Piano piano ci arriviamo.
(Nota critica e incoraggiante a TAR Piemonte, Sez. II, n. 395 dep. 26/2/2015)

di Massimo GRISANTI

Il TAR per il Piemonte, Sez. II (Pres. Salamone, Est. Ravasio, Masaracchia) nella sentenza in commento ha ribadito e statuito tre importanti concetti:

  1. un edificio è ultimato solo se è agibile ovverosia quando sono state realizzate tutte le opere che consentono di utilizzare un edificio in condizioni di igiene, salubrità e sicurezza;

  2. seppure sia un intervento su un edificio esistente, il completamento integra al tempo stesso un intervento di nuova costruzione;

  3. i lavori di completamento soggiacciono alla nuova disciplina intervenuta medio tempore.

Ne conseguono, a garanzia delle parti interessate, la necessità di far accertare alla P.A. l’effettiva comunicata ultimazione dei lavori (in ordine al punto 1) e di procedere al completamento dei lavori, qualunque essi siano, mediante il permesso di costruire (in ordine al punto 2). Sempreché l’intervento di nuova costruzione (e comunque l’incremento di carico urbanistico) sia sempre possibile in base alla disciplina urbanistica vigente al momento del rilascio del nuovo titolo e vengano adeguate le opere strutturali all’eventualmente sopravvenuta nuova normativa tecnica per l’edificazione nelle zone sismiche.

Non è invece assolutamente condivisibile l’ultima statuizione del Collegio giudicante in ordine ai rischi accettati dal legislatore nel caso in cui l’opera iniziata non venga ultimata e rimanga in piedi uno scheletro oppure una costruzione non utilizzata o, meglio, non utilizzabile.

Afferma il TAR: “… la possibilità che alcune costruzioni possano rimanere incompiute e non ultimabili costituisce un rischio che in definitiva il legislatore ha preveduto ed accettato. Il problema connesso alla presenza, sul territorio, di costruzioni incompiute e non ultimabili può essere quindi risolto solo dalla pianificazione territoriale, la quale, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità che connota l’attività della Pubblica Amministrazione in tale settore, può imprimere alle aree interessate delle destinazioni d’uso che consentano di riqualificarle senza demolire le opere esistenti.”.

Si dimentica che lo ius aedificandi – come confermato nella celeberrima sentenza n. 5/1980 della Corte Costituzionale – viene concesso dalla Comunità territoriale locale per mezzo della pianificazione urbanistica ovverosia a mezzo di un atto di sovranità.

E l’atto concessorio – che non è il titolo abilitativo edilizio, il quale costituisce un mero accertamento della regolare attuazione della volontà popolare – presuppone il riconoscimento che il territorio è un bene comune che viene dato in uso speciale ai privati sottoforma del diritto di proprietà. A tutela dell’utilità che di tale bene può ricavarne la collettività la Costituzione prevede la limitazione del diritto.

Ebbene, allorquando il Consiglio comunale concede le potenzialità edificatorie e ne pianifica l’attuazione (programmi pluriennali di attuazione della Legge n. 10/1977 – v. Corte costituzionale n. 5/1980, n. 13/1980, n. 1033/1988) lo fa – e lo deve fare – perché la Comunità ha effettiva necessità di alloggi, di insediamenti produttivi ecc. Pertanto, la serietà dell’iniziativa edilizia intrapresa è fondamentale per il raggiungimento dello scopo sociale assegnato alla proprietà privata.

Del resto, il Comune quando rilascia il permesso di costruire costruisce un negozio giuridico – sottoforma di sottoscrizione ed accettazione – e dà il proprio consenso alla realizzazione da parte del privato di un nuovo edificio perché l’opera ultimata viene reputata funzionale al perseguimento degli obiettivi di governo. Del resto, mai verrebbe adottato un permesso per un’opera grezza o da ultimarsi.

Non a caso la dichiarazione di pubblica utilità connaturata all’approvazione dei piani attuativi non è limitata alla sola realizzazione delle opere pubbliche, ma anche di quelle private.

Se così non fosse assisteremmo all’accaparramento delle volumetrie edificatorie in assenza dei minimi requisiti di effettiva pianificazione economica dei lavori ed alla più che probabile rigenerazione delle stesse per il sol fatto che quelle autorizzate non hanno portato all’ottenimento di edifici agibili atti a soddisfare la pubblica domanda di insediamenti.

