Consiglio di Stato Sez. VI n. 864 del 3 febbraio 2020
Urbanistica.Acquisizione immobile abusivo al patrimonio comunale e convenzione EDU

Deve escludersi che la disciplina su cui poggia il provvedimento di accertamento di inottemperanza con l'effetto acquisitivo ex lege al patrimonio comunale, impugnato in primo grado, comporti una compressione illegittima del diritto di proprietà o violi i principi in tema di sanzioni penali e di garanzia del diritto di proprietà sanciti dalla CEDU, con la conseguente manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale per contrasto con l'art. 117 Cost.

Pubblicato il 03/02/2020

N. 00864/2020REG.PROV.COLL.

N. 01962/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1962 del 2019, proposto dall’impresa Dalì s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Filippo Caprara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

i signori Rettondini Antonio, Rettondini Flavio e Sandrini Giovanni, rappresentati e difesi dagli avvocati Filippo Borelli, Stefano Zaghi e Andrea Manzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Andrea Manzi in Roma, via Confalonieri, n. 5;
il Comune di Legnago, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Bertolissi e Stefano Gattamelata, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto (Sezione Seconda), n. 824/2018, resa tra le parti e concernente: provvedimenti di demolizione e di accertamento di inottemperanza/acquisizione;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 26 settembre 2019, il consigliere Bernhard Lageder e uditi, per le parti, gli avvocati Filippo Caprara, Stefano Gattamelata, Filippo Borelli e Stefano Zaghi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, il T.a.r. per il Veneto respingeva i ricorsi n. 714 del 2016 e n. 273 del 2017, tra di loro riuniti, proposti dall’odierna appellante avverso i seguenti atti:

(i) il provvedimento del Comune di Legnago n. 92 del 21 marzo 2016, con il quale alla società ricorrente era stato ordinato di riportare la porzione ovest (corpo ‘B’) di un palazzo sito nel centro storico di Legnago, interessato da un complesso intervento edilizio, alla situazione anteriore ai titoli edilizi annullati a seguito dell’accoglimento del ricorso straordinario al Capo dello Stato proposto dai vicini Rettondini/Sandrini [mentre dall’ordine di demolizione è rimasta esclusa la parte posta al lato est (corpo ‘A’, compresi la scala esterna e il ballatoio comune), per la quale in precedenza era stato rilasciato il permesso di costruire n. 2012/0530 ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001, annullato in primo grado dal T.a.r. con la sentenza n. 150/2014, impugnata dinanzi al Consiglio di Stato con ricorso iscritto sub r.g. n. 6048 del 2014];

(ii) il provvedimento del Comune di Legnago n. 47271 del 15 dicembre 2016, con il quale è stata accertata l’inottemperanza all’ordine di demolizione sub (i), con conseguente acquisizione dell’immobile (in parte qua) al patrimonio comunale.

1.1. In particolare, il T.a.r. adìto, previa riunione dei due ricorsi e reiezione dell’eccezione di inammissibilità per preclusione da giudicato sollevata dai controinteressati Rettondini/Sandrini in relazione alla pronuncia di accoglimento del ricorso straordinario (con d.P.R. del 31 ottobre 2011) proposto dai medesimi avverso i titoli edilizi rilasciati in favore dell’impresa Dalì, provvedeva come segue:

(i) respingeva il primo motivo proposto nell’ambito del ricorso n. 714 del 2016 – con il quale erano stati dedotti i profili di censura incentrati sulla violazione dell’art. 38 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, sul difetto di motivazione in merito alla mancata applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, nonché sull’omessa valutazione dell’aspettativa ingenerata in capo all’impresa costruttrice a seguito del rilascio dei titoli edilizi annullati in sede di ricorso straordinario –, rilevando che:

- l’annullamento dei titoli edilizi era avvenuto non per vizi procedimentali, ma per vizi sostanziali non emendabili, ovvero perché era stato autorizzato un intervento edilizio di nuova costruzione che non poteva essere realizzato in quanto in contrasto con uno specifico divieto dello strumento urbanistico e in violazione delle distanze, essendo in particolare rimasto accertato che l’intervento non costituiva una ristrutturazione, ma una nuova costruzione avente una configurazione planivolumetrica diversa rispetto all’edificio demolito e successivamente ricostruito, vietata dall’art. 35 delle n.t.a. allegate al p.r.g., che non consentiva incrementi di volume nella zona urbanistica di ubicazione dell’immobile;

- nel caso di specie non era necessaria una specifica motivazione per disporre la demolizione, poiché, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, era l’eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria (e non l’ordine di ripristino) ad essere subordinata ad una motivata valutazione dell’amministrazione comunale, da assumere previa adeguata istruttoria, potendo la fiscalizzazione dell’abuso edilizio essere applicata nelle sole ipotesi in cui soltanto una parte del fabbricato risultasse abusiva e, nel contempo, fosse stato verificato che la demolizione di tale parte avrebbe esposto a serio rischio la parte residua legittimamente assentita, mentre dalla documentazione versata in atti non erano evincibili elementi idonei a dimostrare l’impossibilità di procedere alla riduzione in pristino o l’esigenza di conservazione dell’immobile tali da giustificare l’irrogazione della sanzione pecuniaria;

