Tribunale di Venezia _ Sez. dist. Dolo Ord. 20 settembre 2006
Est. De Curtis Ind. Melinato ed altro
Rifiuti. Ceneri di pirite

Ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale dell'art. 183 lett. n) T.U. 152/2006 sul punto in cui specificamente sottrae le ceneri di pirite alla disciplina dei rifiuti
n. 20785/01 R.G.N.R.
n. 20013/05 R.G.



TRIBUNALE DI VENEZIA
Sezione Distaccata di Dolo


ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE
ex art. 134 Cost. e 23 L. 11.3.1953 n. 87



Il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, nella persona del giudice unico dott.ssa Alessandra De Curtis;
visti gli atti e i documenti del procedimento penale n. 20785/01 R.G.N.R. e n. 20013/05 R.G. promosso contro:

- MELINATO Elio, nato a Salzano (VE) il 2.1.1938
- SACCO Piergiorgio, nato a Serraalle Scrivia (AL) il 2.7.1942

OSSERVA QUANTO SEGUE

§ 1. Gli odierni imputati sono chiamati a rispondere nell’ambito del processo succitato dei reati di cui al decreto di citazione diretta emesso il 27.10.2004 avente ad oggetto (tra l’altro) ipotesi di violazione dell’art. 51 commi 1° e 5° e 51 bis del D.L.vo 22 del 1997 - trattasi dei capi a), d) ed e) dell’imputazione -.
La vicenda prende le mosse dal sequestro preventivo eseguito in data 22.3.2002 di un deposito di ceneri di pirite pari a circa un milione di tonnellate, sito in località Gambarare del Comune di Mira ed avente un’estensione di circa 80.000 mq., all’interno del quale la società Veneta Mineraria S.p.A., di cui era all’epoca legale rappresentante l’imputato Piergiorgio Sacco, e Melinato Elio, titolare dell’omonima ditta individuale, avrebbero effettuato, in assenza o sulla scorta di un’autorizzazione comunque scaduta di validità, a mente di quanto previsto dall’art. 57 D.L.vo 22/1997, attività di gestione di rifiuti pericolosi espletando, su tale discarica non più attiva, realizzata negli anni ’70, la messa in riserva di tali rifiuti in vista del loro avvio a recupero presso cementifici.
Sempre in assenza della prescritta autorizzazione avrebbero altresì utilizzato nell’ambito della discarica, in attività di recupero ambientale, rifiuti inerti provenienti da demolizioni edili.
Detta attività di gestione e messa in riserva sarebbe stata espletata in violazione del citato decreto legislativo senza che fossero adottate le forme di tutela atte ad assicurare l’integrità dell’ambiente. L’area sarebbe infatti stata sottoposta ad attività di escavazione con conseguente esposizione dei rifiuti pericolosi agli agenti atmosferici ed al dilavamento, senza che fossero stati adottati presidi idonei ad intercettare le acque di percolazione, dal che ne sarebbe derivata una grave compromissione dei terreni confinanti delle falde acquifere sotterranee e dell’area lagunare circostante.
Nell’ambito della predetta attività gli odierni imputati avrebbero altresì ottenuto dalla Provincia di Venezia autorizzazione a miscelare le ceneri di pirite del deposito con altro materiale sempre a base di ceneri di pirite, attività condotta in violazione del disposto di cui agli artt. 2 comma 2° e 9 comma 2° D.L.vo 22/1997, in quanto eseguita con modalità tali da determinare pericolo per la salute dell’uomo e per l’integrità dell’ambiente: attraverso detta attività di miscelazione veniva effettuata una prolungata esposizione delle ceneri al dilavamento delle acque meteoriche che avrebbe provocato i gravi danni ambientali sopra indicati.
Gli imputati avrebbero infine omesso di procedere alla bonifica dei terreni circostanti la discarica pur avendo cagionato, o comunque incrementato, con le condotte sopra descritte l’inquinamento di tali aree.