Ecco che – come già sostenuto in altro scritto pubblico sulla rivista Lexambiente – a mio avviso la mancata ultimazione dei lavori deve essere perseguita penalmente con la sanzione ex art. 44, c. 1, lett. a) T.U.E. e amministrativamente ex art. 27 T.U.E. mediante la demolizione di quanto costruito o l’esecuzione coattiva in danno dei lavori necessari al completamento dell’edificio.

In conclusione, i beni comuni territorio e paesaggio meritano il massimo rispetto perché rispettandoli tuteliamo noi stessi e le generazioni future, nonché evitiamo il riciclaggio di denari di dubbia provenienza. Senza contare che un ambiente ordinato aiuta la formazione morale e culturale delle persone ed esalta l’Uomo.

Oppure vogliamo rimanere dei bruti individui?

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Scritto il 1° marzo 2015

 

N. 00395/2015 REG.PROV.COLL.

N. 00964/2014 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 964 del 2014, proposto da:
Daniele Abate, rappresentato e difeso dall'avv. Alessia Viola Bart, con domicilio eletto presso Alessia Viola Bart in Torino, Via Ottavio Revel, 16;

contro

Comune di Gassino Torinese, rappresentato e difeso dall'avv. Francesco Dal Piaz, con domicilio eletto presso Francesco Dal Piaz in Torino, Via S. Agostino, 12;

per l'annullamento:

- del provvedimento del Comune di Gassino Torinese, Responsabile del Procedimento, Funzionario Responsabile Servizio Edilizia/Urbanistica e Gestione Cimiteri, 16 maggio 2014, prot. n. 11678, ricevuto il 12 giugno 2014, con cui è stato comunicato all'esponente il diniego dell'istanza di permesso di costruire 7 marzo 2013, prot. n. 6246;

- di ogni atto antecedente, preordinato, conseguenziale o comunque connesso con quello impugnato, ivi inclusa la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza del Comune di Gassino Torinese, Responsabile del Procedimento, Funzionario Responsabile Servizio Edilizia/Urbanistica e Gestione Cimiteri, 2 maggio 2013, prot. n. 10863.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Gassino Torinese;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 gennaio 2015 la dott.ssa Roberta Ravasio e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

1. Il sig. Daniele Abate è proprietario in Comune di Gassino Torinese del terreno censito al locale N.C.T. al Foglio 7, mapp. 84, sul quale insiste quello che si può ben definire lo “scheletro” di un edificio residenziale, consistente, cioè, nelle solette dei vari piani, nei pilastri di sostegno dei medesimi ed nel tetto di copertura: risultano totalmente assenti, in particolare le tamponature perimetrali e quelle interne.

2. La costruzione di che trattasi era stata intrapresa presumibilmente nel 1969, anno in cui il Sindaco rilasciava il relativo nulla-osta, ma era poi stata interrotta e mai ripresa. Sicché quando il sig. Abate acquistava il citato mapp. 84, nel 2004, lo “scheletro” era già esistente, e la parte venditrice dava atto, nell’atto di vendita, del fatto che la Commissione Edilizia pochi mesi prima aveva già rilasciato parere favorevole su un progetto di completamento

3. Nel 2013 il ricorrente presentava una istanza di permesso di costruire per procedere al completamento della costruzione, ma il Comune, con gli atti in epigrafe indicati, ha opposto diniego deducendo: a) che non si tratterebbe di effettuare un mero “completamento” ma una nuova costruzione; b) che il fondo interessato risulta classificato, almeno in parte, nella classe IIIa della classificazione della pericolosità dei suoli, laddove non è consentita la realizzazione di nuove costruzioni; c) che trattandosi di terreno censito quale zona agricola A veniva in considerazione anche il vincolo idrogeologico di cui alla L.R. 45/89.

