TAR Toscana Sez. III n.857 del 14 giugno 2019
Urbanistica.Certificato di abitabilità rilasciato a seguito di condono edilizio
Ai sensi dell’art. 35 co. 20 della legge n. 47/1985, il certificato di abitabilità a seguito di condono edilizio può venire rilasciato in deroga a norme regolamentari, ma non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello primario.
Pubblicato il 14/06/2019
N. 00857/2019 REG.PROV.COLL.
N. 01192/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1192 del 2016, proposto da
Pier Giorgio Janin, rappresentato e difeso dagli avvocati Fabio Fantini e Domenico Iaria, con domicilio eletto presso lo studio del secondo in Firenze, via dei Rondinelli 2;
contro
Comune di Rio Marina, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Mario Pilade Chiti, con domicilio eletto presso il suo studio in Firenze, via Lorenzo il Magnifico 83;
nei confronti
Antonio Sirabella, Franco Faoro, rappresentati e difesi dagli avvocati Edo Biagini e Andrea Di Gregorio, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Firenze, lungarno Vespucci 60;
per l'annullamento
- del provvedimento datato 23/6/2016 prot. n. 4893, emesso dal responsabile del servizio 3, arch. Mazzei Federico, del Comune di Rio Marina, con sede in Rio Marina, piazza Salvo D'Acquisto n. 7, che ha annullato, in sede di autotutela, il silenzio - assenso della P.A. intervenuto per decorrenza dei termini previsti dalla legge con riferimento all'attestazione di abitabilità depositata dalla dottoressa Giovanna Bacci in data 20/11/2012, prot. n. 8343, conseguente alla concessione in sanatoria n. 55 del 20/7/2011, relativa al condono edilizio n. 46/2004, presentato ai sensi della L. n. 326/2003 - L.R.T. n. 53/2004, avente ad oggetto la fusione di due unità immobiliari ubicate in Rio Marina, salita Bellavista, con loro cambio di destinazione d'uso da garage a civile abitazione con opere interne;
- nonché di ogni altro atto presupposto, preparatorio e conseguente.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Rio Marina e dei controinteressati Antonio Sirabella e di Franco Faoro;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 marzo 2019 il dott. Pierpaolo Grauso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Il ricorrente signor Pier Giorgio Janin ha chiesto e ottenuto, ai sensi del d.l. n. 269/2003 e della legge regionale toscana n. 53/2004, la concessione edilizia in sanatoria (“condono”) relativamente a un intervento di fusione e contestuale cambio di destinazione d’uso da garage a civile abitazione di due unità immobiliari poste all’interno del complesso condominiale “Cavo 2020”, ubicato nel Comune di Rio Marina.
La concessione in sanatoria, rilasciata il 20 luglio 2011, prescriveva che qualora le opere necessitassero della certificazione di abitabilità, questa avrebbe dovuto essere attestata da un professionista abilitato unitamente alla conformità con il progetto concessionato.
In ossequio a detta prescrizione, il signor Janin ha depositato l’attestazione richiesta, sulla quale è maturato il silenzio-assenso previsto dall’art. 86 dell’allora vigente legge regionale toscana n. 1/2005.
1.1. Con il provvedimento del 23 giugno 2016, in epigrafe, il Comune di Rio Marina ha annullato in autotutela l’assenso tacito formatosi a seguito dell’inutile decorso del termine di legge per l’effettuazione del controllo sull’attestazione di abitabilità. L’iniziativa – sollecitata dai proprietari di altre unità immobiliari appartenenti al complesso “Cavo 2020” – è motivata con riguardo all’inosservanza dell’altezza interna minima di 2,70 metri, stabilita per i vani abitabili dal noto d.m. 5 luglio 1975, atteso che i locali di proprietà del ricorrente presenterebbero altezza utile non superiore a 2,18 metri.
Il ritiro dell’abitabilità è impugnato dal ricorrente, che ne afferma l’illegittimità e ne chiede l’annullamento sulla scorta di quattro motivi in diritto.
1.2. Si sono costituiti in giudizio, per resistere al gravame, l’amministrazione procedente e due dei condomini controinteressati, i signori Antonio Sirabella e Franco Faoro.
