Consiglio di Stato Sez. III n. 8089 del 16 dicembre 2020
Modificazioni genetiche.Proibizione della coltivazione del mais OGM
Il rilievo che la proibizione della coltivazione del mais OGM, in quanto – almeno ad una soglia precauzionale – potenzialmente pericolosa per la salute e per l’ambiente, sia un limite all’esercizio delle relative attività economico non contrastante con i parametri evocati, appare non dubitabile: avuto riguardo ad una ricognizione dei princìpi della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e del Trattato sull’Unione europea consapevole della gerarchia di valori dagli stessi risultante. L’assenza di ogni dubbio in proposito si rinviene del resto anche nella giurisprudenza del giudice comunitario.
Pubblicato il 16/12/2020
N. 08089/2020REG.PROV.COLL.
N. 10048/2019 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10048 del 2019, proposto da Fidenato Giorgio in qualità di Titolare della Azienda Agricola “In Trois” di Fidenato Dott. Giorgio, rappresentato e difeso dall'avvocato Francesco Longo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali e del Turismo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti
Marconato Jessica Annalisa in proprio e quale Titolare della Azienda Agricola “Li Pocis” di Marconato Jessica non costituito in giudizio;
per la riforma
per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia (Sezione Prima) n. 333/2019, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali e del Turismo;
Vista l’ordinanza cautelare n. 493/2020.
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 ottobre 2020 il Cons. Giovanni Tulumello e uditi per le parti l’avvocato Francesco Longo;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. In data 28 giugno 2018 il Dipartimento dell'Ispettorato centrale della tutela della Qualità e Repressione Frodi dei prodotti agroalimentari - Ufficio ICQRF Nord Est, unitamente a funzionari del Corpo Regionale Forestale della Direzione centrale risorse agricole forestali ed ittiche – area foreste e territorio della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, hanno accertato la coltivazione di mais OGM presso i terreni coltivati a mais dall’azienda agricola del sig. Giorgio Fidenato.
Ne è seguita l’adozione del provvedimento del Direttore generale della Direzione generale per il riconoscimento degli organismi di controllo e certificazione e tutela del consumatore – Dipartimento dell'Ispettorato centrale della tutela della qualità repressioni frodi dei prodotti agroalimentari – Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, del 3 luglio 2018, recante l'ordine “…di procedere, mediante trinciatura ed interramento, alla distruzione delle coltivazioni di OGM illecitamente impiantate sui terreni siti, rispettivamente, in località Colloredo di Monte Albano (UD) al Foglio 6, mappali nn. 196, 295, 84 e 163 ed in Località Vivaro (PN) al Foglio 14, mappali nn. 264 e 501, nonché al ripristino dello stato dei luoghi a proprie spese”.
Il ricorso proposto in primo grado contro tale provvedimento è stato respinto con sentenza n. 333/2019, pubblicata il 29 luglio 2019, del T.A.R. del Friuli-Venezia Giulia.
Il T.A.R. ha, in particolare, rilevato che “l’impugnata ordinanza sanzionatoria è stata adottata in applicazione dell’35-bis del d. lgs. 224/2003, come modificato dal d. lgs. 227/2016, recante “Attuazione della direttiva (UE) 2015/412, che modifica la direttiva 2001/18/CE per quanto concerne la possibilità per gli Stati membri di limitare o vietare la coltivazione di organismi geneticamente modificati (OGM) sul loro territorio”, ed ha respinto sia le tre censure relative all’asserito contrasto del provvedimento con la normativa interna, sia la censura con cui si affermava che potesse esservi “contrasto della direttiva comunitaria (nonché del d. lgs. 227/2016 di attuazione) e della decisione della Commissione europea che hanno consentito agli Stati membri di vietare nel loro territorio la coltivazione di mais geneticamente modificato “Mon 810”, con i principi fondanti del Trattato sull’Unione europea (TUE) e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) (quarto, quinto e sesto motivo di ricorso)”, respingendo dunque anche la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
In relazione a quest’ultimo profilo il T.A.R. ha, in particolare, osservato che “gli aspetti sollevati dal ricorrente circa libertà di impresa e funzionamento del mercato interno all’Unione si configurano come cedevoli, non solo al principio di sussidiarietà, ma anche a quello di precauzione in materia di
ambiente (ex art. 191 TFUE). Esso presuppone l'esistenza di un rischio potenziale, ma non richiede l'esistenza di evidenze scientifiche consolidate sulla correlazione tra la causa, oggetto di divieto o limitazione, e gli effetti negativi che ci si prefigge di eliminare o ridurre ma comporta che l'azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata. Invero, è noto che l'ambito della valutazione degli OGM destinati alla coltivazione non è in grado di escludere a priori, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, rischi ambientali e ricadute sulla sicurezza alimentare. Nell'ambito di tale valutazione rientra, ad esempio, l'invasività o la persistenza di un OGM, la possibilità di incrocio con piante domestiche coltivate o selvatiche, la minaccia alla conservazione della biodiversità”.