Il processo, nel corso del quale si sono costituite parti civili la Provincia di Venezia, il Comune di Mira nonché i proprietari di uno dei fondi confinanti con il deposito, è in fase decisoria, essendo stato dichiarato chiuso il dibattimento.
§ 2. Il quadro normativo di riferimento.
Orbene, com’è noto, il quadro normativo di riferimento per le fattispecie di reato in oggetto è mutato sia a livello nazionale che comunitario.
Il 29 aprile del corrente anno è infatti entrato in vigore il decreto legislativo 3.4.2006 n. 152 recante “Norme in materia ambientale” che ha inteso riordinare, tra l’altro, nella sua parte quarta, la materia della gestione dei rifiuti e della bonifica dei siti contaminati, con conseguente espressa abrogazione dell’intero decreto legislativo 5.2.1997 n. 22 (v. art. 264 lett. i D.L.vo 152/2006). I fatti di reato contestati agli imputati vanno dunque sussunti sotto le disposizioni sanzionatorie del nuovo testo, in particolare per il capo a) va richiamato l’art. 256 comma 1° e per il capo d) il comma 5° dello stesso articolo atteso che il tenore delle norme incriminatrici coincide completamente con quello del testo previgente (art. 51 D.L.vo 22/97), fatto salvo un leggero ritocco alle pene pecuniarie. Quanto al reato sub e) va invece rilevato che la fattispecie di reato originariamente prevista dall’art. 51 bis vecchio testo subisce un’immutazione rilevante, essendo stato introdotto come ulteriore nuovo elemento costitutivo del reato il superamento delle concentrazioni soglia di rischio, non previsto dalla precedente disciplina (art. 257 D.L.vo 152/2006).
Sulla Gazzetta Ufficiale europea del 27.4.2006 n. 114 è stata frattanto pubblicata la direttiva 2006/12/CE, entrata in vigore il 17.5.2006, che sostituisce ed abroga la precedente direttiva 75/442/CEE e le sue successive modifiche. Tale nuova direttiva costituisce dunque il nuovo punto di riferimento normativo per il trattamento dei rifiuti nell’ambito dell’Unione Europea e riproduce sostanzialmente invariati i precetti, le definizioni e le nozioni del precedente assetto normativo.
Sono dunque queste le disposizioni legislative che questo giudice è chiamato ad applicare nel presente procedimento.
§ 3. Il sottoprodotto.
La nuova direttiva comunitaria all’art. 1 comma 1° lett. a) definisce rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”.
Analoga definizione è contenuta nel nuovo testo nazionale all’art. 183 comma 1° lett. a): è rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. Il decreto legislativo contiene altresì allo stesso articolo le definizioni di sottoprodotto e di materia prima secondaria, che invece non vengono contemplate nella direttiva. Per quanto è qui di interesse alla lett. n) del citato articolo vengono definiti sottoprodotto “i prodotti dell’attività dell’impresa che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo”. Nell’ambito della medesima lettera viene poi stabilito che tali prodotti sono sottratti alla normativa sui rifiuti a condizione che si tratti di “sottoprodotti di cui l’impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi, e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare i sottoprodotti impiegati direttamente dall’impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa direttamente per il consumo o per l’impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo” … “L’utilizzazione del prodotto dev’essere certa e non eventuale.” … “L’utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive”. Senonché nel corpo di tale lettera n) vengono altresì prese in espressa considerazione – nel quarto periodo - proprio le ceneri di pirite, particolare categoria di sottoprodotto non soggetto alle disposizioni sui rifiuti, definite “polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, arre industriali e non, anche se sottoposte al procedimento di bonifica o ripristino ambientale”.