1.3. Nella camera di consiglio dell’11 ottobre 2016, il collegio ha respinto la domanda cautelare formulata con l’atto introduttivo del giudizio.
Nel merito, la causa è stata discussa e trattenuta per la decisione nella pubblica udienza del 27 marzo 2019, preceduta dallo scambio di memorie difensive e repliche.
2. Con il primo motivo di impugnazione, il ricorrente Janin sostiene che il rilascio della certificazione di abitabilità conseguente a condono edilizio potrebbe legittimamente avvenire in deroga a norme regolamentari e sarebbe impedito unicamente dalla carenza delle condizioni di salubrità richieste da norme di rango primario. Fra queste non sarebbe da annoverare il d.m. 5 luglio 1975, del quale illegittimamente il provvedimento impugnato avrebbe fatto applicazione.
Connesso è il quarto motivo, che investe l’istruttoria condotta dal Comune. Il ricorrente sostiene che agli atti del procedimento non sarebbe documentato lo svolgimento del sopralluogo nel corso del quale sarebbe stata misurata l’altezza dei locali, mentre il Comune risulterebbe aver acquisito un parere legale, tenuto nascosto, contrario all’intervento in autotutela.
2.1. Le censure, da esaminarsi congiuntamente, sono infondate.
La giurisprudenza (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. 3 giugno 2013, n. 3034; id., 3 maggio 2011, n. 2620) è stabilmente orientata nel senso di ritenere che, ai sensi dell’art. 35 co. 20 della legge n. 47/1985, il certificato di abitabilità a seguito di condono edilizio possa venire rilasciato in deroga a norme regolamentari, ma non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello primario. Questo in coerenza con l’interpretazione che della disposizione sopra citata ha fornito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 256 del 18 luglio 1996, che ha espressamente riconosciuto il permanere in capo ai Comuni di tutti gli obblighi “inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari”.
L’art. 35 co. 20 cit., in altre parole, non contiene una deroga indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli edifici, implicando semmai il contemperamento di una serie di valori tutti costituzionalmente garantiti, dal diritto alla salute al diritto all’abitazione. E comunque, nel definire l’ambito della deroga, non rileva il mero dato formale dell’appartenenza della disposizione a una fonte primaria o secondaria, ma deve piuttosto verificarsi se le specifiche condizioni igienico-sanitarie violino norme regolamentari imposte, ad esempio, dai regolamenti comunali, derogabili nella misura in cui siano espressive di esigenze locali e non siano attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate; ovvero se si tratti di norme regolamentari che attuano precedenti disposizioni di legge, come accade per quelle di cui al d.m. 5 luglio 1975, integranti una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall’art. 218 R.D. n. 1265/1934, n. 1265, e pertanto inderogabili, al pari delle disposizioni in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni (così Cons. Stato n. 2620/2011, cit.).
Alla luce degli indirizzi interpretativi consolidati, dai quali non vi sono ragioni per discostarsi, il mancato rispetto del requisito dell’altezza interna minima di 2,70 metri, previsto dall’art. 1 del d.m. 5 luglio 1975, non consente la destinazione all’uso abitativo dei locali di proprietà del ricorrente. La certificazione di abitabilità o agibilità conseguita secondo il meccanismo disciplinato dall’art. 86 co. 4 l.r. n. 1/2005 è pertanto illegittima, per questo aspetto giustificandosi l’esercizio del potere di autotutela da parte del Comune resistente.
Quanto poi alla pretesa inadeguatezza degli accertamenti istruttori svolti dal Comune, sia sufficiente osservare che gli stessi elaborati grafici presentati dal signor Janin a corredo dell’istanza di sanatoria rappresentano un’altezza interna dei locali in questione pari a 2,20 metri, ben lontana dalla misura minima e sostanzialmente coincidente con quella indicata nell’atto impugnato (2,18 metri).
3. Con il secondo motivo, è denunciata l’insussistenza di ragioni di interesse pubblico idonee a legittimare l’intervento in autotutela del Comune, che, nonostante le lamentele e contestazioni ricevute dagli odierni controinteressati e da altri condomini, aveva comunque ritenuto di dover rilasciare la sanatoria edilizia chiesta dal ricorrente. Del resto, la stessa circolare regionale illustrativa della legge n. 53/2004 aveva chiarito come l’eventuale contrasto con norme regolamentari igienico-sanitarie non precludesse il condono.