Con ricorso in appello notificato il 3 dicembre 2019, e depositato il successivo 6 dicembre, il signor Fidenato ha impugnato l’indicata sentenza.
Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.
Con ordinanza n. 493/2020 la Sezione ha respinto l’istanza di sospensione cautelare degli effetti della sentenza impugnata.
Il ricorso in appello è stato trattenuto in decisione all’udienza del 29 ottobre 2020.
2. Il primo motivo di gravame censura il capo di sentenza che ha respinto i motivi inerenti la mancata partecipazione al procedimento, osservando che il provvedimento impugnato ha “natura strettamente vincolata all’accertamento che è stato violato il divieto di coltivazione di OGM nel territorio nazionale, senza alcuno spazio per valutazioni discrezionali. Conseguentemente (e preliminarmente) circa la dedotta (col secondo motivo) censura di violazione dell’art. 7 L. 241/1990, è sufficiente ad escludere la fondatezza il rilievo che il provvedimento impugnato non sarebbe comunque annullabile ai sensi dell’art. 21 octies l. 241/90, in quanto il contenuto non sarebbe potuto essere diverso dall’attuale, stante tale natura vincolata. Ma anche a prescindere da tale assorbente rilievo, l’urgenza di provvedere era in re ipsa, una volta constatato che le piantagioni erano già in fase di avanzata prefioritura ed era, quindi, necessario evitare la contaminazione dei terreni confinanti”.
Contro tale capo di sentenza l’appellante deduce “violazione di legge per violazione e falsa applicazione degli artt. 7-10 e 21-octies della L. n. 241/1990 – Travisamento di fatto”.
La censura è infondata.
La decisione del primo giudice appare condivisibilmente argomentata ed immune dai vizi denunciati con il mezzo in esame.
La circostanza allegata dall’appellante, relativa all’asserita utilità di una partecipazione procedimentale finalizzata a rappresentare che parte delle coltivazioni OGM erano destinate a scopi di studio e di ricerca, è priva di rilievo: difetta infatti il presupposto legittimante, id est un’attività di coltivazione con finalità di studio e ricerca il cui inizio sia stato ritualmente notificato al Ministero nelle forme di legge (art. 8, d. lgs. n. 224/2003), con la prescritta documentazione (in disparte il dirimente rilievo dell’infondatezza, nel merito, di tale allegazione, di cui si dirà infra).
Inoltre il provvedimento impugnato in primo grado era assistito da una finalità cautelare, quella di evitare che la coltivazione non consentita potesse produrre effetti sui terreni confinanti (rispetto ai quali appare meramente nominalistica la disputa sull’uso dei termini “commistione” e “contaminazione”): il che, insieme al carattere vincolato del provvedimento e alla ricognizione della conseguente inutilità di un apporto procedimentale (che, dilatando i tempi, avrebbe comunque cagionato un pregiudizio irreparabile all’indicato interesse antagonista), ha legittimamente indotto l’amministrazione a provvedere nelle forme – peraltro, analiticamente esplicitate in sede di motivazione – contestate.
