Il regime delle opere edilizie incompiute
Città “immaginata” e città “realizzata” secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 30 luglio 2024, n. 14)
di Marco CALABRO'
pubblicato su giustiziainsieme.it.Si ringraziano Autore ed Editore
Sommario: 1. La vicenda. – 2. L’orientamento (sino ad ora) consolidato del giudice amministrativo e le ragioni della remissione della questione all’Adunanza Plenaria. – 3. Per una interpretazione in senso sostanziale del concetto di totale difformità dal permesso di costruire. – 4. Conclusioni: l’eterogeneità delle ipotesi di “incompiutezza” e la consequenziale esigenza di regimi differenziati.
1. La vicenda.
L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a pronunciarsi sul regime giuridico applicabile alle opere edilizie regolarmente assentite ma solo parzialmente realizzate entro il termine di efficacia del titolo, con specifico riferimento all’ipotesi nella quale - a seguito della decadenza del permesso di costruire - non vi sia alcuna iniziativa da parte del soggetto interessato volta a conseguire il completamento dei lavori.
Come noto, ai sensi dell’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, l’opera deve essere completata non oltre tre anni dall'inizio dei lavori, con la conseguenza che, decorso tale termine “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga”[1]. La norma, in effetti, non chiarisce espressamente il regime giuridico delle opere incomplete realizzate nel corso della vigenza del titolo, limitandosi a disporre che “la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività”.
Il fenomeno non è affatto secondario. Nell’intera penisola si registra la presenza di numerosi manufatti – spesso di notevoli dimensioni e, quindi, particolarmente impattanti – i cui lavori vengono iniziati a seguito del rilascio di un legittimo titolo abilitativo, ma mai portati a termine. Mura non intonacante e prive di copertura, pilastri da cui emergono armature di ferro arrugginite, scheletri di cemento del tutto privi di funzione e spesso da tempo abbandonati, che non solo deturpano la bellezza del nostro territorio, ma rappresentano altresì un chiaro ostacolo per il pianificatore, nonché per l’attuazione di processi di rigenerazione urbana.
Come emergerà nel prosieguo, la questione va ben al di là del profilo estetico, interessando aspetti di tipo ambientale (consumo dei suoli e inquinamento derivante dal deterioramento dei materiali), economico (deprezzamento dell’intera area), e sociale (attesa l’influenza del degrado urbano sulla qualità della vita).
La gran parte dei manufatti non ultimati è di proprietà privata[2], e solo in piccola percentuale si tratta di volumi abusivi in senso proprio, ovvero realizzati in assenza di un titolo abilitativo; molti di essi sono, al contrario, il frutto di lavori legittimamente assentiti – quindi originariamente dotati di regolare permesso di costruire – ma poi, per le più diverse ragioni, non ultimati.
La vicenda oggetto di pronuncia rientra per l’appunto in quest’ultima fattispecie, originando dal rilascio di un permesso di costruire finalizzato alla realizzazione di garages interrati, i cui lavori venivano sospesi poco dopo il loro avvio e non più ripresi. La sospensione avveniva in ragione di una sentenza penale con la quale erano stati condannati sia il commissario ad acta che aveva rilasciato il titolo sia il soggetto richiedente, sentenza che aveva incidenter accertato la assoluta illegittimità del permesso di costruire rilasciato. L’amministrazione comunale, tuttavia, non annullava il titolo abilitativo, bensì – decorsi i tre anni dalla comunicazione di inizio lavori – ne dichiarava la decadenza. Successivamente, su sollecitazione di WWF Italia, il comune dapprima ordinava il ripristino dello stato dei luoghi per come risultante in epoca antecedente all’esecuzione delle opere e, in seguito – attesa la mancata ottemperanza all’ordine da parte del proprietario – acquisiva la particella al patrimonio comunale.
Entrambi i provvedimenti (ordine di demolizione e acquisizione) venivano impugnati innanzi al T.A.R. Campania, che tuttavia concludeva per la legittimità degli stessi, affermando che la decadenza del permesso di costruire “travolgerebbe” anche le opere realizzate entro il termine di efficacia del titolo, salvo il caso in cui sia consentito ultimare l’intervento, circostanza esclusa nel caso di specie, atteso che nell’area di riferimento risultavano ammissibili unicamente interventi edificatori di iniziativa pubblica.
Avverso tale decisione veniva proposto appello, fondato essenzialmente sulla considerazione che le opere eseguite in virtù di un titolo edilizio legittimo ed efficace, poi decaduto (ma non annullato), non avrebbero potuto essere oggetto di una sanzione demolitoria. L’amministrazione, infatti, avrebbe erroneamente ritenuto potersi configurare nel caso di specie un’ipotesi di abuso edilizio, laddove, al contrario, l’inefficacia del titolo scaturente dalla decadenza del medesimo opererebbe ex nunc, ovvero unicamente nei confronti degli eventuali interventi eseguiti senza titolo successivamente alla scadenza del termine di tre anni dall’inizio dei lavori.
Ebbene, in sede di appello, il Collegio[3] – pur ricordando che la giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato si è più volte espressa nel senso di ritenere non applicabile la sanzione demolitoria nei confronti delle opere (anche parziali) realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio, ove conformi al progetto assentito – prospetta una possibile differente ricostruzione della fattispecie, consistente nella configurazione dell’opera solo parzialmente eseguita in termini di manufatto difforme dal titolo abilitativo (e, quindi, abusivo), con conseguente inclusione della fattispecie nell’ambito applicativo dell’ordine di demolizione di cui all’art. 31 d.P.R. n. 380/2001. Ciò posto, il giudice remittente ha ritenuto opportuno, ai fini della soluzione della controversia, rinviare previamente la questione all’Adunanza Plenaria, sottoponendole il seguente quesito: “quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio”.
2. L’orientamento (sino ad oggi) consolidato del giudice amministrativo e le ragioni della remissione della questione all’Adunanza Plenaria.
L’interrogativo di fondo è se l’amministrazione possa intervenire con l’esercizio del potere sanzionatorio anche quando l’opera incompiuta sia il risultato di un’attività originata da un titolo abilitativo legittimo, attesa l’assenza di modifiche alle caratteristiche tipologiche del progetto presentato, nonché la mancanza di volumi ulteriori rispetto a quelli assentiti. La fattispecie comprende, in altri termini, le ipotesi nelle quali il privato si sia limitato a realizzare solo una parte di quanto avrebbe potuto (dovuto), ma sempre nei confini di quanto autorizzato.
La lacuna normativa dalla quale origina il quesito sottoposto all’Adunanza Plenaria concerne, quindi, la qualificazione – in termini di abuso o meno – di un immobile incompleto, in relazione al quale o manchi qualsiasi iniziativa volta a concludere i relativi lavori o, come nel caso di specie, un’eventuale iniziativa in tal senso sarebbe destinata a fallire in ragione dell’incompatibilità con la normativa urbanistico-edilizia di riferimento. Come già ricordato, la norma si limita a prevedere che, una volta decorso il termine, il permesso decada “per la parte non eseguita”, il che sembrerebbe configurare quanto costruito come perfettamente legittimo, indipendentemente dallo stato di avanzamento dei lavori raggiunto.
Queste sono, in effetti, le conclusioni sulle quali si è assestata l’esigua giurisprudenza che sino ad oggi si è occupata della questione, laddove afferma che “la decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nei termini non implica l'obbligo di disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio, le quali non possono essere ritenute abusive ove risultino conformi al progetto approvato con il permesso di costruire, ma comporta semplicemente la necessità del titolare decaduto di chiedere un nuovo permesso per l'esecuzione delle opere non ancora ultimate”[4].
Tale orientamento si fonda sul presupposto (invero non contestabile) che la decadenza operi unicamente ex nunc, non travolgendo quindi l’efficacia del titolo ab initio[5]. Da qui deriverebbe come immediata conseguenza (questa volta, come si vedrà, contestabile) l’inapplicabilità al caso di specie del regime sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001: l’ordine di demolizione sarebbe legittimo solo laddove avesse ad oggetto non le opere realizzate in costanza di efficacia del permesso, bensì eventuali interventi posti in essere successivamente alla scadenza del termine di tre anni, senza il previo ottenimento di una proroga o di un nuovo titolo.
In questa prospettiva, il giudice remittente svolge anche ulteriori riflessioni, con particolare riferimento alla disciplina di cui all’art. 38 del t.u. edilizia, ai sensi del quale – in caso di interventi eseguiti in base ad un permesso di costruire successivamente annullato – è prevista la possibilità di comminare una sanzione pecuniaria in luogo della restituzione in pristino[6]. Ebbene, osserva il Collegio, se la ratio dell’introduzione di un regime sanzionatorio più mite in relazione ad opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso rispetto ad interventi ab origine abusivi si giustifica in ragione dell’opportunità di tutelare il legittimo affidamento del privato[7], “striderebbe con i principi ritraibili dall’esame comparativo di tali norme un’applicazione estensiva della più grave sanzione demolitoria ex art.31 del T.U. prima citato, in una fattispecie di opere eseguite in conformità ad un titolo (nemmeno rimosso ma semplicemente) decaduto”.
3. Per una interpretazione in senso sostanziale del concetto di totale difformità dal permesso di costruire.
In uno scritto di qualche anno addietro, chi scrive aveva provato a porre in discussione il descritto orientamento consolidato del giudice amministrativo, valorizzando, da un lato, la funzione sociale del diritto di proprietà e, dall’altro lato, la centralità del fattore temporale nelle dinamiche di trasformazione del territorio[8].