- infondata era altresì la censura della mancata valutazione dell’aspettativa ingenerata in capo all’impresa ricorrente a seguito del rilascio dei titoli edilizi annullati, poiché la ratio della disposizione di cui all’art. 38 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, era ispirata alla tutela di quanti fossero colpiti da un’abusività sopravvenuta, che nella specifica considerazione del legislatore si traduceva nella previsione di una forma di tutela – ove possibile e alle condizioni prestabilite dalla legge – dell’affidamento riposto dall’autore dell’intervento sulla presunzione di legittimità e comunque sull’efficacia del titolo assentito, il che, tuttavia, non implicava che l’amministrazione, in sede di applicazione della norma, dovesse farsi carico della tutela dell’aspettativa dell’interessato, dovendo essa limitarsi ad applicare la previsione normativa entro limiti ed i presupposti delineati dal legislatore, nella specie non violati;

(ii) respingeva il secondo motivo proposto nell’ambito del ricorso n. 714 del 2016 – con il quale era stato dedotto che la nuova nozione di ristrutturazione di cui all’art. 30, comma 1, lettera a), d.-l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98, che qualificava come ristrutturazione anche gli interventi di demo-ricostruzione comportanti una modifica della sagoma, doveva ritenersi applicabile anche agli interventi edilizi realizzati prima della sua entrata in vigore, essendo un tale principio stato affermato dall’ordinanza della Corte Costituzionale n. 35 del 12 marzo 2015 –, sulla base dei seguenti rilievi:

- in primo luogo, la questione doveva ritenersi inconferente ai fini decisori, in quanto l’accoglimento del ricorso straordinario era stato determinato non solo dall’impossibilità di qualificare l’intervento come ristrutturazione in ragione della diversa sagoma dell’edificio ricostruito rispetto a quello preesistente demolito, ma anche per la realizzazione di un aumento del volume, sicché, richiedendo la norma modificata comunque la persistenza della stessa volumetria, era evidente che l’intervento in questione, comportante la sopraelevazione di due piani e quindi un consistente ampliamento volumetrico, in ogni caso doveva essere qualificato come nuova costruzione;

- in secondo luogo, doveva escludersi la portata retroattiva della nuova disposizione legislativa, non qualificabile come norma di interpretazione autentica, né assumeva rilievo l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 35/2015, con la quale la Corte si era limitata a restituire gli atti al giudice a quo: infatti, in quella controversia l’oggetto del giudizio era costituito dalla questione della legittimità costituzionale di una disposizione legislativa regionale rispetto alla norma statale, costituente parametro interposto del giudizio di costituzionalità, che aveva subito modificazioni nelle more della definizione del giudizio, tant’è che il giudice a quo, successivamente all’ordinanza di restituzione, aveva sollevato nuovamente la medesima questione proprio sul presupposto della non retroattività della norma sopravvenuta, e la Corte Costituzionale con la sentenza 20 ottobre 2016, n. 226, aveva dichiarato l’incostituzionalità della norma regionale sul medesimo presupposto della non retroattività dello ius superveniens;

(iii) respingeva altresì i profili di censura dedotti con il primo motivo nell’ambito del ricorso n. 273 del 2017 – con cui la ricorrente aveva denunziato il mancato avvertimento, nell’ordinanza di demolizione, che il Comune, in caso di inadempimento, avrebbe provveduto ad acquisire l’immobile al proprio patrimonio, la mancata acquisizione soltanto della porzione dell’edificio che sovrastava di 13 cm la proprietà dei vicini, la mancata indicazione dell’immobile da acquisire e l’omessa motivazione in ordine all’estensione dell’area di sedime, oltre all’omessa valorizzazione delle risultanze della prima verificazione disposta dal Consiglio di Stato nel giudizio di appello r.g. n. 6048 del 2014 promosso avverso la sentenza del n. 150/2014 del T.a.r. –, sulla base dei seguenti rilievi:

- l’acquisizione al patrimonio comunale costituiva un effetto di legge che non necessitava di un’espressa menzione nel provvedimento per divenire operativo, né l’art. 31 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 prevedeva un tale obbligo;

- i titoli edilizi, in base ai quali era stato realizzato l’immobile, all’esito dei ricorsi straordinari al Capo dello Stato non erano stati annullati solo sotto il profilo della sopraelevazione, ma anche perché l’intervento edilizio assentito relativamente alla porzione sul lato ovest (corpo ‘B’) nel suo complesso era qualificabile come di nuova costruzione non ammessa dallo strumento urbanistico, sicché l’acquisizione non poteva che riguardare l’intero corpo immobiliare oggetto dell’ordinanza di demolizione;