Del resto, sotto questo punto di vista l’ordinanza n. 493/2020 aveva già posto in risalto, in fase cautelare, “Il carattere di urgenza della disposta rimozione, trattandosi di piante in prefioritura con potenziale contagio OGM a fondi contigui”.
3. Il secondo motivo di gravame censura il capo di sentenza che ha respinto “la censura (svolta col primo motivo di ricorso) di violazione dell’art. 26-quater del D.Lvo 224/2003, perché non sarebbe stata seguita dal Ministero la relativa procedura di introduzione del divieto di coltivazione di OGM, ragion per cui nessun divieto sarebbe legittimamente vigente ed operante”.
Ad avviso del T.A.R. “il divieto di coltivazione del mais “Mon 810” deriva, invece, dall'adeguamento dell'ambito geografico dell'autorizzazione alla coltivazione del granturco geneticamente modificato, introdotto dalla Commissione europea, in sede di rinnovo dell'autorizzazione alla coltivazione di granturco “Mon 810”, ai sensi degli articoli 7 e 19 del regolamento (CE) n. 1829/2003, con la decisione di esecuzione n. 2016/321 del 3 marzo 2016, e non da misure prese dal Ministero ex art. 26-quater del d.lgs. 224/2003. Del resto, lo stesso art. 35bis del d.lgs. 224/2003 esattamente contempla, distintamente, “divieti di coltivazione introdotti con l'adeguamento dell'ambito geografico” e “divieti di coltivazione adottati ai sensi dell'articolo 26-quater, comma 6” che sono, appunto, fattispecie diverse. La censura di violazione del citato art. 26-quater è dunque infondata: il divieto di coltivazione di “Mon 810” deriva, nella fattispecie, dalla Decisione della Commissione europea 3 marzo 2016, direttamente applicabile nell’ordinamento nazionale in base al citato regolamento (UE) n. 1829/2003”.
Contro tale capo di sentenza l’appellante deduce “violazione di legge per violazione ed errata interpretazione degli artt. 26-ter, 26-quater e 35-bis del D.Lvo 224/2003, come modificato dal D.Lvo 227/2016, degli artt. 7 e 19 del regolamento (CE) 1829/2003, nonché travisamento di fatto”.
Lamenta, in particolare, che “la decisione di esecuzione del 3 marzo 2016 aveva come destinataria esclusiva la Monsanto Europe SA (titolare dell’autorizzazione alla coltivazione del mais OGM MON 810) e, forse, lo Stato Italiano, ma certamente non poteva esplicare alcuna efficacia nei confronti dell’odierno appellante, come si desume dal combinato disposto degli artt. 249 e 284 del Trattato UE (cfr. punto 2.2.2 del ricorso introduttivo)”.
La censura è infondata.
Va preliminarmente osservato, in punto di ricognizione della normativa applicabile, che la sentenza di questa Sezione n. 605/2015, resa inter partes, che ha ricostruito la disciplina di settore anche in chiave di rapporti con il diritto dell’Unione europea, aveva già opinato che “correttamente i Ministeri resistenti abbiano ritenuto che, non prevedendo l’autorizzazione 98/294/CE alcuna misura di gestione, e non avendo la Commissione ritenuto di intervenire per imporne l’attuazione, ai sensi dell’art. 53 del regolamento n. 178/2002, il mantenimento della coltura del mais MON 810 senza adeguate misure di gestione non tutelasse a sufficienza l’ambiente e la biodiversità. Così da imporre l’adozione della misura di emergenza contestata dall’appellante. Del resto, l’applicazione del principio di precauzione postula l’esistenza di un rischio potenziale per la salute e per l'ambiente, ma non richiede l'esistenza di evidenze scientifiche consolidate sulla correlazione tra la causa, oggetto di divieto o limitazione, e gli effetti negativi che ci si prefigge di eliminare o ridurre (cfr., da ultimo, Cons. Stato, V, 10 settembre 2014, n. 4588 e 11 luglio 2014, n. 3573); e comporta che quando non sono conosciuti con certezza i rischi connessi ad un'attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali (cfr., da ultimo, Cons. Stato, IV, 11 novembre 2014, n. 5525)”.
