I nòccioli di frutta che residuano dalla produzione di alimenti e bevande: rifiuti o sottoprodotti? Il caso dei noccioli di albicocca.

di Pasquale GIAMPIETRO e Alfredo SCIALO'


SOMMARIO:

 

1. Premessa

2. La qualificazione giuridica dei noccioli di frutta, secondo la normativa vigente

3. L’origine dei noccioli, il loro utilizzo certo, integrale e predeterminato.

4. Il relativo valore di mercato.

5. I requisiti merceologici e di qualità ambientale e il divieto di trasformazioni preliminari.

5.1 Le lavorazioni per es. dei nòccioli di albicocca e il concetto di “trasformazioni preliminari”.

5.2 Le trasformazioni preliminari ammesse dalla giurisprudenza.

5.3 Le “trasformazioni preliminari” secondo la nuova direttiva sui rifiuti.

5.4 Il processo di essicazione e sgusciatura dei noccioli di albicocca secondo il parametro normativo delle trasformazioni preliminari.

6. Conclusioni.

 

1. Premessa

 

Le imprese del comparto conserviero vegetale, che impiegano nei rispettivi cicli produttivi, quali materie prime, frutta ed altre sostanze vegetali per la produzione di alimenti e bevande, hanno visto lievitare, negli ultimi anni, i rispettivi costi di produzione a causa delle elevate spese da sostenere per la gestione dei rifiuti originati dalle proprie attività (al pari di quanto avvenuto, peraltro, nell’ambito di altri settori merceologici).

 

Così, accanto al principale obiettivo di realizzare prodotti conservieri da destinare al mercato alimentare, sempre più spesso va affiancandosi, nelle strategie aziendali, anche quello di individuare forme remunerative di (re)impiego dei propri scarti di produzione.

 

Tale ultima finalità, si scontra però, frequentemente, con problematiche che non sono tanto di ordine tecnico, quanto, piuttosto e prevalentemente, di natura giuridica; intendiamo dire, con l’impossibilità di sottrarre i propri residui produttivi al regime dei rifiuti, fatta salva la ricorrenza di specifiche condizioni che ne consentano il riutilizzo, non sempre appare di agevole valutazione.

2. La qualificazione giuridica dei noccioli di frutta, secondo la normativa vigente.

 

A tal proposito, va rammentato che, secondo la  vigente disciplina sui rifiuti, dalle attività produttive, ivi comprese quelle svolte dalle industrie del c.d. ciclo conserviero, si generano, normalmente,  prodotti e residui produttivi considerati, dalla legge comunitaria e nazionale, in via di principio e nella generalità dei casi, come rifiuti, suscettibili, in quanto tali, di essere recuperati o smaltiti.

 

Solo nella contestuale presenza di certe condizioni (v. oltre), alcuni residui possono essere qualificati, diversamente, come sottoprodotti (e non rifiuti), sin dal momento della loro formazione, ricadendo, conseguentemente nella disciplina di mercato, propria delle merci.

 

In caso contrario, i residui produttivi potranno essere sottoposti ad attività di recupero (ordinario o agevolato) per trasformarsi in materia prima secondaria (o materie secondarie), ex art. 181 bis, d. lgs. n. 152 del 2006, e s.m.i. (il c.d.  T.U. Ambientale).

Confrontando le due evenienze (sottoprodotti o rifiuti), si può affermare che, nel primo caso, i residui - da qualificare “sottoprodotti” - si caratterizzino, innanzitutto, per il fatto di non derivare dall’attività di recupero dei rifiuti (come nella seconda ipotesi), bensì direttamente da processi produttivi che peraltro non sono direttamente finalizzati al loro ottenimento (v. art. 183, comma 1, lett. p), p.1.) .

 

In particolare, qualora determinati cicli di produzione generino residui o scarti che possono essere utilizzati, tal quali, nello stesso o in altro ciclo produttivo (di terzi), il legislatore (comunitario e nazionale) ha finalmente riconosciuto, dopo un travagliato processo di elaborazione culturale, normativa[1] e giurisprudenziale[2], una loro qualifica autonoma di “sottoprodotti” (rispetto ai residui-rifiuti) da assoggettare ad una disciplina di favore (che è propria delle “merci”,  considerando il risparmio di risorse naturali e la sensibile riduzione della produzione di rifiuti che essi, indirettamente, assicurano) come quella oggi approntata dal vigente art. 183, comma 1, lett. p), del TU ambiente.

 

Le “condizioni” da rispettare vengono così enunciate:

1) siano originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione;

2) il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito;

3) soddisfino requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti a ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l'impianto dove sono destinati ad essere utilizzati;

4) non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione;

5) abbiano un valore economico di mercato.”

 

Alla luce di tale disposizione, per qualificare un dato materiale come sottoprodotto deve essere, anzitutto, individuata la volontà del produttore/possessore/detentore, e cioè la sua intenzione di non “disfarsi” della sostanza o dell’oggetto (e quindi di non ritenere la stessa come rifiuto).

 

Il sottoprodotto si presenta, infatti, come quella  “sostanza od oggetto” di cui l’impresa non ha intenzione di disfarsi ma che intende sfruttare o commercializzare a condizioni più favorevoli, in un successivo processo (industriale o più in generale produttivo).

 

Questa condizione, però, da sola non basta a riconoscere tale qualifica. Secondo la definizione vigente di sottoprodotto, taluni prodotti dell’attività d’impresa - che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo - possono essere esclusi dal regime dei rifiuti, a patto che rispettino contemporaneamente le cinque condizioni elencate dall’art. 183, comma 1, lett. p), punti nn. 1-5, in tema di origine, formazione e destinazione degli stessi.

 

Sulla scorta di tale opportuna premessa, ci si deve chiedere:  quando  i nòccioli di frutta - che residuano dalla produzione di alimenti e bevande e sono destinati, sin dalla loro origine, al reimpiego in altri cicli produttivi - vanno considerati rifiuti o piuttosto sottoprodotti, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. p) del TUA?

