Cass. Sez. III n. 40191 del 30 ottobre 2007 (CC 11 ottobre 2007)
Pres. Papa Est. Petti Ric. Schembri
Acque. Nozione di scarico, acque meteoriche, bonifiche e getto pericoloso di cose

1. Nonostante il mancato riferimento nella definizione di scarico contenuta nel D.lv. 152-06 all'immissione tramite condotta e nonostante qualche imprecisione terminologica, si può escludere un ritorno allo scarico indiretto che era previsto dall'articolo 1 lettera a) della legge Merli e che non è stato riproposto nel decreto legislativo n 152 del 2006. Quindi anche in base al citato decreto legislativo per scarico si deve intendere l'immissione nel corpo recettore tramite condotta o comunque tramite un sistema di canalizzazione anche se non necessariamente costituito da tubazioni.
2. La definizione di acque reflue industriali contenuta nel D.lv. 152-06, come la precedente, esclude dalle acque reflue industriali quelle meteoriche di dilavamento, precisando però che devono intendersi per tali anche quelle contaminate da sostanze o materiali non connessi con quelli impiegati nello stabilimento. Sembrerebbe perciò che quando le acque meteoriche siano, invece, contaminate da sostanze impiegate nello stabilimento, non debbano più essere considerate come "acque meteoriche di dilavamento", con la conseguenza che dovrebbero essere considerate reflui industriali”.
3. L'articolo 674 c.p.. prevede due ipotesi di reato:la prima vieta in ogni caso, salvo la limitazione del luogo , il getto (di corpi solidi ) o il versamento di cose ( liquidi) atti ad offendere, imbrattare e molestare le persone; la seconda vieta l'emissione di gas, vapori e fumo nei soli casi non consentiti dalla legge. Si tratta in entrambe le ipotesi di reato di pericolo e non di danno, come si desume dalla circostanza che ai fini della sua configurabilità è sufficiente l'idoneità a creare semplici molestie. La prima ipotesi però richiede una condotta attiva non essendo sufficiente l'omissione di cautele idonee ad evitare il possibile imbrattamento o la molestia alle persone. La seconda ipotesi invece può essere integrata sia da una condotta attiva che passiva. L'espressione nei casi non consentiti dalla legge costituisce una precisa indicazione circa la necessità che l'emissione avvenga in violazione delle norme che regolano l'inquinamento atmosferico. Di conseguenza, contenendo la legge una sorta di presunzione di legittimità di emissione dei fumi, vapori gas che non superino la soglia fissata dalle leggi speciali in materia, ai fini dell'affermazione della responsabilità penale, è necessario dimostrare il superamento dei limiti di tollerabilità stabiliti dalla legge speciale. Argomentando diversamente, si verrebbe ad ammettere che il legislatore abbia fissato prescrizioni e limiti il cui rispetto non sarebbe sufficiente a tutelare la salute . Tuttavia il problema del superamento dei limiti di tollerabilità si pone per le attività autorizzate, allorché l'emissione di fumi e vapori sia una conseguenza diretta dell'attività. Se l'attività non è autorizzata e o se l'emissione, ancorché autorizzata, non è una conseguenza naturale dell' attività, ma dipende da deficienze dell'impianto o da negligenze del gestore, ai fini della configurabilità del reato, è sufficiente la semplice idoneità a creare molestia alle persone.
4. La disciplina per la bonifica contenuta nel D.lv. 152-06 ha per oggetto, oltre ai suoli ed al sottosuolo, anche le acque sotterranee e prevede (art 242) che al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell'inquinamento debba mettere in atto entro ventiquattro ore le necessarie misure di prevenzione e dare immediata comunicazione ai sensi dell' articolo 304 del medesimo decreto legislativo nonché svolgere una preliminare indagine sui parametri oggetto dell'inquinamento e, ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione non sia stato superato, debba provvedere al ripristino della zona contaminata dandone notizia al comune ed alla provincia. Qualora accerti l'avvenuto superamento delle anzidette concentrazioni anche per un solo parametro deve darne immediata notizia al comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle misure adottate e nei successivi trenta giorni deve presentare alle amministrazioni ed alla regione competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui all'allegato n 2. La segnalazione è quindi dovuta a prescindere dal superamento delle soglie di contaminazione e la sua omissione è sanzionata dall' articolo 257 il quale non punisce solo l'omessa bonifica ma anche l'omessa segnalazione.

