Abbandono di rifiuti e responsabilità “condivisa”: qualche dubbio.

di Vincenzo PAONE

Su questa Rivista, è stata data notizia della sentenza della Cassazione  n. 41809 del 7 novembre 2022 (https://lexambiente.it/materie/rifiuti/155-cassazione-penale155/16562-rifiuti-principio-della-responsabilit%C3%A0-condivisa.html) che ha sostenuto che, in tema di gestione di rifiuti, va applicato il cd. principio della responsabilità condivisa, secondo cui la responsabilità per la corretta gestione dei rifiuti grava su tutti i soggetti coinvolti nella loro produzione, detenzione, trasporto e smaltimento, essendo detti soggetti investiti di una posizione di garanzia in ordine al corretto smaltimento dei rifiuti stessi.
In questa sede, non affrontiamo il tema della responsabilità condivisa (per gli approfondimenti  del caso, rinviamo al nostro contributo «La responsabilità “condivisa” dei soggetti che effettuano la gestione dei rifiuti» pubblicato nel n. 3\2020  della Rivista trimestrale diritto penale dell'ambiente (https://lexambiente.it/rivista/1245-2020-3/15310-la-responsabilit%C3%A0-%E2%80%9Ccondivisa%E2%80%9D-dei-soggetti-che-effettuano-la-gestione-dei-rifiuti.html), ma vogliamo invece evidenziare che al caso trattato nella fattispecie non era  applicabile il principio menzionato.
Prima di dar conto di questa conclusione, notiamo un problema preliminare attinente all’esatta qualificazione giuridica del fatto contestato. Nella sentenza, infatti, si esordisce dicendo che  il titolare di un’impresa di autoriparazioni era stato condannato per  i reati di cui all'art. 192, comma 1, in relazione all'art. 256, comma 1, lett. a) e lett. b), D.Lgs. n. 152/2006. Il richiamo al disposto dell’art. 192 farebbe dunque pensare che il fatto materiale consistesse nell’abbandono dei rifiuti, ma la menzione del comma 1 dell’art. 256 smentisce questa ipotesi perché la norma citata punisce non già l’abbandono, ma la gestione dei rifiuti.
In un altro passaggio della sentenza (v. par. 4.3) si parla però in termini espliciti di «abbandono di molteplici tipologie di rifiuti, anche pericolosi e per un quantitativo non trascurabile, in zona destinata a cantiere di opera stradale pubblica». Pertanto, si deve pensare che, per mero errore, sia stata indicata come norma incriminatrice quella del comma 1 anziché del comma 2 dell’art. 256.
Al di là di questo rilievo, per vero secondario, è invece più importante portare l’attenzione sul fatto che la condotta di abbandono di rifiuti era stata posta in essere da un lavoratore dipendente dell’azienda diretta dall’imputato: nel ricorrere per cassazione, costui aveva per l’appunto contestato l’affermazione della sua responsabilità basata asseritamente  sul sillogismo in forza del quale il titolare dell’impresa risponde, in quanto produttore dei rifiuti, di tutte le condotte illecite commesse nella gestione dei rifiuti stessi.
La Cassazione ha condivisibilmente respinto il ricorso – come vedremo oltre – ma ha asserito che la sentenza impugnata aveva correttamente applicato il principio della c.d. responsabilità condivisa tra i vari soggetti della filiera dei rifiuti.
Invero, questo principio è stato invocato da Cass. n. 5912 del 11 dicembre 2019, Rv. 278411 – 01,  Arzaroli (https://lexambiente.it/materie/rifiuti/155-cassazione-penale155/14840-rifiuti-principio-della-responsabilit%C3%A0-condivisa-nella-gestione-dei-rifiuti.html) per giustificare  la condanna  del titolare di un impianto che aveva accettato, senza effettuare alcun controllo,  i rifiuti conferiti da un trasportatore non autorizzato; in questa stessa lunghezza d’onda, Cass. n. 26526 del 20/05/2008, Rv. 240550 – 01, aveva già sostenuto che  l'autorizzazione al recupero dei rifiuti non esclude la responsabilità a titolo di concorso della ditta che li abbia ricevuti da un intermediario o da un trasportatore privo di autorizzazione, in quanto sussiste a carico del ricevente l'obbligo di controllare che coloro che forniscono i rifiuti da trattare siano muniti di regolare autorizzazione.