Dal tenore complessivo dell’art. 183 lett. n) D.L.vo 152/2006 emerge dunque che quando un residuo produttivo:
1) proviene da attività di impresa (e dunque non di consumo)
2) scaturisce dall’attività produttiva in via continuativa (cioè come un materiale tipico di quella produzione)
3) non viene abbandonato dall’impresa (che dunque non se ne disfa)
4) lo reimpiega direttamente oppure lo commercializza a condizioni per lei economicamente favorevoli e
5) senza attività preliminare di trasformazione (che cioè “faccia perdere al prodotto la sua identità”
6) viene effettivamente e certamente riutilizzato in altro ciclo produttivo (circostanza che deve essere attestata con dichiarazioni scritte delle imprese di partenza e di arrivo)
7) il suo utilizzo non comporta per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle legate alle normali attività produttive
tale residuo non è più rifiuto.
E’ stato osservato dai primi commentatori del nuovo decreto legislativo che la definizione di sottoprodotto di cui all’art. 183 sostituirebbe il noto art. 14 D.L. 8.7.2002 n. 138 convertito in L. 8.8.2002 n. 178, già oggetto di aspre critiche e di plurimi rilievi di sospetta incostituzionalità per l’inopinata restrizione della nozione comunitaria di rifiuto. Con riferimento alle questioni di legittimità costituzionale già sollevate ci si limita a rinviare all’ordinanza della Consulta n. 288 del 3.7.2006 con la quale è stata disposta la restituzione degli atti ai giudici a quibus ai fini di una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate alla luce dello ius superveniens. Preme tuttavia qui precisare che i rilievi che nel prosieguo del presente provvedimento verranno formulati attengono non tanto alla portata ed agli effetti della nozione generale di sottoprodotto introdotta da legislatore già con l’art. 14 del D.L. 2002/138 e in qualche modo riproposta dall’art. 183 D.L.vo 152/2006 (seppure in termini più precisi e puntuali), quanto piuttosto alla riconducibilità delle ceneri di pirite alla nozione di sottoprodotto nell’accezione che ne viene data a livello comunitario dalla Corte di Giustizia, alla luce della direttive di riferimento in tema di rifiuti.
La categoria dei sottoprodotti ha invero trovato ingresso anche nell’ambito della giurisprudenza comunitaria, la quale con la sent. sez. VI, 18.4.2002, n. C-9/00, Palin Granit Oy ha per la prima volta introdotto il concetto di sottoprodotto limitandolo però, tenuto conto del noto principio di interpretazione estensiva della nozione di rifiuto, al caso di riutilizzo certo di un bene o materiale, senza trasformazione preliminare, nel corso del processo di produzione. Nella successiva sent. 11.9.2003 C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy viene sostanzialmente ribadito il medesimo principio: laddove la utilizzazione dei residui non è necessaria nel processo di produzione, se per sfruttare o commercializzare i residui stessi in maniera diversa è necessaria una loro trasformazione preliminare, si tratta di rifiuti di cui il detentore si disfa. La sentenza del 11.11.2004 in C- 457/02, Niselli, ribadisce al punto 33 che “l’ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del verbo <>. Esso deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442, che, ai sensi del suo terzo ‘considerando’, è la tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti…”. Al successivo punto 34 evidenzia come “la direttiva 75/442 non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale. In mancanza di disposizioni comunitarie, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario”. Al punto 44 afferma “Può tuttavia ammettersi un’analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di disfarsi ai sensi dell’art. 1 lett. a) primo comma della direttiva 75/442 …”. Al punto 45 chiarisce i limiti dell’apertura: “Tuttavia, tenuto conto dell’obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti ed i danni inerenti alla loro natura”, il ricorso alla figura del sottoprodotto “dev’essere circoscritto alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale ma certo senza previa trasformazione e avvenga nel corso del processo di produzione”. Al punto 46 ribadisce che il bene non deve essere sottoposto ad “operazioni di trasformazione preliminare”.
