Cass. Sez. III n. 19161 del 8 maggio 2015 (Ud 12 nov 2014)
Pres. Fiale Est. Gentili Ric. Cardigliano
Rumore.Responsabilità conseguente all'abbaiare di cani randagi

Seppure si volesse ritenere che, al di là dell'effettivo raggiungimento della prova, potrebbe essere ragionevolmente opinato che la presenza di un numero considerevole di cani randagi possa far sì che gli stessi, privi di controllo, determinino con il loro abbaiare, la lesione del bene tutelato dalla disposizione che si ritiene violata, dovrebbe essere dimostrata l'esistenza in capo all'imputato del dovere giuridico di impedire l'evento, posto che l'art. 659 cod. pen. non sanzione la condotta di chiunque non impedendo gli strepiti degli animali, disturbi le occupazioni o il riposo delle persone, ma solamente la condotta di chi, avendo il dovere giuridico di farlo, non impedisca quanto sopra. Tale dovere può discendere solo da un rapporto di diretta e tendenzialmente stabile relazione con le bestie in questione, corrispondente, se non ad un rapporto proprietario, quantomeno ad una relazione possessoria o di detenzione, ma non certamente ad un vincolo di tipo assolutamente precario quale può essere quello connesso alla sola somministrazione del cibo a scopo lato sensu assistenziale.

RITENUTO IN FATTO

C.M.E. ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore di fiducia, avverso la sentenza, pronunziata in data 22 marzo 2010, ma le cui motivazioni sono state depositate solo in data 12 marzo 2013, con la quale il Tribunale di Lecce, Sezione distaccata di Casarano, dichiarata la sua penale responsabilità in ordine al reato di cui all'art. 659 c.p., comma 1, la ha condannata alla pena di giustizia, oltre che al risarcimento del danno civile patito dalle costituite parti civili, da liquidarsi in separato giudizio, ed alla rifusione delle spese di giudizio affrontate da queste ultime.

In particolare il Tribunale adito aveva rilevato che dalla istruttoria dibattimentale era emerso che la C. - originariamente imputata unitamente ad altri due suoi familiari risultati estranei ai fatti e, pertanto, mandati assolti del giudice salentino - era solita sfamare presso la propria abitazione taluni cani randagi che poi scorrazzavano per la pubblica via creando disagio ai residenti della zona.

I testi sentiti avevano anche dichiarato che in passato c'erano stati degli interventi del personale della Azienda sanitaria competente per territorio che aveva invitato la C., qualificatasi come proprietaria dei cani, a limitare i disagi per vicini e passanti causati dalla presenza di numerosi cani nelle vicinanze della abitazione di quella.

Come detto ha proposto ricorso per cassazione la imputata deducendo la violazione di legge da parte del Tribunale, in particolare avendo questo ritenuto sussistere la sua penale responsabilità ai sensi dell'art. 659 cod. pen., sebbene a carico della C., che non è la proprietaria dei cani in questione, non sussistesse alcun dovere di vigilanza sulle predette bestie.


CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso così come proposto è fondato e deve essere, pertanto, accolto, non risultando integrati, sulla base delle prove esaminate in giudizio, i profili del reato contestato alla ricorrente.

Osserva, infatti, la Corte come l'art. 659 cod. pen. preveda al proprio comma 1, fra l'altro, la censurabilità penale del comportamento di chi, non impedendo strepiti di animali, disturbi le occupazioni od il riposo delle persone.

Come si può agevolmente rilevare dalla analisi della norma indicata, sia prendendo in considerazione la ipotesi ora contestata alla ricorrente che esaminando le altre forme di manifestazione penalmente rilevante del medesimo reato, esso è volto a tutelare l'ordine e la tranquillità pubblica dalla aggressione, particolarmente diffusa ed insidiosa, che è ad essa mossa dalla presenza di rilevanti fonti sonore.

Trattasi, pertanto, di un reato in relazione al quale non acquista rilevanza penale qualsiasi forma di disturbo del riposo e delle occupazioni delle persone, essendo esso volto a reprimere quella particolare tipologia di molestia che deriva dall'inquinamento acustico.