4. Premesso che il compendio immobiliare si troverebbe in zona abitata ed urbanizzata, il sig. Abate ha impugnato i summenzionati provvedimenti deducendone l’illegittimità per i seguenti motivi:

I9 violazione dell’art. 3 L. 241/90, eccesso di potere per difetto di istruttoria, violazione degli artt. 3 e 10 D.P.R. 380/01, violazione di legge ed eccesso di potere in relazione alla violazione degli artt. 5 e 20 delle N.T.A. al vigente P.R.G.: il Comune ha negato che lo “scheletro” esistente sulla proprietà del ricorrente possa essere considerato, già alla attualità, una costruzione, e tale considerazione ha fatto in applicazione di norme che il P.R.G. detta a differenti; la giurisprudenza valorizza, invece, ai fini di determinare cosa sia “costruzione”, la stabilità di un manufatto, la capacità di esso di incidere sul territorio trasformandolo e di lasciar intravvedere la destinazione d’uso finale e l’identità strutturale della costruzione ultimata: nel caso di specie sussistono le condizioni per considerare l’esistenza una “costruzione” a tutti gli effetti;

II) eccesso di potere per travisamento e contraddittorietà, violazione dell’art. 3 L. 241/90, difetto di istruttoria e motivazione, violazione del principio di affidamento, eccesso di potere per violazione del principio di ragionevolezza: l’Amministrazione, in epoca precedente l’acquisto dell’immobile da parte del sig. Abate, in alcuni documenti aveva riconosciuto la consistenza di “costruzione” al manufatto di che trattasi, e la Commissione Edilizia, sia nel 2003 che nel 2004, aveva espresso parere favorevole ad un intervento di completamento; gli atti impugnati disattendono, dunque, l’affidamento riposto dal sig. Abate su quei pareri e documenti, e ciò immotivatamente, tenuto conto della sostanziale identità di disciplina urbanistica; il Comune, inoltre, non ha mai proceduto a verificare la decadenza del titolo edilizio originario; il diniego del Comune appare inoltre discutibile in quanto comporta che il manufatto esistente, pur non potendo essere completato, neppure può essere demolito, realizzando un risultato antieconomico e sproporzionato a carico del proprietario;

III) violazione dell’art. 3 L. 241/90, difetto di istruttoria e valutazione, violazione delle N.T.A. di carattere geologico: il Comune, pur sollecitato a valutare un adeguamento al P.R.G., non ha considerato che l’area di proprietà del ricorrente, in quanto “edificata”, avrebbe dovuto essere classificata in zona IIIb1, laddove le nuove costruzioni sono possibili previa attuazione di interventi di riassetto ed adozione di misure di eliminazione o minimizzazione della pericolosità;

IV) violazione dell’art. 3 L. 241/90 e/o eccesso di potere per difetto di istruttoria e valutazione e travisamento: il Comune ha infatti stimato che l’intervento proposto dal ricorrente comporta un aumento del carico antropico, mentre invece esso contempla la realizzazione di due unità abitative, come il progetto originario;

V) violazione degli artt. 22.18.1. e 22.1.1. delle N.T.A. al P.R.G.C.: nel N.T.A. del P.R.G. vigente in Comune di Gassino Torinese consentono di effettuare il recupero del patrimonio edilizio esistente con interventi di ampliamento, manutenzione ordinaria e straordinaria e ristrutturazione a fini residenziali, e ciò ancorché si tratti di edifici non individuati nelle cartografie ed insistenti in aree con diversa destinazione d’uso.

5. Il Comune di Gassino Torinese si è costituito in giudizio per resistere al ricorso.

6. Il ricorso veniva chiamato alla camera di consiglio del 18/09/2014 ed alla pubblica udienza del 28/01/2015, quando è stato introitato per la decisione.

7. Prima di procedere alla disamina dei motivi di ricorso il Collegio ritiene opportuno rammentare alcuni principi generali che in materia edilizia la giurisprudenza ha ritenuto immanenti nel nostro ordinamento sin dalla entrata in vigore della L. 10/77 e che sono stati poi recepiti dal D.P.R. 380/01, che ormai enuncia chiaramente la disciplina da applicarsi nel caso in cui dopo il rilascio del titolo edilizio sopravvenga un mutamento di disciplina.

7.1. L’art. 4 della L. 10/77 già stabiliva che, una volta rilasciata la concessione edilizia, i lavori dovessero essere iniziati entro l’anno ed ultimati entro i tre anni successivi, potendo detti termini essere prorogati solo una volta con provvedimento motivato e solo ove fosse risultato che il mancato rispetto dei termini legislativi fosse dipeso da cause non dipendenti dalla volontà dell’interessato; la norma stabiliva inoltre che ove i termini, originari o prorogati, non fossero stati rispettati l’interessato dovesse richiedere una nuova concessione riguardante la parte della costruzione non ultimata.