Vi sono stati tuttavia due successivi arresti della Corte di Giustizia con la decisioni del 8.9.2005, in cause C – 416/02 e C-121/03 pronunciate tra l’altro ex art. 226 del Trattato (procedure di contestazione della Commissione) e non ex art. 234 (pronuncia su questione pregiudiziale) nelle quali ha ritenuto che residui dell’attività zootecnica accumulati dall’impresa in attesa di un successivo utilizzo avrebbero potuto essere utilizzati anche “per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l’ha prodotto”. Sarebbe dunque sottoprodotto e non rifiuto anche il residuo produttivo destinato dal suo produttore a terzi, cioè all’esterno dell’impresa che lo ha generato. Va peraltro ricordato che tali ultime due pronunce sono state precedute da un’ordinanza del 15.4.2004 in causa C-235/02, Saetti Frediani nella quale la Corte di Giustizia ha enunciato il principio (punto 48) secondo cui un residuo di produzione (nella fattispecie si trattava del coke da petrolio di Gela) utilizzato con certezza “per il fabbisogno di energia della stessa impresa produttrice e di altre industrie non costituisce rifiuto ai sensi della direttiva de Consiglio 15.7.1975 n. 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del consiglio 18.3.1991 n. 91/156/CEE”.
Dunque, in queste decisioni sembrerebbe ravvisarsi una ulteriore apertura del giudice comunitario del concetto di sottoprodotto nel senso di una sua estensione all’ipotesi di utilizzo del residuo di produzione da parte di soggetti terzi rispetto all’impresa produttrice.
§ 4. Le ceneri di pirite.
Tale essendo il panorama giurisprudenziale a livello comunitario, e’ bene a questo punto evidenziare come all’esito del dibattimento è emerso che le ceneri di pirite costituiscono il necessario ed inevitabile residuo del procedimento industriale di fabbricazione dell’acido solforico. Tale sostanza, fin dai primi anni del secolo scorso, è stata utilizzata su larga scala per la preparazione dei concimi chimici (perfosfati) destinati all’agricoltura; essa, più in generale, rappresenta inoltre uno dei più importanti prodotti intermedi di tutta l’industria chimica di base. L’acido solforico veniva ottenuto attraverso il c.d. arrostimento del minerale pirite in forni speciali a seguito del quale il residuo solido che ne derivava era costituito, appunto, dalla cenere di pirite. Negli anni che hanno preceduto il secondo conflitto mondiale furono realizzati in Italia circa cento stabilimenti di varia potenzialità per la produzione di acido solforico a partire dalle piriti. Solamente verso i primi anni ’70 la materia prima pirite è stata sostituita dallo zolfo - proveniente dalla desolforazione dei gas naturali e dei prodotti petroliferi - che è divenuto l’ingrediente di base per la produzione dell’acido solforico attraverso l’impiego di una diversa tecnologia. Si possono così trovare ancora oggi depositi (più o meno controllati) di queste ceneri in varie zone del Paese (si v. la consulenza tecnica della difesa di Sacco Piergiorgio). Anche il deposito di Gambarare di Mira rientra in questo generale quadro storico, poiché è emerso che esso è stato attivo sino ai primi anni ’70, quando è stato definitivamente messo in sicurezza mediante ricopertura dei cumuli di cenere con uno strato di terra successivamente piantumata. Solo dopo un ventennio, e precisamente a partire dal 1994, il deposito è stato riaperto e coltivato da parte della società Veneta Mineraria S.p.A. che aveva appaltato a Melinato Elio i lavori materiali di movimentazione delle ceneri ed il loro conseguente carico su camion per il successivo conferimento del materiale a cementifici italiani ed esteri.
Questi ultimi rappresentano i destinatari “naturali” delle ceneri di pirite, poiché dette polveri sono ricche di ossidi di ferro che costituiscono un additivo fondamentale nella produzione del cemento. Tale pratica di utilizzo risale agli inizi del secolo scorso e si protrae tutt’oggi. Le ceneri vengono mescolate tal quali, senza alcun trattamento preventivo (rectius: senza alcuna attività preliminare di trasformazione nel senso previsto dall’art. 183 L. cit.) alle altre materie prime e successivamente la miscela (c.d. farina) viene inserita in speciali forni la cui temperatura viene spinta oltre i 1400 gradi C.; il materiale così ottenuto, dopo essere stato raffreddato, viene macinato e prende il nome di cemento.