Orbene, rinviando al nostro contributo per osservazioni critiche in ordine all’affermato principio, osserviamo che nella vicenda di cui alla sentenza in esame si doveva semplicemente stabilire a quali condizioni  il titolare di un’impresa risponde per la condotta tenuta dal proprio dipendente, situazione che differisce nettamente da quella in cui si debba valutare se ciascun  soggetto coinvolto nella filiera dei rifiuti risponda  in ordine alla loro corretta circolazione ad opera di soggetti dotati, ciascuno,  di autonomia giuridica.
Insomma, nell’ambito della c.d. responsabilità condivisa ricade il rapporto tra imprese diverse che gestiscono i rifiuti, mentre il caso trattato dalla Cassazione pone la questione della responsabilità diretta o concorsuale di soggetti operanti all’interno della stessa impresa.
Ciò premesso, ricordiamo che, in caso di abbandono di rifiuti, la sanzione penale (prevista dall’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006) scatta se il fatto è ricollegabile ai titolari di imprese e ai responsabili di enti mentre, in ogni altro caso, si configura l'illecito amministrativo (art. 255, comma 1).
Al fine di individuare l’autore del reato, per titolare d'impresa non deve intendersi solo il soggetto formalmente titolare dell'attività, ma anche colui che, sia pure di fatto, eserciti un'attività imprenditoriale, con l’ulteriore puntualizzazione che in questa categoria vanno compresi sia gli esercenti professionalmente attività tipiche di gestione di rifiuti (sono cioè le imprese che gestiscono i rifiuti «prodotti da terzi») sia i titolari delle imprese che svolgano la gestione dei rifiuti  in modo secondario, accessorio o consequenziale all'esercizio di un'attività primaria diversa (pertanto sono le imprese che effettuano  direttamente la gestione dei rifiuti derivanti dalla propria attività produttiva).
La qualifica soggettiva di titolare di impresa o di responsabile di ente è l’elemento specializzante del reato sicchè la fattispecie si annovera  tra i classici reati propri. Da qui la domanda di come vada disciplinata la fattispecie quando la condotta materiale di abbandono sia stata commessa da un dipendente.
Si prospetta, infatti, sia la questione della responsabilità concorrente del titolare dell'impresa sia quella dell’eventuale responsabilità a titolo individuale del lavoratore dipendente.
Per analizzare il primo profilo, partiamo dal principio che il titolare dell’impresa, nella sua veste di garante primario del rispetto delle norme presidiate penalmente e in virtù dei poteri di organizzazione e gestione a lui spettanti, è responsabile quando non si ponga nelle condizioni ideali per vigilare sull’altrui operato e quando non adotti le direttive necessarie a prevenire la commissione di irregolarità da parte dei sottoposti.
La giurisprudenza ha perciò ritenuto che il mancato o difettoso assolvimento degli obblighi anzidetti comporta la responsabilità del titolare di impresa per omesso impedimento dell'evento ex art. 40, comma 2, cod. pen., senza dunque che ciò integri un’ipotesi di responsabilità oggettiva vietata dal nostro ordinamento.
Il risvolto della medaglia è che, se la condotta del dipendente sia il frutto di una autonoma iniziativa contro le direttive e addirittura ad insaputa del datore di lavoro, la responsabilità del titolare dell'impresa va esclusa.
In questi termini, si è espressa Cass.  4 aprile 2019, n. 28360, Argentiero, Ambiente e sviluppo, 2019, 655, che ha approfondito il tema osservando che «Il reato previsto dall'art. 256 D.Igs. n. 152/2006 sarà dunque ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta vietata. Sul punto, è bene precisare che relativamente alle ipotesi di concorso omissivo nel reato commissivo, l'art. 40, comma secondo, cod. pen. presuppone sia il fatto che l'omissione configuri la violazione dell'obbligo di impedire l'evento, sia che essa si ponga come condizione necessaria o agevolatrice della realizzazione della condotta illecita. In materia ambientale, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, i titolari e i responsabili di enti ed imprese rispondono del reato di abbandono incontrollato di rifiuti non solo a titolo commissivo, ma anche omissivo qualora sia mancata una concreta vigilanza sull'operato dei dipendenti autori materiali della condotta incriminata. Il reato di cui all'art. 256, comma secondo, D.Igs. n. 152/2006, nonostante si configuri come un reato proprio dell'imprenditore o del responsabile di un ente, non necessita, per la sua integrazione, di una condotta attiva, non configurandosi solo nel caso in cui si sia reso responsabile di comportamenti materiali o psicologici tali da determinare una compartecipazione, anche in termini di semplice facilitazione, nell'illecito commesso da soggetti addetti alla gestione dei rifiuti, potendosi la fattispecie penale concretizzare anche mediante una omissione, scaturente da comportamenti che violino i doveri di vigilanza, recte per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda».