7.1.1. La giurisprudenza, valorizzando tale dato normativo, aveva già avuto modo di precisare che l’Autorità comunale, richiesta di rilasciare una nuova concessione per intervenuta perdita di efficacia di quella originaria conseguente a mancato rispetto dei termini di inizio o di fine lavori, disponeva degli stessi poteri e doveva rispettare gli stessi limiti che avrebbe incontrato ove richiesta di un titolo edilizio “originario”, potendo e dovendo, pertanto, opporre all’interessato l’entrata in vigore di eventuali sopravvenute previsioni urbanistiche incompatibili con la concessione edilizia precedentemente rilasciata (TAR Napoli, Sez. VI, n. 4328/2011). La differenza sostanziale tra proroga della concessione edilizia e rinnovo della concessione edilizia doveva quindi individuarsi – secondo questa giurisprudenza – in ciò: che nel primo caso l’Autorità comunale verificava solo la possibilità di prorogare i termini di inizio e fine lavori fissati dal legislatore, dal che conseguiva un prolungamento nel tempo della efficacia della originaria concessione edilizia e la preclusione, per l’Autorità comunale, di effettuare una nuova istruttoria finalizzata a verificare la compatibilità del progetto con la normativa nel frattempo sopravvenuta; in caso di rinnovo, all’esatto opposto, sul presupposto che i termini di inizio e fine lavori non potevano essere prorogati, il rinnovo della concessione edilizia comportava il dovere della Autorità comunale di effettuare una nuova istruttoria completa, con il dovere di opporre l’eventuale entrata in vigore di norme preclusive dell’intervento edilizio. La giurisprudenza, peraltro, aveva ampliato la possibilità per la Amministrazione di opporre eventuali nuovi vincoli sopravvenuti, precisando che la concessione edilizia, pur legittimamente rilasciata, poteva e doveva essere ritirata ove una normativa limitativa della attività edificatoria fosse subentrata prima dell’inizio dei lavori.

7.2. Le previsioni dell’art. 4 L. 10/77 ed il portato della giurisprudenza formatasi nel vigore di quella norma sono confluite nell’odierno art. 15 del D.P.R. 380/01, il quale, al comma 4, precisa anche chiaramente che “Il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori non siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”. E’ quindi evidente che, ormai da decenni, nel nostro ordinamento vige il principio secondo il quale solo l’effettivo inizio dei lavori mette il titolare di un permesso di costruire al riparo dalla normativa sopravvenuta più limitativa, a condizione che i lavori stessi siano poi ultimati nel triennio successivo o nel maggior termine eventualmente accordato dalla Amministrazione in via di proroga. Corollario di tale principio è che, una volta che i lavori risultino effettivamente intrapresi, la decadenza del titolo edilizio, con i rischi che essa comporta, è evitata solo dalla “ultimazione” dei lavori, e non dalla realizzazione di un qualsiasi manufatto.

7.2.1. In particolare, neppure la realizzazione del c.d. “rustico”, cioè dell’edificio completo di tutti i muri interni ed esterni, ma privo degli impianti, dei serramenti e degli intonaci, era, ed è, sufficiente, ad evitare l’opponibilità di norme limitative sopravvenute. Al proposito si ricorda che l’art. 4 della L. 10/77 individuava la “ultimazione dei lavori” nel momento in cui l’edificio risultava abitabile o agibile; tale precisazione non è stata riprodotta nell’art. 15 del D.P.R. 380/01, ma non per questo è lecito attribuire ora a tale parola un significato diverso da quello letterale, tanto più che il rilascio del certificato di agibilità continua ad essere, come è sempre stato, chiaramente subordinato all’integrale completamento di tutte le opere licenziate, ivi compresa la prosciugatura dei muri. Per “completamento dei lavori” ai fini di cui all’art. 15 comma 4 D.P.R. 380/01 deve quindi intendersi la realizzazione di tute le opere che consentono di abitare o di utilizzare un edificio in condizioni di igiene, salubrità e sicurezza.