§ 5. Il contrasto dell’art. 183 lett. n), quarto periodo, D.L.vo 152/2006 con gli artt. 11 e 117 Cost.
Fatta questa doverosa premessa per meglio inquadrare il fenomeno, appare subito chiara una caratteristica del residuo produttivo ceneri di pirite: esse non derivano da un processo produttivo attuale ma derivano sempre da attività industriali non più esistenti da anni, tanto da essere le stesse raccolte, come reca lo stesso art. 183 lett. n) D.L.vo 152/2006, in stabilimenti “dismessi” od in aree di diverso tipo (“industriali e non”), segno evidente del fatto che le ceneri sono state nel corso degli anni accantonate in svariate località e con le più diverse modalità e non più utilizzate. Il legislatore italiano “fotografa” la problematica connessa a tale tipo di materiale che presenta la peculiarità “storica” appena evidenziata: così facendo però abbandona completamente uno di principali cardini della normativa comunitaria vigente in materia di rifiuti rappresentata dal concetto di “disfarsi”: quando il produttore e/o detentore “si disfa” di un determinato residuo produttivo e non lo reimpiega o lo commercializza, allora si ha necessariamente un rifiuto e non un sottoprodotto (art. 1 comma 1 lettera a) della direttiva 2006/12/CE). Stabilire che un residuo va considerato sottoprodotto da sottrarre alla disciplina dei rifiuti a prescindere dal fatto che l’impresa produttrice se ne è già disfatta è operazione che contrasta con il diritto comunitario.
E’ agevole prevedere l’obiezione che tale ragionamento risulta viziato all’origine poiché assume a punto di riferimento il produttore originario e non l’attuale detentore, che spesso si trova – come nella vicenda per cui è processo – a gestire tali depositi per sfruttare commercialmente dette ceneri ed alienarle a cementifici: tale argomentazione è suggestiva, tuttavia va sempre tenuto presente che il criterio in base al quale adottare l’interpretazione più corretta in materia di rifiuti è quello di non pregiudicare l’efficacia del diritto comunitario che in questo settore si basa sul generale principio di interpretazione estensiva della nozione di rifiuto per tutelare la salute umana e l’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito di tali materiali. Del resto, la stessa normativa nazionale pone a base della disciplina generale dei sottoprodotti l’impresa che li produce, facendo riferimento ad essa per tutto quanto concerne i presupposti (elencati al § 3) che debbono ricorrere per sottrarre il sottoprodotto stesso alla disciplina della parte quarta del D.L.vo 152/2006.
In quest’ottica non sembra avere pregio neppure l’ulteriore rilievo secondo cui tali accumuli di ceneri di pirite distribuiti sul territorio (compreso quello oggetto del presente procedimento) non sarebbero mai stati “abbandonati” nel senso giuridico del termine dal produttore originario, essendo il residuo stato oggetto, negli anni in cui si produceva l’acido solforico, di conferimenti ai cementifici “a piè di impianto” e che solo il surplus di produzione ne avrebbe determinato l’accantonamento in previsione di un loro futuro utilizzo. Va infatti evidenziato il dato fattuale (recepito puntualmente dal legislatore nazionale laddove menziona “stabilimenti dismessi” ed “aree industriali e non”) che tale accantonamento, raccolta, allocazione che dir si voglia di questi materiali è assai risalente nel tempo (almeno trent’anni): tale aspetto non fa dunque che sottolineare come per un lungo intervallo temporale l’utilizzo di tali ceneri non fosse affatto certo o probabile, e che le decisioni sul suo destino non fossero così scontate. E’ dunque questo il dato obiettivo che dev’essere preso in considerazione che non fa altro che sottolineare come la normativa di cui si intende qui chiedere lo scrutinio costituzionale pare porsi in contrasto non solo con il requisito del “non disfarsi” del residuo da parte del produttore originario (cosa che invece avviene nel momento in cui egli raccoglie il materiale in una determinata area che viene quindi chiusa o messa in sicurezza e lì lasciata per anni), ma anche con l’ulteriore requisito dell’utilizzo certo ed effettivo del residuo produttivo nella fase in cui questo viene alla luce (dovendosi come già detto farsi riferimento al produttore originario), come invece è stato più volte evidenziato dalla giurisprudenza comunitaria.