- il provvedimento impugnato aveva limitato l’acquisizione alla misura minima con riguardo al corpo immobiliare e alla relativa area di pertinenza di cui erano indicati in modo puntuale gli estremi catastali con allegata planimetria, sicché il Comune non era obbligato di offrire ulteriori motivazioni, necessarie solo nell’ipotesi, qui non sussistente, di acquisire aree in misura maggiore a quella minima;

- la prima verificazione disposta dal Consiglio di Stato nel giudizio di appello n. 6048 del 2014 era stata giudicata non attendibile, tant’è che con ordinanza n. 3790 del 15 giugno 2017 era stata disposta una nuova verificazione, le cui conclusioni convergevano nel senso che non poteva essere definito come ristrutturazione un intervento edilizio comportante un aumento di volume;

(iv) respingeva, infine, i vizi di illegittimità derivata – da quelli dedotti avverso il provvedimento presupposto con il ricorso n. 714 del 2016 – fatti valere con il secondo motivo nell’ambito del ricorso n. 273 del 2017;

(v) respingeva l’istanza istruttoria della ricorrente diretta all’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio e precisava che le argomentazioni della ricorrente volte a dimostrare la legittimità originaria dei titoli edilizi, sulla cui base era stata realizzata la porzione sul lato ovest (corpo ‘B’), dovevano ritenersi inammissibili, poiché miravano a risollevare questioni già coperte dal giudicato formatosi sui ricorsi straordinari al Capo dello Stato al cui esito quei titoli erano stati annullati con autorità di giudicato;

(vi) condannava la ricorrente a rifondere alle controparti le spese di causa.

2. Avverso tale sentenza interponeva appello l’originaria ricorrente, sollevando in via preliminare eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, «rispetto all’art. 117 Cost. [e alla norma interposta di cui agli artt. 7 CEDU e 1 del primo Protocollo aggiuntivo della CEDU; n.d.e.] e della conseguente sanzione della “acquisizione” applicata alla parte appellante, laddove in virtù di una pronuncia di annullamento di un provvedimento amministrativo autorizzativo emesso dal Comune di Legnago ha comportato la sostanziale confisca amministrativa ex art. 31 DPR 380/2001 in danno della proprietà di Dalì srl, che nel provvedimento autorizzativo del medesimo Comune di Legnago ebbe a fare affidamento» (v. così, testualmente, il ricorso in appello), e deducendo, per il resto, i motivi come di seguito rubricati:

a) «Violazione e falsa applicazione dell’art. 38 TUE», al riguardo sostanzialmente riproponendo i profili di censura dedotti in primo grado, seppure adattati all’impianto motivazionale dell’impugnata sentenza;

b) «[…] la violazione e la falsa applicazione dell’art. 38 TUE e l’insufficiente ed omessa motivazione», censurando la reiezione del ricorso n. 273 del 2017, con cui era stata impugnata l’ordinanza di accertamento di inottemperanza e di acquisizione n. 47271 del 15 dicembre 2016, anche qui sostanzialmente riproponendo i motivi di primo grado, adattati alla motivazione dell’appellata sentenza;

c) l’erronea pronuncia di condanna della ricorrente alla rifusione delle spese di causa in favore delle controparti.

La società appellante chiedeva pertanto, previa sospensione della provvisoria esecutorietà dell’impugnata sentenza e in sua riforma, l’accoglimento dei ricorsi di primo grado.

3. Si costituiva in giudizio il Comune di Legnago, contestando la fondatezza dell’appello e chiedendone la reiezione.

4. Si costituivano altresì in giudizio gli originari controinteressati Rettondini/Sandrini per contestare l’appello e chiederne la reiezione.

5. Accolta con ordinanza n. 1994/2019 l’istanza di sospensiva con esclusivo riguardo al periculum in mora, la causa all’udienza pubblica del 26 settembre 2019 è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

6. L’appello è infondato.

6.1. Preliminarmente occorre ricostruire brevemente la vicenda cui inerisce la presente controversia.

Con i permessi di costruire n. 2007/0050, n. 2008/0211, n. 2009/0558 e n. 2010/0219 l’odierna appellante è stata autorizzata a ristrutturare un organismo edilizio preesistente sito nel centro storico di Legnago, via I° Maggio n. 14, in zona territoriale omogenea ‘B1 residenziale satura’, costituito dai seguenti corpi edilizi:

- dal corpo di fabbrica collocato tra via E. Fermi (lato Sud) e la proprietà Sandrini (lato Nord), formato da piano terra e primo piano (corpo ‘A’);

- dal corpo di fabbrica compreso tra via E. Fermi (lato Sud) ed il confine con la proprietà Rettondini (lato Ovest), formato originariamente da piano terra, primo e secondo piano verso via Fermi (oltre ad un piccolo locale sul tetto), di cui una parte costruita in aderenza alla proprietà dei controinteressati Rettondini/Sandrini, che si prolungava verso il cortile interno (corpo ‘B’).