 

Per rispondere a tale interrogativo va necessariamente accertato se, anche con riferimento ad essi (nòccioli), ricorrano o meno tutte le condizioni, appena accennate, per poterli qualificare come sottoprodotti.

 

Si prenda – ad esempio – i nòccioli di albicocca, i quali costituiscono una tipologia di materiale che, più di altri, presenta particolare rilevanza commerciale, in quanto:

 

1.  possono essere (re)impiegati in due distinti cicli produttivi e cioè:

(i) nelle imprese dolciarie, poiché il seme (cd. armellina), per le relative caratteristiche e proprietà alimentari, si presta ad essere utilizzato nella preparazione di dolciumi;

(ii) negli impianti produttivi di energia “rinnovabile”, poiché i  relativi gusci possono costituire un combustibile vegetale in grado di alimentare impianti energetici da “biomasse”;

 

2. sono sottoposti ad un peculiare processo di lavorazione (di essicazione e sgusciatura, su cui v. oltre), al fine di essere avviati alla suddetta duplice destinazione produttiva.

 

Per individuare la natura giuridica di tali sostanze – ma quanto si esporrà assume una valenza generale in relazione ad ogni tipologia di nòccioli - ragioni di ordine espositivo suggeriscono di prendere le mosse dai requisiti prescritti  sub nn. 1, 2, e 5 del citato art. 183 - in tema di origine, destinazione e valore dei residui produttivi in questione - che non presentano particolari problematiche e, solo successivamente, valutare la ricorrenza delle condizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’articolo citato.

 

3. - L’origine dei noccioli, il loro utilizzo certo, integrale e predeterminato.

 

Come osservato, la suddetta qualificazione ex art. 183, comma 1 lett. p), può essere attribuita a sostanze o materiali che non costituiscono il prodotto principale di un dato processo (produttivo). Ebbene, ove si rifletta sull’origine dei noccioli (per es. di albicocca) appare evidente che tale “condizione d’origine” sia facilmente riscontrabile in concreto.

 

Si rileva, infatti, che -  nella generalità dei casi - i noccioli scaturiscono, dal ciclo conserviero in modo continuativo, non già quali principali prodotti dello stesso, ma come “residui produttivi” suscettibili di un’utilizzazione economica.

 

Per quanto, invece, concerne il secondo requisito, previsto dall’art. 183, comma 1, lett. p), cit., l’indagine risulta – solo apparentemente - più articolata poiché occorre accertare la coesistenza di tre condizioni:

 

a) la certezza dell’impiego (del sottoprodotto) sin dalla fase di relativa produzione;

b) l’integralità dell’utilizzo[3];

c)      la preventiva individuazione del ciclo produttivo di destinazione.

 

A ben vedere, anche tali requisiti potranno agevolmente accertarsi come presenti, con riferimento alle sostanze in oggetto.

In proposito, aggiungiamo che il testo dell’art. 183, comma 1, lett. p), nella versione oggi vigente, non fa alcuna menzione delle modalità con le quali provare l’utilizzo certo, integrale e in un ciclo predeterminato, sicché deve ritenersi sufficiente a tale scopo (probatorio) la redazione (ed, eventualmente,  presentazione alle autorità amministrative o giudiziali preposte agli accertamenti nelle rispettive sedi) di documenti attestanti l’utilizzo integrale, tra i quali, potranno figurare, eventualmente, anche i contratti di fornitura e fatture di acquisto dei sottoprodotti (ma non sono neppure escluse, in linea di principio, le prove testimoniali  o logiche, per presunzioni)[4].

 

Quanto poi al momento nel quale deve sussistere la certezza dell’utilizzo dei residui, la norma lo individua in quello della produzione degli stessi. E’ soprattutto  questa, infatti, la fase in cui, a seconda del comportamento o delle intenzioni del produttore, si può stabilire se egli si disfi od abbia intenzione di disfarsi del bene (nel qual caso si è in presenza di un rifiuto), ovvero intenda impiegarlo all’interno del proprio o altrui circuito produttivo.

In definitiva, la certezza dell’utilizzo di detti noccioli nella loro integralità, in cicli produttivi preventivamente individuati, potrà risultare facilmente sussistente e dimostrabile sin dalla loro origine.

 

Né potrà incidere - sulla ricorrenza dell’esaminato requisito – l’eventuale circostanza che essi non vengano acquistati direttamente dagli utilizzatori finali, ma, in prima battuta, da soggetti terzi, in veste di intermediatori commerciali (evidentemente interessati a vendere i noccioli presso le due tipologie di imprese destinatarie finali di tali sostanze, e cioè imprese del settore energetico e di quello dolciario). Ed infatti ciò che rileva, per il rispetto della norma (art. 183, comma 1 lett. p n. 2), è che il riutilizzo, seppur differito, sia comunque certo, ferma restando la possibilità del  commercio o intermediazione del sottoprodotto, prima del suo reimpiego (v., anche, oltre).

 

Si osserva, in proposito, che la commercializzazione di residui produttivi non è, di per sé, ostativa alla qualificazione degli stessi come sottoprodotti tenuto conto sia dell’assenza di un esplicito divieto normativo in tal senso sia delle più recenti elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali in materia.

 

La dottrina più avveduta ha infatti rilevato che la commercializzazione va ammessa se finalizzata a destinare il residuo ad un ciclo produttivo predeterminato, mentre è esclusa dal regime di favore (dei sottoprodotti), se funzionale al mero consumo. L’impiego, infatti, deve essere diretto, il che fa presumere la possibilità di commercializzazione finalizzata a quello scopo[5].

Dello stesso avviso si mostra la Commissione dell’U.E. che, nella sua “Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti” del 21 febbraio 2007, ha osservato fra l’altro che: “…. gli utilizzatori successivi (del sottoprodotto) e le aziende intermediarie possono partecipare alla preparazione del materiale per il suo utilizzo, svolgendo il tipo di operazioni descritte al punto 3.3.2”.