In fatto

Con ordinanza del 2 aprile del 2007, il tribunale di Palermo respingeva l’istanza di riesame proposta da Schembri Pasquale, nella qualità di procuratore speciale dell’Area Sicilia della società “Kuwait Petroleum Italia S.P.A.”, avverso il provvedimento del giudice per le indagini preliminari presso il suddetto tribunale del 7 marzo del 2007, con cui si era disposto il sequestro preventivo dell’impianto di distribuzione carburanti sito in Ficarazzi, gestito da Giuliano Salvatore, quale amministratore della Siciliana Carburante, e di proprietà della società anzidetta.

Secondo la ricostruzione fattale contenuta nell’ordinanza impugnata, a seguito di denuncia di numerosi cittadini, i quali avevano segnalato danni all’ambiente provocati dal suddetto distributore di carburanti, il 9 gennaio del 2006, da parte della polizia provinciale era stato effettuato un sopralluogo nel quale si era constatato che le condizioni di manutenzione e sicurezza erano carenti e si erano ipotizzati i seguenti reati: la violazione dell’articolo 674 c.p. con riguardo alle esalazioni nocive ed alla dispersione nell’ambiente di carburante; la violazione degli artt. 242 e 246 del decreto legislativo n. 152 del 2006, per avere il titolare dell’impianto omesso di attivare le procedure previste dai citati articoli per la segnalazione e la bonifica dei siti potenzialmente inquinati; la violazione dell’articolo 59 del decreto legislativo n. 152 del 1999 perché l’impianto non era provvisto di autorizzazione allo scarico delle acque reflue ed era altresì privo di un sistema di raccolta delle acque di prima pioggia.

Osservava il tribunale che erano astrattamente configurabili tutti i reati contestati. Con riferimento a quello di cui all’articolo 674 c.p. evidenziava che si era accertato lo sversamento di carburante, sia in occasione delle operazioni del rifornimento da parte degli utenti, che durante quelle di riempimento delle cisterne nonché la presenza di acqua e carburante nei pozzetti di spurgo delle cisterne (cosiddetti passi d’uomo). Tale ristagno, che provocava esalazioni nocive, si verificava durante le operazioni di riempimento delle cisterne che avvenivano con cadenza trisettimanale per le ridotte capacità contenutistiche delle stesse e per la mancanza di un dispositivo di conteggio del carburante scaricato.

Con riguardo alla violazione degli artt. 242 e 246 del decreto legislativo n. 152 del 2006, sanzionata dal successivo articolo 257, rilevava che i responsabili, nonostante la potenziale contaminazione del sito, constatata nei vari sopralluoghi, non avevano attivato le procedure previste dalle norme anzidette. Inoltre la ditta aveva provveduto a svuotare i pozzetti lasciando però i fusti di carburante in giacenza per qualche settimana presso l’impianto.

Infine, con riferimento al reato di cui all’articolo 59 del decreto legislativo n. 152 del 1999, il collegio, dopo avere premesso che il contenuto di tale norma era stato riprodotto in quello di cui all’articolo 137 del testo unico n. 152 del 2006, osservava che gli indagati non erano in possesso di alcuna autorizzazione allo scarico o alla raccolta delle acque piovane. Rilevava infine che sussisteva il periculum in mora occorrendo evitare la perpetuazione del danno all’ambiente.

Ricorre per cassazione lo Schembri sulla base di quattro motivi.