Successivamente, il Comune ‒ in forza della sopravvenuta legge della Regione Veneto n. 14 del 2009 (c.d. Piano casa) ‒ con una concessione in variante ha autorizzato anche la sopraelevazione di due piani con aumento di volumetria del corpo ‘B’ prospiciente via Fermi.

6.2. Gli originari controinteressati hanno impugnato i titoli edilizi n. 2007/0050, n. 2008/0211, n. 2009/0558 e n. 2010/0219 con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, accolto con d.P.R. 31 ottobre 2011 in recepimento del parere del Consiglio di Stato, Sez. I, 16 giugno 2011, n. 2413, sul presupposto che l’intervento edilizio configurasse non una ristrutturazione, bensì una nuova costruzione, illegittima alla luce della disciplina edilizia vigente nel Comune di Legnago. Secondo la decisione di annullamento, la società Dalì aveva illegittimamente «realizzato una diversa configurazione planivolumetrica aggiungendo altri due piani ed arrivando ad un’altezza di diciotto metri contro i dodici dello stato di fatto originario», ed inoltre «è incontestato che l’edificio interno al cortile sopravanzerebbe illegittimamente di venti centimetri rispetto alle dimensioni ed al progetto originario» (v. così, testualmente, il citato parere del Consiglio di Stato) in violazione del regime delle distanze. Alla stregua della decisione sul ricorso straordinario, l’intervento edilizio de quo doveva, pertanto, considerarsi quale nuova costruzione, illegittima alla luce della disciplina urbanistica ed edilizia vigente nel Comune di Legnago.

Avverso tale decisione il Comune di Legnago e la società Dalì hanno interposto ricorsi straordinari per revocazione, i quali sono stati dichiarati inammissibili con d.P.R. 26 agosto 2015, reso su parere del Consiglio di Stato, Sez. I, 30 gennaio 2015, n. 288, con il conseguente passaggio in giudicato formale del d.P.R. 31 ottobre 2011.

Va qui sin d’ora rimarcato che, secondo il parere del Consiglio di Stato, era il corpo di fabbrica ‘B’ dell’edificio ristrutturato ad essere stato ricostruito senza rispettare il volume, la sagoma e la superficie originari, nonché in violazione del regime delle distanze; mentre, relativamente al corpo di fabbrica ‘A’, non erano stati rilevati vizi sostanziali.

6.3. Su queste basi, il Comune di Legnago provvedeva come segue:

(i) da un lato, in seguito della reiezione del ricorso straordinario per revocazione, ordinava la riduzione in pristino delle opere realizzate sul corpo ‘B’ dell’edificio, adottando i provvedimenti di demolizione e di accertamento di inottemperanza impugnati con i ricorsi n. 714 del 2016 e n. 273 del 2017, respinti dal T.a.r. con la qui appellata sentenza;

(ii) dall’altro lato, ancora in pendenza del ricorso straordinario per revocazione, ha rilasciato il permesso di costruire n. 2012/0530 del 3 settembre 2012 ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001 per le opere eseguite sul solo corpo ‘A’ dell’edificio (a sua volta composto da due corpi così distinti: il corpo ‘Aa’, costituito da due soli piani fuori terra ed oggetto esclusivamente di interventi di ristrutturazione edilizia; il corpo ‘Ab’, costituito dal corpo scala esterno e relativo ballatoio comune), motivando che queste ultime, per quanto formalmente attinte dalla pronuncia di annullamento dei relativi titoli edilizi, risultavano sostanzialmente conformi alla disciplina edilizia ed urbanistica vigente, e dunque consentendo all’impresa costruttrice di completare i relativi lavori e disponendo la revoca parziale della sospensione lavori n. 286/2012.

Tale permesso di costruire, unitamente agli atti presupposti e connessi, è stato impugnato dai vicini Rettondini/Sandrini dinanzi al T.a.r. con ricorso accolto in primo grado con la sentenza 150/2014, appellata dinanzi al Consiglio di Stato in via principale dalla società Dalì con ricorso iscritto sub r.g. n. 6048 del 2014 e in via incidentale dal Comune di Legnago: appelli, nelle more del presente giudizio entrambi accolti con la sentenza n. 2757 del 29 aprile 2019 che, in riforma della sentenza del T.a.r., ha ritenuto legittimo il gravato permesso di costruzione ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001, relativo al corpo ‘A’ dell’edificio in questione.

6.4. Ebbene, scendendo all’esame dei motivi d’appello proposti avverso la sentenza in epigrafe, reiettiva dei ricorsi proposti dalla società Dalì avverso i provvedimenti di demolizione e accertamento di inottemperanza richiamati sopra sub 1.(i) e 1.(ii), inerenti esclusivamente al corpo ‘B’ dell’immobile in questione, si osserva quanto segue (seguendo l’ordine espositivo del ricorso in appello).

