Cass. Sez. III n. 10328 del 24 marzo 2006 (C.c. 24 novembre 2005)
Pres. De Maio – Est. Onorato Ric. Italiano
Rifiuti - Albo nazionale imprese esercenti servizi di smaltimento
La Corte ha sollevato d’ufficio la eccezione di costituzionalità della
disposizione di cui all’art. 30, comma 4, del decreto legislativo 5 febbraio
1997 n. 22, come modificata dall’art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998
n. 426, ai sensi della quale l’obbligo dell’iscrizione all’Albo nazionale delle
imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti sussiste solo per “le imprese
che svolgono attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti
da terzi e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi”
osservando che la Direttiva 91/156/CEE prevede, all’art. 12, che “gli
stabilimenti o le imprese che provvedono alla raccolta o al trasporto di rifiuti
a titolo professionale, o che provvedono allo smaltimento o al recupero di
rifiuti per conto di terzi (commercianti o intermediari) devono essere iscritti
presso le competenti autorità qualora non siano soggetti ad autorizzazione” e
che a tale punto della Direttiva si era data esatta attuazione con il decreto n.
22, allorché era stato previsto che “le imprese che svolgono a titolo
professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti e le imprese che
raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi, anche se da esse prodotti…devono
essere iscritte all’Albo”. Diversamente, a giudizio della Corte, la modifica di
tale originaria disposizione operata dal citato art.1, comma 19, della legge 426
del 1998, che ha portato alla disposizione in vigore, giustifica i dubbi di
costituzionalità per mancata adesione dell’Italia alle disposizioni comunitarie,
atteso che sul punto anche la Corte di Giustizia, con la sentenza 9 giugno 2005
assunta nella procedura di infrazione promossa dalla Commissione, ha affermato
che il nostro paese è venuto meno agli obblighi imposti con le direttive in
materia di rifiuti consentendo l’esercizio della raccolta e trasporto dei
rifiuti propri in forma professionale senza obbligo di iscrizione all’Albo
(Alfredo MONTAGNA)
Svolgimento del processo
1 - Con ordinanza del 4 luglio 2005 il tribunale di Messina, in sede di riesame, ha confermato il sequestro preventivo di un autocarro Fiat Iveco, trg. ME573983, disposto in data 10 giugno 2005 dal g.i.p. del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto a carico del proprietario Antonino Italiano, che il 24 maggio dello stesso anno era stato fermato alla guida dell’automezzo mentre trasportava "materiale di risulta proveniente da lavori dell’edilizia".
Il g.i.p. aveva ravvisato il fumus del reato di cui all'art. 51 D.Lgs. 22/1997 a carico del guidatore, per trasporto di rifiuti senza le prescritte autorizzazioni. In particolare, aveva osservato che il trasporto di rifiuti verso una discarica abusiva rientra nell'ampio concetto di gestione della discarica, ed è pertanto punito ai sensi del terzo comma dell'art. 51; e che - comunque - essendo l’Italiano un imprenditore edile, era ravvisabile la contravvenzione di cui al secondo comma dell'art. 51 per abusiva attività di smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi.
Nel confermare la misura il tribunale del riesame ha rilevato che il trasporto di rifiuti, quale possibile fase dell'attività di gestione, da chiunque posto in essere, deve essere autorizzato dall'autorità competente; e che il concetto di gestione di discarica deve essere inteso in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo attivo o passive diretto a realizzare o mantenere la discarica stessa.
Indubitabile era poi il periculum in mora, giacché la libera disponibilità dell'automezzo da parte di un imprenditore edile - quale pacificamente era 1'Italiano - che produce abitualmente rifiuti poteva agevolare la commissione di altri reati della stessa specie.
2 - Il difensore dell'indagato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi per violazione di legge penale e per manifesta illogicità di motivazione.
Col primo denuncia violazione dell'art. 51, comma 1, in relazione all’art. 30, comma 4, del D.Lgs. 22/1997, giacché quest'ultima norma assoggetta all'obbligo d'iscrizione all'Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento solo quegli imprenditori che svolgono attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi o di rifiuti pericolosi. Per conseguenza non era obbligato all’iscrizione 1'Italiano che trasportava rifiuti propri non pericolosi.