 

In Diritto

Con i primi tre motivi di gravame il ricorrente lamenta la violazione delle norme incriminatici nonché la carenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento ablatorio e mancanza di motivazione, il tutto in base ai mezzi di annullamento di cui all’articolo 606 c.p.p. lettere b e c). Assume che i tre reati ipotizzabili non sarebbero configurabili neppure astrattamente: il primo non sarebbe configurabile per i motivi già indicati nell’istanza del riesame ai quali rinvia; il secondo perché le norme citate dal tribunale non prevedevano reati ma solo regole procedurali cui non potevano essere parametrate condotte penalmente rilevanti, tanto più che non risultavano essere state superate le soglie di rischio né era stato dimostrato l’inquinamento del suolo, sottosuolo o acque, ma solo quello dei pozzetti di spurgo appositamente costruiti per contenere gli sversamenti accidentali. Sostiene inoltre che la comunicazione di cui all’articolo 242 decreto legislativo citato era stata inoltrata a seguito della segnalazione giornalistica del fatto. In ordine alla configurabilità del terzo reato deduce l’insussistenza di uno scarico di acque reflue industriali e sottolinea che il mancato convogliamento delle acque meteoriche poteva essere sanzionato solo in presenza di apposita legislazione regionale mai emanata.

Con il quarto motivo deduce la violazione dell’articolo 321 c.p.p. e mancanza di motivazione sul periculum in mora. Assume che, dopo l’adozione del provvedimento cautelare, la società aveva chiesto ed ottenuto la rimozione dei sigilli per espletare alcune indagini sull’impianto all’esito delle quali erano stati esclusi sversamenti di prodotti petroliferi riconducibili a carenze del distributore.

Il ricorso è parzialmente fondato e va accolto per quanto di ragione. I primi tre motivi, essendo logicamente connessi perché attengono all’astratta configurabilità dei reati ipotizzati, vanno esaminati congiuntamente.

L’articolo 674 c.p.. prevede due ipotesi di reato: la prima vieta in ogni caso, salvo la limitazione del luogo, il getto (di corpi solidi) o il versamento di cose (liquidi) atti ad offendere, imbrattare e molestare le persone; la seconda vieta l’emissione di gas, vapori e fumo nei soli casi non consentiti dalla legge. Si tratta in entrambe le ipotesi di reato di pericolo e non di danno, come si desume dalla circostanza che ai fini della sua configurabilità è sufficiente l’idoneità a creare semplici molestie. La prima ipotesi però richiede una condotta attiva non essendo sufficiente l’omissione di cautele idonee ad evitare il possibile imbrattamento o la molestia alle persone. La seconda ipotesi invece può essere integrata sia da una condotta attiva che passiva. Per quanto concerne le emissioni gassose, secondo la giurisprudenza prevalente di questa corte, l’espressione nei casi non consentiti dalla legge costituisce una precisa indicazione circa la necessità che l’emissione avvenga in violazione delle norme che regolano l’inquinamento atmosferico (Cass. 216621 del 2000: 220678 del 2002). Di conseguenza, contenendo la legge una sorta di presunzione di legittimità di emissione dei fumi, vapori gas che non superino la soglia fissata dalle leggi speciali in materia, ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, è necessario dimostrare il superamento dei limiti di tollerabilità stabiliti dalla legge speciale. Argomentando diversamente, come si è sottolineato dalla dottrina, si verrebbe ad ammettere che il legislatore abbia fissato prescrizioni e limiti il cui rispetto non sarebbe sufficiente a tutelare la salute. Tuttavia il problema del superamento dei limiti di tollerabilità si pone per le attività autorizzate, allorché l’emissione di fumi e vapori sia una conseguenza diretta dell’attività. Se l’attività non è autorizzata e o se l’emissione, ancorché autorizzata, non è una conseguenza naturale dell’attività, ma dipende da deficienze dell’impianto o da negligenze del gestore, ai fini della configurabilità del reato, è sufficiente la semplice idoneità a creare molestia alle persone.