6.4.1. Manifestamente infondata è la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 31 d.P.R. n. 380/2001 per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. e, quali norme interposte, degli artt. 7 della CEDU e dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale, con richiamo alla sentenza della Corte EDU del 28 giugno 2018 resa dalla Grande Camera (causa G.I.E.M. s.r.l. e altri contro Italia). In particolare, secondo l’appellante, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale di cui all’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001 darebbe luogo ad una forma di «confisca amministrativa» che «non trova fondamento o presupposto su nessuna responsabilità penale dell’appellante, ma sulla sola base interpretativo-giurisprudenziale della equiparazione fra abuso edilizio (che peraltro presuppone l’elemento soggettivo del dolo o colpa) ed edificazione eseguita in forza di titoli abilitativi annullati (che al contrario implica una sostanziale responsabilità oggettiva): entrambi tali situazioni, sebbene del tutto distinte nei rispettivi presupposti, comportano la medesima sanzione della apprensione al patrimonio comunale, distinguibile dalla confisca sulla base della mera terminologia lessicale», sicché dovrebbe trovare applicazione il principio, enucleabile dalla menzionata sentenza della Corte EDU, per cui «la confisca amministrativa in assenza di un giudicato penale di responsabilità comporta una pena illegittima in quanto svincolata da un giudizio di responsabilità» (v. così, testualmente, il ricorso in appello).

La declaratoria di manifesta infondatezza della questione quale sopra sollevata s’impone per le seguenti ragioni:

- la disciplina dettata dall’art. 44 d.P.R. n. 380/2001, sulla quale si è pronunciata la Corte EDU, non è in alcun modo assimilabile a quella di cui all’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001, in quanto il primo prevede una vera e propria sanzione penale accessoria, applicabile alle ipotesi di lottizzazione abusiva – l’articolo recita testualmente: «La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite» –, di carattere afflittivo e a funzione anche dissuasiva, mentre il secondo prevede l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale in funzione della riconduzione a legalità (rendendole conformi all’assetto urbanistico ed edilizio) delle opere non sorrette da un valido titolo (ab origine o annullato ex post, qui non rileva) e di cui sia stata ordinata la demolizione, in caso di inerzia del responsabile dell’opera illegittima.

La Corte EDU, proprio sul presupposto che «la confisca per lottizzazione abusiva subita dai ricorrenti aveva un carattere e uno scopo punitivi, e quindi può essere considerata una “pena” nel senso dell’articolo 7 della Convenzione», è pervenuta alla conclusione che «una persona non può essere sanzionata per un atto che coinvolge la responsabilità penale altrui» e che dunque «una misura di confisca applicata […] a persone fisiche o giuridiche che non sono parti in causa è incompatibile con l’articolo 7».

L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi di cui all’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001 – che testualmente statuisce: «Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita» – non è, invece, una sanzione penale, né può essere considerata una sanzione amministrativa ad essa equiparata, in quanto:

- l’acquisizione non consegue automaticamente all’accertamento dell’abuso edilizio, ma alla successiva inottemperanza, da parte del responsabile dell’abuso, dell’ordine di demolizione/riduzione in pristino precedentemente emesso;

- l’acquisizione al patrimonio comunale è funzionale al ripristino dello stato dei luoghi ad iniziativa forzosa dell’amministrazione e a spese dell’obbligato, per superare l’inerzia dei responsabili dell’abuso;

- il mantenimento dell’opera ha carattere eccezionale, disponendo il comma 5 dell’art. 31 che «[l]’opera acquisita è demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico», con ciò sancendo la funzione strumentale dell’acquisizione rispetto all’ordine di ripristino, ulteriormente avvalorata dai limiti oggettivi posti dalla norma con riguardo al bene acquisendo.

A ciò si aggiunge che, nel caso di specie, l’atto di accertamento di inottemperanza all’ordine di ripristino – cui consegue, quale effetto legale, l’acquisizione del corpo ‘B’ dell’immobile in questione, di proprietà della società Dalì, al patrimonio comunale – è stato adottato nei confronti dell’impresa responsabile dell’abuso, nel pieno rispetto delle garanzie procedimentali.

Inconferente è, pertanto, il richiamo all’art. 7 CEDU quale norma interposta rispetto all’art. 117 Cost., nel senso precisato dalla sopra richiamata sentenza della Corte EDU.

Quanto, poi, alla possibile violazione della norma interposta di cui all’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla CEDU, di garanzia del diritto di proprietà, si osserva che la Corte EDU, con riferimento al diverso istituto della confisca per lottizzazione abusiva ha rilevato delle criticità sotto il profilo che «non consente al giudice di valutare quali siano gli strumenti più adatti alle circostanze specifiche del caso di specie e, più in generale, di bilanciare lo scopo legittimo soggiacente e i diritti degli interessati colpiti dalla sanzione» (Corte EDU, causa G.I.E.M. s.r.l. e altri contro Italia, cit.).