Non solo: l’art. 183 lett. n) nella parte in cui dispone la deroga alla parte quarta del D.L.vo 152/2006 per le ceneri di pirite “anche se sottoposte a bonifica o ripristino ambientale” appare in contrasto con il principio generale secondo cui l’utilizzo di un sottoprodotto deve avvenire senza che ciò arrechi pregiudizio per l’ambiente e la salute (art. 4 direttiva 2006/12/CE). Infatti, se le ceneri sono sottoposte a bonifica o ripristino ambientale è probabile che il materiali raccolti possano essere contaminati e dunque pericolosi per l’uomo o per l’ambiente.
In conclusione, si ritiene che la disposizione in oggetto - art. 183 lett. n), quarto periodo, D.L.vo 152/2006 - per le considerazioni sopra esposte contrasti con gli artt. 11 e 117 della Costituzione. Con l'art. 11 Cost., laddove questo stabilisce che lo Stato italiano deve osservare la limitazione di sovranità derivante dalla sua partecipazione a ordinamenti internazionali, quale quello della Comunità europea e con l’art. 117 comma 1 Cost., come novellato dalla L. cost. 18.10.2001 n. 3, che nel suo primo comma impone allo Stato di esercitare la sua potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.
Sotto tale profilo occorre sottolineare che ai sensi dell’art. 130 R n. 2 del Trattato CE (divenuto in seguito a modifica, art. 174 n. 2 CE) la politica della Comunità in materia ambientale mira ad un elevato livello di tutela ed è fondata sui principi, in particolare, della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio di correzione, anzitutto alla fonte dei danni causati all’ambiente nonché sul principio “chi inquina paga”. Dunque il legislatore italiano nell’introdurre nell’ordinamento giuridico interno una norma in contrasto con tali principi e con la direttiva sopra citata ha altresì violato il generale obbligo di leale cooperazione di cui all’art. 10 (ex art. 5) del Trattato CE laddove viene previsto che “gli Stati si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente trattato”.
§ 6. Il ricorso alla Corte Costituzionale.
Tanto premesso, si ritiene che lo strumento più corretto per giungere ad eliminare ai fini del decidere tale contrasto tra norma interna e norma comunitaria e, dunque, il conseguente contrasto con le norme della Costituzione sia il ricorso al giudice delle leggi.
Non si possono infatti condividere le considerazioni dell’accusa secondo cui, ricorrendo tale antinomia, il giudice nazionale è ammesso comunque a disapplicare la norma interna in favore di quella comunitaria. E’ stato infatti sostenuto in questa sede che la direttiva 75/442 e succ. mod. e la direttiva 2006/12 debbono considerarsi a tutti gli effetti come direttive autoapplicative, quantomeno sotto il profilo della nozione di rifiuto: la controprova di tale assunto risiederebbe nel fatto che la definizione di rifiuto è stata infatti recepita dal legislatore nazionale del 1997 prima e del 2006 dopo ricalcando pedissequamente la norma comunitaria. Questo è in realtà un argomento che prova troppo: invero non risulta che le direttive in questione attribuiscano in via chiara e diretta diritti in capo ai cittadini sicchè esse hanno la necessità di essere fedelmente recepite dagli ordinamenti nazionali per diventare efficaci nei confronti dei soggetti intrastatali.