Una lettura non superficiale della funzione di pianificazione del territorio, così come risultante dalle coordinate costituzionali e dai principi generali di riferimento, non può limitarsi a valorizzarne la portata “spaziale”, dovendosi attribuire alla stessa anche il ruolo di strumento per la definizione di un determinato modello di sviluppo socioeconomico del territorio. L’esercizio del potere pianificatorio e dei correlati c.d. poteri conformativi, in altri termini, non è finalizzato alla sola ordinata distribuzione di volumi e infrastrutture, in una prospettiva, quindi, meramente quantitativa e dimensionale: al pianificatore, piuttosto, è richiesta la definizione di un vero e proprio “disegno” del territorio, che tenga conto delle potenzialità edificatorie non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze economico-sociali della comunità[9]. In tale ottica, si giustifica la previsione di una zonizzazione funzionale, oltre che strutturale, volta a rivestire i singoli volumi di una dimensione anche qualitativa, con la conseguenza che il rilascio di un titolo abilitativo finisce per rappresentare il frutto di una valutazione (effettuata in sede di pianificazione) che va ben oltre la mera verifica quantitativa circa la compatibilità tra l’assetto del territorio ed i volumi in progetto[10].
Se si aderisce a tale ricostruzione, è bene chiarirlo sin d’ora, deve coerentemente ritenersi che al cittadino al quale venga rilasciato un permesso di costruire non possa essere consentito realizzare anche solo una parte di quanto progettato (purché nell’ambito dei volumi assentiti), come invece pure sostenuto da una parte della giurisprudenza[11]: egli, piuttosto – essendo chiamato (anche) a contribuire al complessivo disegno di sviluppo del territorio – è tenuto ad attuare esattamente quanto richiesto, e per di più nei tempi previsti. Non può ritenersi ammissibile, in altri termini, fissare gli obiettivi di sviluppo nel piano e lasciare alla libera iniziativa dei singoli la scelta circa il “se” e il “quando” attuarli, dovendosi al contrario dotarsi di strumenti in grado di incentivare e indirizzare la realizzazione di quanto prescritto, attraverso la definizione di mezzi, procedure e, per l’appunto, tempi[12].
A tale idea si ispira evidentemente il modello di pianificazione definito «a due stadi», laddove si affianca ad una parte strutturale, contenente le c.d. invarianti, una parte operativa, chiamata invece a definire concretamente le trasformazioni da realizzarsi e, soprattutto, entro quanto tempo ciò debba avvenire[13]: il piano, si ribadisce, nella sua dimensione operativa non si limita a riconoscere in capo al privato la possibilità di “calare” una certa volumetria sulla propria area, ma impone allo stesso anche il rispetto di una determinata tempistica per realizzare (esattamente) quanto autorizzato.
La centralità del fattore “tempo” trova, poi, piena conferma nella stessa disciplina del permesso di costruire e nella relativa indicazione dei termini di inizio e ultimazione dei lavori. Come ricorda la pronuncia in commento, “l’indicazione dei termini nel titolo abilitativo trova la sua ragione nella necessità di avere una certezza temporale riguardo le attività di trasformazione urbanistico edilizia del territorio, che per propria natura è frazionata nel tempo, al fine di impedire che l’eventuale modifica delle previsioni pianificatorie possa essere condizionata senza limiti temporali da antecedenti permessi di costruire”. Al riguardo, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che entro il termine di ultimazione dei lavori l’opera deve essere realizzata sia nella sua dimensione strutturale che funzionale, dovendo la costruzione essere potenzialmente idonea ad assolvere alla destinazione prevista. La stessa nozione di “opera completata” è, allora, legata non solo alla circostanza che il manufatto risulti materialmente realizzato nelle sue strutture portanti, ma anche che esso si riveli funzionalmente adeguato allo scopo per il quale era stato progettato[14].
Ebbene, come già osservato, nelle ipotesi in cui i lavori non risultino completati entro il termine indicato nel titolo, la norma dispone la decadenza dello stesso “per la parte non eseguita”. La centralità riconosciuta alla coordinata temporale, tuttavia, non comporta una assoluta rigidità della stessa, se solo pensiamo che il legislatore ha previsto la possibilità per l’interessato, da un lato, di ottenere la proroga del termine prima della scadenza del permesso di costruire[15], e, dall’altro lato, in caso di avvenuta decadenza, di richiedere un nuovo titolo (o, nel caso, di presentare una s.c.i.a.) per il completamento delle opere[16].
Alla luce del contesto delineato, è allora possibile ricostruire correttamente la fattispecie in esame, facendone emergere la complessità e la correlata esigenza di effettuare puntuali distinguo. Come detto, a fronte di un intervento non ultimato e della relativa decadenza del titolo, il legislatore si limita ad indicare al soggetto interessato le modalità attraverso cui portare a compimento i lavori (la richiesta di un nuovo permesso o la presentazione di una s.c.i.a.), dando in qualche modo per scontata la volontà di ultimare l’opera iniziata: manca del tutto, dunque, una disposizione atta a regolare il caso (invero, come è emerso, niente affatto raro) nel quale questa volontà non sussista.
Ciò posto, la Plenaria affronta la questione in una prospettiva, pienamente condivisibile, secondo la quale occorrerebbe in primo luogo verificare di volta in volta il livello di incompiutezza rilevabile: se gli interventi ancora da realizzarsi sono circoscritti e, di fatto, la loro assenza non preclude una (anche parziale) funzionalità dell’opera, appare coerente con la complessiva disciplina del regime dei suoli che la mancata realizzazione dell’intero intervento entro il termine finale comporti semplicemente l’inefficacia del titolo per la parte non eseguita. Al contrario, a fronte di un volume gravemente incompleto e, quindi, del tutto inidoneo a soddisfare quella funzione a cui era stato destinato (o altra analoga), la reazione dell’ordinamento non può che essere di diverso tenore, nella misura in cui l’inerzia del privato finisce per assumere un significato che va ben oltre la sua posizione individuale di proprietario[17]. Se, infatti, ci ricorda il Collegio, la ratio del previo rilascio del titolo abilitativo riposa nella necessaria verifica che il nuovo manufatto sia coerente con il complessivo disegno del pianificatore, assolvendo alla funzione di garantire il corretto inserimento del manufatto sul territorio, allora trova conferma la tesi secondo la quale il permesso di costruire non riconoscerebbe al cittadino la facoltà di realizzare ciò che desidera “entro” un certo volume, bensì “gli consente l’edificazione di quello specifico fabbricato descritto nel progetto (quanto all’area di sedime, al perimetro, alla sagoma, ai volumi, alle altezze, ecc.)”.
La (grave) non conformità (strutturale e funzionale) del manufatto non permette, quindi, di tollerarne la permanenza sul territorio, con consequenziale dovere dell’amministrazione di ordinarne la demolizione. E ciò nel pieno rispetto della tassatività del regime sanzionatorio[18], nella misura in cui la fattispecie in questione non rappresenta affatto un’ipotesi ulteriore di abuso, rientrando piuttosto nella tipologia della totale difformità. L’accezione che di quest’ultima viene tralatiziamente proposta da parte della giurisprudenza, sia amministrativa che penale – ovvero di intervento connotato dalla esecuzione di volumi ulteriori rispetto a quelli autorizzati – si rivela a ben vedere errata o, meglio, parziale[19]. La totale difformità, infatti, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, si configura ogniqualvolta si realizzi un organismo edilizio integralmente diverso - per caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche o di utilizzazione - da quello oggetto del permesso stesso, ovvero si eseguano volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto[20]. Il che consente di qualificare come abusivo un immobile ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non sia in alcun modo riferibile a quella assentita, con la specificazione che la realizzazione di un incremento volumetrico non consentito rappresenta solo una delle possibili fonti di tale difformità, configurabile, sottolinea la Plenaria, anche nel caso in cui vi sia il “mancato completamento della costruzione e vi sia un aliud pro alio”.
Ebbene, nel condurre alle logiche conseguenze il proprio percorso argomentativo, il Collegio inquadra la fattispecie in esame nella categoria del “non finito architettonico”[21] – ravvisabile quando le opere realizzate risultano incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da condurre ad un manufatto diverso da quello autorizzato – facendone poi derivare la piena sussistenza del fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino, consistente nella configurazione di un abuso, sub specie di difformità totale dal permesso di costruire.
Interessante, al riguardo, una pronuncia del Consiglio di Stato che già nel 2021 sembrava accogliere tale prospettiva, laddove specificava come si potesse configurare la legittimità degli interventi realizzati prima della decadenza del titolo solo a condizione che “dette opere siano autonome e scindibili”, ovvero abbiano una loro seppur parziale funzionalità[22]. Del resto, a supporto delle conclusioni cui giunge la pronuncia in commento, l’amministrazione giammai avrebbe potuto rilasciare il permesso di costruire nell’ipotesi in cui il progetto originariamente presentato dal privato fosse stato quello poi effettivamente realizzato, ovvero lo scheletro edilizio; pertanto, afferma la Plenaria, il principio di simmetria impone all’amministrazione di “ordinare la rimozione dello ‘scheletro’, che risulti esistente in conseguenza della decadenza del permesso di costruire”.
In definitiva – una volta sollecitato, senza esito, il privato ad attivarsi al fine di portare a compimento l’opera – l’amministrazione non potrebbe non reagire di fronte ad un’ipotesi di grave abuso edilizio, con conseguente configurazione in capo alla stessa del dovere di emanare l’ordinanza di demolizione del manufatto, attesa la natura di atti obbligatori a contenuto non discrezionale riconosciuta ai provvedimenti repressivi in materia edilizia[23]. Tali conclusioni, osserva la Plenaria, non configurano affatto una violazione del principio di proporzionalità rispetto al regime meno lesivo di cui all’art. 38 del T.U. edilizia (come pure invece prospettato dalla Sezione remittente), trattandosi di due fattispecie del tutto differenti: in caso di non finito architettonico, il ripristino dello stato dei luoghi si giustifica a fronte della accertata divergenza tra quanto autorizzato e quanto realizzato, divergenza “che non sussiste nell’ipotesi dell’art. 38 cit., in quanto in quel caso il legislatore ha ritenuto di disciplinare una fattispecie peculiare, caratterizzatadall’annullamento del permesso di costruire e dalla conformità delle opere al titolo ormai annullato”.
4. Conclusioni: l’eterogeneità delle ipotesi di “incompiutezza” e la consequenziale esigenza di regimi differenziati.
Alla luce delle considerazioni svolte, emerge con chiarezza come il fenomeno del non finito architettonico sia connotato da una notevole complessità intrinseca e abbia un impatto che va ben al di là del singolo episodio. A ben vedere, infatti, esso intercetta tre elementi centrali delle politiche di governo del territorio: la differenza tra città pianificata e città realizzata, la lotta al degrado urbano, la valorizzazione del fattore temporale. La mancata concretizzazione, nei tempi stabiliti, di quanto autorizzato rende “incompleto” il disegno del pianificatore, frustrando le istanze di sviluppo insite nel piano, con l’aggravio rappresentato dall’inserimento nel contesto urbano di un elemento (lo “scheletro” edilizio) fonte di per sé di degrado ambientale, paesaggistico e sociale.
Il fenomeno è, poi, direttamente legato a quello che forse oggi rappresenta il “tema per eccellenza” del governo del territorio: il consumo di suolo[24]. Gli episodi di incompiutezza architettonica e urbana concorrono, infatti, a rendere incoerenti gli insediamenti e ad incrementare il c.d. sprawl urbano, una delle principali fonti di perdita delle aree di valore ambientale[25].
Ciò premesso, appare evidente la rilevanza delle conclusioni cui giunge la Plenaria con una pronuncia attenta alle reali dinamiche e agli interessi sottesi alle trasformazioni edilizie. Il superamento del precedente orientamento e la consequenziale configurazione del “non finito architettonico” in termini di abuso edilizio, consente finalmente di valicare diversi ostacoli che sino ad oggi hanno spesso impedito di portare a termine processi di rigenerazione urbana, fornendo una soluzione ad un problema di grave degrado, e ottemperando, nel contempo, anche alle pressanti esigenze di razionalizzazione dell’utilizzo della risorsa territorio nell’ottica della riduzione del consumo di suolo. Tra le linee di azione volte ad ottimizzare le politiche di governo del territorio in considerazione della scarsità del suolo vi è, infatti, proprio l’esigenza di tenere in debito conto tutte le risorse inutilizzate, quali siti dismessi e, per l’appunto, edifici la cui costruzione non sia stata terminata.
Non secondaria, poi, la risoluzione di quella evidente contraddittorietà che si registrava tra l’assoggettare alle eventuali sopravvenienze urbanistiche il proprietario che non avesse chiesto per tempo la proroga del permesso di costruire, e il ritenere legittimo (e, quindi, “intangibile”) il manufatto incompleto, con conseguente impossibilità per l’amministrazione di ri-pianificare diversamente l’area.
Permangono, tuttavia, anche a seguito della pronuncia della Plenaria, alcuni elementi di incertezza nella interpretazione del fenomeno in questione. La sentenza, infatti, non chiarisce appieno quello che probabilmente rappresenta il profilo più delicato, laddove afferma che il non finito architettonico si configura qualora – a fronte di un manufatto incompleto – vi sia stata la decadenza del permesso di costruire e “non sia possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo, ovvero l’interessato non lo richieda”. L’incertezza si rinviene nella circostanza che il legislatore non indica affatto un termine entro il quale il privato sia tenuto a chiedere il nuovo titolo finalizzato a completare l’opera, il che rende se non altro problematica l’individuazione della sussistenza dell’ultimo presupposto indicato dalla Plenaria. In assenza di un termine legale, infatti, non vi è certezza su quando il titolo non possa essere più richiesto (se non nelle ipotesi in cui la disciplina urbanistico-edilizia dell’area sia mutata e non contempli più quel tipo di intervento edilizio), né tantomeno su quando si possa affermare che il privato non abbia intenzione di chiedere il nuovo titolo. De iure condendo,al fine di giungere ad un assetto di interessi davvero connotato da assoluta certezza, occorrerebbe stabilire ex lege un termine massimo entro cui il privato possa attivarsi per portare a compimento i lavori, ad esempio introducendo una modifica del seguente tenore all’art. 15 co. 3 del d.P.R. n. 380/2001: “La realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, da richiedere entro un anno dalla decadenza del precedente titolo”.
Altro profilo critico è rappresentato dall’indeterminatezza del concetto di “non finito” o “incompleto” architettonico[26]: non sempre, infatti, ci si trova di fronte a ipotesi come quella oggetto della pronuncia della Plenaria, ovvero nelle quali il grado di incompiutezza è tale da rendere non dubitabile l’assenza di una autonoma funzionalità degli interventi realizzati[27]; in molti casi, il manufatto incompiuto è dotato di una propria (magari minima) funzionalità, sebbene differente e incompatibile con quella originariamente prevista nel titolo: ci si chiede, allora, se anche in tale ipotesi si configuri una fattispecie di abuso per totale difformità. Sul punto, la Plenaria non assume una posizione chiara: in alcuni passaggi, infatti, essa sembra legare l’operatività dell’art. 31 cit. alle sole ipotesi di grave incompiutezza, ad esempio quando richiama la figura dello “scheletro” edilizio come paradigma del non finito architettonico (pag. 19); tuttavia, tale assunto si rivela in contrasto con quanto si legge in altra parte della medesima pronuncia, laddove si afferma che le trasformazioni edilizie sarebbero da considerarsi lecite solo allorquando vi sia “coincidenza tra quanto è stato assentito e quanto è stato realizzato”, potendo essere ritenuti conformi unicamente i manufatti “autonomi funzionalmente” ai quali “manchino soltanto opere marginali” (pag. 20).
Quel che è certo è che, a seguito delle precisazioni della Plenaria, non è più possibile ritenere che la categoria della totale difformità dal titolo edilizio sia connotata da uniformità: occorre, piuttosto, che l’amministrazione “misuri” di volta in volta le divergenze (strutturali e funzionali) e valuti se si configurino o meno i presupposti per l’ipotesi di non finito architettonico, con tutte le conseguenze in termini non solo di legittimità, ma anche di doverosità del successivo ordine di demolizione. Laddove, invece – nonostante l’incompiutezza di quanto realizzato – le opere dovessero comunque risultare autonome, scindibili e funzionali, le determinazioni del comune potrebbero essere tanto nel senso di considerarle sostanzialmente conformi al titolo abilitativo, quanto nel senso di ritenere applicabile la disciplina di cui all’art. 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire) o all’art. 36 (Accertamento di conformità) del T.U. Edilizia[28].
In conclusione, gli approdi cui giunge la Plenaria – per quanto non esenti da perduranti profili di incertezza – sono senza dubbio da salutare con favore, in quanto consentono, da un lato, di attribuire valenza sostanziale al concetto di difformità edilizia e, dall’altro, di riconoscere appieno la centralità del fattore “tempo” nelle dinamiche di trasformazione urbana. La prospettiva delineata, infatti, impone che gli interventi edilizi si compiano non solo in conformità alla disciplina urbanistico-edilizia di riferimento, ma anche nel solco di una linea temporale ben definita, al fine di garantire effettiva concretezza allo sviluppo del territorio prospettato negli atti di pianificazione: solo in tal modo la “città immaginata” potrà coincidere con la “città realizzata”[29].
[1] In generale, sull’istituto della decadenza del permesso di costruire v. R. De Nictolis, F. Grassi, Efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire, in AA.VV., Testo unico dell’edilizia, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2015, 409 ss.; F. Saitta, Efficacia e decadenza del permesso di costruire, in Riv. giur. urbanistica, 3-4/2014, 588 ss.; M. Occhiena, Breve ricostruzione storica dell’istituto della decadenza della concessione edilizia per mancata ultimazione dei lavori, in Riv. giur. edilizia, 1998, 366 ss. Sulla natura dichiarativa della decadenza v. Cons. Stato, sez. IV, 30 ottobre 2024, n. 8672; T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 31 agosto 2023, n.4945, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] In relazione alle opere pubbliche incompiute, si segnala che il legislatore statale ha istituito nel 2011 (art. 44-bis, d.l. 6 dicembre 2011 n. 201) l’Anagrafe delle Opere Incompiute presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, avente l’obiettivo non solo di fornire una mappatura completa e sempre aggiornata, ma anche di identificare modalità e strumenti (anche finanziari) atti a consentire il completamento delle opere stesse, ovvero la loro riconversione.
[3] Cons. Stato, sez. II, 7 marzo 2024, n. 2228, in Riv. giur. edilizia, 3/2024, 459.
[4] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 2 agosto 2021, n. 9113, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso analogo v. Cons. Stato, sez. IV, 25 marzo 2020, n. 2078, in Riv. giur. edilizia, 3/2020, 562; T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 14 novembre 2014, n. 449, in Riv. giur. edilizia, 6/2014, 1225. In dottrina, sul punto, v. G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2019, 457 ss.
[5] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11195, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Toscana, sez. III, 5 marzo 2021, n. 345, in Foro amm., 3/2021, 543; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 3 gennaio 2014, n. 2, in Foro amm., 2014, 197; T.A.R. Toscana, Sez. III, 26 novembre 2013, n. 1637, in Foro amm.-TAR, 2013, 3360.
[6] A. Fabri, E.A. Taraschi, La c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio: alcune questioni aperte, in Dir. e proc. amm., 3/2022, 625.
[7] “L' art. 38, d.P.R. n. 380/2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato e la ratio è proprio quella di introdurre un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall' origine in assenza di titolo, per tutelare un certo affidamento del privato, sì da ottenere la conservazione di un bene che è pur sempre sanzionato” (T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 2 dicembre 2022, n. 7543, in Foro amm., 2022, II, 1662). In termini cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 aprile 2018, n. 2155; Cons. Stato, sez. VI, 28 novembre 2018, n. 6753, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it. In generale, sui presupposti applicativi dell’art. 38 cit., v. Cons. Stato, Sez. II, 25 ottobre 2023, n. 9243, in questa Rivista, 2024, con nota di R. Parisi, Profili applicativi della fiscalizzazione degli abusi edilizi.
[8] M. Calabrò, Decadenza del permesso di costruire e “non finito architettonico”. La rilevanza della coordinata temporale nelle trasformazioni edilizie, in Riv. giur. edilizia, 5/2015, 229 ss.
[9] Cfr. Corte Cost., 31 maggio 2000, n. 164, in Giur. Cost., 200, 1465; Cons. Stato, Sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5081, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 8 luglio 2013, n. 3606, in Foro amm.-C.d.S., 2013, 1950; Cons. Stato, Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710, in Urb. e app., 2013, 59 ss., con nota di P. Urbani, Conformazione dei suoli e finalità economico sociali, 64 ss. In tale ottica, Giannini parlava del piano urbanistico come documento volto a fornire coordinate di ordine spaziale e temporale «a fini di risultato», (M.S. Giannini, Pianificazione, voce in Enc dir., vol. XXXIII, Milano, 1983, 629 ss.).
[10] Sul tema v. M. R. Spasiano, M. Calabrò, M. Brocca, A. Giusti, G. Mari, A. G. Pietrosanti, Fondamenti di diritto per l’architettura e l’ingegneria civile, Napoli, 2023, 70 ss.; F. Saitta, Governo del territorio e discrezionalità dei pianificatori, in Riv. giur. edilizia, 6/2018, 421 ss.
[11] Cfr. T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 755, in Riv. giur. edilizia, 2012, 177, ove – nel sancire l’illegittimità di un’ordinanza di demolizione di opere realizzate nel periodo che ha preceduto la decadenza del titolo – si afferma che il permesso di costruire abiliterebbe “non solo la realizzazione della costruzione, ma anche l’esecuzione di ogni fase intermedia in quanto parte del risultato finale”.
[12] In termini, v. P. Lombardi, Il governo del territorio tra politica e amministrazione, Milano, 2012, 114. Evidente è il richiamo anche al Programma pluriennale di attuazione, documento cui è affidato proprio il compito di evitare che lo sviluppo degli insediamenti possa avvenire in maniera episodica e irrazionale. E’ noto, tuttavia, che questo strumento si è rivelato sostanzialmente fallimentare, anche in ragione del fatto che l’unico rimedio previsto in caso di eventuale inerzia da parte dei privati consiste nell’espropriazione dell’area interessata, eventualità remota per evidenti ragioni di ordine economico. Sul tema v. F. Saitta, Jus aedificandi o….dovere di costruire, in Riv. giur. edilizia, 2002, 1416 ss.
[13] F. Salvia, C. Bevilacqua, N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, Milano 2021, 108 ss.; M.A. Cabiddu, Il governo del territorio, Roma-Bari, 2019, 26; P. Stella Richter, Diritto urbanistico, Milano, 2012, 31; F. Pagano, Il “piano operativo” nel processo di pianificazione, in Riv. giur. edilizia, 2010, 67 ss.; A. Bartolini, Questioni problematiche sull'efficacia giuridica della pianificazione strutturale e operativa, in Riv. giur. urb., 3/2007, 262 ss.
[14] T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. II, 30 novembre 2022, n. 817, in Foro amm., 2022, 1546. In termini cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 1° giugno 2012, n. 2612, in Foro amm.- TAR, 2012, 2022; Cons. Stato, Sez. V, 21 ottobre 1991, n. 1239, in Riv. giur. urbanistica, 1992, 421.
[15] “Risponde ad un principio generale dell'ordinamento, la regola secondo cui la proroga del termine per il compimento di una certa attività deve essere richiesta prima della scadenza del termine medesimo, per esigenze di chiarezza, di trasparenza e di pubblicità, a garanzia delle parti e, più in generale, dei terzi; la presentazione della richiesta di proroga è infatti funzionale ad evidenziare la sussistenza e la perduranza dell'interesse del privato alla realizzazione dell'intervento programmato, sia nei rapporti con l'Amministrazione che aveva rilasciato il titolo, sia rispetto ai terzi che, per ragioni di vicinitas, potrebbero avere un qualche interesse ad opporsi all'altrui iniziativa edificatoria” (Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2023, n.2757, in Riv. giur. edilizia, 3/2023, 624).
[16] E’ bene sottolineare che, in base al principio del tempus regit actum, il nuovo titolo (permesso o s.c.i.a.) presuppone la perdurante compatibilità degli interventi ancora da realizzare con la disciplina urbanistica vigente. Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 16 aprile 2014, n. 2170, in Foro amm., 2014, 1269; Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2012, n. 2471, in Foro amm. CDS, 4/2012, 923; T.A.R. Umbria, Sez. I, 15 settembre 2010, n. 465, in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 2060.
[17] “La decadenza stabilita dall'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380/2001 sanziona l'inerzia dei privati, sia come disinteresse soggettivo sia come potenziale intralcio alla futura attività di pianificazione. Quest'ultima, infatti, verrebbe resa meno efficace se fosse consentito ai privati di mantenere indefinitamente i diritti edificatori non consumati” (T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 14 ottobre 2021, n. 871, in www.giustizia-amministrativa.it). P. Capriotti, L’inerzia proprietaria al tempo della rigenerazione urbana, in Riv. giur. urbanistica, 1/2020, 49 ss.
[18] Cfr. T.A.R. Piemonte, sez. I, 16 marzo 2009, n. 752, in Foro amm. TAR, 3/2009, 610.
[19] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 30 giugno 2022, n. 4401; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II-quater, 16 novembre 2020, n. 12035; Cass. pen., sez. III, 23 aprile 1990, n. 5891, tutte citate da R. Musone, La disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e non oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio, in Urb. e appalti, 6/2024, 749-751.
[20] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 29 gennaio 2024, n. 906, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si afferma che “si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione”. In dottrina, v. F. Vetrò, Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, in AA.VV., Testo unico dell’edilizia, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2015, 751 ss.
[21] Concetto originariamente approfondito dai teorici della progettazione urbana. Cfr. F. Costanzo (a cura di), L'architettura del non finito. Una strategia progettuale per l'edificio incompiuto, Melfi, 2015.
[22] Cons. Stato, sez. VI, 19 marzo 2021, n. 1377, in Foro amm., 2021, 505: “Ai sensi dell’art. 15 d.P.R. n. 380/2001, l’inutile decorso del termine triennale d’efficacia del titolo edilizio comporta la decadenza dello stesso titolo per la parte non eseguita alla scadenza dei relativi termini e inibisce l’ulteriore corso dei lavori, ma non determina l’illiceità di quanto già realizzato nella vigenza del titolo stesso, purché dette opere siano autonome e scindibili rispetto a quelle da demolire”. In termini cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 giugno 2022, n. 5258, in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Cfr. Cons. Stato, sez. II, 8 febbraio 2024, n. 1297, in Riv. giur. edilizia, 3/2024, 497; Cons. Stato, sez. VI, 6 settembre 2017, n. 4243, in Riv. giur. edilizia, 2017, 1330; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 1 giugno 2012, n. 2616, in Foro amm. TAR, 2012, 2025; Corte Cost., 14 aprile 1988, n. 447, in Giur. cost., 1988, I, 2057. In dottrina v. M.A. Sandulli, Sanzione-IV) Sanzioni amministrative, (voce) in Enc. giur. Treccani, vol. XXVII, Roma, 1992, 15; A. Cagnazzo, S. Toschei, F.F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia edilizia, Torino, 2014.
[24] A.G. Pietrosanti, Consumo di risorse naturali non rinnovabili. Tra diritti della natura, bilanciamento di interessi e tutela giurisdizionale, Napoli, 2023; G.A. Primerano, Il consumo di suolo e la rigenerazione urbana, Napoli, 2022; G. Pagliari, Governo del territorio e consumo di suolo. Riflessioni sulle prospettive della pianificazione urbanistica, in Riv. giur. edilizia, 5/2020, 325 ss.
[25] Su tale profilo v. E. Boscolo, Le periferie in degrado (socio-territoriale) e i (plurimi) fallimenti dell'urbanistica italiana, in Riv. giur. urbanistica, 1/2021, 54 ss.; W. Gasparri, Consumo di suolo e sviluppo sostenibile nella destinazione agricola dei suoli, in Dir. pubbl., 2/2020, 421 ss.
[26] Sul piano definitorio, invero, la Plenaria non “brilla” per chiarezza, nella misura in cui qualifica la medesima fattispecie prima come “non finito architettonico” (pag. 16) e poi come “incompleto architettonico” (pag. 18).
[27] Nel caso di specie, prima della sospensione dei lavori era stato effettuato unicamente lo scavo delle fondamenta, con l’installazione di alcuni pilastri strutturali.
[28] R. Musone, La disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e non oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio, cit., 744.
[29] M. Calabrò, Il tempo “certo” ed il tempo “giusto” nell’azione amministrativa: spunti per un dialogo, in A. Carbone, F. Aperio Bella, E. Zampetti (a cura di), Dialoghi di diritto amministrativo, Roma, 2024, 159.
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N. 00014/2024REG.PROV.COLL.
N. 00004/2024 REG.RIC.A.P.
N. 00005/2024 REG.RIC.A.P.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale n. 7306 del 2022 della Seconda Sezione (n. 4 del 2024 dell’Adunanza Plenaria), proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Nino Paolantonio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
il Comune di Sorrento, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Maurizio Pasetto, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
l’o.n.l.u.s. Wwf Italia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Anna Iaccarino e Giovanbattista Pane, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
la s.r.l. -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito in giudizio;
sul ricorso numero di registro generale n. 7373 del 2022 della Seconda Sezione (n. 5 del 2024 dell’Adunanza Plenaria), proposto dalla s.r.l. -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Angelo Clarizia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Principessa Clotilde, n. 2;
contro
Il Comune di Sorrento, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Maurizio Pasetto, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
il signor -OMISSIS-, non costituito in giudizio;
l’o.n.l.u.s. W.W.F. Italia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Anna Iaccarino e Giovanbattista Pane, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
entrambi per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sede di Napoli (Sezione Sesta), n. -OMISSIS-del 2022, resa tra le parti;
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Sorrento e dell’o.n.l.u.s. W.W.F.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 maggio 2024 il Cons. Stefania Santoleri e uditi l’avvocato Angelo Clarizia, anche in sostituzione dell'avvocato Nino Paolantonio, e l’avvocato Maurizio Pasetto;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. - In data 2 febbraio 2006 il signor. -OMISSIS- (proprietario dell’area in questione ed appellante nel giudizio n. 4 del 2024) ha stipulato con la società s.r.l. -OMISSIS-(appellante nel giudizio n. 5 del 2024) un contratto preliminare di compravendita del “diritto di superficie al di sotto del suolo sito in Sorrento al -OMISSIS-, dell’estensione catastale di circa metri quadrati 3.393 … foglio 2, particelle: 1326”, terreno ricadente in zona omogenea B6 “residenziale satura” del P.R.G. - zona omogenea B “urbanizzazione recente” del PUC, in area assoggettata a vincolo paesaggistico e zona sismica di grado 6.
L’efficacia del contratto è stata subordinata “al rilascio, a nome della parte promissaria acquirente (o, nel caso, della stessa parte promittente venditrice in veste di procuratrice), entro il termine del 31 dicembre 2006 [poi posticipato], da parte del Comune di Sorrento, del permesso o autorizzazione della D.I.A. a realizzare boxes garages interrati”.
In base a tale scrittura privata e ad una procura speciale rilasciata dal signor -OMISSIS-, la società ha ottenuto il permesso di costruire n. 33 del 24 novembre 2010 per la realizzazione di un’autorimessa interrata;
- a seguito di un esposto, è stata avviata un’indagine penale che è sfociata in una sentenza del Tribunale Penale di Torre Annunziata, di data 14 settembre 2016, contenente la condanna dei commissari ad acta che avevano rilasciato il permesso di costruire, del rappresentante legale della società e del proprietario dell’area;
- con sentenza di data 4 giugno 2020, la Corte d’Appello di Napoli, nel confermare la condanna di alcuni imputati (con assoluzione del proprietario dell’area), ha accertato “la assoluta e macroscopica illegittimità del permesso a costruire n. 33 del 24.11.2010” per violazione del P.U.T., del P.R.G., del P.U.C. e del Regolamento comunale di attuazione per la realizzazione dei parcheggi, precisando (mediante richiamo alla deposizione del c.t.u.) che secondo le previsioni del P.U.T. nella zona oggetto di intervento “potevano essere realizzati parcheggi pubblici a rotazione, verde attrezzato ed altro (…) però di fatto devono essere sempre interventi pubblici”;
- in data 22 novembre 2016, il Comune di Sorrento ha notificato al proprietario del fondo e all’impresa esecutrice il provvedimento n. 54834 (che non è stato impugnato) di presa d’atto della decadenza del permesso di costruire n. 33 del 2010, per lo spirare del termine di ultimazione dei lavori;
- il WWF Italia ha dapprima sollecitato il Comune di Sorrento alla definizione del procedimento repressivo ed ha poi contestato il silenzio del Comune con un ricorso proposto al TAR che, con la sentenza n. 2502 del 17 aprile 2018, lo ha accolto ed ha ordinato all’Amministrazione di provvedere nel termine di trenta giorni;
- nel frattempo la s.r.l. -OMISSIS- ha sottoposto al Comune un nuovo progetto relativo alla realizzazione di un’attrezzatura di interesse pubblico in regime di convenzione urbanistica, da realizzarsi sull’area in questione, comprensivo di lavori di parziale ripristino dell’area;
- il Comune, con il provvedimento n. 24101 del 2018, ha respinto l’istanza presentata dalla società per il rinvio della conferenza di servizi, indetta con la nota n. 17303 del 6 aprile 2018 per l’esame del progetto, e ha ordinato ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 “il ripristino dello stato dei luoghi per come risultante in via antecedente all’esecuzione delle opere parzialmente eseguite in forza del permesso di costruire n.ro 33/2010”;
- con tale atto il Comune ha anche rilevato che l’intervento presentava “profili di criticità già emersi in sede penale” che “vanno valutati in sede amministrativa”; ha quindi aggiunto che “la Zona urbanistica, in cui è situato il cespite oggetto di intervento ovvero 6 Put e B Prg, non è consentita la realizzazione di strutture private, quali possono essere qualificate le autorimesse a suo tempo assentite dai commissari ad acta, né risulta configurabile deroga per intervento della tipologia di quello in esame”; ha quindi precisato, con riferimento all’intenzione della proprietà di proporre una soluzione alternativa e diversa, che “anche tale soluzione sarebbe connotata dalla violazione delle medesime disposizioni urbanistiche, venendo in rilievo la natura non pubblicistica dell’intervento”;
- il Comune, dopo aver rilevato che vi era stato l’avvio del procedimento di ripristino dello stato dei luoghi, ha ritenuto che la decadenza del permesso di costruire “assorbe ogni immediata valutazione in ordine alla legittimità del permesso di costruire n.ro 33/2010”, precisando che tale atto “non è stato emesso dagli organi Comunali competenti, ma da commissari ad acta, nominati dell’Amministrazione Provinciale p.t.”.
- tale provvedimento è stato impugnato dalla società con il ricorso n. 3548/2018 innanzi al T.A.R. per la Campania;
- nelle more del giudizio, il Comune con l’atto n. 15923 del 13 maggio 2020 (non impugnato) ha respinto l’istanza di permesso di costruire di data 18 marzo 2019 e con l’ordinanza n. 59 del 2021 ha accertato l’inottemperanza all’ordine di riduzione in pristino e ha disposto l’acquisizione gratuita del fondo al proprio patrimonio;
- l’ordinanza n. 50 del 2021 è stata impugnata sia dalla società (con motivi aggiunti al ricorso n. 3548 del 2018), sia dal signor -OMISSIS-, proprietario del bene, con il ricorso n. 2046/2021.
2. - Il T.A.R. per la Campania, con la sentenza del 22 febbraio 2022, n. -OMISSIS-, ha riunito i ricorsi, ha dichiarato in parte improcedibile il ricorso n. 3547/2018 proposto dalla società (limitatamente all’impugnazione dell’atto n. 24101 del 2018 che ha respinto l’istanza di rinvio della conferenza di servizi), e lo ha, per il resto, respinto, ed ha altresì respinto i motivi aggiunti della società ed il ricorso n. 2046/21 proposto dal proprietario dell’area;
- il T.A.R. ha ritenuto che, quando i lavori edilizi non sono stati ultimati, in linea di principio la decadenza del permesso di costruire riguarda per intero i suoi effetti, salvo il caso in cui sia consentito ‘ultimare’ l’edificio; l’ammettere che a seguito della decadenza possano in ogni caso restare in loco le ‘opere incompiute’ significherebbe riconoscere che il titolare del permesso di costruire avrebbe il ‘diritto di non completare l’opera’ e di lasciarla incompiuta e funzionalmente non autonoma, con ingiustificato deturpamento del contesto circostante;
- nel caso in questione, il T.A.R. ha rilevato come le opere realizzate in esecuzione del permesso poi decaduto risultino sicuramente incompatibili con la disciplina giuridica dell’area (come ritenuto dal giudice penale, dalla Soprintendenza e dallo stesso Comune di Sorrento nel provvedimento impugnato) e comunque neppure siano conformi a quelle formalmente assentite;
- il T.A.R. ha quindi concluso per la legittimità dell’ordinanza di ripristino dell’originario stato dei luoghi, mediante eliminazione degli sbancamenti di terra, dei pali – ivi collocati – “di fondazione trivellati completi anche del getto di conglomerato cementizio”, dello sterro dell’impianto vegetale del fondo e di quant’altro posto in essere in via prodromica all’edificazione, rimasti ormai privi di finalizzazione;
- ha pertanto respinto i motivi aggiunti proposti dalla società ed il ricorso rg. 2046/2021 proposto dal proprietario dell’area avverso l’ordinanza n. 59/2021, rilevando che, essendo stato compromesso l’intero fondo, sarebbe giustificata la disposta acquisizione dell’intera particella.
2. - Avverso tale sentenza hanno proposto separati appelli il sig. -OMISSIS-, proprietario dell’area (n. 7306/22), e la s.r.l. -OMISSIS- (n. 7373/22);
- il proprietario dell’area ha rimarcato come l’originario permesso di costruire non sia mai stato annullato in alcuna sede, ma è divenuto inefficace per decorrenza del termine di conclusione dei lavori, con conseguente liceità delle opere realizzate nel periodo di efficacia del permesso: pertanto, ad avviso dell’appellante, il Comune non avrebbe potuto disporre il ripristino dell’area, senza prima annullare il titolo edilizio;
- la società ha dedotto che le opere eseguite in virtù di un titolo edilizio efficace, ma poi decaduto, non sarebbero potute essere oggetto di ordine di demolizione ex art. 31 del d.P.R. 380 del 2001, che sarebbe applicabile unicamente quando le opere eseguite siano state realizzate abusivamente;
- le opere delle quali è stata ingiunta la demolizione erano state eseguite in base al permesso di costruire n. 33 del 24 novembre 2010, poi dichiarato decaduto con l’atto del 22 novembre 2016, n. 54834; la decadenza ha efficacia ex nunc e, dunque, non consente di ritenere abusive le opere realizzate in esecuzione del permesso di costruire;
- data la tassatività delle norme sanzionatorie, l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 non potrebbe essere applicato al caso in questione, in cui è stata ingiunta la demolizione di opere realizzate durante l’efficacia del permesso di costruire che è stato, successivamente, dichiarato decaduto;
- ha inoltre aggiunto che, nel caso di specie, le opere non potrebbero qualificarsi come “costruzione”, trattandosi di attività preparatoria a quella costruttiva;
- infine, ambedue le parti appellanti hanno contestato la legittimità dell’ordinanza di acquisizione n. 59 del 2021.
2.1 - Si sono costituiti per resistere all’appello sia il Comune di Sorrento che il W.W.F. Onlus, i quali hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive tesi.
3. - Con la sentenza non definitiva del 7 marzo 2024, n. -OMISSIS-, la Sezione Seconda:
(i) ha riunito i due appelli ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.a.;
(ii) ha dichiarato inammissibile il primo motivo di appello proposto dal proprietario, con riferimento all’ordine di ripristino, perché tale atto non è stato impugnato in primo grado;
(iii) ha ritenuto irrilevanti le questioni relative alla legittimità del permesso di costruire, tenuto conto che l’ordine di ripristino era stato adottato in conseguenza della decadenza del titolo abilitativo;
(iv) quanto all’appello della società, ha respinto l’impugnazione avverso la declaratoria di improcedibilità del ricorso avverso il diniego di rinvio della conferenza di servizi; quanto alle questioni relative al permesso di costruire, ha ribadito che l’ordine di ripristino era stato adottato in conseguenza della decadenza disposta con atto del 22 novembre 2016, non impugnato;
(v) ha quindi posto all’esame di questa Adunanza Plenaria il seguente quesito: “quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio”.
3.1 – Le parti hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive tesi.
Ad avviso delle parti appellanti, la decisione del giudice di primo grado - che ha ritenuto legittima l’ordinanza di riduzione in pristino ex art. 31 del d.P.R. n. 380/01 - contrasterebbe con i principi affermati dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, in quanto:
- il TAR avrebbe erroneamente interpretato l’art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, facendone derivare l’applicabilità del successivo art. 31 cit. per le ‘opere incompiute’, laddove per le opere eseguite in esecuzione di un permesso efficace non si potrebbe disporre la demolizione;
- la decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nel termine - per fatto imputabile al titolare - ha efficacia ex nunc e non ex tunc e, quindi, non implica l'obbligo di disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo in cui è stato efficace il titolo edilizio (opere che, perciò, non possono essere ritenute abusive, quando risultino conformi al progetto assentito), ma comporta l’onere per l’interessato di chiedere un nuovo permesso per l'esecuzione ed il completamento delle opere non ancora ultimate;
- in mancanza di proroga o di rinnovo del titolo, i lavori effettuati successivamente alla decadenza del titolo risultano abusivi, il che comporta la legittimità dell'ordine di demolizione solo per quanto risulti realizzato successivamente alla decadenza, ma non per quanto realizzato in precedenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 giugno 2022, n. 5258, 19 marzo 2021, ord. n.1377; Cons. St., Sez. IV, 6 agosto 2019, n. 5588);
- una eventuale decadenza del titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nel termine triennale non consentirebbe la demolizione del manufatto, operando l'effetto decadenziale ex nunc e lasciando, pertanto, salve le opere a tale data già realizzate, in quanto secondo la giurisprudenza, “in una corretta interpretazione dell'articolo 15 del DPR n. 380 del 2001, la decadenza impedisce solo l'ulteriore corso dei lavori ma non determina illeceità urbanistica di quanto già realizzato nella vigenza del titolo edificatorio; l'abusività dell'opera (e la sua conseguente demolizione) avrebbe potuto legittimamente predicarsi solo per effetto dell'annullamento del permesso di costruire per vizi di legittimità, determinazione questa nella specie mai assunta (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 19 dicembre 2019, n. 8605)”.
- nel caso di specie il provvedimento del Comune di Sorrento n. 24101 del 2018 si è basato sulla decadenza del permesso di costruire n. 33 del 2010, dichiarata con il provvedimento n. 54834 del 2016, essendo spirato il termine di ultimazione dei lavori;
- pertanto non sussisterebbero i presupposti per disporre l’ordine di ripristino, il successivo accertamento dell’inottemperanza e la conseguente acquisizione del bene al patrimonio comunale, di data 19 febbraio 2021;
- in ogni caso, non si sarebbe potuto applicare l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché la riduzione in pristino presuppone che un manufatto difforme dal titolo edilizio sia stato realizzato almeno in parte, non potendo qualificarsi come costruzione il mero scavo e la realizzazione di qualche palo.
Pertanto, secondo le appellanti non si potrebbe ordinare il ripristino per due ragioni:
- perché non è stata realizzata una ‘costruzione’;
- perché le opere sono state realizzate durante il periodo di efficacia del permesso poi decaduto.
Inoltre, non rileverebbe il ‘deturpamento dell’ambiente circostante’, riscontrato dal TAR, poiché esso non sarebbe preso in considerazione dagli articoli 15 e 31 del testo unico dell’edilizia e si dovrebbe considerare che l’art. 15, comma 3, consente al proprietario di completare l’opera nel triennio successivo alla decadenza.
Le parti appellate nelle loro memorie difensive hanno insistito per il rigetto degli appelli, ribadendo la correttezza della sentenza di primo grado.
3.2 – All’udienza pubblica del 16 maggio 2024, uditi i difensori di cui al verbale, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. – Viene sottoposto all’esame dell’Adunanza Plenaria il seguente quesito: “quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio”.
La fattispecie in questione è del tutto peculiare:
- il Comune di Sorrento ha rilasciato il permesso di costruire n. 33 del 24 novembre 2010 per la realizzazione di una autorimessa interrata;
- i lavori hanno avuto inizio, ma sono stati poco dopo sospesi in seguito alle indagini penali seguite dalla sentenza penale ormai irrevocabile;
- con il provvedimento n. 54834 del 22 novembre 2016, il Comune non ha annullato l’originario permesso di costruire, ma ne ha dichiarato la decadenza per mancata ultimazione dei lavori, rilevando inoltre come la sentenza penale abbia accertato che le opere erano state assentite in contrasto con la normativa urbanistica e quella paesaggistica;
- le parti interessate hanno presentato due diversi progetti, che sono stati seguiti da dinieghi, poiché nella zona sono ammessi solo interventi edificatori di iniziativa pubblica;
- con provvedimento n. 24101 del 17 maggio 2018, il Comune ha ordinato in base all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 “il ripristino dello stato dei luoghi per come risultante in via antecedente all’esecuzione delle opere parzialmente eseguite in forza del permesso di costruire n.ro 33/2010”;
- a tale atto ha fatto seguito l’ordinanza n. 59 del 2021 di acquisizione dell’intera particella al patrimonio comunale.
Il TAR ha ritenuto legittime l’ordinanza ex art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001 e la successiva ordinanza n. 59/2021 di acquisizione dell’intera particella.
La Seconda Sezione, dovendo pronunciarsi su questo specifico aspetto, ha richiamato i principi desumibili dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, richiamati dalle due parti appellanti ed in precedenza indicati, secondo cui le opere eseguite sulla base di un efficace titolo edilizio non possono essere oggetto di ordine di demolizione ex art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, che riguarda le opere eseguite abusivamente, sicché - data la tassatività delle norme sanzionatorie - tale previsione non potrebbe essere estesa a fattispecie non espressamente contemplate.
Nella sentenza non definitiva, la Seconda Sezione ha svolto ulteriori riflessioni:
- l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha previsto per gli “interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire” l’ingiunzione alla rimozione o alla demolizione; l’art. 38 dello stesso testo unico ha previsto, nel caso di “interventi eseguiti in base a permesso di costruire, poi annullato”, la possibilità che in luogo dell’ingiunzione a demolire possa essere applicata dall’Amministrazione una sanzione pecuniaria che quindi lasci salve le opere;
- il Consiglio di Stato (cfr. ad es. sent. n. 6753/2018 della Sez. VI) ha evidenziato che l’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, sì da ottenere la conservazione del bene (cfr. ex multis Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 2155/2018).
La Sezione Seconda ha, dunque, ritenuto che “striderebbe con i principi ritraibili dall’esame comparativo di tali norme un’applicazione estensiva della più grave sanzione demolitoria ex art.31 del T.U. prima citato, in una fattispecie di opere eseguite in conformità ad un titolo (nemmeno rimosso ma semplicemente) decaduto”.
Nondimeno la Sezione remittente – pur rilevando come l’orientamento del TAR sia ragionevole - si è posta la questione se la disciplina vigente consenta all’Amministrazione di ordinare la demolizione delle opere parzialmente eseguite, non completate per l’assenza di un nuovo titolo (come nel caso in questione, in cui l’impresa promissaria acquirente si è vista respingere per due volte l’istanza di completamento, con atti cui ha prestato acquiescenza).
La Seconda Sezione ha rilevato che le opere parzialmente realizzate potrebbero essere qualificate come un ‘manufatto difforme’ da quanto autorizzato, e pertanto se ne potrebbe ordinare la demolizione.
Peraltro, ritenendo che tale tesi “potrebbe porsi in frizione con gli orientamenti precedentemente richiamati”, la Sezione Seconda ha sottoposto all’Adunanza plenaria il quesito prima richiamato.
2. - Innanzitutto è opportuno precisare che tale quesito è stato posto in via generale e non specificatamente in relazione alla decisione della controversia: ciò comporta che questa Adunanza Plenaria si limiterà a rispondere al quesito, demandando, poi, alla Sezione competente la definizione della controversia sulla base dei principi affermati.
3. – Per chiarezza espositiva, è opportuno partire dalla disciplina normativa.
L’art. 15 del testo unico approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001, per quanto qui rileva, così dispone:
“1. Nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori.
2. Salvo quanto previsto dal quarto periodo, il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari. Per gli interventi realizzati in forza di un titolo abilitativo rilasciato ai sensi dell'articolo 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, il termine per l'inizio dei lavori è fissato in tre anni dal rilascio del titolo.
3. La realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell'articolo 22. Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione”.
Dunque, l’art. 15 prevede l’efficacia temporale del titolo e la sua decadenza qualora le opere non siano state ultimate entro il termine ivi previsto (3 anni).
L’indicazione dei termini nel titolo abilitativo trova la sua ragione nella necessità di avere una certezza temporale riguardo le attività di trasformazione urbanistico edilizia del territorio, che per propria natura è frazionata nel tempo, al fine di impedire che l’eventuale modifica delle previsioni pianificatorie possa essere condizionata senza limiti temporali da antecedenti permessi di costruire.
Il legislatore ha previsto la possibilità per l’interessato di richiedere e di ottenere la proroga del termine prima della scadenza del permesso di costruire, così evitando la decadenza, ed ha anche stabilito che, in caso di decadenza, l’interessato possa richiedere un nuovo permesso di costruire per il completamento delle opere, sempreché quelle mancanti non possano realizzarsi ai sensi dell’art. 22 dello stesso testo unico (in quanto soggette a s.c.i.a.).
In base al principio del tempus regit actum, il nuovo permesso di costruire presuppone la compatibilità delle opere da realizzare con la disciplina urbanistica vigente al momento del suo rilascio.
L’efficacia del permesso di costruire decade, infatti, con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche; nondimeno, il comma 4 dell’art. 15 ha introdotto una deroga al principio di decadenza, nel caso dei lavori assentiti dal permesso di costruire, già cominciati e completati entro il termine di tre anni dalla data del loro inizio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 3283/2017).
Il legislatore ha operato un bilanciamento tra la tutela dell’affidamento del privato al completamento dell’opera in fase di realizzazione sulla base di un permesso di costruire, il principio di conservazione e quello di proporzionalità, al fine di evitare la distruzione di ricchezza conseguente all’abbandono di progetti in avanzato stato di attuazione, conservando, comunque, la vigilanza sull’attività di edificazione attraverso la previsione del limite temporale triennale, pari a quello di durata dell’efficacia del permesso di costruire.
Ai principi di conservazione e di affidamento si ispirano anche gli artt. 36 e 38 del testo unico, il primo dei quali (sull’accertamento di conformità) prevede la possibilità – nei limiti ivi contemplati – di sanare gli abusi purché “l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”; il secondo invece consente, in taluni casi, la conservazione dell’immobile realizzato sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato, prevedendo in luogo della demolizione la sanzione pecuniaria.
In particolare, il regime più favorevole stabilito dal legislatore nell’art. 38 cit. (relativo all’annullamento del permesso di costruire che produce effetti ex tunc e, dunque, rende illecite le opere realizzate) rispetto alla decadenza del permesso di costruire (che ha efficacia ex nunc) ha fatto sorgere dubbi alla Sezione remittente circa l’applicabilità dell’art. 31 alle opere realizzate sulla base di un permesso di costruire dichiarato decaduto.
Secondo la Sezione remittente, tali opere, eseguite sulla base di un titolo edificatorio legittimo, non potrebbero ritenersi abusive, e dunque non sarebbero passibili di demolizione e di restituzione in pristino.
Tale tesi non può essere condivisa.
4. - L’art. 31 del testo unico si riferisce agli “interventi eseguiti in assenza del permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali” e, al comma 1, dispone che “Sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche plano-volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso”
Il permesso di costruire è qualificato, in base all’art. 10 del testo unico, come il provvedimento che legittima le trasformazioni urbanistiche ed edilizie ivi individuate (nuove costruzioni, ristrutturazioni urbanistiche ed edilizie nei limiti indicati nella disposizione).
La sottoposizione del potere di edificazione al previo rilascio del permesso di costruire assolve alla funzione di consentire che gli interventi edilizi siano realizzati in conformità con la disciplina pianificatoria, contemperando l’interesse privato allo sfruttamento della proprietà con l’interesse pubblico alla regolare trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio e, quindi, in definitiva assolve alla funzione di garantire il corretto inserimento del manufatto sul territorio.
Il permesso di costruire non abilita, infatti, il titolare a realizzare qualunque manufatto, ma gli consente l’edificazione di quello specifico fabbricato descritto nel progetto (quanto all’area di sedime, al perimetro, alla sagoma, ai volumi, alle altezze, ecc.).
Qualunque realizzazione dell’edificio difforme dal progetto, anche se sia ridotta la volumetria o ne siano modificati il perimetro, le sagome e le altezze, comporta una ‘divergenza tra consentito e realizzato’ che in quanto tale – affinché vi sia la ‘regolarità urbanistica’ – o deve essere previamente autorizzata dal Comune o necessita di un atto di ‘accertamento di conformità’, qualora questo sia consentito dall’ordinamento.
L’edificazione deve quindi avvenire nel rigoroso rispetto del principio di conformità tra l’opera risultante dal progetto assentito con il permesso di costruire e quella concretamente realizzata.
L’art. 31 del testo unico sanziona allo stesso modo le ipotesi di edificazione in assenza del permesso di costruire con le ipotesi dell’edificazione in totale difformità o con variazioni essenziali, provvedendo a disciplinare le singole fattispecie, equiparando la carenza del titolo edificatorio con la totale difformità del bene edificato con quello autorizzato.
La ‘totale difformità’ si verifica non solo in caso di ampliamento non autorizzato, ma anche nel caso di mancato completamento della costruzione e vi sia un aliud pro alio.
Il permesso di costruire consente di realizzare solo l’opera descritta nel progetto e avente caratteristiche fisiche e funzionali ben determinate: l’abuso per totale difformità sussiste nel caso di realizzazione di “un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche e planivolumetriche”.
Ciò è ravvisabile quando il manufatto sia stato parzialmente edificato con il cd. ‘scheletro’ e anche quando sia oggettivamente diverso rispetto a quello progettato, dovendosi un'opera qualificare abusiva per totale difformità ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non è riferibile a quella assentita.
Nei casi di ‘divergenza tra consentito e realizzato’ rientra il “non finito architettonico”, il quale è ravvisabile quando le opere realizzate sono incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da far individuare un manufatto diverso da quello autorizzato, oppure quando vi è stata la modifica dello stato dei luoghi con la realizzazione di un quid che neppure consenta di ravvisare un ‘volume’.
Ne consegue che, contrariamente a quanto dedotto dalle parti appellanti, sussiste il fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino - in caso di decadenza del permesso di costruire - qualora siano state eseguite solo opere parziali, non riconducibili al progetto approvato sotto il profilo strutturale e funzionale.
Se non sono completate, e neppure possono esserle, in quanto non può essere rilasciato un nuovo permesso di costruire, il mancato completamento – e cioè la cd opera incompiuta – comporta di per sé un degrado ambientale e paesaggistico.
In altri termini, rileva un principio di simmetria, per il quale, così come l’Amministrazione non può di certo rilasciare un permesso per realizzare uno ‘scheletro’ o parte di esso (titolo che di certo non è consentito dalla legislazione vigente) o una struttura di per sé non abitabile per assenza di solai o tamponature, scale o tetto o di elementi portanti, corrispondentemente l’Amministrazione deve ordinare la rimozione dello ‘scheletro’, che risulti esistente in conseguenza della decadenza del permesso di costruire.
Non tutto quanto è stato lecitamente realizzato può dunque essere mantenuto in loco: va rimosso quanto è stato realizzato, in difformità (anche in minus) da quanto è stato assentito.
5. - Prima di delineare più nel dettaglio quando l’incompletezza dell’intervento edificatorio possa integrare la totale difformità ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, va chiarito cosa debba intendersi per ‘costruzione’, tenuto conto che le parti appellanti hanno sostenuto che, nel caso di specie, le poche opere realizzate sull’area non potrebbero qualificarsi in tal modo e che, dunque, per questa ragione, il Comune di Sorrento non avrebbe potuto adottare l’ordinanza di riduzione in pristino ex art. 31.
Una ‘costruzione’ è ravvisabile, per la giurisprudenza consolidata, ogni qualvolta “l'intervento edilizio produca un effettivo e rilevante impatto sul territorio e, dunque, in relazione alle opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi determinandone una significativa trasformazione” (Cons. Stato, Sez. VI, 03/04/2024, n. 3031).
La giurisprudenza - che si è ispirata alle argomentazioni poste a base della sentenza di questa Adunanza Plenaria, 10 marzo 1982, n. 3 – ha chiarito che anche la realizzazione di muri di cinta o di contenimento di ragguardevoli dimensioni - così come anche l’attività di movimento di terra che modifichi la conformazione dei luoghi - è soggetta al rilascio del permesso di costruire.
Occorre il rilascio del permesso per le opere di qualsiasi genere che modifichino il suolo e lo stato dei luoghi, determinandone una significativa trasformazione (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 29 novembre 2023, n. 10291; Cons. Stato, Sez. VI, 20 ottobre 2023), pur quando si tratti di movimento terra, in assenza di volumi e per realizzare una strada (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 24 marzo 2020, n. 2050).
A tali principi si ispira anche la giurisprudenza penale, per la quale si configura il reato di costruzione senza permesso di costruire in seguito a lavori di sbancamento (cfr. Cassazione penale, Sez. III, 2 dicembre 2008, n. 8064; Sez. III, 5 marzo 2008, n. 4243; Sez. III, 29 gennaio 2014, n. 19845).
6. – La ‘divergenza tra consentito e realizzato’ sussiste, dunque, non solo quando ‘si costruisce in più del consentito’, ma anche quando vi è il cd “incompleto architettonico”, configurabile sotto il profilo temporale qualora vi sia stata la decadenza del permesso di costruire, secondo le regole generali, e non sia possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo, ovvero l’interessato non lo richieda.
Tale divergenza è configurabile quando vi è la realizzazione parziale di un complesso intervento edificatorio autorizzato (ad es. una sola costruzione autonoma e scindibile al posto di plurime costruzioni), quando i lavori si siano fermati prima dell’ultimazione del manufatto (durante la fase degli scavi o dopo la realizzazione anche parziale del solo “scheletro”, senza la copertura, le scale, i solai, il tetto o la tamponatura esterna.
Un caso particolare – in cui verosimilmente è consentito l’accoglimento di una istanza di accertamento di conformità, salve regole speciali - si ha quando vi è l’edificazione solo parziale dell’unica costruzione autorizzata (ad es. solo il primo piano, sia pure con la predisposizione dei pilastri per realizzare il secondo piano) o quando sia stato realizzato un edificio dal perimetro più contenuto e dunque inferiore rispetto a quello assentito.
La casistica può essere molto varia.
Possono fornirsi in questa sede alcuni elementi interpretativi.
Innanzitutto occorre considerare che dopo la decadenza del permesso di costruire spetta al Comune constatare che vi è stata una ‘divergenza tra consentito e realizzato’ ed adottare la determinazione conseguente, che può essere – a seconda dei casi - quella della demolizione ex art. 31 cit, ovvero la sanzione prevista dall’art. 34 del testo unico.
La parte interessata potrebbe anche chiedere, se ne sussistono i presupposti, l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 dello stesso testo unico.
Gli esiti, quindi, possono essere vari a seconda della tipologia di incompletezza dell’opera.
6.1 - L’art. 31 si applica quando le opere incomplete non sono autonome, scindibili e funzionali.
Quando l’opera incompleta non ha tali caratteristiche e si riduce, ad esempio, alla realizzazione dei soli pali di fondazione, allo scavo del terreno, alla costruzione di pilastri o della struttura in cemento armato senza la tamponatura (c.d. scheletro), si tratta di un’opera riconducibile alla totale difformità dal permesso di costruire, in quanto di certo non può essere rilasciato il titolo abilitativo per la realizzazione di un manufatto privo di una autonoma finalità.
Tale manufatto, per le proprie caratteristiche di grave incompletezza non superabile mediante il rilascio di un ulteriore permesso di costruire se richiesto, costituisce anche causa di degrado dell’ambiente circostante.
Sotto questo profilo è condivisibile quanto sostenuto dal TAR, in quanto la riduzione in pristino dell’area deturpata dall’intervento edilizio cominciato, che non può essere terminato, è necessaria per ripristinare lo stato dei luoghi: se il proprietario decide di abbandonare i lavori, e comunque quando i lavori rimangono incompiuti, l’ordinamento non consente che vi sia il nocumento alle finalità perseguite in sede di pianificazione territoriale ed esige il rispetto della pianificazione urbanistica e, dunque, del principio per il quale le modifiche dello stato dei luoghi risultano lecite solo se vi è la coincidenza tra quanto è stato assentito e quanto è stato realizzato.
6.2 - Più variegate possono essere le misure adottabili dal Comune in caso di opere parziali che siano invece autonome, scindibili e funzionali.
Possono valere in questi casi – in sede interpretativa da parte dell’Amministrazione comunale competente – i principi di proporzionalità e di conservazione, che in più occasioni ha utilizzato il legislatore per disciplinare situazioni similari, come ricordato in precedenza.
Deve ritenersi, ad esempio, “frazionabile” il permesso di costruire che riguardava un complesso di edifici, dei quali solo uno o solo alcuni sono stati in concreto realizzati (salve le misure da adottare, quando le opere di urbanizzazione siano state realizzate in modo diverso da quanto progettato).
Possono risultare conformi al titolo edificatorio originario i manufatti autonomi funzionalmente anche se non sono propriamente completi, qualora vi siano tutti gli elementi costitutivi ed essenziali del manufatto e manchino soltanto opere marginali che non richiedono il rilascio del permesso di costruire (art. 15, comma 3).
6.3 – Nel caso di opere parzialmente edificate, autonome funzionalmente, che però presentino variazioni rispetto al titolo abilitativo, spetta al Comune stabilire, nell’esercizio del proprio potere di gestione del territorio, se esse risultino realizzate in conformità con il permesso di costruzione, ovvero se ricadano nella fattispecie ex art. 34, ovvero se possano essere sanate in base all’art. 36.
7. – Infine, per completezza espositiva va sottolineato che non sono fondati i dubbi di proporzionalità evocati dalla Sezione remittente tra la disciplina recata dall’art. 38 e quella dell’art. 31 del testo unico: l’abuso, sanzionato con la demolizione, infatti, deriva dalla accertata “divergenza tra consentito e realizzato” che non sussiste nell’ipotesi dell’art. 38 cit., in quanto in quel caso il legislatore ha ritenuto di disciplinare una fattispecie peculiare, caratterizzata dall’annullamento del permesso di costruire e dalla conformità delle opere al titolo ormai annullato.
Si tratta dunque di due situazioni del tutto differenti.
8. - In conclusione, al quesito posto dalla Sezione remittente può così rispondersi:
“- in caso di realizzazione, prima della decadenza del permesso di costruire, di opere non completate, occorre distinguere a seconda se le opere incomplete siano autonome e funzionali oppure no;
- nel caso di costruzioni prive dei suddetti requisiti di autonomia e funzionalità, il Comune deve disporne la demolizione e la riduzione in pristino ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, in quanto eseguite in totale difformità rispetto al permesso di costruire;
- qualora il permesso di costruire abbia previsto la realizzazione di una pluralità di costruzioni funzionalmente autonome (ad esempio villette) che siano rispondenti al permesso di costruire considerando il titolo edificatorio in modo frazionato, gli immobili edificati – ferma restando l’esigenza di verificare se siano state realizzate le opere di urbanizzazione e ferma restando la necessità che esse siano comunque realizzate - devono intendersi supportati da un titolo idoneo, anche se i manufatti realizzati non siano totalmente completati, ma – in quanto caratterizzati da tutti gli elementi costitutivi ed essenziali - necessitino solo di opere minori che non richiedono il rilascio di un nuovo permesso di costruire;
- qualora invece, le opere incomplete, ma funzionalmente autonome, presentino difformità non qualificabili come gravi, l’Amministrazione potrà adottare la sanzione recata dall’art. 34 del T.U.;
- è fatta salva la possibilità per la parte interessata, ove ne sussistano tutti i presupposti, di ottenere un titolo che consenta di conservare l’esistente e di chiedere l’accertamento di conformità ex art. 36 del T.U. nel caso di opere “minori” (quanto a perimetro, volumi, altezze) rispetto a quelle assentite, in modo da dotare il manufatto – di per sé funzionale e fruibile - di un titolo idoneo, quanto alla sua regolarità urbanistica”.
Ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., l’Adunanza Plenaria ritiene opportuno restituire per il resto il giudizio alla Sezione remittente, per ogni ulteriore statuizione, in rito, nel merito, nonché sulle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sugli appelli come in epigrafe proposti:
a) enuncia i principi di diritto di cui al punto 8) del considerato in diritto della motivazione;
b) restituisce gli atti alla Seconda Sezione di questo Consiglio di Stato, per ogni ulteriore statuizione, in rito, nel merito, nonché sulle spese del giudizio.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità, nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le persone indicate nella decisione.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Carmine Volpe, Presidente
Mario Luigi Torsello, Presidente
Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente
Luigi Carbone, Presidente
Marco Lipari, Presidente
Francesco Caringella, Presidente
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Fabio Franconiero, Consigliere
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere
Alessandro Maggio, Consigliere
Dario Simeoli, Consigliere
Stefania Santoleri, Consigliere, Estensore