Col secondo motivo il difensore denuncia violazione dei commi 2 e 3 dell'art. 51 predetto.
Infatti, da una parte non era stato minimamente provato che l'autocarro sequestrato stava trasportando i rifiuti in una discarica abusiva (comma 3); dall'altra parte non era ravvisabile la contravvenzione di abbandono di rifiuti prevista a carico di enti o imprenditori dal comma 2, giacché l'Italiano stava agendo quale privato e non quali titolare d'impresa, essendo stato dimostrato che il suo autocarro stava trasportando rifiuti speciali provenienti dal muro di una sua abitazione.
Col terzo motivo il ricorrente lamenta violazione degli artt. 12 e 15 D.Lgs. 22/1997. Confuta l'argomento del giudice del riesame, secondo cui ai sensi delle norme predette un regolare impianto di discarica non avrebbe potuto ricevere i rifiuti trasportati dall'indagato senza il prescritto formulario d'identificazione.
Aggiunge che il formulario non è obbligatorio per il trasporto di rifiuti non eccedenti i trenta chilogrammi o i trenta litri al giorno; e che, nel caso di specie, non era stato provato il superamento di tale soglia.
Motivi della decisione
3 - Dalla lettura del decreto dispositivo del sequestro preventivo e dalla impugnata ordinanza del tribunale del riesame, risulta in linea di fatto che l'autocarro sequestrato trasportava rifiuti speciali provenienti da attività di demolizione edilizia, ma non risulta che tali rifiuti fossero sicuramente destinati a una discarica.
In linea di diritto, inoltre, l'attività di trasporto e deposito di rifiuti in una discarica da parte di terzi estranei alla titolarità della discarica stessa configurerebbe solo un'operazione di smaltimento (compresa nella categoria DI dell'Allegato B del D.Lgs. 22/1997), e non già una operazione di gestione della discarica, che invece è stata ipotizzata in via alternativa da entrambi i giudici di merito.
Sotto entrambi i profili, quindi, non può configurarsi il fumus del reato di cui all'art. 51, comma 3, del D.Lgs. 22/1997, ma solo quello del reato di cui all'art. 51, comma 1, dello stesso decreto, per trasporto di rifiuti da parte di soggetto non abilitato, che è del resto il reato che il g.i.p. aveva ravvisato, sia pure in via subordinata, nella sua ordinanza del 10 giugno 2005. Neppure può configurarsi il fumus del reato di cui al secondo comma del medesimo art. 51, per abbandono o deposito incontrollato di rifiuti da parte di un titolare d'impresa, non perché 1'indagato non agisce nella sua qualità di imprenditore, bensì perchè la sua attività si era limitata al trasporto senza arrivare all’abbandono o al deposito incontrollato dei rifiuti trasportati.
4 - In conclusione, il sequestro preventivo dell'autocarro col carico di rifiuti speciali, guidato da Antonino Italiano, sarebbe legittimo ai sensi dell'art. 321 c.p.p. perchè ricorrerebbe sia l’astratta configurabilità del reato di cui all’art. 51, comma 1, D.Lgs. 22/1997, sia il pericolo che la libera disponibilità dell'autocarro potesse facilitare la reiterazione del reato da parte del suo proprietario.
Non c'é dubbio, infatti, che Antonino Italiano, quando fu sorpreso mentre trasportava materiali derivanti da attività di demolizione, era nell'esercizio della sua qualità d'imprenditore edile. Sul punto, la tesi del ricorrente, secondo cui egli agiva invece come privato perché trasportava rifiuti provenienti dalla demolizione di un muro della sua abitazione, e una mera asserzione fattuale inammissibile in sede di legittimità.
Pi in particolare, il predetto reato sarebbe integrate dal fatto che l'indagato trasportava rifiuti speciali non pericolosi senza essere iscritto nell'Albo nazionale delle imprese previsto dall'art. 30 del D.Lgs. 22/1997. Va quindi esaminato il primo motivo di ricorso.