Nella fattispecie il tribunale ha ritenuto configurabili entrambe le ipotesi di cui all’articolo 674 c.p. Ora la prima ipotesi non sembra astrattamente configurabile o comunque non sono state indicate le ragioni per le quali dovrebbe essere configurabile. Invero, tale ipotesi, come sopra precisato, richiede un comportamento positivo del gestore dell’impianto. Di conseguenza l’eventuale versamento accidentale del carburante da parte degli utenti era casuale e non dipendeva da attività positiva del gestore dell’impianto, ma da imperizia degli stessi utenti. Inoltre le esalazioni per essere idonee a recare molestia alle persone devono avere una durata apprezzabile nel tempo e non risolversi in pochi istanti ed in ambito circoscritto come quelle eventualmente causate da modesti versamenti di carburante da parte dei clienti in occasione dell’autorifornimento. E’ invece astrattamente configurabile la seconda ipotesi della norma richiamata in quanto, come esattamente rilevato dal tribunale, nel caso in esame non si poneva un problema di tollerabilità poiché le esalazioni dipendevano secondo gli accertamenti compiuti dal giudice del merito, dalla vetustà ed inefficienza dell’impianto ed erano state causate dal continuo ristagno di idrocarburi nei pozzetti. Orbene, trattandosi di esalazioni imputabili all’indagato per la vetustà o inefficienza dell’impianto, come accertato allo stato dal tribunale, il reato ipotizzato è astrattamente configurabile.

Con riferimento alla configurabilità del secondo reato (violazione degli artt. 242 e segg. del D.P.R. n. 152 del 2006) si osserva che il fatto, iniziato sotto la disciplina dei decreti legislativi n. 152 del 1999 e n. 27 del 1997 è proseguito anche sotto la vigenza del testo unico in materia ambientale approvato con decreto legislativo n. 152 del 2006.

L’art. 58 del decreto legislativo n. 152 del 1999 disponeva che “chi con il proprio comportamento omissivo o commissivo in violazione delle disposizioni del presente decreto provoca un danno alle acque, al suolo, al sottosuolo e alle altre risorse ambientali, ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di inquinamento ambientale, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali è derivato il danno ovvero deriva il pericolo di inquinamento, ai sensi e secondo il procedimento di cui all’art. 17 del D.Lgs. n. 22 del 1997” e sanzionava con l’arresto e con l’ammenda l’inosservanza della disposizione anzidetta. Per la configurabilità del reato era quindi necessario un danno o un pericolo di danno all’ambiente causato, non da un qualsivoglia comportamento, ma dalla violazione delle disposizioni di cui al decreto legislativo n. 152 del 1999 ossia essenzialmente dalle violazioni delle disposizioni in materia di scarichi di acque reflue industriali. A seguito delle modificazioni apportate con il decreto legislativo n. 258 del 2000, per scarico doveva intendersi qualsiasi immissione tramite condotta di acque reflue, liquide o semiliquide nel suolo sottosuolo o rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante. Gli scarichi di reflui di cui il detentore si disfi senza versamento diretto tramite condotta o comunque senza una canalizzazione rientravano nella disciplina dei rifiuti di cui al decreto Ronchi (la quale costituisce la disciplina generale anche in materia di rifiuti liquidi) e non quella sulle acque, e potevano dare luogo o ad uno smaltimento di rifiuti o ad un abbandono degli stessi. Mancando quindi uno scarico, anche in tema di bonifica dei siti inquinati, non era applicabile la disciplina sulle acque bensì quella sui rifiuti. 