Premesso che, come sopra esposto, le misure previste dall’art. 44 d.P.R. n. 380/2001 sono ontologicamente diverse dalla misura disciplinata dall’art. 31, comma 3, ritiene il Collegio, in primo luogo, che l’acquisizione della parte abusiva al patrimonio comunale, quale strumento di riconduzione delle opere abusive a legalità, risponda ai criteri dell’idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto, legittimanti l’incidenza sul diritto di proprietà dell’autore delle opere abusive, il quale non ottemperi all’ordine ripristinatorio.

Né varrebbe opporre che il Comune, in tal modo, diverrebbe «proprietario dei beni stessi sulla base di un giudizio amministrativo che ha visto soccombente lo stesso Comune» (v. così, testualmente, il ricorso in appello), in quanto, per un verso, la composizione del conflitto d’interessi tra proprietario che abbia costruito sulla base di un titolo edilizio illegittimo poi annullato in sede giudiziale e l’interesse pubblico al ripristino della legalità è effettuata, sul piano normativo, dalla disciplina posta dall’art. 38 d.P.R. n. 380/2001 in aderenza ai principi di ragionevolezza e di proporzionalità e, per altro verso, l’amministrazione comunale, nel caso di specie, proprio in applicazione di detta disciplina, ha disposto la riduzione in pristino solo con riferimento al corpo ‘B’ dell’immobile e ha rilasciato per il corpo ‘A’ il permesso di costruire n. 2012/0530, con ciò consentendo all’impresa Dalì di ultimare i lavori e procedere alla vendita degli appartamenti ivi realizzati.

Concludendo, deve escludersi che la disciplina su cui poggia il provvedimento di accertamento di inottemperanza con l’effetto acquisitivo ex lege al patrimonio comunale, impugnato in primo grado, comporti una compressione illegittima del diritto di proprietà o violi i principi in tema di sanzioni penali e di garanzia del diritto di proprietà sanciti dalla CEDU, con la conseguente manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117 Cost..

6.4.2. Infondato è il motivo d’appello sub 2.a), proposto avverso le statuizione sub 1.1.(i) e 1.1.(ii), con cui sono state respinte le censure dedotte in primo grado avverso l’ordinanza comunale n. 92 del 21 marzo 2016, di riduzione in pristino del corpo ‘B’ dell’immobile di cui è causa.

Occorre premettere che la citata ordinanza di ripristino deve essere letta in combinazione con il permesso di costruire n. 2012/0530 del 3 settembre 2012, rilasciato ai sensi dell’art. 38 d.P.R. n. 380/2001 in relazione al corpo edilizio ‘A’, il quale è stato richiamato nella parte-motiva dell’ordinanza n. 92/2016 ed è stato dichiarato legittimo dalla sentenza n. 2757 del 29 aprile 2019 di questa Sezione, intervenuta inter partes, con la quale è rimasto acclarato che, «secondo il parere del Consiglio di Stato, è il corpo di fabbrica ‘B’ dell’edificio ristrutturato ad essere stato ricostruito senza rispettare il volume e la sagoma originaria, ed in violazione del regime delle distanze; mentre, relativamente al corpo di fabbrica ‘A’, non venivano rilevati vizi sostanziali», e che, «[n]el caso in cui venga in rilievo un organismo edilizio composito ‒ in quanto articolato in due o più distinti corpi di fabbrica ‒ e assentito con un titolo unitario poi annullato, la “rimozione dei vizi delle procedure amministrative” ben può consistere nell’adozione di un titolo ‘ridotto’, limitato cioè ad autorizzare la sola porzione di costruzione ‒ scindibile dalla restante parte ‒ risultata immune dai vizi sostanziali accertati (nel caso di specie, come si è detto, il parere del Consiglio di Stato n. 2413/2011, sul quale si fonda d.P.R. 31 ottobre 2011, non contiene alcun accertamento in merito a specifiche violazioni della normativa urbanistica ed edilizia addebitabile al corpo di fabbrica ‘A’)».