Al riguardo bisogna osservare che il comma 4 dell'art. 30, così come modificato dall'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998 n. 426, impone 1'obbligo dell'iscrizione solo per "le imprese che svolgono attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi" (escluse per queste ultime i trasporti inferiori a una determinata soglia quantitativa giornaliera).
Poiché non risulta che Antonino Italiano trasportasse rifiuti prodotti da terzi, ma risulta anzi che trasportava rifiuti derivanti dalla sua stessa attività d'imprenditore edile, egli non sarebbe obbligato alla iscrizione all'Albo nazionale e non avrebbe commesso il reato di cui al più volte citato art. 51, comma 1, D. Lgs. 22/1997.
5 - Sennonché la predetta disposizione del comma 4 dell'art. 30, così come modificato dalla citata legge 426/1998, appare in contrasto con la direttiva 91/156/CEE che, nel suo art. 12, stabilisce che "gli stabilimenti o le imprese che provvedono alla raccolta o al trasporto di rifiuti a titolo professionale, o che provvedono allo smaltimento o al recupero di rifiuti per conto di terzi (commercianti o intermediari) devono essere iscritti presso le competenti autorità qualora non siano soggetti ad autorizzazione". Invero, le imprese che provvedono professionalmente al trasporto di rifiuti, contemplate dalla direttiva, comprendono anche quelle che professionalmente trasportano rifiuti da esse stesse prodotte, che invece la disposizione di legge italiana esclude.
Nel dare attuazione a questa direttiva comunitaria col D.Lgs. 22/1997, il legislatore nazionale in un primo tempo si era perfettamente adeguato all'art. 12 della direttiva, stabilendo testualmente che "le imprese che svolgono a titolo professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi, anche se da esse prodotti (...) devono essere iscritte all'Albo". Ma in un secondo tempo, novellando la disposizione mediante l'art. 1, comma 19, legge 426/1998, ha violato lart. 12, laddove ha escluso dall'obbligo d'iscrizione all'Albo nazionale l’imprenditore che a titolo professionale trasporti rifiuti (non pericolosi) per conto proprio, cioè rifiuti da lui stesso prodotti. Questa conclusione è ora consacrata, con effetti vincolanti per l’ordinamento italiano, dalla recente sentenza 9 giugno 2005 della Corte di Giustizia europea (Terza Sezione), che, pronunciando ex art. 226 (già 169) Trattato CE in una procedura d'infrazione promossa dalla Commissione della Comunità contro la Repubblica italiana, ha testualmente statuito che "la Repubblica italiana, permettendo alle imprese, in forza dell'art, 30, comma 4, del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 (...) come modificato dall'art. I, comma 19, della legge 9 dicembre 1998 n. 426, (...) di esercitare la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e regolare senza obbligo di essere iscritte all'Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti (...) è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell'art. 12 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1995, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE".
Poiché non v'è dubbio che la direttiva 91/156/CEE, e in particolare il suo art. 12, non ha efficacia diretta nell'ordinamento italiano, e poiché la sentenza dichiarativa della Corte di giustizia europea ha la stessa immediata efficacia della disposizione comunitaria interpretata (v. per tutte Corte costituzionale, 11 luglio 1989 n. 389), il giudice italiano, che è soggetto soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), dovendo applicare una disposizione legislativa nazionale chiaramente incompatibile con una norma di diritto comunitario non self executing, non ha altro rimedio che sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione nazionale con riferimento agli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., al line di sentirne dichiarare l'abrogazione.
Nell’inerzia del legislatore, la dichiarazione d'incostituzionalità da parte del giudice delle leggi e il mezzo attraverso cui lo Stato italiano può dare esecuzione alla menzionata sentenza della Corte di giustizia europea.