In tale passaggio, a sua volta, si afferma che: “ […] dopo la produzione, il sottoprodotto può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, […]  Alcune operazioni sono condotte nel luogo di produzione del fabbricante, altre presso l’utilizzatore successivo, altre ancora sono effettuate da intermediari. Nella misura in cui tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto….”.

 

4. - Il relativo valore di mercato.

Qualora – poi - siano stipulati appositi contratti di acquisto a titolo oneroso dei noccioli da parte dei destinatari finali degli stessi (o di eventuali intermediari), tali documenti contrattuali potranno costituire la conferma, difficilmente smentibile,

 

1.      del significativo valore economico di mercato che essi rivestono tanto da risultare suscettibili di un’utilizzazione economica in due distinti settori produttivi: (i) nell’industria dolciaria e (ii) nel settore delle “energie rinnovabili”, con evidente appetibilità per diverse tipologie di operatori economici;

 

2.      del sicuro vantaggio (economico) che deriva alle imprese fornitrici dei noccioli: queste ultime, infatti, destinando al riutilizzo tali residui, oltre ad ottenere un sicuro risparmio di spesa (non dovendo sostenere i costi connessi alla gestione degli stessi come rifiuti), incrementano i profitti derivanti dal proprio ciclo conserviero, grazie alla vendita a titolo oneroso degli stessi.

 

Ed ecco quindi, che potrà risultare agevolmente confermata anche la ricorrenza del requisito sub. n. 5, dell’art. 183 cit.[6]

 

5. - I requisiti merceologici e di qualità ambientale. Il divieto di trasformazioni preliminari.

 

Con riguardo ai presupposti normativi più problematici, consistenti:

 

-  nel rispetto dei requisiti merceologici e di qualità ambientale, tali da assicurare che l’utilizzo dei sottoprodotti non costituisca fonte di nuove e non autorizzati effetti inquinanti (art. 183, comma 1, lett. p, n.3)

 

- e nel divieto di sottoporre, a tale scopo, i “residui” sottoprodotti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari (art. 183, comma 1, lett. p, n. 4).,

 

si ritiene opportuno , premettere alcuni cenni alle lavorazioni cui vengono sottoposti detti noccioli, prima di essere impiegati nei cicli produttivi di destinazione (dell’industria dolciaria e degli impianti energetici).

5.1 – Il processo di lavorazione dei noccioli di albicocca e il concetto di “trasformazioni preliminari”.

 

A tal proposito, va rammentato che i noccioli (per es. di albicocca) sono solitamente sottoposti ad un processo di lavorazione articolato in due fasi distinte costituite dalla (i) essicazione e (ii) dalla sgusciatura, per l’estrazione delle armelline (e cioè, dei semi contenuti nel loro interno).

 

Ebbene, può anticiparsi che tali limitati trattamenti – per le modalità con cui vengono effettuati – sono compatibili con i requisiti di cui ai nn. 3 e 4, dell’art. 183 cit. in quanto, come si chiarirà, di seguito, non possono essere configurati  – e dunque ricondotti - alla nozione giuridica di “trasformazioni preliminari” escluse dalla disciplina dei “sottoprodotti”, secondo una interpretazione rispettosa dei  più recenti sviluppi giurisprudenziali e legislativi (interni e comunitari).

 

Ove ci si chieda, infatti, quali siano le attività di “trasformazione” precluse, riferite al residuo produttivo, si deve riconoscere che persistono, a tutt’oggi,  non pochi dubbi interpretativi (soprattutto sul piano definitorio e in casi limite), attesa la mancanza di una chiara ed univoca previsioni normativa, tanto in sede comunitaria (ove si rinvengono formulazione generiche riferite a: “trattamenti preventivi/trasformazioni preliminari” ovvero: “further processing”, nell’idioma anglo-sassone)[7]che in quella nazionale.

Si veda, in tale ambito, l’attuale formulazione dell’art. 183 del T.U. cit., il quale non consente di individuare, con sufficiente certezza, i contorni definitori di tale nozione, nel suo comma 1, lett. p, n. 4), del  seguente tenore: “ i sottoprodotti “non debbono essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3)” e cioè quelli “idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti a ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati[8].

In definitiva, se, per un verso, dal tenore letterale della disposizione, si ricava, soltanto, che, al presente, non vige una preclusione assoluta di svolgere operazioni preliminari, salvo il caso che esse siano finalizzate a “soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3)”. Con la conseguenza che devono ritenersi consentiti i trattamenti e le trasformazioni che non siano mirati e funzionali a  tale scopo.

 

Per altro verso, nessuna concreta precisazione viene fornita dal legislatore interno per chiarire quali possano essere, in concreto, i trattamenti ammessi.

 

Questo spiega perché, storicamente, un contributo essenziale (e giuridicamente rilevante) per tale individuazione (dei trattamenti consentiti) è stato fornito (e dunque può essere  rinvenuto e utilizzato ai nostri fini) :

 

-  (a) nelle elaborazioni della giurisprudenza nazionale e dell’U.E.;

- (b) nelle più recenti e innovative indicazioni delle fonti comunitarie, e, più specificamente, nell’art. 5 della direttiva 2008/98/CE il quale ha, per la prima volta, fornito una definizione di sottoprodotto, ampliando (come si dirà) il novero delle trasformazioni preliminari consentite (v. oltre).

5.2 - Le trasformazioni preliminari ammesse dalla giurisprudenza.

La giurisprudenza della Cassazione penale italiana, negli ultimi anni, ha fornito specifici esempi di trasformazioni preliminari o trattamenti che, di volta in volta, sono stati considerati compatibili con la categoria giuridica del “sottoprodotto”.  Ad essi occorre far riferimento per capire sul piano logico-giuridico  – in termini di comparazione – se in essi possono rientrare anche le operazioni di essiccazione e sgusciatura (per frantumazione) cui vengono sottoposti, nella maggior parte dei casi, i noccioli di albicocca destinati al reimpiego nei due settori di cui si è detto (presso imprese produttrici di dolciumi e imprese energetiche).