8. Prima di diffondersi nell’esame delle singole censure il Collegio ritiene ancora opportuno soffermarsi sulla natura del manufatto esistente sulla proprietà del sig Abate, manufatto al quale il firmatario dei provvedimenti impugnati ha negato qualsiasi consistenza. Invero, sulla scorta di quanto previsto nell’art. 5 comma 20 delle N.T.A. allo strumento urbanistico vigente nel Comune di Gassino Torinese, secondo la quale “Costituiscono “VOLUME ACQUISITO” le costruzioni esistenti dotate di copertura, chiuse da tre lati con tamponamenti continui e con struttura vincolata al suolo. Si intendono incluse le costruzioni accatastate, anche se prive di abitabilità. Sono esclusi i fabbricati abusivi.” , il Responsabile del Servizio Edilizia ed Urbanistica ha tratto la affermazione secondo la quale sul fondo di proprietà del ricorrente “insiste solo una “STRUTTURA” composta da pilastri, solai e dal tetto risalente alla fine degli anni sessanta che non ha alcuna consistenza volumetrica (né reale, né acquisita) essendo la medesima totalmente priva di murature che possano determinare un solido chiuso, ovvero, ai sensi del vigente P.R.G.C.: non è un edificio esistente”, di guisa che il permesso di costruire richiesto dal sig. Abate non avrebbe ad oggetto opere di mero completamento ma a tutti gli effetti una nuova costruzione, posto che “solo attraverso la loro realizzazione si otterrebbe un “nuovo edificio” ora inesistente”.

8.1. Ad avviso del Collegio sono in buona parte condivisibili, nei limiti di cui si dirà, le conclusioni cui è pervenuto il Responsabile del Servizio Edilizia ed Urbanistica del Comune; tuttavia non si può totalmente concordare con il ragionamento, che praticamente arriva al punto da negare qualsiasi consistenza alle opere già realizzate.

8.1.1. Queste ultime, infatti, oltre ad aver indubitabilmente integrato quell’ “inizio dei lavori” rilevante ai fini di evitare la decadenza del titolo edilizio - per mancato inizio delle opere entro l’anno dal rilascio dello stesso -, possono ben definirsi come “costruzione” o “edificio”, posto che i menzionati termini nella lingua italiana sono sinonimi e indicano, genericamente, un assemblaggio di materiali edili nel quale non è necessariamente implicita l’idea della ultimazione né l’idea di un utilizzo a scopo abitativo: “edificio” può quindi essere anche un ponte o, più semplicemente, una qualsiasi costruzione non ultimata. Pertanto quella “struttura” che sorge sulla proprietà del ricorrente può ben definirsi, secondo il significato che questo termine ha nella lingua italiana, quale “edificio”: “esistente”, in quanto già apprezzabile nella realtà fenomenica, ma non ultimata, in quanto il manufatto non è alla attualità in alcun modo utilizzabile. Non si può comunque affermare, come ha fatto l’estensore dello strumento urbanistico allorché ha incluso la proprietà del ricorrente in classe di pericolosità IIIa1, che la zona in cui si trova il fondo di proprietà del ricorrente è “inedificata”.

8.1.2. Peraltro il firmatario degli atti impugnati ha anche errato perché ha implicitamente equiparato a priori il concetto di “edificio esistente” con quello di “edificio con una volumetriaacquisita” ai sensi dell’art. 5 comma 20 delle vigenti N.T.A., a prescindere totalmente dalla ultimazione dei lavori, così finendo, da una parte, per disconoscere qualsiasi consistenza alla costruzione priva di volumi, e d’altra parte per attribuire i benefici che conseguono dalla ultimazione dei lavori anche a costruzioni che non sono affatto completate e che però hanno una volumetria già percepibile; infine perché ha utilizzato il concetto di “edificio esistente”, nel significato distorto dianzi precisato, ai fini della applicazione di tutte le varie norme che definiscono gli interventi ammissibili nella zona urbanistica in cui è situato il fondo di proprietà del ricorrente, a prescindere dal contesto fraseologico e sistematico in cui l’espressione si inserisce.