6 - La non manifesta infondatezza della questione risulta chiaramente dalle considerazioni precedenti, essendo indiscutibile - dopo la sentenza 9 giugno 2005 della Corte lussemburghese - che lo Stato italiano, novellando il comma 4 dell'art. 30 con l'art. 1, comma 19 della legge 426/1998, non ha rispettato i vincoli che gli derivavano dall'ordinamento comunitario attraverso il più volte menzionato art. 12 della direttiva 91/156/CEE, contravvenendo così agli artt. 11 e 117 della Carta fondamentale.
Altrettanto evidente è la rilevanza della questione, essendo la norma denunciata chiaramente inerente alla re giudicanda dedotta davanti a questo giudice di legittimità. Per valutare il fumus del reato di cui all'art. 51, comma 1, D.Lgs. 22/1997, infatti, è necessario applicare l'art. 30, comma 4, così come novellato dalla predetta norma della legge 426/1998, a meno che questa sia dichiarata incostituzionale.
La rilevanza diventa più problematica se si considera che la norma denunciata (nuovo testo dell'art. 30, comma 4), escludendo l'obbligo d'iscrizione all'Albo nazionale per gli imprenditori che esercitano la raccolta e il trasporto di rifiuti non pericolosi da essi stessi prodotti, ha modificato in senso favorevole al reo la precedente disposizione (testo originario dell'art. 30, comma 4), depenalizzando per i suddetti imprenditori non iscritti all'Albo il reato di cui all'art. 51, comma 1.
Emerge cosi il noto problema del sindacato di costituzionalità sulle norme penali di favore, cioè delle norme che, per determinati soggetti o ipotesi, abrogano o modificano in senso favorevole al reo precedenti norme incriminatrici.
7 - Com'è ben noto a codesta Corte, muovendo dalla considerazione che l'eventuale accoglimento della eccezione d'illegittimità costituzionale della norma penale più favorevole non potrebbe influire sull'esito del giudizio a quo per il principio d'irretroattività di cui all'art. 25, comma 2, Cost., e all'art. 2, comma 1, cod. pen., si è tratta in passato la conclusione che le eccezioni d'incostituzionalità delle norme penali di favore sono "tipicamente" irrilevanti, con la conseguenza che dette norme restano sottratte al controllo costituzionale. Ma in seguito il problema è stato diversamente risolto, a partire dalla sentenza 148/1983, che ha argomentato la rilevanza e l'ammissibilità delle questioni d'illegittimità costituzionale sulle norme penali di favore in base al duplice argomento secondo cui l'accoglimento della questione: a) verrebbe comunque a incidere sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e si rifletterebbe sullo schema argomentativo della relativa motivazione; b) avrebbe comunque un "effetto di sistema" la cui valutazione spetta ai giudici comuni e non al giudice costituzionale. E ciò perché, senza vanificare la garanzia dell'art. 25 Cost., anche le norme penali di favore devono sottostare al sindacato di costituzionalità, "a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile".
Nel caso di specie, poi, va aggiunto un ulteriore, decisivo, argomento. L'eventuale sentenza di accoglimento cagionerebbe l’abrogazione della norma denunciata con effetto ex nunc, e quindi, in forza dell’art. 25, comma 2, Cost., non potrebbe portare alla condanna dell'indagato Antonino Italiano per il fatto anteriormente commesso. E tuttavia potrebbe portare alla conferma del sequestro preventivo dell'autocarro da lui utilizzato per il trasporto dei rifiuti, in forza della consolidata giurisprudenza secondo cui la misura cautelare di cui all'art. 321 c.p.p. ha carattere reale, in quanto prescinde dalla personale responsabilità della persona sottoposta alle indagini (v. fra le sentenze massimate Cass. Sez. III, n. 1428 del 21 giugno 1994, Menietti, rv. 198175; Cass. Sez. II, n. 5472 del 21 dicembre 1999, P.M. in proc. Coppola, rv. 215089; Cass. Sez. III, n. 11290 del 20 marzo 2002, P.M. in proc. Di Falco). Per conseguenza, la dichiarazione di incostituzionalità della norma denunciata avrebbe effetto immediato nel giudizio cautelare a quo senza che ciò costituisse violazione dell’art. 25, comma 2, Cost..