Successivamente, la Decisione della Commissione del 3 marzo 2016 ha disposto il divieto di coltivazione del mais OGM MON 810 in tutto il territorio italiano, come si ricava dall’art. 1: “La coltivazione del granturco geneticamente modificato (Zea mays L.) MON 810 è vietata nei territori elencati nell’allegato della presente decisione”.
L’allegato 1, al punto 8), indica l’Italia.
La Decisione è stata assunta a seguito della domanda di diciannove stati che “hanno chiesto, a norma dell'articolo 26 quater della direttiva 2001/18/CE, il divieto della coltivazione di granturco MON 810 in tutto loro territorio o parte di esso”.
Ciò in quanto “La direttiva (UE) 2015/412 del Parlamento europeo e del Consiglio ha introdotto la possibilità, per uno Stato membro, di richiedere di adeguare l'ambito geografico di un'autorizzazione alla coltivazione già concessa in modo che tutto il territorio di tale Stato membro o parte di esso sia escluso dalla coltivazione. Le domande a tal fine dovevano essere presentate dal 2 aprile 2015 al 3 ottobre 2015”.
Di qui la richiesta dei diciannove stati: che è stata comunicata dalla Commissione a Monsanto in qualità di produttore del granturco geneticamente modificato (Zea mays L.) MON 810, titolare dell'autorizzazione alla coltivazione e all’immissione in commercio.
La partecipazione di Monsanto al procedimento culminato nell’adozione della decisione in parola deriva dunque dal fatto che fosse titolare di autorizzazioni precedentemente rilasciate: ma non già dal fatto che il procedimento fosse relativo a questa (sola) azienda, dal momento che esso costituisce attuazione della misura di carattere generale prevista dalla direttiva (UE) 2015/412.
Il contenuto della decisione non autorizza dunque l’affermazione dell’appellante nel senso della inopponibilità in suo danno di tale decisione, in ragione dell’asserita limitazione soggettiva degli effetti della stessa.
In argomento già la citata ordinanza cautelare di questa Sezione n. 493/2020, che il Collegio condivide e alla quale si riporta, aveva posto in risalto che:
“1) la base normativa dell’ordinanza impugnata in primo grado è correttamente individuata nell’adeguamento dell’ambito geografico dell’autorizzazione alla coltivazione di granturco OGM, stabilito con decisione n. 2016/321 del 3 marzo 2016 della Commissione Europea;
2) Il richiamo, quale possibile fonte di provvedimento di divieto, alle decisioni adottate dalla Commissione Europea con l’adeguamento dell’ambito geografico, è previsto dall’art. 35 bis D.L.G.S. n. 224/2003 come ipotesi distinte (lett. a) n. 1) da quella del divieto ministeriale nazionale (lett. b) dello stesso articolo);
3) la legittimità dell’azione dello Stato, che è vincolata alla decisione della Commissione Europea, trattandosi di materia in cui proprio la normativa U.E. sulla coltivazione OGM ha ritenuto di confermare la flessibilità e la concorrenza della competenza nazionale, in piena conformità con il principio di sussidiarietà, pilastro del trattato U.E.”.
Peraltro, lo stesso appellante, allorché – come meglio si dirà – chiede a questo Consiglio si sollevare questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia dell’U.E. su cinque punti, al punto n. 5) indica il relativo quesito nei termini seguenti: “se la disciplina introdotta dal legislatore comunitario con la Direttiva (UE) 2015/412, nella parte in cui modifica la Direttiva 2001/18/CE, nonché la normativa italiana di recepimento contenuta nel D.Lvo 227/2016, di modifica del D.Lvo 224/2003, e la Decisione della Commissione n. 321 del 3.03.2016, che impediscono radicalmente la coltivazione di mais OGM MON 810 nel territorio italiano, rispettino il diritto alla libertà d’impresa di cui gli artt. 16 e 52 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nonché i principi di proporzionalità, non discriminazione, legalità, e precauzione, nonché gli artt. l’art. 3, paragrafo 3, del TUE e gli artt. 2 (comma 1), e 3, comma 1, lett. b), 6, 26, 34, 35, 36 e 114 del TFUE, nonché l’art. 22 della Direttiva 2001/18/CE”.
