studi scientifici che, alla stregua del rivoluzionario quanto ovvio canone interpretativo statuito dalla Corte d’appello di Brescia, risultavano ictu oculi al di sotto di ogni sospetto.
Né vi sarebbe alcuna plausibile ragione per ritenere che quella regola di giudizio usata dalla Corte d’appello di Brescia in un procedimento civil - assistenziale, quella fondata sulla verifica dell’indipendenza degli studi scientifici, non debba esser trasposta tout court anche in ambito penale; anzi, in quest’ultimo essa sarebbe vieppiù “di casa” stante la precipua finalità del processo penale di accertamento della verità materiale.
Da questo ultimo assunto dell’Autorità giudiziaria lombarda non possono non scaturire alcune considerazioni finali.
1) Il fatto che una Corte d’appello riconosca in una sentenza l’elementare verità per cui uno studio indipendente è, di suo, più credibile rispetto ad uno studio co-finanziato dalle società produttrici dell’oggetto “incriminato” nel processo in cui quella sentenza si è resa non vuol dire certo che si debbano rigettare a priori le offerte delle industrie di finanziamento di studi e ricerche scientifiche.
Vuol solo dire che queste ultime, o meglio molte di loro, specie tra le più grosse e potenti, debbono fare un sentito mea culpa per aver preordinatamente utilizzato, ossia commissionato numerosissimi, sedicenti studi scientifici come una sorta di “fattori di confondimento” atipici, dolosi, la cui unica ragion d’essere epistemologica era quella di assolvere preventivamente prodotti e produttori da ogni sospetto di nocività, nei confronti di lavori scientifici che, invece, tendevano ad accertare i reali effetti sulla salute pubblica e sull’ambiente di quegli stessi prodotti.
Ma, soprattutto, significa che, per il futuro, le imprese devono solennemente impegnarsi a non fabbricare più quegli inverosimili ed inverecondi fattori di confondimento.
Devono farlo anche per non trascinare in un immeritato vortice di discredito pregiudiziale pure quei lavori scientifici che, anche se finanziati dalle industrie, dovessero risultare tuttavia corretti scientificamente.
Devono farlo le aziende e con loro gli scienziati che a quell’utilizzo “improprio”, per usare una litote, della loro alta funzione si sono prestati.
2) Il pubblico, ossia gli enti pubblici preposti istituzionalmente alla ricerca scientifica in chiave di tutela dell’ambiente e della salute pubblica, non può e non deve, comunque, abdicare anzitutto al suo ruolo di controllo e validazione scientifica degli studi privati; ma anche alla ricerca scientifica effettuata direttamente, con mezzi e persone appartenenti organicamente all’ente pubblico. Il che significa che le strutture pubbliche a carattere scientifiche dovrebbero esser trattate e, soprattutto, finanziate dallo Stato e dagli altri enti pubblici, territoriali e non, in maniera quantomeno più seria (ci vuole davvero poco) di come accade oggi.
3) Infine, alla luce della sentenza della Corte d’appello di Brescia, forse non avevano tutti i torti quegli scienziati che già qualche tempo fa, partendo dall’analisi di alcune recenti pubblicazioni IARC in cui si criticavano le valutazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per quanto riguarda gli effetti dell’ambiente sul rischio di cancro nell’uomo, a partire dalla centrale questione della relazione tra tumore al polmone ed inquinamento atmosferico, denunciavano che “il gruppo ambientale di IARC fruisce del contributo delle associazioni europee di produttori di petrolio e di asfalto (dal 2° rapporto biennale IARC)”, tanto da far “presumere l’esistenza di un forte legame tra alcuni autori con gli interessi dell’industria” e da far metter “in dubbio fortemente l’indipendenza” degli stessi autori e delle loro pubblicazioni scientifiche su questo argomento.
In tal senso, su questo ultimo profilo relativo a IARC messo a nudo dalla sentenza in esame, la sensazione finale è di grande amarezza: per l’autentico downgrade di credibilità scientifica in cui è precipitato, evidentemente per sue responsabilità, il più importante ente mondiale per la ricerca sul cancro.
Quell’ente che sotto la guida di Renzo Tomatis, fino a meno di vent’anni fa, aveva raggiunto vette di affidabilità e prestigio scientifico, anche e soprattutto sotto il profilo dell’indipendenza delle sue ricerche, che ne facevano un autentico punto di riferimento per tutti coloro che avessero a cuore il perseguimento della c.d. “prevenzione primaria”, ossia la difesa vera, in chiave seriamente preventiva, della salute pubblica e dell’ambiente.
Lo stesso Tomatis che, per riprendere la categoria dei “bias” citata nella sentenza della Corte d’appello di Brescia, in una pubblicazione del 2005, scritta a quattro mani con il dott. Valerio Gennaro dell’Istituto per la ricerca sul cancro di Genova, aveva denunciato espressamente proprio i “business bias”, ossia le “distorsioni nel mondo degli affari”, che davano addirittura il titolo all’articolo in questione apparso sull’International Journal of Occupational and Environmental Health (in www.salutepubblica.org/uploadtest/Ricerca/epidemiologia%20distorta.pdf).
Un saggio il cui emblematico sottotitolo era “Come gli Studi Epidemiologici possano Sottostimare o Fallire nell’ Individuare Accresciuti Rischi di Cancro e Altre Malattie” e nel quale l’attacco del relativo abstract era oltremodo illuminante: “Malgrado dichiarino la prevenzione primaria come loro scopo, gli studi di potenziali fattori di rischio occupazionale ed ambientale per la salute finanziati, sia direttamente che indirettamente dall’industria, è probabile che abbiano risultati negativi.”
I famosi “falsi negativi”; ma forse, più correttamente, si dovrebbe dire i famosi falsi studi.
Fasano, 1\3\2010
Stefano Palmisano