In senso conforme, v. Cass. 9 novembre 2017, n. 28492, Angeloro, Foro it., 2018, II, 610 (La responsabilità del titolare dell'impresa, a titolo di culpa in vigilando, per il fatto illecito del proprio dipendente, che abbia abbandonato rifiuti su una strada di pubblico transito, postula un accertamento pieno del contenuto attivo o omissivo della condotta da parte sua e, pertanto, va esclusa allorché il comportamento materiale del dipendente sia frutto di autonoma iniziativa del medesimo, assunta contro le direttive e ad insaputa del datore di lavoro); 22 settembre 2016, n. 795, Di Sabatino, Ambiente e sviluppo, 2017, 215 (è configurabile un obbligo di vigilanza in capo al responsabile dell'impresa il quale, salvo il caso di una efficace valida delega di funzioni, è chiamato a rispondere del mancato adempimento degli obblighi incombenti sul vertice aziendale. Infatti, il titolare dell’impresa, in ragione della sua specifica qualità, è nelle condizioni di predisporre una serie di meccanismi di controllo incrociato finalizzati a evitare che il personale da lui dipendente possa incorrere in errori anche di natura tecnica); 5 aprile 2017, n. 30133, Giordano, ibid., 604 (La norma incriminatrice di cui all’art. 256, comma 2,  D.lgs. n. 152/2006, nel far riferimento ai titolari delle imprese, non sottende, ai fini della loro punibilità, che siano necessariamente gli autori materiali della condotta, bensì che le condotte incriminate siano poste in essere nell'ambito dell'attività di impresa e dunque soggette al loro dominio finalistico. Non si tratta di responsabilità oggettiva da posizione, ma di responsabilità colpevole fondata, in caso di condotta posta in essere dal dipendente, sulla possibilità di evitarla. L'omessa vigilanza sull'operato altrui, dunque, costituisce elemento strutturale della fattispecie contravvenzionale che, essendo punita anche a titolo di colpa, individua nella titolarità dell'impresa il fondamento giuridico-fattuale dell'addebito omissivo).
Così inquadrata la problematica, segnaliamo che la Cassazione, nella sentenza qui commentata, ha respinto il ricorso del titolare dell’impresa perchè costui non aveva in alcun modo dato conto della propria estraneità alla vicenda, deducendo ad es. il caso fortuito ovvero la forza maggiore, ovvero ancora la trasgressione di indicazioni circa il corretto smaltimento dei materiali rintracciati; inoltre, lo stesso ricorrente non era stato in grado di dimostrare che i rifiuti rinvenuti corrispondessero a quanto già oggetto di corretto smaltimento, sì da comprovare, anche in tal modo, l’eventuale infedeltà di terzi soggetti.
Non vi era quindi alcun dubbio che il titolare dell’impresa  non potesse «chiamarsi fuori» rispetto al fatto materiale ascritto al proprio dipendente.
Per completezza di indagine, ci pare utile soffermarci sulle questioni connesse all’affermazione di responsabilità  del dipendente che abbia posto in essere materialmente la condotta vietata. Infatti, si potrebbe sostenere che il dipendente, che abbia agito in base a ordini o direttive impartite dal proprio datore di lavoro, non abbia la possibilità di sottrarsi ad essi.