8.1.3. Nonostante le ricordate confusioni terminologiche, il firmatario degli atti impugnati non ha però errato concludendo che l’intervento richiesto dal sig. Abate integra una nuova costruzione. Infatti, sebbene si tratti indubitabilmente di “completare” la costruzione già intrapresa, al fine di renderla funzionale all’uso cui era destinata, non è men vero che si tratta di completare quella che in origine era una “nuova costruzione”, che non è mai stata ultimata, che non ha mai ottenuto l’agibilità come tale e che pertanto non è mai venuta ad esistenza: e per questo solo fatto (e non perché la “struttura” attualmente esistente sia equiparabile al nulla!) l’intervento richiesto dal sig. Abate, pur potendosi considerare come “intervento di completamento”, integra allo stesso tempo un “intervento di nuova costruzione”: e si badi bene che, anche in presenza di “volumi acquisiti” ai sensi dell’art. 5 comma 20 delle N.T.A., in assenza di ultimazione dei lavori - nel senso sopra indicato - qualsiasi opera necessaria a portare la costruzione in stato di agibilità avrebbe dovuto considerarsi alla stregua di un intervento “di nuova costruzione”.

9. Tutto ciò considerato è evidente che l’istanza presentata dal ricorrente avrebbe dovuto essere esaminata, semplicemente, come domanda di rinnovo del precedente titolo edilizio con eventuale variante di progetto, con conseguente opponibilità dei limiti e vincoli nel frattempo entrati in vigore e considerando l’intervento richiesto come di nuova costruzione. Poiché gli atti impugnati pervengono alla identica conclusione che l’intervento richiesto dal ricorrente integra una “nuova costruzione”, l’erroneità ed “eccentricità” della relativa motivazione diventa, in parte qua, irrilevante. Né la legittimità della dianzi indicata conclusione può essere posta in discussione per il fatto che il Comune non ha proceduto a constatare formalmente la decadenza del precedente nulla osta, rilasciato nel 1969: infatti lo stesso Abate ha chiesto un nuovo permesso di costruire, con ciò dimostrando di essere perfettamente consapevole della necessità, per proseguire le opere, di munirsi di un nuovo titolo edilizio.

10. Tutto quanto sopra premesso il Collegio può ora procedere alla disamina delle varie doglianze.

10.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta che il Comune non avrebbe considerato che le opere esistenti attualmente sul terreno integrano una costruzione, la quale ha già acquisito una volumetria, data dal suo ingombro complessivo, di guisa che allo stato si tratta solo di completarla: nella sostanza con la censura in esame il ricorrente pretende che di aver ormai acquisito il diritto a realizzare quell’immobile licenziato nel 1969, così che le opere che servono per completarlo non possono qualificarsi di nuova costruzione.

10.1.1. E’ vero che la “struttura” esistente si può qualificare come “costruzione”, ed infatti come tale essa andava regolarmente assentita con concessione edilizia in quanto opera idonea a cagionare una trasformazione del territorio; tuttavia la questione della volumetria acquisita è totalmente irrilevante per la ragione che, come già precisato, il completamento delle opere come da progetto e con preclusione, per il Comune, di opporre norme sopravvenute non dipende dalla esistenza di” volumi acquisiti”, ma solo dalla ultimazione delle opere nel termine previsto dall’originario nulla osta (due anni dal rilascio) ovvero nel termine introdotto dal legislatore (tre anni dal rilascio salvo proroga). Nel caso di specie è fuori di dubbio che l’opera non è stata ultimata; comunque, anche se al tempo fossero stati realizzati i muri esterni su tre lati, il ricorrente non potrebbe oggi invocare tale volumetria per affermare d’aver diritto a portare a termine i lavori anche in deroga alla normativa urbanistica e vincolistica sopravvenuta. La censura va quindi respinta.

10.2. Miglior sorte non meritano le considerazioni svolte nell’ambito del secondo motivo.

10.2.1. Il ricorrente lamenta che nel 2003 e nel 2003 la Commissione Edilizia si era espressa favorevolmente, “in linea di principio” ad un intervento di completamento, ragione per cui non si spiega il revirement operato con gli atti impugnati, posto che la destinazione di zona, i parametri edilizi ed il vincolo idrogeologico vigenti esistevano già nel 2003. Tale argomento non ha rilievo per il fatto il parere della Commissione Edilizia non vincola il Dirigente che deve decidere se rilasciare o meno un permesso di costruire, e certamente non consuma la potestas decidendi della Amministrazione. Dunque questi improvvidi pareri non erano neppure idonei a creare un affidamento qualificato in capo al ricorrente, ché tale avrebbe potuto essere solo un permesso di costruire già rilasciato.