È lo stesso appellante, dunque, che al fine di investire della questione la Corte di Giustizia afferma che la Decisione in esame impedisce “radicalmente la coltivazione di mais OGM MON 810 nel territorio italiano”.
4. Il terzo motivo di gravame censura il capo di sentenza che ha respinto il terzo motivo del ricorso di primo grado, con il quale si sosteneva che “che sarebbe stato violato l’art. 26-bis, comma 3, nonché il Titolo II (artt. 7-14) del D.Lvo 224/2003, in quanto la coltivazione delle particelle nn. 84 e 163 relative al terreno di Colloredo di Monte Albano, come emerge dalla dichiarazione resa dal titolare dott. Fidenato durante il sopralluogo del ICQRF del 28 giugno 2018, aveva finalità sperimentale e di ricerca”.
Contro tale capo di sentenza l’appellante deduce “violazione di legge per violazione e falsa interpretazione dell’art. 26-bis, comma 3, nonché del Titolo II (artt. 7-14) del D.Lvo 224/2003, nonché violazione della direttiva (UE) 2015/412 – Travisamento di fatto”.
La censura replica il vizio d’impostazione della precedente, in punto di individuazione della base normativa del provvedimento impugnato in primo grado, dal momento che – come condivisibilmente controdedotto dall’amministrazione appellata - il divieto di coltivazione di cui si discute non deriva da misure adottate ai sensi del Titolo III bis del D.lgs. 224/2003, ma direttamente dalla richiamata decisione della Commissione europea.
5. . Il quarto motivo di gravame censura il capo di sentenza che ha escluso un contrasto fra gli atti dell’Unione europea assunti quale parametro normativo del divieto di coltivazione di mais OGM, e “e alcune disposizioni di TUE, TFUE e Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea”.
Contro tale capo di sentenza l’appellante deduce “violazione di legge per violazione e falsa interpretazione degli artt. 3, comma 3, del TUE, degli artt. 26, 34, 35, 36 e 114 del TFUE, degli artt. 16 e 52 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione europea come interposti dall'art. 6 del TUE, e della lett. b) del comma 1 dell’art. 3 del TFUE in combinato disposto con il comma 1, dell'art. 2, del TFUE, e in combinato disposto con l’art. 22 della direttiva 2001/18/CE. Nonché violazione ed errata interpretazione del principio di precauzione, dell’art. 7 del Reg. (CE) 178/2012, dell’art. 191 TFUE, dell’art. 23 della direttiva 2001/18/CE e dell’art. 34 del Reg. (CE) 1829/2003”, chiedendo altresì il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia sulle relative questioni.
Si sollecita dunque questo Consiglio a sollevare una questione pregiudiziale (non interpretativa, ma) c.d. di validità di atti dell’U.E. rispetto a parametri europei superprimari.
5.1. In argomento il Collegio osserva anzitutto che, nel merito, le questioni dedotte sono viziate da un errore prospettico.
L’ordinamento comunitario, pur storicamente caratterizzato da una iniziale impostazione mercantilista, si è successivamente affrancato da tale connotato, individuando quali valori fondanti l’azione della Comunità e poi dell’Unione anche interessi metaeconomici e solidaristici.
In questa dialettica la giurisprudenza della Corte di Giustizia non ha mancato di rinvenire una gerarchia fra interessi tutti tutelati dai Trattati, nel senso del carattere recessivo della libertà di iniziativa economica rispetto a beni primari quali la salute e la tutela dell’ambiente (e al principio di precauzione, che ne regola il concorso).
Così, ad esempio, come già richiamato dalla sentenza di questa Sezione n. 1076/2020, a partire alla sentenza della Corte di Giustizia, 17 settembre 2002, in causa C-513/99, è acquisito il principio per cui la tutela della concorrenza risulta recessiva rispetto alle politiche pubbliche orientate alla salubrità ambientale, nel senso che la stessa libertà imprenditoriale deve orientarsi ed estrinsecarsi in forme compatibili con tali obiettivi.