Con il terzo motivo, il ricorrente deduce quindi la violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, essendo l’annullamento d’ufficio pervenuto a distanza di quasi tre anni e mezzo dal perfezionamento dell’abitabilità/agibilità dei locali, anziché nel termine massimo di diciotto mesi stabilito dalla disposizione citata. L’annullamento, inoltre, non evidenzierebbe alcun interesse generale degno di essere tutelato, come pure non sarebbe assistito da un corretto bilanciamento degli interessi del destinatario e dei controinteressati.
3.1. Neppure tali censure sono meritevoli di accoglimento.
Nell’ordine logico delle questioni, occorre in primo luogo stabilire se il termine massimo di diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio, oggi previsto dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, trovi o meno applicazione ai provvedimenti ampliativi adottati anteriormente all’entrata in vigore della novella legislativa che lo ha introdotto (la legge n. 124/2015, c.d. “Madia”).
Il tema ha dato luogo in giurisprudenza a pronunce non collimanti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 19 gennaio 2017, n. 250; id., sez. VI, 27 gennaio 2017, n. 341). Nella specifica materia urbanistico-edilizia, il problema può dirsi risolto per mano dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la quale, con riferimento al testo della legge sul procedimento amministrativo anteriore alla riforma del 2015, ha chiarito che “il decorso di un considerevole lasso di tempo dal rilascio del titolo edilizio non incide in radice sul potere di annullare in autotutela il titolo medesimo, ma onera l’amministrazione del compito di valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale” (cfr. Cons. Stato, A.P., 17 ottobre 2017, n. 8, relativa a fattispecie concreta nella quale l’annullamento d’ufficio era intervenuto dopo nove anni).
Nella medesima occasione, l’Adunanza Plenaria ha altresì ribadito il principio in virtù del quale l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro, tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole, non potendosi predicare in via generale la sussistenza di un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione in autotutela di tale atto; precisando, peraltro, che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione può considerarsi attenuato in ragione della particolare rilevanza e “autoevidenza” degli interessi pubblici tutelati, tale da rendere sufficiente una motivazione fondata sul richiamo all’inderogabile disciplina vincolistica violata dall’intervento edificatorio.
In ossequio a tali indicazioni, nella specie l’autotutela deve ritenersi legittimamente esercitata dal Comune di Rio Marina.
Il termine di poco più di tre anni intercorso tra il perfezionamento dell’assenso tacito sull’attestazione di abitabilità presentata dal ricorrente e il suo annullamento d’ufficio appare infatti del tutto ragionevole, avuto anche riguardo alle superiori esigenze di tutela delle condizioni di salubrità delle abitazioni che sono poste a sostegno del provvedimento impugnato: esigenze la cui prevalenza, come già detto, è il frutto non di una valutazione amministrativa discrezionale, ma del bilanciamento effettuato a monte dal legislatore e che, anche in sede di condono edilizio, vincola al rispetto delle prescrizioni di ordine igienico-sanitario espresse da fonti di rango primario.
Per questo aspetto, il provvedimento impugnato rispetta pienamente i contenuti motivazionali richiesti dall’art. 21-nonies l. n. 241/1990, né il ritiro dell’abitabilità è in contraddizione con l’avvenuta sanatoria dei locali sul piano edilizio, ben potendosi ammettere che gli stessi vengano destinati a usi differenti, compatibili con le loro caratteristiche (proprio come previsto dalla circolare regionale illustrativa della legge n. 53/2004, invocata dal ricorrente).
4. In forza di tutti i rilievo che precedono, il ricorso va respinto.
4.1. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo in favore del Comune e dei controinteressati (questi ultimi quale parte resistente unitaria).
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Terza), definitivamente pronunciando, respinge il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali, che liquida in complessivi euro 3.000,00, oltre agli accessori di legge, in favore di ciascuna delle parti resistenti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 27 marzo 2019 con l'intervento dei magistrati:
Saverio Romano, Presidente
Gianluca Bellucci, Consigliere
Pierpaolo Grauso, Consigliere, Estensore