DELL’URBANISTICA ALL’EDILIZIA IL DECRETO LEGGE n. 69/2013 QUALE PRIMO PASSO “LUPIANO” PER LA DEMOLIZIONE DELLA LEGGE URBANISTICA NAZIONALE
nonché
QUANDO IL LEGISLATORE VORREBBE FARE IL PRESTIGIATORE CHIAMANDO BIANCO CIO’ CHE E’ NERO
(commento al D.L. 21/6/2013, n. 69, appena convertito in legge con modificazioni)
di MASSIMO GRISANTI
Mi ero riproposto di non commentare il decreto legge 21/6/2013, n. 69 (c.d. “del fare”) fino a quando non sarebbe stato convertito in legge.
Questo perché a mio avviso il decreto altro non era che un sondaggio necessario ai governanti per capire se potevano osare, in materia di governo del territorio, nel procedere alla demolizione, per piccoli passi, della legge urbanistica quadro e al trasferimento della materia dallo Stato alle Regioni al di fuori della necessaria modifica costituzionale.
Esaminiamo insieme il primo colpo inferto alla Legge Urbanistica n. 1150/1942 finalizzato anche all’apertura incondizionata alla c.d. urbanistica contrattata [= (s)vendita dei beni comuni].
§ 1. Disposizioni incidenti sul D.M. n. 1444/68
ARTICOLO 30.
(Semplificazioni in materia edilizia).
1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 22, comma 6, del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, al medesimo decreto sono apportate le seguenti modificazioni:
0a) dopo l’articolo 2 è inserito il seguente:
«ART. 2-bis. (L) – (Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati).
1. Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali»;
(…)
L’introdotto art. 2-bis è un concentrato di nebulose disposizioni, e perciò TUTTE PERICOLOSE, che sviano a partire dai titoli.
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Innanzi tutto è contestabile che la modifica del Testo Unico dell’Edilizia possa avvenire al di fuori delle condizioni operative che ne hanno regolato l’origine (rif. art. 7 L. n. 50/1999 regolante la formazione dei testi unici; disposizione sì abrogata, ma non espunta dall’ordinamento e, quindi, ancora da applicarsi obbligatoriamente ai fatti maturati nell’intervallo di efficacia).
Dal momento che la novella normativa testé operata dal legislatore con il decreto in commento non costituisce una maggioritaria modifica dell’intero T.U.E. è sostenibile che l’emendatio non sfugga alle regole dell’abrogazione, con il risultato che trattandosi di disposizioni non preesistenti al T.U.E. non potevano essere introdotte nel D.P.R. n. 380/2001.
Tanto più fregiarle con il simbolo (L) riservato, come previsto dall’allora legislatore delegante, alle norme previgenti che non subivano il processo di delegificazione.
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L’urbanistica e l’edilizia sono branche ben distinte della materia del governo del territorio.
La prima attiene alla pianificazione e programmazione dello sviluppo territoriale, la seconda attiene all’attuazione della pianificazione e alla corretta realizzazione dei fabbricati osservando le regole costruttive contenute nei regolamenti edilizi a tutela della sicurezza e dell’igiene degli abitati.
Inserire, come è stato fatto, una disposizione asseritamente derogatoria di regole urbanistiche1 nel T.U.E. costituisce indizio, a tacer d’altro, della volontà del Governo di non far apertamente apparire l’obiettivo della dismissione de facto della legge urbanistica quadro n. 1150/1942 (più volte avversata dal Ministro Lupi, già ai tempi delle sue esperienze amministrative lombarde).
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Stante la palese inapplicabilità della novella normativa, per i motivi in prosieguo esposti, vi è da chiedersi se una siffatta congegnata disposizione abbia, reconditamente ed inconfessabilmente, due finalità:
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far scomparire il fumus commissi delicti dell’abuso d’ufficio a carico dei dirigenti comunali che hanno rilasciato, e continueranno a rilasciare – i permessi di costruire in palese violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/68;
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creare i presupposti normativi per l’abrogazione, de facto, dell’art. 14 del T.U.E. relativo al permesso di costruire in deroga.
§ sub. a)
Dopo un iniziale smarrimento la Suprema Corte di Cassazione penale, con orientamento ormai consolidato, ha stabilito che risponde del reato di abuso d’ufficio il dirigente comunale che rilascia un permesso di costruire in violazione della disciplina sulle distanze stabilita dal D.M. n. 1444/68, le cui disposizioni prevalgono sulle diverse previsioni contenute negli strumenti urbanistici.
Disciplina statale che, statuisce la Suprema Corte, vincola anche lo stesso Giudice (il quale, di conseguenza, se emette sentenza in difformità dalla norma statale chiamato insindacabilmente ad applicare – i cui confini di operatività sono ormai oltremodo consolidati per effetto di una pacifica giurisprudenza ultraquarantennale - commette anch’egli abuso d’ufficio, giammai errore scusabile).
