Cass. Sez. III n. 37608 del 18 ottobre 2021 (UP 9 giu 2021)
Pres. Lapalorcia Est. Andronio Ric. Costagliola
Urbanistica.Sequestro immobile abusivo

In tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva integra i requisiti della concretezza ed attualità del pericolo indipendentemente dall’essere l’edificazione ultimata o meno, perché il rischio di offesa al territorio e all’equilibrio ambientale perdura in stretta connessione con l’utilizzazione della costruzione ultimata, a prescindere dall’effettivo danno arrecato al paesaggio e dall’incremento del carico urbanistico. Inoltre, in tema di reati edilizi o urbanistici, la valutazione che, al fine di disporre il sequestro preventivo di manufatto abusivo, il giudice di merito ha il dovere di compiere in ordine al pericolo che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato possa agevolare o protrarre le conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri reati, va diretta in particolare ad accertare se esista un reale pregiudizio degli interessi attinenti al territorio o una ulteriore lesione del bene giuridico protetto (anche con riferimento ad eventuali interventi di competenza della p.a. in relazione a costruzioni non assistite da concessione edilizia, ma tuttavia conformi agli strumenti urbanistici) ovvero se la persistente disponibilità del bene costituisca un elemento neutro sotto il profilo dell’offensività

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 28 gennaio 2021, il Tribunale di Latina ha rigettato l’istanza di riesame ex art. 322 cod. proc. pen., proposta nell’interesse dell’indagato Costagliola Vincenzo, in proprio e nella qualità di amministratore unico della società “Vela 2000 di Costagliola Vincenzo e C. s.a.s.”, avverso il decreto con il quale il Gip del medesimo Tribunale aveva disposto il sequestro preventivo di un’area di cantiere, unitamente allo stabilimento balneare e alle opere ivi realizzate, in relazione ai reati di cui agli artt. 110 e 481 cod. pen., 44, comma 1, lettere b) e c), in relazione all’art. 23, del d.P.R. n. 380 del 2001, e 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004.

2. Avverso l’ordinanza l’indagato ha proposto, tramite i difensori, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si denunciano la violazione della legge penale sostanziale e processuale, nonché vizi della motivazione in ordine all’individuazione dell’esatta norma di legge applicabile.
In particolare, il Tribunale avrebbe del tutto omesso di rispondere agli specifici motivi di riesame dedotti dalla difesa e riguardanti: il presunto ampliamento di volumetrie e superfici coperte e le modificazioni di sagoma, pari a complessivi 900 mq; l’asserito incremento volumetrico dell’800%; il mutamento della destinazione commerciale del chiosco bar in cucina. Dall’omessa valutazione delle doglianze e della documentazione allegata a sostegno sarebbe derivata una falsata ricostruzione dei fatti che avrebbe determinato una erronea qualificazione giuridica della condotta tenuta dall’indagato.
2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si lamenta la violazione della legge penale sostanziale in ordine alla ritenuta sussistenza del fumus del reato di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché del reato paesaggistico.
La difesa si duole del fatto che la tesi accusatoria non sarebbe stata adeguatamente corroborata da alcuna consulenza tecnica o altra forma di rilievo peritale, per accertare che le constatazioni e la comunicazione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria, intervenuta sui luoghi del sequestro, corrispondessero alla situazione reale, scaricando così l’onere della prova contraria interamente sul ricorrente. Inoltre, la predicata inverosimiglianza dell’erronea indicazione della particella catastale da parte del consulente di parte non potrebbe essere sufficiente a far ritenere suddetta indicazione illecita in quanto dolosamente preordinata all’applicazione di un regime urbanistico e paesaggistico più favorevole. L’ordinanza impugnata, infatti, non avrebbe specificato, a sostegno dell’ipotesi della condotta di falso materiale, a quale diversa disciplina avrebbe dovuto essere sottoposta la particella erroneamente indicata dal tecnico della SCIA, anche con riferimento alle disposizioni applicabili in materia di conferenza dei servizi. Secondo la difesa, al contrario di quanto apoditticamente affermato dal Tribunale del riesame, non si sarebbe realizzato alcun nuovo complesso balneare, dovendo le costruzioni rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 11, comma 2, del regolamento della Regione Lazione 15 luglio 2009, n. 11; inoltre, le opere sarebbero agevolmente amovibili e non suscettibili di concretizzare il contestato incremento volumetrico dell’800%, che avrebbe portato il ricorrente a sconfinare in aree in concessione ad altre attività.