10.2.2. L’avvenuto inizio lavori non ha consolidato, in capo al ricorrente, di diritto di portare a termine la costruzione, per il fatto che essa non è stata ultimata nel termine prescritto rendendo necessario il rilascio di un titolo edilizio completamente nuovo, soggetto in tutto all’osservanza della normativa sopravvenuta al 1969: in particolare, la perdita di efficacia dell’originario nulla osta non necessitava di essere constatata dalla Amministrazione con un atto formale, dacché lo stesso ricorrente ha richiesto un nuovo permesso di costruire, dando atto del fatto che le opere non risultavano ultimate.

10.2.3. Il fatto che le opere già realizzate non siano suscettibili di demolizione, in quanto legittime, non implica che esse debbano necessariamente essere portate a termine ad ogni costo, in particolare a dispetto di una pianificazione urbanistica incompatibile con il progetto originario: proprio apponendo un termine massimo per l’ultimazione dei lavori, scaduto il quale il titolo edilizio perde efficacia, il legislatore ha inteso minimizzare il rischio che le nuove costruzioni risultino disancorate dagli strumenti urbanistici vigenti, o di ostacolo alle relative finalità, sicché la possibilità che alcune costruzioni possano rimanere incompiute e non ultimabili costituisce un rischio che in definitiva il legislatore ha preveduto ed accettato. Il problema connesso alla presenza, sul territorio, di costruzioni incompiute e non ultimabili può essere quindi risolto solo dalla pianificazione territoriale, la quale, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità che connota l’attività della Pubblica Amministrazione in tale settore, può imprimere alle aree interessate delle destinazioni d’uso che consentano di riqualificarle senza demolire le opere esistenti.

10.3. Con il terzo motivo il ricorrente si duole di non aver ottenuto alcun riscontro alla segnalazione, inoltrata al Comune, relativa alla inappropriata inclusione del proprio fondo in classe IIIa1; inoltre gli atti impugnati avrebbero considerato tutta la costruzione come insistente in zona IIa1, allorché solo una porzione del fondo risulta effettivamente classificato come tale: la maggior parte di esso sarebbe invece classificatao in classe IIa, all’interno della quale sono consentiti tutti gli interventi aventi un modesto impatto sul territorio, previa valutazione di fattibilità e sulla base di uno studio geomorfologico e geotecnico approfondito.

10.3.1. Questo motivo è fondato: gli atti impugnati, dopo aver disquisito sul fatto che le opere esistenti sul fondo di proprietà del ricorrente non possono qualificarsi come “edificio esistente”, ha concluso che l’intervento proposto dal sig Abate si compendia in una “nuova costruzione” la cui assentibilità è preclusa dalla inclusione del fondo in classe IIIa1: nessun riferimento viene effettuato alla conformità dell’intervento alle previsioni urbanistiche relative alla zona, e nulla si dice circa la possibilità di classificare il fondo in classe IIIb1 e/o IIa. Sotto questo profilo l’atto impugnato è viziato da difetto di istruttoria e di motivazione, anche perché l’erroneità della classificazione del fondo in classe IIIa1, prospettata dal ricorrente, non può ritenersi manifestamente infondata.

10.3.1.1. Invero, come già precisato, l’area non può ritenersi “inedificata”, quantomeno non nel senso “naturalistico” del termine; le norme tecniche che dettano i criteri di individuazione delle zone di classe III non danno alcuna definizione precisa di “area edificata/inedificata”, e d’altro il tratto distintivo tra le zone IIIa1 dalla zona IIIb1 non sembra costituito dal differente grado di pericolosità dei suoli, tanto è vero che nelle zone in cui il rischio geologico è troppo elevato si prevede, nonostante la presenza di un “patrimonio esistente”, la immediata classificazione in zona IIIc, ove non è invece proponibile una “ulteriore utilizzazione urbanistica del patrimonio esistente”; è interessante notare che l’estensore delle norme tecniche in esame ha usato la locuzione “utilizzazione urbanistica”, la quale suggerisce che nelle zone IIIc si sia inteso vietare qualsiasi attività di rilevanza per l’urbanistica, e quindi sia le attività residenziali, produttive, commerciali, etc. etc. già in essere, sia la “mera” attività costruttiva: il che, però, significherebbe che la mancata ultimazione di una costruzione non legittima, ex se, la classificazione in zona IIIa1. E’ quindi legittimo il dubbio che le norme tecniche in esame in realtà abbiano inteso discriminare le tre zone di classe III: includendo in classe IIIa1 i terreni privi di qualsiasi manufatto; includendo in classe IIIb1 i terreni interessati dalla presenza di costruzioni, utilizzabili previa realizzazione di opere di rassetto e di eliminazione/mitigazione del rischio, con conseguente possibilità per i privati di non perdere totalmente gli investimenti compiuti e non ancora sfociati in costruzioni ultimate e/o “con volumetria acquisita”; ed includendo in classe IIIc i terreni in cui la pericolosità non tollera alcun tipo di utilizzo ed impone la immediata cessazione di qualsiasi attività in essere.