Invero, il Comune nel permesso di costruire n. 2012/0530 si era riservato espressamente di adottare, all’esito del ricorso per revocazione proposto avverso il d.P.R. 31 ottobre 2011, i provvedimenti ripristinatori sul corpo edilizio ‘B’, il quale, come accertato nella menzionata decisione sul ricorso straordinario, era stato oggetto di interventi non di mera ristrutturazione, ma di interventi qualificabili come nuova costruzione, in quanto il corpo edilizio ricostruito eccedeva, per volume e sagoma, quello preesistente demolito. Sul punto, il parere n. 2413/2011 del Consiglio di Stato recepito dal citato d.P.R. ormai passato in giudicato, è chiaro e univoco – ed il relativo dictum è stato correttamente interpretato e applicato sia dall’amministrazione comunale in sede provvedimentale sia dal T.a.r. nell’impugnata sentenza –, laddove recita: «Con il primo motivo si sostiene che erroneamente l’intervento posto in essere dalla Società controinteressata ed assentito dalla Amministrazione comunale resistente sarebbe stato qualificato come “ristrutturazione edilizia”, trattandosi invece di un edificio diverso rispetto a quello preesistente per sagoma, volumi e superfici. Tale censura ad avviso della Sezione trova puntuale conferma nelle norme di cui i ricorrenti lamentano la violazione e l’omessa applicazione: difatti, l’art. 17, comma 3, del PRG del Comune di Legnago consente la ristrutturazione edilizia sotto forma di totale demolizione dell’edificio solo nel caso in cui ne sia prevista la ricostruzione nel rispetto integrale della sagoma e del sedime esistente; l’art. 19 del medesimo PRG stabilisce che le opere edilizie volte ad ampliare o sopraelevare un fabbricato esistente costituiscono nuova costruzione e non mera ristrutturazione; l’art. 35 delle NTA del citato PRG vieta qualsiasi aumento del volume esistente nelle aree classificate B1 “residenziali edificate sature”, quale è quella in cui è avvenuto il contestato intervento edilizio. Al riguardo, dal verbale redatto dalla Polizia municipale di Legnago in data 10 maggio 2010, emerge che la società controinteressata ha realizzato una diversa configurazione plani-volumetrica aggiungendo altri due piani ed arrivando ad un’altezza di diciotto metri contro i dodici dello stato di fatto originario. Priva di pregio si rivela, in proposito, la giustificazione fornita dalla Società controinteressata, che definisce gli interventi piccole violazioni che rientrerebbero nella così detta “tolleranza di cantiere”, laddove in materia di distanze dai confini non sono ammesse tolleranze di sorta, essendo le norme sulle distanze inderogabili per legge […]».

L’amministrazione comunale, nella parte-motiva del permesso di costruire ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001 rilasciato il 3 settembre 2012 in relazione al corpo ‘A’, in dichiarata applicazione di «basilari ragioni di adeguatezza, ragionevolezza e proporzionalità, al fine di conformare l’attività edilizia al d.P.R. 31 ottobre 2001 conseguendo l’interesse pubblico con il minor sacrificio per i soggetti interessati» (v. così, testualmente, il richiamato permesso di costruire), per un verso, ha autorizzato l’esecuzione delle opere in relazione al corpo ‘A’ e, per altro verso, a fronte della natura sostanziale dei vizi per cui erano stati annullati i titoli edilizi con riferimento al corpo ‘B’, si è riservato di adottare ogni relativa misura sanzionatoria e/o ripristinatoria all’esito del giudizio di revocazioni promosso avverso il d.P.R. 31 ottobre 2011. Indi, l’amministrazione ha sciolto la riserva – in esito alla declaratoria di inammissibilità del ricorso per revocazione (intervenuta con d.P.R. 26 agosto 2015, su parere del Consiglio di Stato, Sezione I, n. 288/2015) – con il qui impugnato provvedimento di ripristino n. 92 del 21 marzo 2016, sorretto da un’ampia e adeguata motivazione (anche per relationem al permesso di costruire del 3 settembre 2012, espressamente richiamato) e basato su una corretta e onnicomprensiva valutazione di tutti gli interessi, pubblici e privati, coinvolti nella vicenda edilizia in oggetto, escludente la possibilità di un esito diverso da quello ripristinatorio.

In particolare, le valutazioni compiute dall’amministrazione ed esplicitate nei percorsi motivazionali posti a fondamento del provvedimento n. 92/2016 e dell’ivi richiamato permesso di costruire del 3 settembre 2012 sono aderenti ai parametri valutativi delineati dall’art. 38 d.P.R. n. 38/2001, quali elaborati dalla giurisprudenza amministrativa citata nell’appellata sentenza, essendo rimasta correttamente esclusa l’emendabilità dei vizi accertati con efficacia di giudicato dalla decisione resa in sede di ricorso straordinario, in quanto di natura sostanziale, e risultando palese dalla differenziazione tra interventi sul corpo ‘A’ e interventi sul corpo ‘B’ che l’ordine ripristinatorio limitato al corpo ‘B’ fosse effettivamente possibile senza recare pregiudizio alle opere eseguite sul corpo ‘A’.

Occorre, altresì, rimarcare che la qualificazione degli interventi edilizi eseguiti sul corpo edilizio ‘B’, in termini di nuova costruzione in contrasto con la strumentazione urbanistica e edilizia del Comune di Legnago, risulta ormai acclarata – sia nei suoi profili fattuali che nei suoi risvolti giuridici – con autorità di cosa giudicata formatasi sulla decisione del ricorso straordinario di cui al d.P.R. del 31 ottobre 2011, con ciò dovendosi ritenere precluso l’ingresso di ogni relativa questione nel presente giudizio.