8 - Questo approdo ermeneutico non è scalfito dalle numerose statuizioni di codesta Corte che hanno ribadito l’inammissibilità delle sentenze additive contra reum per rispetto dell'art. 25, comma 2, Cost., stante la strutturale diversità delle due ipotesi.
Infatti, quando è dedotta la questione di costituzionalità di una norma penale di favore, la sentenza di accoglimento ha carattere ablativo della deroga oggettiva o soggettiva introdotta, con l'effetto di ripristinare la piena portata normativa di una norma incriminatrice preesistente. Al contrario, la sentenza additiva di accoglimento (che dichiara incostituzionale la norma sospettata "nella parte in cui non prevede" etc.) ha l'effetto di creare ex novo una norma incriminatrice o di ampliare la portata di una fattispecie penale esistente, usurpando in entrambi i casi una prerogativa spettante alla discrezionalità del legislatore e violando il principio d'irretroattività dei reati e delle pene.
(Diverse sembra il caso della sentenza 440/1995, in cui, con un meccanismo di tipo ablatorio, il giudice delle leggi, in forza del principio di uguaglianza, ha esteso il reato di bestemmia della divinità anche a tutela delle religioni non cattoliche, creando così una nuova figura di reato, che però non era applicabile al fatto contestato nel processo a quo).
Per diversa ragione l'approdo della sentenza 148/1983 non appare intaccato neppure dalla recente sent. 161/2004 Corte cost., la quale ha escluso la possibilità di estendere l'ambito di applicazione della norma incriminatrice di cui all'art. 2621 cod. civ. (false comunicazioni sociali), come sostituito dall’art. 1 D.Lgs. 11 aprile 2002 n. 61, attraverso la rimozione delle soglie minime di punibilità ivi previste. Qui, infatti, la Corte ha escluso la possibilità di ampliare o aggravare la figura di un reato già esistente attraverso la "demolizione" delle soglie di punibilità, sul rilievo che queste soglie integrano requisiti essenziali di tipicità del fatto ovvero condizioni di punibilità, e cioè sono comunque "un elemento che "delimita" l'area d'intervento della sanzione prevista dalla norma incriminatrice, e non già "sottrae" determinati fatti all'ambito di applicazione di altra norma, più generale".
Tale essendo la ratio decidendi, essa non può essere applicata ai casi - come quello presente - in cui la norma denunciata per incostituzionalità è una norma penale di favore, la quale "sottrae" determinate ipotesi (nel caso specifico, il trasporto di rifiuti non pericolosi effettuato da un imprenditore per conto proprio) a una norma incriminatrice generale (derivante dal combinato disposto degli artt. 30 e 51, comma 1, D.Lgs. 22/1997 nel loro testo originario). In altri termini, facendo cadere per incostituzionalità la modifica che 1'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998 n. 426 ha apportato all'art. 30, comma 4, D.Lgs. 22/1997, si ripristinerebbe la portata originaria di una norma incriminatrice già presente nell'ordinamento, che la novella del 1998 ha parzialmente derogato; facendo cadere le soglie di punibilità previste nell'art. 2621 cod. civ., invece, si amplierebbe la portata penale della stessa norma al di là dei limiti in cui il legislatore l’aveva configurata.
9 - Analogo problema si è presentato alla Corte di giustizia europea, chiamata ex art. 234 (già 177) del Trattato CE a interpretare la nozione comunitaria di rifiuto, e a saggiarne la compatibilità con quella ridefinita dal legislatore italiano attraverso l'art. 14 del D.L. 8 luglio 2002 n. 138, convertito in legge 8 agosto 2002 n. 178, posto che la ricostruzione ermeneutica operata dalla Corte stessa poteva avere effetti tali da entrare in rotta di collisione con il principio di legalità e irretroattività dei reati e delle pene, che è ritenuto parte integrante anche del diritto comunitario (C. giustizia, Sez. 11, dell'11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli). Al riguardo, la sentenza Niselli, premesso che "una direttiva non può avere l’effetto, di per sé è indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni preso atto che il fatto contestato all'imputato era stato commesso sotto il vigore delle disposizioni incriminatrici di cui al D.Lgs 22/1997, e prima dell'entrata in vigore dell’art. 14 D.L. 138/2002, ha concluso che non vi era "motivo di esaminare le conseguenze che potrebbero discendere dal principio di legalità delle pene per l'applicazione della direttiva 75/442" (parr. 29 e 30).