 

In tal senso, è utile richiamare la recente sentenza della Corte di Cassazione, sez. III penale, 7 novembre 2008, n. 41839, nella quale - partendo dall’evoluzione normativa dell’art. 183 cit. sino all’eliminazione (ad opera del d.lgs. 4/2008) nella sua ultima versione del concetto di “trasformazioni preliminari” e del riferimento alle operazioni di “cernita” e “selezione” nella definizione di recupero – si è affermato che la cernita e la selezione sono operazioni compatibili con la nozione di sottoprodotto. Tanto è predicabile, ha precisato la Corte, solo qualora dette operazioni non siano finalizzate a rendere successivamente utilizzabili la sostanza o il materiale nelle stesse condizioni di tutela ambientale.

 

Ai fini della presente nota, merita ricordare, altresì, la pronuncia della Corte di Cassazione, sez. III, penale, 6 novembre 2008, n. 41331 (con riferimento alle le terre e rocce da scavo) la quale ha fatto rientrare, tra le operazioni di trattamento preliminare ammesse, anche interventi di “frantumazione” (come nel caso della Società) e cioè operazioni che vanno senz’altro a modificare la composizione fisica dei sottoprodotti, senza incidere però sulla loro identità merceologica o di qualità ambientale.

 

Più di recente, la giurisprudenza amministrativa (TAR Piemonte, 25 settembre 2009, n. 2292) ha anche ammesso che “gli scarti legnosi dell’agricoltura e i residuati della lavorazione esclusivamente meccanica del legno - quali segature, tondelli, cortecce e cippato legnoso” - non sono rifiuti bensì sottoprodotti, con ciò escludendo che interventi simili a quelli menzionati  possano essere considerati quali “trasformazioni preliminari” (anche tale precedente può essere utilmente richiamato per la vicenda in esame dei “trattamenti” dei nocciolo di albicocca).

 

In conclusione, alla luce dei rassegnati precedenti giurisprudenziali (in linea con una orientamento conforme della Corte di Giustizia, già manifestatosi in ambito comunitario),  deve correttamente riconoscersi che sono considerati ammissibili quegli interventi minimali sul residuo produttivo (come la cernita, la selezione, la frantumazione, la lavorazione meccanica, l’essiccazione, l’evaporazione, ecc.) che, per il tipo di incidenza sul residuo produttivo (fisico-meccanica o di sottoposizione a processi naturali), pur incidendo, in alcuni casi, sulla struttura fisica del residuo produttivo, lasciano invariate le sue originarie qualità merceologiche e ambientali.

Ebbene, prendendo in esame le fasi di lavorazione cui sono sottoposti i noccioli (per es. di albicocca), è evidente che qualora si tratti (come avviene nella maggior parte dei casi) di interventi minimi che non incidano sulle proprietà e caratteristiche fisico-chimiche dei noccioli (quali l’essiccazione e la sgusciatura), detti interventi potranno farsi rientrare tra quelli ammessi dalla normativa ambientale (sul punto,v., anche, oltre, par. 6).

 

5.3 - Le “trasformazioni preliminari” secondo la nuova direttiva sui rifiuti.

Gli orientamenti del giudice interno e comunitario sopra esposti, trovano ulteriore e decisiva conferma nei più recenti indirizzi del legislatore comunitario che ha, di recente, fornito una definizione normativa del “sottoprodotto”, con l’art. 5 della nuova direttiva rifiuti 2008/98/CE che meglio circoscrive le trasformazioni preliminari vietate (e, a contrario, quelle consentite).

 

Tale norma, oltre ad un contenuto ricognitivo - che recepisce  i più avanzati e recenti arresti della Corte di Giustizia Europea (già segnalati nella precedente nota 15) in tema di sottoprodotti - presenta anche un profilo innovativo, laddove, tra le altre condizioni prescritte per il sottoprodotto[9], richiede che la sostanza o oggetto possa “essere utilizzata/o direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale”.

 

Benché non ancora trasposta nell’ordinamento italiano (nel rispetto del  termine del 12 dicembre 2010, ex art. 40), la nuova direttiva  è entrata in vigore il 12.12.2008 e costituisce un punto di riferimento decisivo, oltre che obbligatorio, nella esegesi e applicazione del diritto interno (ci riferiamo, ovviamente, all’art. 183 già esaminato sul sottoprodotto), in considerazione:

 

-                 sia del riconoscimento formale che il legislatore comunitario ha assicurato alla categoria giuridica del sottoprodotto  (mostrando un chiarissimo favore verso la riduzione dell’area del rifiuto oltre che per il recupero di quest’ultimo e la prevenzione dalla sua produzione);

-                  sia, soprattutto, per aver disciplinato espressamente, e per la prima volta, in modo esplicito e sistematico, gli  elementi costitutivi della controversa nozione e le condizioni del suo corretto impiego.

 

Tener conto di questa disciplina risulta assai utile (oltre che doveroso), non solo per la necessità di leggere il diritto vigente “interno” in conformità con quello comunitario; ma anche perché il prossimo recepimento dell’art. 5 (lo schema del decreto di recepimento è già stato approvato dal Consiglio dei Ministri sin dal  10.4.9010, ricevendo il parere favorevole della Conferenza unificata, con proposte correttive), determinerà l’abrogazione dell’attuale art. 183, comma 1, lett. p) e l’introduzione di un nuovo articolo (184-bis) dedicato ai sottoprodotti, in linea con le indicazioni del legislatore della U.E[10].