Ne consegue che le considerazioni svolte dal primo giudice in punto di conformità degli atti denunciati ai rispettivi parametri non sono superate dal motivo di appello in esame, che incentra la propria analisi in una prospettiva assoluta dei diritti e delle libertà rivendicati, e non già in un’ottica di bilanciamento fra interessi antagonisti, all’interno della quale peraltro le indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia appaiono univoche nel senso dell’indicata gerarchia (in argomento anche la sentenza della Corte di Giustizia, V sezione, 7 gennaio 2004, C-201/02, Wells, sul rapporto fra regime autorizzatorio e principio di precauzione).
Nel relativismo dei valori proprio dell’impronta pluralista che è attualmente alla base dell’ordinamento europeo, in una fase ormai evoluta della sua dinamica, il rapporto autorità-libertà si declina in funzione di regole di compatibilità che prevedono la preminente collocazione gerarchica dell’interesse ambientale e di quello alla tutela della salute.
Gli atti normativi ed amministrativi di cui si duole l’appellante appaiono pertanto pienamente conformi ai parametri evocati, assunti questi non in un funzione assoluta ma nel descritto contesto relazionale; anche in termini di proporzionalità fra risultato perseguito e misure adottate.
5.2. Va ulteriormente osservato che, con riferimento allo strumento della c.d. pregiudiziale di validità la natura dell’istituto è generalmente ricondotta a quella di rimedio di tipo oggettivo, tendente ad eliminare dall’ordinamento atti assunti in violazione del Trattato: anche se il singolo può giovarsi, in questo modo, della caducazione di un atto impugnabile con ricorso diretto, anche dopo la scadenza del termine decadenziale previsto per tale, concorrente rimedio (ove possibile).
In quest’ottica il ruolo del giudice nazionale (anche di ultima istanza) implica, secondo la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, un filtro valutativo; secondo la giurisprudenza Cilfit, in particolare, la sollecitazione della parte non determina un automatismo nel senso del rinvio (Corte di giustizia, sentenza del 6 ottobre 1982, causa 283/81, Cilfit).
Il principio dell’obbligo flessibile del rinvio pregiudiziale ricavabile da questa giurisprudenza, volto anche a scongiurare un abuso del rimedio, è stato recentemente ricordato da questa Sezione nella sentenza n. 2428/2020.
5.3. L’appellante, nella memoria conclusionale, ha ribadito l’istanza di rinvio pregiudiziale richiamando in proposito la “recentissima ordinanza delle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, n. 19598 del 18 settembre 2020”.
Ritiene il Collegio che non sussistano, neppure a seguito di tale sollecitazione, le condizioni per sottomettere alla Corte di Giustizia le questioni pregiudiziali di validità prospettate nel ricorso in appello.
Il rilievo che la proibizione della coltivazione del mais OGM, in quanto – almeno ad una soglia precauzionale – potenzialmente pericolosa per la salute e per l’ambiente, sia un limite all’esercizio delle relative attività economico non contrastante con i parametri evocati, appare ad avviso del Collegio non dubitabile: avuto riguardo ad una ricognizione dei princìpi della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e del Trattato sull’Unione europea consapevole della gerarchia di valori dagli stessi risultante.
L’assenza di ogni dubbio in proposito si rinviene del resto anche nella giurisprudenza del giudice comunitario, come dimostrano le pronunce che esemplificativamente si sono richiamate.
5.4. La censura in esame va dunque rigettata perché infondata, anche nella parte in cui sollecita il rinvio pregiudiziale di validità sopra descritto.
6. L’infondatezza dell’appello ne determina il rigetto.
Sussitono le condizioni di legge, avuto riguardo alla novità di alcune delle questioni dedotte, per disporre la compensazione fra le parti delle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 ottobre 2020 con l'intervento dei magistrati:
Michele Corradino, Presidente
Giulio Veltri, Consigliere
Solveig Cogliani, Consigliere
Ezio Fedullo, Consigliere
Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore