Pres. Postiglione Est. Lombardi Ric. P.M. in proc. Pellegrino
Rifiuti. Materiale di risulta da lavorazione del marmo
Il requisito della certezza ed effettività della riutilizzazione di materiale di risulta derivante dalla lavorazione del marmo non può ritenersi sussistente allorché i materiali residuati da una determinata lavorazione, di cui pertanto sussiste l'obbligo di disfarsi, siano stati accumulati per alcuni anni in palese violazione dell'art. 6, comma primo lett, m) n. 3), del D. Lvo n. 22-97, determinando, nel corso del tempo, la realizzazione di una discarica abusiva
Tali materiali non sono riconducibili nel novero delle terre e rocce da scavo direttamente utilizzate per reinterri o riempimenti (peraltro, il reimpiego di detti materiali, consentito dalla normativa attualmente vigente, deve avvenire, in ogni caso, previa valutazione di impatto ambientale, ai sensi dell'art. 186 del D. L.vo n. 152-06, o di autorizzazione amministrativa ai sensi della normativa pregressa).
Egualmente non si palesa corretto il riferimento alla nozione di materie prime secondarie, di cui all'art. 181, comma tredici, del D. L.vo n. 152-06, in quanto queste ultime devono possedere, ai sensi del comma sei del predetto articolo, specifiche caratteristiche tecniche individuate da un apposito decreto ministeriale da emanarsi ovvero, in via transitoria, specificate dalla normativa secondaria vigente. Altrettanto errato si palesa il riferimento alla nozione di sottoprodotto di cui all'art. 183, comma primo lett. n), dello stesso decreto legislativo, richiedendosi anche dalla norma citata la certezza oggettiva del reimpiego del materiale costituente sottoprodotto, nel momento stesso della sua produzione, certezza che va esclusa in considerazione delle descritte modalità di accumulo per un lasso di tempo particolarmente rilevante
Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata la Corte di
Appello di Palermo, in riforma della sentenza
del Tribunale di Trapani in
data 13 maggio
Con la pronuncia di primo grado il
Pellegrino era stato dichiarate colpevole del reato ascrittogli, perché
quale legale rappresentante della S.p.A. Sud Marmi, esercente attività di
taglio e lavorazione di
blocchi di marmo, aveva depositato in modo incontrollato rifiuti
speciali, costituiti pezzame e scarti derivanti
dalla lavorazione del marmo, e realizzato
così
una discarica non autorizzata
di rifiuti sulla
quale aveva costruito in prosieguo di
tempo due piazzali con copertura
in
aggregante.
Si è accertato
in punto di fatto in termini
univoci nei
successivi gradi del giudizio di
merito che l’azienda di cui è responsabile l’imputato aveva accumulato
nel
tempo, nella zona retrostante il capannone industriale, gli scarti della
lavorazione del marmo in notevole quantità, tale da
formare due aree sopraelevate circa dieci
metri rispetto al piano di campagna, sulle
quali erano stati realizzati due ampi piazzali ultimati nel primo semestre dell’anno
2000.
La sentenza di
appello ha, invece, escluso in punto di fatto
che successivamente a tale data l’imputato abbia proseguito l’attività
di
abbandono o deposito incontrollato dei predetti rifiuti, avendo
stipulato un
apposito contratto con una ditta
specializzata per lo smaltimento dei
residui della lavorazione del
marino.
La sentenza
ha, quindi, osservato in punto
di diritto che
il giudice di primo grado, nell’affermare la colpevolezza
dell’imputato, aveva sostanzialmente disapplicato l’art. 14 della L. n.
178/2002, avendo ritenuto che l’interpretazione autentica della nozione
di
rifiuto contenuta in detta norma risulta in contrasto
con l’art. 1 della direttiva europea 75/442/CEE,
come sostituito dall’art. 1 della direttiva
91/156/CEE (attualmente sostituita
dalla
direttiva 2006/12/CE, che non contiene significative modificazioni
della
nozione di rifiuto); che, però, la direttiva comunitaria sui rifiuti
non è
self-executing e, pertanto, la natura
dei
materiali di cui alla contestazione doveva essere valutata alla luce
della
interpretazione normativa della nozione di rifiuto contenuto nella
disposizione
citata; che, pertanto, dal novero dei rifiuti devono essere esclusi i
residui
di produzione riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo
produttivo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e
senza pregiudizio per l’ambiente.
Si è, quindi,
affermato, in sintesi, che alla luce del
citato disposto non poteva attribuirsi natura di rifiuti agli
scarti della lavorazione
del marmo di cui alla contestazione, non essendovi prova che il detentore se
ne fosse disfatto o avesse intenzione di disfarsene e risultando,
invece, che detti materiali erano
stati
utilizzati per la realizzazione dei
due piazzali,
senza avere subito alcuna
trasformazione preventiva e senza che vi fosse prova di un pregiudizio
per
l’ambiente.
Si è altresì osservato
che, anche a seguito
dell’abrogazione
dell’art. 14 della L. n. 178/2002, disposta dall’art. 264
del D.L.vo 3 aprile 2006 n. 152, nel caso in esame doveva essere escluso che
i predetti materiali
rientrassero nella nozione di
rifiuti speciali, non applicandosi, ai sensi
dell’art. 181, comma 13,
del D.L.vo n. 152/2006, la disciplina in materia di gestione dei rifiuti
alle sostanze che, senza
necessità di operazioni di trasformazione, presentino
le
caratteristiche di materie prime secondarie, allorché il detentore non
se ne
disfi, non abbia deciso e non abbia l’obbligo di disfarsene, ovvero, ai
sensi
dell’art. 183, comma primo, lett. n), del medesimo decreto legislativo,
ai
sottoprodotti impiegati direttamente dall’impresa produttrice, che
pertanto non
se ne è disfatta, né aveva
l’intenzione o l’obbligo di disfarsene.
Avverso la
sentenza ha proposto
ricorso il Procuratore
Generale della Repubblica presso
la
Corte territoriale, che la denuncia per
violazione di legge e vizi
della motivazione.
Motivi della decisione
Con un unico mezzo
di annullamento la pubblica accusa
ricorrente denuncia la
violazione ed errata applicazione
dell’art. 51 del D.L.vo n.
22/97,
nonché la carenza e contraddittorietà
della motivazione della sentenza.
Si deduce, in
sintesi, che nel caso in esame la Corte territoriale ha erroneamente
ravvisato
nello sversamento continuativo sul suolo dei residui della lavorazione
del
marmo un’ipotesi di reimpiego degli stessi, qualificabile come attività produttiva
e che, in ogni caso, il reimpiego
dei residui di lavorazione, come la utilizzazione
del sottoprodotto,
prevista dall’art. 183, comma
primo lett. n), del D.L.vo n. 152/06, deve avvenire senza
pregiudizio per l’ambiente.
Si osserva,
quindi, che l’attività posta
in essere dall’imputato
doveva correttamente
essere qualificata quale smaltimento dei rifiuti,
sia ai sensi dell’abrogato D.L.vo n.
22/97, che dell’art. 183, comma primo lett. g), del D.L.vo n. 152/06; che,
secondo la previsione di carattere
generale contenuta nell’art.
178 del decreto legislativo attualmente vigente, le operazioni di recupero e
smaltimento dei rifiuti devono avvenire
“senza danneggiare il paesaggio”,
mentre nel caso in esame la sentenza
di
primo grado aveva evidenziato lo scempio paesaggistico provocato dal
versamento
di materiali di risulta fino alla realizzazione dei due terrapieni alti
dieci
metri, per il cui contenimento erano
state
costruiti due muraglioni in cemento armato di pari altezza,
il tutto senza alcuna concessione edilizia o altro provvedimento
autorizzatorio.
Si osserva,
infine, che nell’ipotesi di
reimpiego o
riutilizzo di materiali l’attività deve avvenire non solo con modalità tali da non
recare pregiudizio all’ambiente, ma deve
altresì esplicarsi legalmente. La sentenza impugnata deve
essere annullata senza rinvio perché il reato ascritto all’imputato è estinto
per prescrizione.
Emerge, invero, dall’accertamento
dì fatto contenuto
nella sentenza di appello che la gestione della discarica è cessata nel primo semestre dell’anno 2000
mediante la realizzazione di
due piazzali e
che successivamente a tale data non vi è stata prosecuzione
dell’attività
illecita di smaltimento dei rifiuti
derivanti dalla lavorazione
del marmo, sicché la prescrizione del reato si è
verificata, ai sensi degli art. 157 n. 5) e 160 c.p., il 31 dicembre
2004, prima della stessa pronuncia del tribunale.
Tale accertamento
di fatto, peraltro, non forma
oggetto di impugnazione sotto alcun profilo
da parte della pubblica accusa ricorrente
e,
pertanto, su di esso si è formato il giudicato.
Va altresì
osservato che secondo l’indirizzo interpretativo
assolutamente prevalente di
questa Suprema Corte, dal quale non si ravvisano
ragioni per discostarsi, i reati di
realizzazione e di gestione di una discarica,
in assenza della
prescritta autorizzazione, possono realizzarsi solo
in forma commissiva (cfr. sez. III, 8
giugno 2006 n. 31401, Boccabella, rv 234942; sez. III, 30 novembre 2006
n. 13456, Ciritti ed altro,
rv
236327; sez. III, 200448402, Rigon ed altri, rv 230794) e, peraltro, nel caso in esame
si palesa essere venuta meno la stessa
esistenza della discarica a seguito
della realizzazione dei predetti
piazzali.
Per completezza di esame,
poiché l’imputato è stato
assolto con formula piena
dalla Corte territoriale, deve essere
inoltre esclusa, nel caso in
esame,
l’applicabilità dell’art. 129, comma
secondo,
c.p.p..
Orbene, ai fini che
interessano tale valutazione, si
deve rilevare che l’impugnazione del
P.M.
appare fondata.
Invero, la
motivazione con la quale la sentenza
impugnata
ha escluso che i residui della lavorazione del marmo rientrino nel
novero dei rifiuti non appare
giuridicamente corretta.
Contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale,
infatti, per escludere che i residui di
produzione abbiano natura di rifiuti, nel caso di reimpiego ai sensi
dell’art.
14, comma secondo, della L. n. 178/2002, successiva all’epoca del
fatto, ma
eventualmente applicabile quale interpretazione
autentica
della nozione di rifiuto, occorre
la
prova positiva che la riutilizzazione degli stessi, nel
medesimo, analogo o diverso ciclo produttivo, avvenga senza pregiudizio
per l’ambiente (cfr. sez. III,
200430127, Piacentino, rv 229467 secondo
la
quale l’inesistenza di tale pregiudizio deve essere
accertata mediante gli
appositi “test
di cessione”), mentre la sentenza di
merito si è sostanzialmente limitata ad affermare
la carenza di prove circa tale
pregiudizio.
Inoltre, la
disposizione citata richiede, per
escludere la qualità di
rifiuto, che la riutilizzazione nel medesimo o in un
analogo o diverso ciclo produttivo delle sostanze
sia oggettivamente certa
ed effettiva.
Orbene, il citato
requisito della certezza ed effettività
della riutilizzazione non
può ritenersi sussistente allorché i materiali residuati da
una determinata
lavorazione, di cui pertanto sussiste l’obbligo
di disfarsi, siano stati accumulati per alcuni
anni, secondo quanto accertato dai giudici
di merito, in palese
violazione
dell’art. 6, comma primo lett. m) n. 3), del D.L.vo n. 22/97,
determinando, nel
corso del tempo, la realizzazione di
una discarica abusiva, con la conseguente
configurabilità, medio tempore, dei reati di
cui alla contestazione
nei confronti dell’imputato.
Nel caso in esame inoltre
non si palesa corretto, in
considerazione
della natura dei materiali di
cui si tratta, derivanti dalla lavorazione di blocchi di marmo, il
riferimento,
contenuto nella sentenza, alle terre e rocce
da scavo direttamente utilizzate per reinterri
o riempimenti, ai sensi
dell’art. 10, comma primo, della L. n. 23 marzo 2001
n. 93, che ha introdotto la lett. f bis) nel primo comma dell’art.
8 D.L.vo n. 22/97.
Peraltro, il
reimpiego di detti materiali,
consentito dalla normativa attualmente
vigente,
deve avvenire, in ogni caso,
previa valutazione di impatto ambientale, ai sensi dell’art. 186 del
D.L.vo n.
152/06, o di autorizzazione amministrativa ai
sensi della normativa pregressa.
Egualmente non si palesa corretto il riferimento della gravata sentenza alla nozione di materie prime secondarie, di cui all’art. 181, comma tredici, del D.L.vo n. 152/06, in quanto queste ultime devono possedere, ai sensi del comma sei del predetto articolo, specifiche caratteristiche tecniche individuale da un apposito decreto ministeriale da emanarsi ovvero, in via transitoria, specificate dalla normativa secondaria vigente, mentre nel caso in esame non è stato effettuato alcun controllo da parte dei giudici di merito nei sensi indicati.
Egualmente errato
si palesa il riferimento alla nozione di sottoprodotto
di cui all’art. 183, comma primo
lett. n), dello stesso decreto
legislativo, richiedendosi
anche dalla norma citata la certezza
oggettiva del reimpiego del
materiale costituente sottoprodotto,
nel momento stesso della
sua produzione, certezza
che, secondo quanto in precedenza precisato,
doveva essere esclusa dai giudici di merito
in considerazione delle descritte modalità di accumulo per un lasso di tempo particolarmente
rilevante dei materiali residuati
dalla lavorazione dei blocchi
di marmo, con conseguente integrazione prima della
fattispecie del deposito incontrollato di rifiuti e, successivamente,
della
realizzazione di una discarica abusiva.
Né si palesa sufficiente a soddisfare il
requisito richiesto dalla norma il mero accertamento della successiva
utilizzazione dei materiali di risulta, mediante un intervento che, peraltro, nel
caso in esame, secondo quanto
emerge dall’accertamento di
fatto,
si palesa avere assunto
le caratteristiche di un’opera
di bonifica dell’area
già adibita a discarica.
Non ricorrono, pertanto, nel caso in esame,
le condizioni richieste dall’art. 129, comma secondo, c.p.p. per tener
ferma la pronuncia di assoluzione
dell’imputato con la formula di cui alla sentenza impugnata.