Nella nuova ottica comunitaria, il sottoprodotto, come prescrive la norma,  deve essere impiegato “direttamente” (che vuol dire: senza trasformazioni preliminari e non già “direttamente dal produttore”); ma, a differenza di quanto previsto dalla lett. p), n. 2 dell’art. 183 novellato, e in conformità all’insegnamento della CGCE, sono, per la prima volta, espressamente previsti e consentiti quei trattamenti propri della “normale pratica industriale”.

 

Parametro interpretativo e delimitativo – rilevante – per circoscrivere l’area denotata dai c.d. “trattamenti o trasformazioni preliminari” (non consentiti) dei sottoprodotti, di cui si è detto[11].

 

Tali “trattamenti” minimali - in assenza di qualsivoglia previsione contraria e tenuto conto delle indicazioni fornite, prima  dalla Commissione UE e poi espressamente dalla norma comunitaria (art. 5, par. 1, lett. b), possono essere compiuti tanto dal produttore che dal terzo “utilizzatore” del sottoprodotto purché siano riconducibili “alla normale pratica industriale”.

 

Quindi, in sintesi, la definizione di sottoprodotto, contenuta nella direttiva , richiede che la sostanza o l’oggetto venga utilizzato/a:

 

-          “direttamente”, cioè  senza trattamenti che risultino diversi da quelli che rispondono alla nozione di “normale pratica industriale (come indicata a not 18). In questo senso la sostanza viene utilizzata e considerata (ancora) come “tal quale”, attesa la non incidenza  o invasività  di tali “pratiche” (in ossequio alla riscontrata, nuova tendenza a non considerare restrittivamente la nozione di “trattamenti preliminari ammessi”, ai fini della qualificazione di un bene come sottoprodotto).

Detti trattamenti “minimali” (fisici, meccanici, o naturali: v. retro), per ciò stesso, non sono confondibili o riconducibili, sul piano logico-giuridico, alla distinta categoria dei “trattamenti preventivi o delle trasformazioni preliminari”, le quali – incidendo, in modo più spinto e sostanziale  sulla identità del materiale, cioè sulle sue caratteristiche merceologiche e di qualità ambientale (cambiandole) – assumono la qualifica e funzione di attività di recupero pieno”[12] (quelle, per l’appunto, che trasformano un rifiuto in una “materia prima secondaria”: si pensi, per es.,  alla sottoposizione di un rifiuto ad un trattamento di tipo chimico-fisico).

 

6. Il processo di “essicazione” e “sgusciatura” dei noccioli di albicocca secondo il parametro normativo delle trasformazioni preliminari.

 

Si è già osservato con riferimento alle attività di essicazione e sgusciatura - cui sono generalmente soggetti i noccioli di albicocca, prima di essere destinati all’industria dolciaria (che acquista le armelline) ed energetica (interessata invece ai gusci da impiegare come biomasse combustibili) – che la giurisprudenza (penale e amministrativa) italiana, come quella comunitaria, ritengono consentite dette operazioni sul residuo produttivo qualificato “sottoprodotto”, sin dall’origine (v. retro par. 5.2).

 

Occorre ora rinnovare tale verifica – sulla compatibilità di questi trattamenti (essiccazione e sgusciatura) con la nozione di “sottoprodotto”- in relazione al concetto di “trasformazioni preliminari”, come sopra delimitato, secondo la normativa nazionale e comunitaria, che, come ripetuto, ammette “trattamenti minimali” o “rientranti nella normale pratica industriale”.

 

I) Allo scopo vanno rammentate le modalità esecutive del trattamento dei noccioli consistenti, innanzi tutto, nella fase di essicazione.

 

Trattasi di un processo di disidratazione, del tutto naturale, affidato esclusivamente ad agenti atmosferici (sole e vento) che, con la loro azione, producono, quale unica conseguenza, l’evaporazione dell’acqua e quindi la riduzione del tenore d’umidità del nocciolo. In altri termini, la disidratazione dei noccioli (fino a raggiungere un tenore di umidità con valori intorno al 4-5%) non è il risultato di un’operazione praticata su detti materiali, quanto piuttosto la conseguenza automatica e tipica di un processo del tutto naturale.

In conclusione, detto fenomeno si realizza, perciò, senza alcun intervento “umano”di trattamenti o trasformazione dei nòccioli, ma come effetto di un fenomeno naturale solo agevolato e/o accelerato dall’uomo.

 

Le “trasformazioni”, ottenute sul materiale (di riduzione di umidità), non sono pertanto riconducibili a quelle previste art. 183 comma 1 lett. p) n. 4, le quali fanno pur sempre riferimento ad una attività di modifica sostanziale del materiale  volta a trasformare l’identità chimico-fisica e microbiologica del residuo produttivo per ottenerne una “materia prima secondaria” rispondente a predeterminati  requisiti merceologici e ambientali.

 

In definitiva,  la fase di essicazione non determina modifiche significative del nocciolo - che restano invariate – verificandosi  una semplice disidratazione dello stesso[13], né alcun effetto di impatto ambientale, nella misura in cui l’essicazione avviene del tutto “naturalmente”, in assenza di qualsiasi additivo chimico.

 

Inoltre, anche a ritenere il fenomeno di evaporazione come una situazione agevolata dall’intervento umano (a seguito dell’eventuale rimescolamento dei noccioli), deve comunque escludersi, nella prospettiva giuridica già approfondita, la ricorrenza, nella specie, di “una trasformazione preliminare” (cioè di un trattamento spinto che incide sull’identità merceologica e ambientale del materiale) vietata dalla norma ambientale.

 

La fase di essiccazione, si sostanzia, infatti, in un trattamento minimale, che avviene, di regola, mediante l’impiego di strumenti meccanici i quali non incidono direttamente sulla struttura-composizione dei noccioli ma si limitano ad accelerare il fenomeno naturale di essiccazione, rispondendo  piuttosto alla “normale pratica aziendale” delle imprese di settore (pratica che velocizza, come rilevato,  l’essicazione dell’armellina), nel senso  tecnico-giuridico previsto dall’art.5, par.1, lett. b), della direttiva 2008/98/CE cit.