Diverso è il caso affrontato più di recente dalla stessa Corte europea, Grande Sezione, chiamata a risolvere in via pregiudiziale la questione se il trattamento sanzionatorio più favorevole previsto dai novellati artt. 2621 (false comunicazioni sociali) e 2622 (false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori) cod. civ. fosse o meno adeguato in relazione all’art. 6 della prima direttiva comunitaria sul diritto societario (sentenza 3 maggio 2005, Cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e altri).
La sentenza ha osservato che il principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite fa parte integrante delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e dei principi generali del diritto comunitario (parr. 68 e 69); e ha concluso che "la prima direttiva sul diritto societario non può essere invocata in quanto tale dalle autorità di uno Stato membro nei confronti di imputati nell'ambito di procedimenti penali, poiché una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati (par. 78 e dispositivo).
Basti rilevare in proposito che, nel caso esaminato dalla corte europea, né gli originari artt. 2621 e 2622 cod. civ., che prevedevano un trattamento sanzionatorio più severo, e sotto la vigenza dei quali erano stati commessi i reati contestati, né i nuovi artt. 2621 e 2622 cod. civ., che hanno introdotto un trattamento penale più mite, costituiscono attuazione di direttive comunitarie; sicché si comprende l'affermazione secondo cui una direttiva comunitaria, per se stessa e senza la mediazione di leggi nazionali di attuazione, non possa determinare o aggravare una responsabilità penale nella soggetta materia. Mentre nel caso della disciplina sui rifiuti, la direttiva comunitaria è stata trasposta nell'ordinamento nazionale attraverso il D.Lgs. 22/1997, che ha previsto in aggiunta un sistema sanzionatorio a presidio della disciplina stessa, sicché né la previsione della responsabilità penale, né la sua limitazione derivano direttamente dalla direttiva comunitaria, essendo, invece, state introdotte, la prima dall'art. 51 del D.Lgs. 22/1997, e la seconda dall'art. 1, comma 19, della legge 426/1998. Nella presente vicenda processuale, quindi, non può farsi ricorso al principio statuito nella suddetta sentenza comunitaria del 3 maggio 2005, proprio perché presupposto di questo principio è la mancanza di norme nazionali attuative della direttiva comunitaria.
10 - Infine, la rilevanza e ammissibilità della questione di legittimità costituzionale del testo novellato dell'art. 34, comma 4, D.Lgs. 22/1997 trova conforto in numerose sentenze di codesta Corte, che, proprio in materia di rifiuti, hanno dichiarato la illegittimità costituzionale di varie leggi regionali che avevano depenalizzato lo stoccaggio provvisorio non espressamente autorizzato di rifiuti tossici e nocivi (n. 306/1992; n. 437/1992; n. 194/1993) o 1'accumulo temporaneo di rifiuti tossici e nocivi (sent. 213/1991), o che avevano escluso dagli impianti di smaltimento di rifiuti gli impianti di depurazione per conto terzi di rifiuti liquidi, così esonerando la loro gestione dall'obbligo di autorizzazione (sent. 173/1998).
In questi casi la caducazione delle norme legislative regionali per contrasto con fonti normative gerarchicamente superiori, costituzionali e comunitarie, è perfettamente sovrapponibile alla richiesta caducazione del testo novellato del richiamato art. 30 per contrasto col diritto comunitario; ed ha gli stessi effetti sul trattamento penale degli imputati nell’ambito dei processi principali.
Per tutte queste ragioni non sembra potersi dubitare della rilevanza della questione.