Orbene, dal momento che:
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la Corte Costituzionale2 ha già statuito che le distanze del DM. n. 1444/68, quali norme integrative, attengono all’ordinamento civile (fatte salve nell’incipit della disposizione in commento);
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in tema di distanze tra fabbricati il punto di equilibrio tra ordinamento civile e governo del territorio è costituito dalle disposizioni dell’ultimo comma del D.M. n. 1444/68 (che non ammettono deroghe per singoli edifici);
quali sarebbero le deroghe astrattamente possibili, ulteriori rispetto a quelle già consentite dalla norma statale?
Legittimamente non ne esistono, e non ne possono esistere fintanto non venga modificato l’art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii. (che qualifica i limiti edilizi inderogabili anche da parte delle leggi successive che non agiscano, contestualmente, sulla norma qualificante).
Ecco, quindi, che la novella legislativa non ha, invero, le finalità dichiarate e sta qui il ragionevole sospetto che ve ne siano di inconfessabili.
Eppoi, chi può dire entro quale limite la disposizione regionale rimane nel concetto di deroga senza debordare in illegittima innovazione del principio fondamentale?
Per cercare la ripresa economica viene minata, ancor più di quanto non lo sia già, la certezza del diritto.
§ sub. b)
In un contesto di iper sfruttamento dei suoli urbani, la disposizione in commento è funzionale all’effettiva attuazione dei piani di riqualificazione e rigenerazione urbana.
Infatti, tali strumenti previsti dai c.d. Piani Casa regionali trovano il loro limite di legittima approvazione ed attuazione nella disciplina delle distanze tra fabbricati ex art. 9 del D.M. n. 1444/68.
Nemmeno il ricorso a previsioni edificatorie di particolare interesse pubblico all’interno dei piani urbanistici poteva – e può – scalfire l’applicazione dell’art. 9 del D.M. (vedi art. 14, comma 3 T.U.E.).
Ecco, quindi, il colpo di genio di conferire alle Regioni la possibilità di emanare leggi e regolamenti derogatori al D.M. che, quindi, finirebbero per neutralizzare l’art. 14 T.U.E.
Di fronte a siffatti tentativi destabilizzanti dell’interesse generale ad una pianificazione che sia effettivamente volta alla cura degli interessi collettivi, occorre evidenziare nuovamente che la leggina in commento non potrà sortire gli effetti voluti, dal momento che – come statuito dalla Corte Costituzionale – il giusto contemperamento tra la difesa della proprietà privata (bene della vita, protetto dalla C.E.D.U.) e l’urbanistica è stato predeterminato dal legislatore nell’ultimo comma dell’art. 9 del D.M., in forza del quale le deroghe, per essere legittime, devono comunque assicurare che la distanza tra edifici non sia inferiore al fabbricato più alto.
Pertanto, la disposizione in commento si rivelerà del tutto inutile.
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La novella normativa abilita le Regioni e le Province autonome a emanare norme in ordine agli standards urbanistici stabiliti dal D.M. n 1444/68 afferenti la dotazione di spazi pubblici (verde, parcheggi, centro sociali, aree scolastiche ecc.).
Dal momento che per espressa previsione di legge tali standards costituiscono quantità minime (già derogabili in sede di approvazione del PRG da parte delle Regioni alle condizioni previste dall’art. 6 del D.M.) finalizzate al raggiungimento del livello essenziale prestazionale della qualità della vita urbana – da mantenersi uguale in tutto il territorio nazionale – e da determinarsi in funzione della suddivisione territoriale in zone omogenee, cosa lo Stato permetterebbe alle Regioni in più rispetto a quanto non sia già ora loro consentito?
Davvero non si comprende la finalità della disposizione giacché, a differenza di quanto previsto nella prima parte, non apre alla (seppur inutile) possibilità derogatoria da parte delle Regioni.
L’unica spiegazione plausibile è che tale “norma oscura” sia un segnalatore dell’esistenza di un verbale patto fiduciario stretto tra i rappresentanti politici dello Stato e delle Regioni.
Un patto in virtù del quale lo Stato si sia impegnato nei confronti delle Regioni a non sollevare conflitti di illegittimità costituzionale innanzi alla Consulta per le di lì venire leggi regionali che avranno come fine l’appropriazione totale della materia del governo del territorio (il cui cuore sta proprio nel D.M. n. 1444/68).
Il tempo sarà rivelatore.
Dal momento che:
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lo Stato non avrà interesse ad impugnare le leggi regionali (e da ciò avremo la prova dell’esistenza del “patto politico” qui subodorato);
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le associazioni portatrici di interessi diffusi (quelle indipendenti dalla politica, che già ora si contano sulle dita di una mano) ed i comitati spontanei avranno vita sempre più difficile a vedersi riconoscere la legittimazione a ricorrere in sede giudiziale amministrativa;
ecco assicurata l’intangibilità della modifica costituzionale operata per altra via.