II) Quanto alla fase di sgusciatura va osservato che, a differenza della prima, essa si risolve, comunque, in una semplice  operazione meccanica di “separazione” (del seme dell’albicocca dal guscio) .

 

Questo trattamento avviene, infatti, di solito ad opera di un macchinario che si limita a separare fisicamente il guscio (dei noccioli) dall’armellina, presente all’interno degli stessi, senza alcun intervento di trattamento chimico-fisico o altra forma di trasformazione “recuperatoria” del seme (che non perde né vede modificata la sua integrità/identità) o del guscio (che viene aperto, ma resta tal quale nella sua sostanza legnosa). Né, in genere, risulta impiegata, per tali operazioni di sgusciatura, alcuna sostanza chimica per favorire lo svolgimento di questa operazione che possa incidere sul guscio o sul seme.

 

In definitiva, le caratteristiche merceologiche e ambientali dei noccioli, di albicocca - composti da una parte legnosa (guscio) e da una parte interna commestibile (armellina) - a seguito della prassi descritta di lavorazione (molto diffusa), restano identiche e invariate anche a seguito della attività meccanica di sgusciamento.

 

Si tratta, in conclusione, di un “trattamento” meramente fisico, assai limitato, che non altera o modifica le caratteristiche d’origine dei nòccioli (involucro e armellina) e, per ciò stesso, si iscrive in quei trattamenti consentiti della “normale pratica industriale” secondo i richiamati orientamenti giurisprudenziali e nel rispetto della normativa vigente, interna e comunitaria (ex art.5, lett. b, della direttiva cit. sulla nuova, e più comprensiva, nozione di “sottoprodotto).

 

 

6. - Conclusioni

 

Alla luce delle considerazioni – tecniche e giuridiche – sinora esposte, è giuridicamente corretto rispondere al quesito giuridico prospettatoci, in esordio, affermando che:

 

- i noccioli di albicocca, che residuano dalla produzione di alimenti e bevande derivati della frutta (succhi, marmellate ecc.) - e destinati al duplice impiego presso imprese produttive di dolciumi o di energia rinnovabile da biomassa - possono essere qualificati giuridicamente come “sottoprodotti”, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. p) del D.lgs. n. 152/2006 e s.m.i., con le connesse conseguenze sotto il profilo delle modalità di gestione degli stessi, da considerare “merce” (“sottoprodotti”) e non rifiuti.

 

A tale conclusione si può e deve pervenire  in ragione:

 

1.      della loro origine, poiché scaturiscono, in modo continuativo, dal processo produttivo delle industrie conserviere -  non direttamente destinato alla loro produzione - come residui produttivi e non già quali “prodotti principali” dello stesso;

 

2.      della certezza di un loro impiego sicuro ed integrale e con destinazioni predeterminate, che potranno essere  comprovate dai contratti stipulati dalla impresa conserviera con le aziende destinatarie finali dei noccioli o con eventuali intermediatori commerciali;

 

3.      del valore economico che detti noccioli rivestono nel mercato e, precisamente, nell’ambito dei settori (i) dell’industria dolciaria, e (ii) delle energie rinnovabili” (ove si riscontra, da tempo, un fiorente e diffuso commercio di nòccioli);

 

4.      dei rispettivi requisiti merceologici e ambientali d’origine che ne consentono l’impiego nei cicli produttivi, cui sono destinati, senza la necessità di operare “trasformazioni preliminari e trattamenti preventivi” di tipo recuperatorio, e, in particolare, in considerazione dell’assenza di “trasformazioni preliminari”, prima del loro riutilizzo, non potendosi considerare tali le fasi di “essicazione” e “sgusciatura”, come solitamente svolte nella “normale pratica industriale”, poiché costituiscono operazioni di trattamento “minime”, consentite in base all’art. 183, novellato, del TUA, letto ed applicato alla luce dei più recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi in tema di “sottoprodotti”  ed in doverosa conformità al nuovo dettato dell’art.5, direttiva 2008/98/CE sui “sottoprodotti”

 

 

 

Prof. avv. Pasquale Giampietro                                                     Avv. Alfredo Scialò

 

 

 

 


[1] L’approdo ultimo di tale evoluzione si rinviene nella recente direttiva del 2008/98/CE del 19 novembre 2008 (in fase di recepimento) che ha introdotto formalmente ed espressamente, per la prima volta a livello comunitario, il concetto giuridico di “sottoprodotto”, definendolo, all’art. 5, come “una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione il cui scopo primario non è la produzione di tale articolo” e stabilendo che questo “può non essere considerato rifiuto … bensì sottoprodotto” a condizione che sia stato prodotto come parte integrante di un processo di produzione (lett. c) e che l’ulteriore utilizzo sia certo (lett. a), legale (deve cioè avere i requisiti tecnici per l’uso cui viene destinato e non deve arrecare pregiudizi all’ambiente o alla salute umana – lett. d) e non necessiti di trattamenti ulteriori rispetto alla normale pratica industriale (lett. b).

[2] Per una sintetica ma esaustiva panoramica sull’evoluzione giurisprudenziale in tema di sottoprodotti si veda, da ultimo, la recente sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV - 16 febbraio 2010, n. 888 (in www.giustizia-amministrativa.it), dove il Supremo Collegio, nell’affrontare la qualificazione giuridica dei residui del ciclo produttivo delle sanse vergini, passa in rassegna le principali pronunce della giurisprudenza comunitaria e nazionale in materia. In proposito si v. anche P. Fimiani, “La tutela penale dell’ambiente”, Giuffrè, 2008, pag. 102 e ss., dove l’elaborazioni dei giudici comunitari  in tema di sottoprodotti vengono esaminate in raffronto al percorso giurisprudenziale interno (sino alle pronunce dell’anno 2007), nonché (a cura di) P. Giampietro, La nuova gestione dei rifiuti, IL Sole 24 Ore, Milano, 2009, pag.45 e ss.