In proposito Cass. n. 50760 del 13 ottobre 2016, Rv. 268661 – 01, P.M. in proc. Banzato, ha preso posizione sul punto asserendo che la causa di giustificazione prevista dall'art. 51 cod. pen. è applicabile esclusivamente ai rapporti di subordinazione previsti dal diritto pubblico e non anche a quelli di diritto privato, sicché il dipendente privato che riceva dal proprio datore di lavoro una qualunque disposizione operativa, è tenuto a verificarne la rispondenza alla legge secondo gli ordinari canoni di diligenza e, qualora ne riscontri l'illegittimità, deve rifiutarne l'esecuzione, senza che, altrimenti, possa ravvisarsi l'impossibilità di sottrarsi all'ordine che esclude la punibilità della condotta (trattasi di un consolidato orientamento di legittimità: v. Sez. 5, n. 15850 del 26 giugno 1990, Bordoni, Rv. 185894; Sez. 5, n. 7866 del 2 maggio 1984, Guerrieri; sez. 1, n. 2530 del 30 maggio 1989, Rv. 183439, Calamai, che ha affermato che «Il potere gerarchico del datore di lavoro, al quale il dipendente è sottoposto, non si estende anche alle direttive che abbiano ad oggetto comportamenti contra legem perché a tale specie di ordini il lavoratore ha la facoltà, normativamente tutelata, di opporre il suo legittimo rifiuto (nella specie è stata ritenuta la penale responsabilità, ex art. 659 cod. pen., di lavoratore dipendente il quale aveva eseguito attività rumorose contro le prescrizioni dell'ordinanza sindacale).
Escluso che il dipendente possa invocare la totale insindacabilità dell’ordine ricevuto, va specificato a quali condizioni possa affermarsi la sua responsabilità a titolo di colpa (ovviamente, il concorso di persone è pacifico se fosse provata la sussistenza del dolo, vale a dire la piena consapevolezza di concorrere in un fatto illecito altrui). Soccorrono i prin­cipi generali del codice penale disciplinanti la partecipazione nel reato da parte di più soggetti senza che sia necessario (e legittimo) ricorrere a forme di responsabilizzazione «automatica» dell’agente derivanti da norme generali in materia di rifiuti, come l'art. 178  D.Lgs. n. 152/2006 che, in modo del tutto generico,  dispone che la gestione dei rifiuti è effettuata  conformemente  ai principi  di responsabilizzazione e di cooperazione di  tutti i  soggetti  coinvolti   nella   produzione,   nella   distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti.
Pertanto, nel caso in cui il titolare dell’impresa affidi al dipendente compiti esecutivi nel settore della gestione dei rifiuti, l’incaricato potrà essere ritenuto corresponsabile se, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, da misurare secondo il criterio dell'homo eiusdem condicionis et professionis  (cd. agente modello),  poteva rendersi conto che stava ponendo in essere un atto illecito. Egli sarà esente da responsabilità (a titolo concorsuale) solo per assoluta insussistenza di qualsiasi addebito di colpa da parte sua, come, ad esempio, nel caso di un ordine che non «appaia» palesemente antigiuridico.
Resta la questione relativa alla rilevanza penale del comportamento del dipendente di un’azienda che  agisca in modo illecito contro le direttive e ad insaputa del datore di lavoro escludendo  così la concorrente responsabilità del titolare di impresa.
Il problema è legato al fatto che il dipendente non ha la qualifica richiesta dal comma 2 dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006. Dal punto di vista formale, viene perciò in rilievo la partecipazione, a titolo di concorso, del soggetto extraneus  (il lavoratore dipendente) nel reato proprio del titolare dell'impresa, soggetto intraneus.
Per la tesi che risponde del reato di cui all'art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006   e non dell'illecito sanzionato in via amministrativa dall'art. 255  il dipendente che, pur avendo ricevuto dal suo datore di lavoro l'ordine di conferire i rifiuti secondo le vigenti norme, in violazione di tali istruzioni abbandoni illegalmente i rifiuti, si è pronunciata Cass. 16 marzo 2011, Spirineo, Foro it., 2012, II, 238.
In senso contrario, Cass. 5 giugno 2007, Manichino, id., 2008, II, 397, ha sostenuto che il comportamento illecito del dipendente che, con un'iniziativa esclusivamente personale ed estemporanea, abbandoni rifiuti provenienti dalla medesima impresa, non integra il reato, ma l'illecito amministrativo.
Questa tesi è preferibile rispetto all’altra perché, una volta esclusa la responsabilità del titolare dell’impresa, ossia del soggetto qualificato in relazione al reato del comma 2 dell’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006, il problema del concorso dell’estraneo viene meno tutte le volte in cui la carenza dell’elemento soggettivo riguardi solo il soggetto intraneo – come si verifica nelle ipotesi su descritta - e non sia estensibile a colui che, privo della qualifica prevista dalla legge, abbia contribuito alla commissione del fatto. In tal caso, dovrà perciò applicarsi la sanzione amministrativa.