L’articolo 51 bis del decreto legislativo n. 22 del 1997, prescriveva a sua volta che chiunque avesse cagionato l’inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento, previsto dall’articolo 17, comma 2, era punito con la pena dell’arresto da sei mesi a un anno e con l’ammenda da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni se non provvedeva alla bonifica secondo il procedimento di cui all’articolo 17. Si applicava la pena dell’arresto da un anno a due anni e la pena dell’ammenda da lire 10 milioni a lire 100 milioni se l’inquinamento fosse stato provocato da rifiuti pericolosi e, al comma 2, precisava che chiunque avesse cagionato, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero avesse determinato un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, era tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali derivava il pericolo di inquinamento. Dal raffronto emerge che la fattispecie del D.Lgs. n. 22/1997 aveva un ambito diverso e, per alcuni aspetti, più circoscritto e limitato rispetto a quella di cui all’articolo 58 del decreto legislativo n. 152 del 1999: essa, infatti, faceva riferimento non genericamente a un danno all’ambiente o ad un pericolo di inquinamento ambientale, bensì al superamento o al pericolo di superamento di limiti precisi specificati dal D.M. 25 ottobre 1999, n. 471. Inoltre, mentre, il decreto sulle acque del 1999 richiedeva che il danno o il pericolo di inquinamento ambientale fosse stato provocato da un comportamento omissivo o commissivo in violazione delle disposizioni del decreto stesso, l’articolo 17 comma secondo del decreto Ronchi faceva discendere l’obbligo della bonifica anche se il fatto fosse stato cagionato in maniera accidentale.

Il decreto legislativo n. 152 del 2006 ha riprodotto solo in parte il contenuto delle norme dianzi citate. Attualmente la disciplina penale ed amministrativa della bonifica dei siti inquinati è contenuta negli artt. 242 e segg. del decreto legislativo n. 152 del 2006. Essa ha per oggetto, oltre ai suoli ed al sottosuolo, anche le acque sotterranee e prevede (art. 242) che al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell’inquinamento debba mettere in atto entro ventiquattro ore le necessarie misure di prevenzione e dare immediata comunicazione ai sensi dell’articolo 304 del medesimo decreto legislativo nonché svolgere una preliminare indagine sui parametri oggetto dell’inquinamento e, ove accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione non sia stato superato, debba provvedere al ripristino della zona contaminata dandone notizia al comune ed alla provincia. Qualora accerti l’avvenuto superamento delle anzidette concentrazioni anche per un solo parametro deve darne immediata notizia al comune ed alle province competenti per territorio con la descrizione delle misure adottate e nei successivi trenta giorni deve presentare alle amministrazioni ed alla regione competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui all’allegato n 2. La segnalazione è quindi dovuta a prescindere dal superamento delle soglie di contaminazione e la sua omissione è sanzionata dall’articolo 257 il quale non punisce solo l’omessa bonifica ma anche l’omessa segnalazione.

Nella fattispecie non si è fatto alcun riferimento agli elementi richiesti dalla disciplina vigente prima del decreto legislativo n. 152 del 2006 per la configurabilità del reato, ma si è richiamato solo il predetto decreto legislativo. In particolare si è ritenuto che in presenza di una situazione potenzialmente inquinante del sito, constatata secondo il tribunale dai vari sopralluoghi, il responsabile dell’inquinamento aveva omesso le prescritte comunicazioni. Il fatto quindi è astrattamente configurabile sotto la vigenza del decreto legislativo n. 152 del 2006, in quanto è stata ipotizzata una situazione potenzialmente inquinante, ed è sanzionato dall’art. 257 del decreto legislativo dianzi citato, puntualmente richiamato dal tribunale anche se ovviamente la concreta fondatezza dell’ipotesi astrattamente configurabile deve essere verificata nel giudizio di merito.

L’indagato lascia però intendere di avere effettuato la prescritta segnalazione, ma di tanto non ha fornito la prova. In ogni caso un eventuale vizio di travisamento della prova da parte del tribunale non è deducibile in questa sede. Invero, in questa materia, a norma dell’articolo 325 c.p.p., il ricorso per cassazione può essere proposto solo per violazione di legge. Secondo l’orientamento prevalente di questa corte, ribadito dalle Sezioni unite con la sentenza del 2004, Ferazzi, nel concetto di violazione di legge può comprendersi la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, quali ad esempio l’articolo 125 c.p.p., che impone la motivazione anche per le ordinanze, ma non la manifesta illogicità della motivazione, che è prevista come autonomo mezzo d’annullamento nell’articolo 606 lett. e) né tanto meno il travisamento del fatto o della prova .Sarà il giudice del merito ad accertare se sia stato o no effettuata la prescritta segnalazione.