[3] Il termine integrale va peraltro inteso in senso oggettivo, e non temporale: il riutilizzo può essere anche differito nel tempo, purché sia certo (cfr., in tal senso, la Relazione “I crimini ambientali: rifiuti, paesaggio e violazioni urbanistiche”, di P. Fimiani in occasione dell’Incontro di studi sul tema, svoltosi in Roma, il 25/27 marzo 2009 presso la Nona Commissione formazione e Tirocini del Consiglio Superiore di Magistratura, rinvenibile sul sito del C.S.M.).

[4] In proposito, va, peraltro, evidenziato che, a seguito delle modifiche apportate all’art. 183, dal citato d.lgs. 4/2008, è stata ampliata la  discrezionalità riconosciuta agli operatori economici, in merito alle modalità con cui provare la certezza e l’integralità dell’utilizzo. Tale ampliamento è  frutto di una chiara ed esplicita volontà legislativa che, nel riformulare l’articolo 183 (con il citato decreto correttivo), non ha riprodotto la previgente prescrizione (di cui alla lett. n., penultimo periodo, dell’art. 183) la quale prevedeva l’obbligo di attestare la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo …tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell’impianto dove avviene l’effettivo utilizzo”. La scelta definitiva è stata, quindi, quella di non limitare gli strumenti probatori a disposizione degli operatori economici, vincolandoli all’utilizzo esclusivo di dette autocertificazioni.

Peraltro, la possibilità di provare, con ogni mezzo idoneo, la certezza dell’utilizzo, a seguito dell’abrogazione della suesposta previsione normativa viene riconosciuta anche in sede giurisprudenziale: si veda, in tal senso, la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione III Pen., del 10 luglio 2008, n. 35235, con la quale i giudici di legittimità nel cassare con rinvio una ordinanza del Tribunale di Terni che aveva escluso la qualificabilità come sottoprodotti di taluni scarti della lavorazione di pavimenti di linoleum, ha affermato che “il giudice del rinvio dovrà riesaminare la fattispecie tenendo conto dei principi prima esposti ed in particolare, ai fini della valutazione della prova del riutilizzo, non potendo più tenere conto dalla mancata adozione dell'autocertificazione, dovrà esaminare la documentazione prodotta dall'indagato a favore della propria tesi…” (in www.ambientediritto.it).

[5] In questi termini si è espresso P. Fimiani nella relazione “I crimini ambientali: rifiuti, paesaggio e violazioni urbanistiche”, (pag. 9, op.cit) rilevando, peraltro, che tale lettura della norma trova conferma nella “stessa definizione di sottoprodotto presente nella nuova direttiva n. 98/2008”.

[6] L’attuale definizione normativa di sottoprodotto, recata dall’183 comma 1, lett. p, n. 5, richiede che il residuo abbia un “valore economico di mercato”. In precedenza (prima delle correzioni apportate al T.U. ambiente dal d.lgs. 4/2008) tale condizione ricorreva per la sola ipotesi di commercializzazione, che doveva avvenire “ a condizioni economicamente favorevoli per l'impresa”. L’aver esteso, in modo generalizzato, detto requisito, sembra quindi valorizzare l’idoneità al riutilizzo e la sua oggettiva utilità per il produttore, verificabili sulla base di dati oggettivi e riscontrabili, quali elementi sintomatici del valore di mercato del sottoprodotto. Quest’ultimo, quindi, è condizione che non va riferita all’operazione nel suo complesso (anche uno smaltimento abusivo è economicamente conveniente), ma al sottoprodotto in sé considerato (come del resto si evince dalla sostituzione delle parole “ a condizioni economicamente favorevoli per l'impresa”, con l’esplicito riferimento al valore di mercato del sottoprodotto stesso, cioè del bene in quanto tale).

[7] Una definizione normativa di “trasformazioni preliminari” si rinveniva solo nell’originaria formulazione del T.U. ambiente, il cui articolo 183, comma 1, lett. n, (antecedente alle modifiche apportate dal secondo correttivo, ex  D.lgs. n. 4/2008) stabiliva che: “…. per trasformazione preliminare s’intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego”.

Tale definizione oggi è però venuta meno, a seguito dell’intervento del correttivo cit., il quale, nel riformulare l’art. 183, ha soppresso questa descrittiva, più dettagliata e severa, limitandosi a ribadire il divieto di effettuare detti trattamenti preventivi o trasformazioni  sui residui/sottoprodotti.

[8] La suesposta nozione di “trasformazione preliminare” riproduce l’orientamento espresso dapprima dai giudici dell’U.E., poi dalla Commissione e, infine, dal legislatore comunitario a favore di una nozione più lata e comprensiva di sottoprodotto che ne agevoli la individuazione e conseguentemente l’impiego, nei mercati interni e comunitari, anche grazie ad un “ampliamento delle operazioni (trasformazioni) preliminari consentite.

Le principali tappe di tale evoluzione possono essere sintetizzate: il primo intervento in materia da parte della giurisprudenza comunitaria si è avuto primo con la (ormai) nota sentenza “Palin Granit Oy” , nella quale la Corte, ha espressamente chiarito che “… un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di «disfarsi»..., ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari” (cfr. punto 34 - della sentenza cit.). Tale pronuncia – che pure ha avuto il merito di fornire una prima definizione di “sottoprodotto” e di far emergere, nella realtà giurisprudenziale, il tema critico della contrapposizione fra residuo-produttivo  e residuo-merce - non si è però soffermata su un esame esplicito e puntuale del concetto di “trasformazione preliminare”  anche se ha precisato gli ulteriori requisiti relativi alle modalità di gestione e di utilizzo dei sottoprodotti.