Attesa la specificità della forma di manifestazione del reato in questione, esso non può sussistere, in ossequio al principio di tassatività delle fattispecie penali, laddove le molestie siano arrecate per cause diverse dalla presenza di immissioni sonore, sia pur cagionate nei vari modi descritti dalla disposizione la cui violazione è stata in ipotesi contestata.

Nel caso di specie, alla luce di quanto accertato all'esito della istruttoria, alla C. è attribuito il fatto di avere sfamato taluni cani randagi che, una volta cibatisi, si allontanavano dalla abitazione della imputata, rimanendo, verosimilmente, nelle vicinanze, in tal modo cagionando con la loro presenza, disagi per gli abitanti delle strade viciniori.

Emerge, pertanto, che, al di là della formale contestazione, la quale richiama il mancato impedimento degli strepiti di detti animali, il fatto accertato a carico della prevenuta prescinde del tutto dalla intervenuta prova della esistenza di tali strepiti, avendo il giudice del merito - verosimilmente sulla base della erronea convinzione che la previsione del reato in questione sia volta anche alla tutela della sicurezza pubblico - ritenuto la sussistenza dell'illecito solo sulla base dell'accertamento della presenza di numerosi cani randagi in un certo luogo, fattore questo, di per sè forse idoneo a mettere a potenziale repentaglio la sicurezza pubblica, dato l'insito pericolo che la presenza di numerosi cani randagi può determinare per la incolumità fisica dei singoli, ma certamente non idoneo a integrare il reato contestato alla C., che, come si è detto impone, ai fini della sua ricorrenza, che la molestia alla quiete pubblica sia conseguenza di rumori e non di altro.

Va d'altra parte osservato che seppure si volesse ritenere che, al di là dell'effettivo raggiungimento della prova, potrebbe essere ragionevolmente opinato che la presenza di un numero considerevole di cani randagi possa far sì che gli stessi, privi di controllo, determinino con il loro abbaiare, la lesione del bene tutelato dalla disposizione che si ritiene violata, dovrebbe essere dimostrata l'esistenza in capo alla prevenuta del dovere giuridico di impedire l'evento, posto che l'art. 659 cod. pen. non sanzione la condotta di chiunque non impedendo gli strepiti degli animali, disturbi le occupazioni o il riposo delle persone, ma solamente la condotta di chi, avendo il dovere giuridico di farlo, non impedisca quanto sopra.

Tale dovere può discendere solo da un rapporto di diretta e tendenzialmente stabile relazione con le bestie in questione, corrispondente, se non ad un rapporto proprietario, quantomeno ad una relazione possessoria o di detenzione, ma non certamente ad un vincolo di tipo assolutamente precario quale può essere quello connesso alla sola somministrazione del cibo a scopo lato sensu assistenziale.

Il Tribunale di Lecce ha presupposto l'esistenza di tale stabile relazione in assenza di alcun elemento indicatore, posto che lo stesso giudice di prime cure ha riscontrato che la condotta della C. si limitava alla somministrazione del cibo alle bestie randagie che, una volta sfamate, uscivano dalla disponibilità della prevenuta.

Nè può ritenersi che vi sia altro dato da cui desumere il fatto che i cani in questione appartenessero alla ricorrente, atteso che le dichiarazioni in tal senso rese dai testi escussi fanno riferimento a quanto a sua volta dichiarato dal personale della Azienda sanitaria;

tali dichiarazioni, però, essendo de relato, potrebbero essere utilizzabili nei soli limiti di cui all'art. 195 cod. proc. pen., comma 3 i cui estremi non risultano ricorrere nel caso in esame.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata perchè il fatto non sussiste.

La più ampia formula assolutoria adottata travolge, ai sensi dell'art. 574 c.p.p., comma 4, anche le statuizioni prese dal giudice di primo grado in punto di condanna al risarcimento del danno civile e di regolamento delle spese civili del giudizio di primo grado.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.
Revoca le statuizioni civili.
Così deciso in Roma, il 12 novembre 2014.