Per quanto concerne l’ipotizzata violazione dell’articolo 59 del decreto legislativo n. 152 del 1999, per la mancata autorizzazione allo scarico dei reflui industriali e per la mancata adozione di un sistema di convogliamento delle acque di dilavamento e di quelle di prima pioggia, si deve invece rilevare che il reato ipotizzato (violazione dell’articolo 59 del decreto legislativo n. 152 del 1999) non è astrattamente configurabile.

Invero, nella normativa in materia di inquinamento idrico e segnatamente nel decreto legislativo citato, accanto alla definizione di acque reflue industriali ed a quella di acque reflue urbane si faceva riferimento ad una diversa e distinta tipologia di acque e cioè “alle acque meteoriche di dilavamento” (articolo 2 lettera h) decreto legislativo n. 152 del 1999, come modificato dal decreto legislativo correttivo n. 258 del 2000) per distinguerle da quelle industriali e da quelle domestiche. Le acque meteoriche di dilavamento, pur essendo riconducibili ad un fenomeno naturale, possono comunque essere interessate dall’attività antropica in modo importante ed interagire con l’ambiente in modo pesantemente negativo; le stesse, infatti, in relazione al luogo dove si riversano e alle modalità con cui vengono raccolte, trasportano spesso sostanze inquinanti nei corpi recettori.

Le acque meteoriche di dilavamento sono quindi costituite dalle acque piovane che, depositandosi su un suolo impermeabilizzato dilavano le superfici ed attingono indirettamente i corpi recettori. Quando queste vengono in qualsiasi modo convogliate nella rete fognaria, si mischiano con le acque reflue domestiche e/o industriali. Tali acque non erano definite né disciplinate dalla legge Merli, tuttavia, stante il possibile impatto sull’ambiente quando esse interagivano con altri reflui o con contaminanti derivanti dall’attività antropica, la giurisprudenza aveva avuto modo di occuparsene in più riprese, inquadrandole come “scarico” e stabilendone talora la sottoposizione al regime, anche penale, degli scarichi industriali (cfr. Cass. n 12186 del 1999). Tale concetto, che esclude quindi che possano essere considerate “acque meteoriche” quelle in cui sia rilevante la confluenza con altri reflui o commistione con altre sostanze inquinanti provenienti da un insediamento produttivo, è stato affermato anche nel vigore del D.Lgs. 152/1999, ma prima della modifica introdotta dal D.Lgs. 258/2000. Si è infatti ritenuta la sussistenza del reato di cui all’articolo 59 del decreto legislativo n. 152 del 1999, qualora i reflui piovani rappresentassero solo una componente dello scarico. Al contrario il reato non è stato considerato integrato qualora lo scarico fosse costituito esclusivamente da acque meteoriche, poiché in questo caso veniva a mancare qualsiasi collegamento, sotto forma di diretta derivazione, dal ciclo produttivo di un insediamento commerciale o industriale. In definitiva le acque meteoriche e di dilavamento (si considerano acque di dilavamento solo quelle meteoriche che cadono su superfici impermeabili essendo queste le uniche che possono essere dilavate), non erano in se stesse considerate “scarico” nel concetto previsto e delineato formalmente dall’articolo 2 lettera bb) del D.Lgs. n. 152/1999, prima dell’intervento correttivo attuato con il decreto legislativo n. 258 del 2000. Tuttavia, se un’acqua meteorica andava a “lavare”, anche se in modo non preordinato e sistematico (quindi discontinuo), un’area soggetta ad attività produttiva anche passiva, e trasportava con sé elementi residuali di tale attività, cessava la natura pura e semplice di acqua meteorica e l’acqua diventava in qualche modo uno scarico vero e proprio e quindi era assoggettato naturalmente alla disciplina degli “scarichi” con la conseguente necessità dell’autorizzazione. In tal caso, infatti, l’acqua perdeva la caratteristica unica ed esclusiva di acqua meteorica ed andava a fondersi con gli elementi reflui (sistematici o episodici) dell’azienda, fungendo da vettore improprio per la convogliabilità diretta verso il corpo ricettore.