Un approccio interpretativo di rilevante apertura, verso il mercato del sottoprodotto si è registrato, successivamente, con pronunce del Giudice Comunitario nelle quali, affrontando tematiche economico-commerciali di notevole rilevanza, si è delineato, ex novo, lo statuto dei criteri fattuali e logico-giuridici su cui operare la distinzione fra rifiuto e sottoprodotto, su basi più realistiche e “sostenibili” per il mercato. Il riferimento è, in particolare, alla sentenza della Corte di Giustizia del 24 giugno 2008, causa C-188/07, in tema di olio pesante, sottoprodotto dalla distillazione, venduto a terzi per essere usato come combustibile, e dunque “commercializzato, a condizioni economiche vantaggiose, oggetto di una operazione commerciale, corrispondente a specifiche poste dall’acquirente”, (tale sentenza è pubblicata in Foro  italiano, 2008,  Parte quarta, colonna 401, con nota di V. Paone); si vedano anche l’Ordinanza 15 gennaio 2004, causa C – 235/2002, Saetti e Frediani, in Racc.  pag. I 1005, in materia di riutilizzo del coke da raffinazione di petrolio e le due  sentenze dell’8 settembre 2005, causa C- 416/2002 e C- 12/2003, sul letame spagnolo. Il testo integrale delle ultime due sentenze è reperibile all’indirizzo www.ambientesicurezza.ilsole24ore.com.

Successivamente, anche la Commissione dell’U.E. ha ripreso e condiviso  i menzionati orientamenti del giudice comunitario - sulla differenza fra le due categorie giuridiche e merceologiche di rifiuto e sottoprodotto – nella sua “Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti” del 21 febbraio 2007. Con tale documento, la Commissione ha optato, in specie, per la portata estensiva delle c.d. “trasformazioni preliminari” ritenute compatibili con la nozione di sottoprodotto, arrivando ad affermare l’ammissibilità di trattamenti  preventivi svolti anche da soggetti diversi, rispetto al produttore del materiale (che dunque resta sottoprodotto).

In particolare nella Comunicazione cit. si legge che “…. gli utilizzatori successivi e le aziende intermediarie possono partecipare alla preparazione del materiale per il suo utilizzo, svolgendo il tipo di operazioni descritte al punto 3.3.2”. Tale punto, a sua volta, afferma: “ […] dopo la produzione il sottoprodotto può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, […] “

“… Alcune operazioni sono condotte nel luogo di produzione del fabbricante, altre presso l’utilizzatore successivo, altre ancora sono effettuate da intermediari. Nella misura in cui tali operazioni sono parte integrante del processo di produzione non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto”.

[9] E, sostanzialmente, coincidenti con quelle ad oggi vigenti.

[10] Successivamente, in  data 20 ottobre 2010, il Parlamento ha espresso i propri pareri (favorevoli con condizioni e osservazioni) sullo Schema di D.lgs n.250 di recepimento della Direttiva 2008/98 relativa ai rifiuti”, che ritorna al Governo per la definitiva approvazione. L’art. 12 dello “Schema di decreto legislativo recante attuazione della Direttiva Rifiuti (n. 98/2008)”, titolato “Sottoprodotto”, riproduce il dettato dell’art. 5, della direttiva, in questi termini:

“ Dopo l’articolo 184 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152 sono inseriti i seguenti:  “Articolo 184-bis (Sottoprodotto)

Il Consiglio dei Ministri del 16 Aprile 2010 ha approvato lo schema di decreto con il quale sarà recepita tale direttiva; ai sensi del relativo art.12, la definizione di sottoprodotto dovrebbe venire così riformulata, nell’ambito di un nuovo art. 184-bis:

E’ un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:

a) la sostanza o l’oggetto è originata/o da un processo di produzione e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;

b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione /o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;

c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;

d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.

[11] Quanto alla nozione da ultimo evocata (di “normale pratica industriale”), in assenza di una chiara definizione normativa e giurisprudenziale, deve ritenersi che, con tale locuzione, si faccia riferimento al complesso delle fasi di produzione che, in via ordinaria, o meglio secondo una prassi tecnico-produttiva consolidata, caratterizzano un dato ciclo produttivo.  Così verranno ritenuti ammessi tutti quei trattamenti limitati cui è sottoposto anche il prodotto industriale (ottenuto con “materia prima”), dopo la sua produzione, per adeguarlo alle specifiche esigenze del mercato  cui è, in concreto, destinato (trattamenti, appunto, che rientrano nella “normale pratica industriale” e che non incidono sulla identità del prodotto industriale, come non incidono sul “sottoprodotto”)

[12] Per usare la terminologia del giudice comunitario che contrappone le operazioni di recupero “pieno” (con trasformazione del rifiuto in  materia prima secondaria)  alle operazioni “preliminari” o minimali, che non modificano il materiale o la sostanza (come nel caso del residuo- sottoprodotto). V. Corte di giustizia  15 giugno 2000, Arco, par. 96, della motivazione in Ambiente, n. 10/2000, pag. 94.

[13] A tal proposito, va evidenziato che una conferma (seppur priva di valenza normativa, per la perdita di efficacia dell’atto) circa l’ammissibilità di processi di evaporazione come quello di cui trattasi, si ricava dalla lettura del decreto emanato il 2 maggio 2006 dal Ministero dell’Ambiente, nell’ambito di uno dei 18 decreti attuativi del TUA, emanati nel maggio 2006, all’indomani dell’entrata in vigore del medesimo D.lgs. n. 152/2006, e poi caducato per ragioni formali. Nell’ambito di tale atto regolamentare era stata, infatti, indicata tra le altre operazioni preliminari di consentite per la qualifica delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti anche “l’attività di essiccazione  delle terre e rocce entrate in contatto con l’acqua, mediante stendimento al suolo ed evaporazione”. Ciò, a riprova del fatto che anche il Governo ha ritenuto (all’epoca) che la semplice essicazione e spandimento sul suolo, senza l’aggiunta di solventi e additivi chimici, non potesse in alcun modo alterare le originarie caratteristiche merceologiche e ambientali delle sostanze e materiali così trattate.