Sul punto si fanno comunque proprie le osservazioni cui è pervenuta la recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, sez. III, con la recente ordinanza n. 1414 del 16.1.2006: la possibilità di procedere alla disapplicazione di una norma nazionale in quanto ritenuta incompatibile con il diritto comunitario è possibile solo nella misura in cui la norma di diritto comunitario abbia efficacia e diretta applicazione nell’ordinamento giuridico dello Stato membro, cosa che avviene esclusivamente nel caso: 1) di alcune norme del Trattato CE, 2) dei regolamenti, 3) di alcuni tipi di direttive precise e non condizionate per la loro applicazione ad alcun provvedimento ulteriore e, infine, 4) delle decisioni rivolte ai singoli o agli stati membri. Ciò vale a maggior ragione per le pronunce della Corte di giustizia emanate in tema di sottoprodotti e sopra richiamate: la sentenza della Corte emanata ai sensi dell’art. 234 del Trattato è sentenza interpretativa, vincolante solo per il giudice rimettente e ovviamente non ha alcun effetto caducatorio sulla norma nazionale; in altri termini si può dire che l’interpretazione della norma comunitaria resa dalla Corte di Giustizia ha la stessa efficacia delle disposizioni interpretate (v. Corte Cost. sent. 11.7.1989 n. 389) sicché nel caso di specie trattandosi di norme contenute in direttive classiche, gli effetti della sentenza non potranno mai riverberarsi automaticamente al di fuori del procedimento nell’ambito del quale essa è stata pronunciata.
Deve infine essere affrontata la questione degli effetti in malam partem di una eventuale sentenza di accoglimento della Consulta. In realtà, come è già stato osservato in occasione di analoghe ordinanze di rinvio alla Corte nell’ambito della medesima materia, la eventuale caducazione della norma più favorevole al reo, qual è quella contenuta nell’art. 183 lett. n) c.p.p. in tema di ceneri di pirite non comporterebbe una violazione del principio di irretroattività della norma penale previsto dall’art. 25 comma 2 Cost.: invero, da un lato la pirite doveva infatti qualificarsi senza dubbio come rifiuto quantomeno all’epoca del sequestro dell’area avvenuto il 22.3.2002, non essendo ancora stato emanato all’epoca l’art. 14 D.L. 8.7.2002 n. 138 poi convertito, recante un’interpretazione autentica e restrittiva della nozione di rifiuto e dall’altro lato l’art. 51 D. L.vo 22/1997 era già entrato in vigore prima dei reati contestati. Inoltre l’accoglimento della questione potrebbe incidere comunque sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e si rifletterebbe comunque sullo schema argomentativo della motivazione della sentenza (cfr. ex plurimis: sent. Corte Cost. n. 148 del 1983).
§ 7. Rilevanza e non manifesta infondatezza della questione.
Sul secondo requisito si rimanda a quanto sopra esposto. La rilevanza nel presente processo è infine indubitabile poiché tre capi dell’imputazione (a, d ed e) presuppongono la riconducibilità delle condotte poste in essere in tesi accusatoria dagli imputati alle norme incriminatrici originariamente contenute negli artt. 51 e 51 bis del D.L.vo n. 22 del 1997 poi trasposte negli artt. 256 e 257 del D.L.vo 152/2006.
P.Q.M.
visti gli artt. 134 Cost. e 23 L. 11.3.1953 n. 87
DICHIARA
d’ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 183 lett. n) quarto periodo D.L.vo 152/2006 nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del citato decreto legislativo, per violazione degli artt. 11 e 117 comma 1° della Costituzione.
DISPONE
la trasmissione degli atti del procedimento alla Corte Costituzionale e
SOSPENDE
il giudizio in corso.
DISPONE
altresì che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti al pubblico ministero, al Presidente del Consiglio dei Ministri al Presidente della Camera dei Deputati ed al Presidente del Senato della Repubblica.
Dolo, 20.9.2006
IL GIUDICE
dott.ssa Alessandra De Curtis