Ad ogni modo va rilevato che, per un verso, dalla integrazione alla relazione finale di verificazione disposta nell’ambito del giudizio sub r.g. n. 6048/2014 definito con la sentenza n. 2757/2019 di questa Sezione emerge che l’intervento riguardante il corpo ‘B’ non poteva comunque essere ricondotto ad una ristrutturazione edilizia, avendo determinato «la sopraelevazione per n° 2 ulteriori piani con insindacabile e oggettivo aumento di volume e modifica della sagoma verticale e tridimensionale dell’edificio stesso» (v. pp. 11-12 della relazione integrativa del 10 agosto 2018), con conseguente ulteriore conferma degli accertamenti in fatto posti a fondamento della decisione in sede di ricorso straordinario, e, per altro verso, nel silenzio del legislatore e alla luce della sentenza Corte Cost. n. 224/2016, deve escludersi la natura di interpretazione autentica e l’applicabilità retroattiva dell’art. 30, comma 1, lettera a), d.-l. n. 69/2013 convertito nella legge n. 98/2013. Il tutto, a prescindere dal rilievo che, nel caso di specie, è rimasta accertata, oltre al mancato rispetto della sagoma (cui soltanto si riferisce la citata disposizione, di natura innovativa, in tema di ristrutturazione edilizia attraverso la demo-ricostruzione di un preesistente edificio), anche la realizzazione di nuova volumetria in contrasto con le prescrizioni urbanistiche e edilizie comunali applicabili ratione temporis al momento del rilascio dei titoli edilizi annullati, con conseguente irrilevanza, anche sotto tale profilo, della questione di diritto all’esame.

Per le esposte ragioni, di natura assorbente, devono essere confermate le statuizioni, di cui sopra sub 1.1.(i) e 1.1.(ii), reiettive delle censure dedotte in primo grado avverso l’ordinanza di ripristino n. 92/2016 e devolute in appello con il motivo sub 2.a).

6.4.3. In reiezione del secondo motivo d’appello, di cui sopra sub 2.b), proposto avverso la statuizione reiettiva delle censure dedotte avverso l’ordinanza di accertamento di inottemperanza del 15 dicembre 2016 – e ferme restando le considerazioni sopra svolte sub 6.4.1., in punto di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380/2001, quale sollevata dall’odierna appellante –, occorre rilevare che:

- l’acquisizione al patrimonio comunale costituisce un effetto legale vincolato conseguente ope iuris all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di ripristino e, in quanto tale, non esige un avvertimento esplicito nell’ordine di demolizione, né un tale avvertimento è prescritto dall’art. 31 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380;

- il provvedimento di accertamento dell’inottemperanza impugnato in primo grado contiene l’esatta individuazione delle opere oggetto di acquisizione al patrimonio comunale («[…]le opere edilizie costituite dal fabbricato identificato nel Catasto Fabbricati dell’Ufficio Provinciale di verona, Comune di Legnago, al foglio n. 17, particella n. 604, subalterno n. 23, comprendente piano terra - primo - secondo - terzo - quarto - quinto ed area di pertinenza, oltre alla quota delle relative parti comuni di cui al foglio n. 17, particella bn. 604, subaltern9i n. 17 e 22, sono acquisite al patrimonio comunale, come individuate nell’allegata planimetria, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380»), in conformità ai limiti oggettivi dell’ordinanza di demolizione e delle presupposte pronunce di annullamento degli originari titoli edilizi, nonché nel rispetto dei limiti di legge, con la conseguente manifesta infondatezza delle correlative censure di indeterminatezza, genericità e carenza di motivazione;

- come più sopra esposto, le risultanze della relazione integrativa della verificazione disposta nel separato giudizio definito con la sentenza n. 2757/2019 di questa Sezione confermano la non riconducibilità degli interventi sul corpo ‘B’ ad una mera ristrutturazione edilizia, e, per il resto, esulano dall’ambito oggettivo del presente giudizio, in quanto relative al corpo ‘A’, con conseguente manifesta infondatezza anche della censura di erronea valutazione delle risultanze istruttorie.

6.3.5. Privo di pregio è, infine il terzo motivo d’appello, di cui sopra sub 2.c), avendo il T.a.r. nella regolazione delle spese di causa fatto corretta applicazione del criterio della soccombenza.

6.3.5. Per le esposte considerazioni, di natura assorbente, l’appello deve essere respinto, con conseguente conferma dell’impugnata sentenza, nei sensi di cui in motivazione.

Resta assorbita ogni altra questione, ormai irrilevante ai fini della decisione.

6.4. Tenuto conto di ogni circostanza connotante la presente controversia – segnata dalla sopravvenienza, solo nel corso del presente giudizio d’appello, della sentenza n. 2757/2019 in relazione al permesso di costruire ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001 rilasciato per il corpo edilizio ‘A’ –, si ravvisano i presupposti di legge per dichiarare le spese del presente grado di giudizio interamente compensate tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto (ricorso n. 1962 del 2019), lo respinge e, per l’effetto, conferma l’impugnata sentenza nei sensi di cui in motivazione; dichiara le spese del presente grado di giudizio interamente compensate tra tutte le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 26 settembre 2019, con l’intervento dei magistrati:

Giancarlo Montedoro, Presidente

Bernhard Lageder, Consigliere, Estensore

Vincenzo Lopilato, Consigliere

Dario Simeoli, Consigliere

Francesco Gambato Spisani, Consigliere