2.3. In terzo luogo, si deducono la violazione della legge penale sostanziale e processuale, nonché vizi della motivazione in relazione alla omessa valutazione della prospettata insussistenza del periculum in mora.
Sul punto, il giudice del riesame si sarebbe limitato a richiamare la scarna motivazione del Gip circa il pericolo che la libera disponibilità delle opere, ancora in corso di esecuzione, potesse aggravare o protrarre la lesione agli interessi protetti dalla normativa urbanistica e paesaggistica, nonostante, proprio a scongiurare suddetto rischio, siano già preventivamente intervenute le amministrazioni a ciò deputate, consentendo la realizzazione delle opere in sede di conferenza di servizi. Questo avrebbe determinato una evidente violazione dei principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità della misura cautelare reale, non avendo il giudice correttamente vagliato la sussistenza di un pericolo concreto ed attuale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Il primo motivo di ricorso, relativo all’individuazione della fattispecie di reato contestata all’indagato, è inammissibile.
Va ricordato, sul punto, che, in sede di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc. pen. ammette il sindacato di legittimità solo per motivi attinenti a violazione di legge. Nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta (ex multis, Sez. 2, n. 5807 del 18/01/2017, Rv. 269119; Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, Rv. 226710). E deve ribadirsi che l’effetto devolutivo dell’impugnazione, che è conseguenza del principio di disponibilità della domanda, riconosciuta alle parti sia sotto il profilo della presentazione della stessa richiesta, diretta ad ottenere una revisio prioris istantiae, sia sotto l’aspetto della delimitazione del thema decidendum, attraverso la indicazione delle questioni dedotte, è di regola di carattere generale, applicabile anche nel ricorso per cassazione avverso provvedimento adottato dal Tribunale in sede di riesame di decreto di sequestro preventivo. Tale effetto devolutivo completo determina l’obbligo nel giudizio di riesame di valutare la sussistenza dei presupposti del sequestro preventivo, a prescindere dai motivi di gravame proposti, ma deve essere inteso nel senso che il tribunale è tenuto a valutare, indipendentemente dalla prospettazione del ricorrente, ogni aspetto relativo ai presupposti della misura cautelare (fumus commissi delicti e, nel sequestro preventivo, periculum in mora), ma non anche a procedere all’analisi di aspetti ulteriori (Sez. 3, n. 35083 del 14/04/2016, Rv. 267508), quali, ad esempio, elementi di fatto – non specificamente dedotti dall’indagato – dai quali possa desumersi un diverso inquadramento giuridico della fattispecie contestata.
Tanto premesso sui limiti del sindacato di legittimità, ritiene il Collegio che la censura proposta sia estranea ai limiti del sindacato di legittimità consentito in materia cautelare reale, in quanto, dietro l’apparenza di un vizio di omessa motivazione, mira in realtà a sollecitare una diversa valutazione dei fatti contestati, come tale preclusa in questa sede. Deve rilevarsi, in ogni caso, che l’ordinanza impugnata ha sufficientemente chiarito il profilo fattuale dell’incremento volumetrico dell’800%, realizzato mediante maggiori superfici di 900 mq. E, a ben vedere, il motivo di riesame, integralmente riportato dal ricorrente, non era formulato in termini tali da negare sic et simpliciter la realizzazione di suddetto aumento, bensì al fine di affermare, per alcune opere insistenti sull’area sottoposta a sequestro, la natura amovibile e di mero arredo, per altre, la loro preesistenza. Ebbene, riguardo a questo punto, il Tribunale del riesame ha fornito una motivazione adeguata e completa (pag. 3 dell’ordinanza) laddove ha affermato, da un lato, che dalla documentazione fotografica allegata alla comunicazione della notizia di reato, le strutture in legno – composte da numerose travi poste in verticale e orizzontale – appaiono installate nell’arenile in modo tale da non potere essere rimosse alla fine della stagione; dall’altro, che l’indagato ha realizzato un aumento della superficie utile e delle sagome di ingombro preesistenti, non oggetto di specifica autorizzazione paesaggistica e dunque non consentita in base al Piano di Utilizzazione degli Arenili (PUA) e al Piano Territoriale Paesistico (PTP) vigenti. Del resto, la stessa difesa dell’indagato ha pacificamente ammesso (pag. 2 dell’ordinanza) di avere occupato un’area maggiore di quella dichiarata nella SCIA e che tale intervento non era stato oggetto di alcuna approvazione da parte dell’amministrazione competente né di alcuna valutazione di compatibilità con le esigenze del PTP.