10.3.2. La questione è ed era indubbiamente di interesse per il fondo di proprietà del ricorrente, e quindi il Responsabile del Servizio avrebbe dovuto, per quel dovere di correttezza e collaborazione che le Amministrazioni pubbliche debbono mantenere nei confronti dei cittadini da loro amministrati, dare riscontro alle segnalazioni che sul punto erano pervenute dal ricorrente, prendendo posizione in ordine alla possibilità di pervenire ad una diversa classificazione del fondo, indicando all’occorrenza il percorso da seguire per pervenire a tale risultato. In ogni caso gli atti impugnati sembrano dare per scontato che la inclusione in classe IIIa1 riguardi l’intera superficie del lotto: ma se così non è la risposta del Responsabile del Servizio avrebbe dovuto essere differentemente modulata. Dal che la fondatezza della censura in esame.

10.4. Con il quarto motivo il ricorrente censura l’affermazione, contenuta nel diniego di permesso di costruire impugnato, secondo cui l’intervento sarebbe inammissibile in quanto genera un aumento di carico antropico: tale affermazione sarebbe scorretta in quanto il completamento della costruzione porterebbe alla realizzazione di due unità famigliari, come il progetto originario.

10.4.1. Il Collegio osserva che il Responsabile del Servizio, nell’annotare l’aumento di carico antropico derivante dal completamento dell’edificio, faceva evidentemente un implicito paragone con la situazione attuale, caratterizzata dal fatto che sul fondo di proprietà del ricorrente al momento non abita alcun nucleo famigliare: da questo punto di vista il completamento della costruzione è idoneo ad aumentare il carico antropico esistente nella zona. Non è questo il punto, però. Perché il cuore del problema per il ricorrente risiede nella circostanza che l’intervento richiesto deve qualificarsi come “nuova costruzione”, ed è come tale precluso nelle zone IIIa1: proprio per tale ragione diventa importante stabilire se il fondo di proprietà del ricorrente possa essere classificato in zona IIa o IIIb1. La censura quindi, in realtà è inammissibile perché irrilevante.

10.5. Inammissibile per difetto di interesse è il quinto motivo, con il quale il ricorrente motiva in ordine alla conformità dell’intervento rispetto alla destinazione agricola della zona nonché rispetto all’esistente vincolo originante dalla L.R. 45/89: allo stato gli atti impugnati non hanno preso posizione sulla conformità dell’intervento alle norme che disciplinano la destinazione urbanistica agricola impressa al fondo di proprietà del ricorrente; pertanto non v’è interesse del ricorrente ad una immediata pronuncia al proposito, e d’altro canto osta a ciò il divieto, per il Giudice Amministrativo, di pronunciarsi su poteri non ancora esercitati.

11. Il ricorso può essere conclusivamente accolto, con conseguente annullamento dell’atto impugnato, solo nei limiti e nei sensi di cui in motivazione.

12. La reciproca soccombenza giustifica tuttavia la compensazione delle spese del giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Seconda) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e per l’effetto annulla gli atti impugnati nella sola parte in cui si motiva il diniego di permesso di costruire con riferimento all’ inclusione del terreno censito all’N.C.T. del Comune di Gassino Torinese al Foglio 7, mapp. 84 nella classe di pericolosità geo-morfologica IIIa1, fatte salve le ulteriori determinazioni.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2015 con l'intervento dei magistrati:

 

Vincenzo Salamone, Presidente

Roberta Ravasio, Primo Referendario, Estensore

Antonino Masaracchia, Primo Referendario

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 26/02/2015

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)