§ 2. Disposizioni incidenti sulla categoria d’intervento della ristrutturazione edilizia
all’articolo 3, comma 1, lettera d), ultimo periodo, le parole: « e sagoma » sono soppresse e dopo la parola « antisismica » sono aggiunte le seguenti: « nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente. »;
In via preliminare si ribadisce il parere che il Testo Unico dell’Edilizia non possa subire modifiche per effetto di interventi slegati dall’originaria visione unitaria di riordino.
Tutti gli operatori del settore ben sanno che le categorie d’intervento ex art. 3 T.U.E. (fatta eccezione per quella di nuova costruzione, introdotta dal legislatore in forza della legge delega disciplinante la formazione dei testi unici) derivano, senza soluzione di continuità, dall’art. 31 (“interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente”) della legge n. 457/1978 che è rimasta espressamente in vigore (cfr. art. 137 T.U.E.) e di cui ne vengono confermati i principi.
La giurisprudenza è pacificamente ferma nello statuire che un intervento sul patrimonio edilizio esistente può dirsi tale sempreché prima dei lavori l’edificio (legittimo) esista e non sia ridotto allo stato di rudere. Diversamente è nuova costruzione.
Della serie, il bianco è bianco – il nero è nero.
Ora, arrivare a dire expressis verbis che nella ristrutturazione edilizia è ricompresa la ricostruzione di volumi non più esistenti – senza procedere, peraltro, alla modifica dell’art. 31 della legge n. 457/1978 – è come voler dare ad intendere che il bianco è nero.
Il legislatore non può pensare che le parole possano mutare l’oggettività dei fatti.
Può essere ri-strutturato un edificio se le sue strutture non esistono più?
Sono uguali i termini “ri-strutturazione” e “ri-costruzione”?
La norma può ritenersi legittima solamente nei limitati casi in cui il crollo e la demolizione (fortuiti o voluti) intervengano nel corso dei lavori, ferma restando la validità della previsione contenuta negli strumenti urbanistici (al di fuori della definizione degli interventi) che limiti la ristrutturazione edilizia vietando la demolizione.
Senza considerare che un edificio inesistente, in tutto o in parte, non pesa sotto il profilo del carico urbanistico e pertanto è ri-costruibile solo nel caso in cui lo strumento urbanistico abbia considerato nel dimensionamento la riedificazione delle superficie utili preesistenti comunque accertate in sede di formazione del piano.
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Inoltre, l’espunzione della “sagoma” quale limite per la demo-ricostruzione di edifici non soggetti a tutela paesaggistica finisce per far saltare del tutto il concetto di fedele ricostruzione, in quanto sarà sufficiente rispettare la volumetria.
Che dire …
E’ evidente che la novella legislativa è stata fatta dietro ai rilievi della Corte Costituzionale (sentenza n. 101/2009), ma ai fini dell’applicazione dei limiti edilizi ex artt. 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444/68 non cambia assolutamente niente, giacché il termine “nuovo edificio” utilizzato nel D.M. dal legislatore statale ricomprende anche la demo-ricostruzione a parità di volume con diversa sagoma e, quindi, rimangono inalterati gli obblighi di densità fondiaria, altezza e distanze tra fabbricati.
Invero, nell’accezione “nuovo edificio” deve ricomprendersi finanche il solo mutamento di destinazione d’uso, giacché la norma statale è posta a presidio dell’igiene dell’abitato e non vi può essere differenza alcuna, in termini di tutela della salute, tra persone insediate in edifici di nuova costruzione o riattati con pareti finestrate poste tra loro a distanza inferiore rispetto a quella minima di legge.
Niente cambia – ai fini urbanistici – nemmeno in rapporto con l’intervento di nuova costruzione, giacché una ristrutturazione edilizia è tale solo allorquando il “carico urbanistico” del fabbricato esistente non subisce variazioni per effetto della nuova destinazione d’uso e/o aumento della superficie utile (artt. 3 e 5 del D.M. n. 1444/68). Diversamente è nuova costruzione.
Scritto il 9 agosto 2013
1 il D.M. n. 1444/68 si rivolge ai Comuni per la loro opera di pianificazione.
2 Sentenza n. 6/2013 che sancisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della L.R. Marche n. 31/1979: “3.1.— Come ricorda correttamente l’ordinanza di rimessione, questa Corte ha già affermato che la regolazione delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nella materia «ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 114 del 2012, n. 173 del 2011, n. 232 del 2005).
Infatti, tale disciplina attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice civile. La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il citato d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda – ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del 2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost.
Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.
Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo – il governo del territorio – che ne detta anche le modalità di esercizio. Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005).
Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono
illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
3.2.— Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005).
Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
3.3.— La norma regionale censurata infrange i principi sopra ricordati, in quanto consente espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che, come si è detto, esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio. La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente considerate.”.