1.2. Il secondo motivo di doglianza, riferito alla sussistenza del fumus commissi delicti, è parimenti inammissibile.
Oltre a quanto già rilevato in relazione all’inammissibilità del motivo sub 2.1., deve aggiungersi che, in tema di motivazione dei provvedimenti cautelari reali, la prescrizione della necessaria autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, contenuta nell’art. 292, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., come modificato dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, è osservata anche quando il giudice ripercorra, motivando per relationem, gli elementi oggettivi emersi nel corso delle indagini e segnalati dalla richiesta del pubblico ministero, purché dia conto del proprio esame critico dei predetti elementi e delle ragioni per cui egli ritenga idonei a supportare l’applicazione della misura (Sez. 3, n. 35296 del 14/04/2016, Rv. 268113).
A tale proposito, basta richiamare i passaggi motivazionali dell’ordinanza, in cui si afferma in modo logico ed esaustivo che: la reiterata indicazione nella SCIA di una particella catastale diversa da quella nella quale sono state realizzate le opere in sequestro non può rappresentare un semplice errore materiale o una svista priva di conseguenze dal punto di vista amministrativo, essendo evidente il diverso regime paesaggistico cui le particelle in questione sono sottoposte in base al PTP e al PUA; le opere realizzate dall’indagato sull’area in sequestro non possono considerarsi quali manufatti «poggiati al suolo o fissati con ancoraggi precari e rimovibili a fine stagione», come richiesto dall’art. 11, comma 2, del Regolamento della Regione Lazio 15 luglio 2009, n. 11, richiamato dal ricorrente in quanto asseritamente applicabile al caso di specie; gli interventi realizzati dall’indagato non possono dirsi rispettosi delle dichiarazioni contenute nella SCIA e delle condizioni assentite dalle amministrazioni preposte in sede di conferenza di servizi, con conseguente ricorrenza degli indizi di violazione delle prescrizioni urbanistiche e paesaggistiche vigenti.
1.3. La terza doglianza, riguardante la valutazione del periculum ai fini del giudizio di adeguatezza della misura, è anche essa inammissibile, perché non riconducibile alla categoria della violazione di legge di cui all’art. 325, comma 1, cod. proc. pen.
Deve ribadirsi che, in tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva integra i requisiti della concretezza ed attualità del pericolo indipendentemente dall’essere l’edificazione ultimata o meno, perché il rischio di offesa al territorio e all’equilibrio ambientale perdura in stretta connessione con l’utilizzazione della costruzione ultimata, a prescindere dall’effettivo danno arrecato al paesaggio e dall’incremento del carico urbanistico (Sez. 3, n. 5954 del 15/01/2015, Rv. 264370; Sez. 3, n. 42363 del 18/09/2013, Rv. 257526). Inoltre, in tema di reati edilizi o urbanistici, la valutazione che, al fine di disporre il sequestro preventivo di manufatto abusivo, il giudice di merito ha il dovere di compiere in ordine al pericolo che la libera disponibilità della cosa pertinente al reato possa agevolare o protrarre le conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri reati, va diretta in particolare ad accertare se esista un reale pregiudizio degli interessi attinenti al territorio o una ulteriore lesione del bene giuridico protetto (anche con riferimento ad eventuali interventi di competenza della p.a. in relazione a costruzioni non assistite da concessione edilizia, ma tuttavia conformi agli strumenti urbanistici) ovvero se la persistente disponibilità del bene costituisca un elemento neutro sotto il profilo dell’offensività (Sez. U, n. 12878 del 29/01/2003, Rv. 223722).
In forza dei principi suesposti, deve ritenersi legittima la motivazione del Tribunale del riesame, che richiama integralmente quella del decreto emesso dal Gip, sottolineando come, trattandosi di opere ancora in corso di realizzazione, l’imposizione del sequestro sia l’unico modo per evitare che la libera disponibilità della stessa possa aggravare o protrarre le conseguenze dei reati per i quali si procede, solo così scongiurandosi il consolidarsi della lesione agli interessi protetti dalla normativa urbanistica e paesaggistica.

2. Il ricorso, in conclusione, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 09/06/2021.