Con le correzioni apportate al decreto legislativo n. 152 del 1999 per mezzo del decreto legislativo n. 258 del 2000 è cambiata la nozione di scarico che, come accennato, è stata limitata a qualsiasi immissione diretta tramite condotta o canalizzazione di acque reflue (art. 2 lettera bb del decreto legislativo n. 152 del 1999) ed è stata altresì puntualizzata con l’articolo 39 la disciplina delle acque meteoriche. Di conseguenza è stato abbandonato l’ampio concetto di scarico presupposto dalla legge 10 maggio del 1976 n. 319 che comprendeva scarichi di ogni tipo, diretto o indiretto e quindi anche occasionali. A seguito di tale modificazione non costituisce più scarico diretto che richiede la previa autorizzazione quello che non convoglia acque reflue tramite condotta o comunque tramite un sistema stabile di deflusso anche se non necessariamente costituito da tubazioni. A seguito delle modificazioni apportate all’articolo 39 il legislatore ha devoluto alle Regioni il compito di disciplinare le forme di controllo degli scarichi delle acque meteoriche (comma 1 lettera a) dell’articolo 39) e quello di indicare i casi in cui possono essere imposte particolari prescrizioni per le immissioni delle acque meteoriche di dilavamento effettuate tramite altre condotte separate (comma 1 lettera b) ovvero per le acque di prima pioggia o di lavaggio qualora vi sia rischio per l’ambiente (comma 3). Nello stesso tempo il legislatore ha vietato comunque lo scarico e l’immissione diretta di acque meteoriche nelle acque sotterranee (comma 4) specificando tuttavia che il divieto generale di scarico sul suolo o negli strati superficiali del sottosuolo non si applica agli “scarichi di acque meteoriche convogliate in reti fognarie separate” (art. 29 comma 1 lettera e). In ogni caso le acque meteoriche che non rientravano nella regolamentazione regionale non erano soggette ai vincoli ed alle prescrizioni del decreto legislativo n. 152 del 1999. In tale situazione le acque meteoriche di dilavamento, se non erano canalizzate, non avevano la natura di scarico per il quale era prevista l’autorizzazione penalmente sanzionata, ma potevano essere sottoposte alle norme sui rifiuti allorché con il dilavamento delle superfici su cui cadevano producessero rifiuti liquidi.

Attualmente la disciplina delle acque meteoriche di dilavamento è interamente contenuta nell’art. 113 del D.Lgs. 152/2006, il quale riproduce sostanzialmente il contenuto dell’art. 39 del D.Lgs. 152/1999, come modificato dal D.Lgs. n. 258/2000.

Detto articolo prevede al comma 1 che le Regioni, ai fini della prevenzione di rischi idraulici ed ambientali, stabiliscano e disciplinino:

1) forme di controllo degli scarichi di acque meteoriche di dilavamento provenienti da reti fognarie separate (cioè adibite a raccogliere esclusivamente acque meteoriche);

2) i casi in cui può essere richiesto che le immissioni delle acque meteoriche di dilavamento, effettuate tramite altre condotte separate (diverse dalle reti fognarie separate), siano sottoposte a particolari prescrizioni, ivi compresa l’eventuale autorizzazione.

Questi sono gli unici casi in cui le acque meteoriche sono soggette al D.Lgs. 152/2006.

Il comma 2 dell’art. 113 prevede infatti che fuori di dette ipotesi “le acque meteoriche non sono soggette a vincoli o prescrizioni derivanti dalla parte terza del presente decreto” (e quindi, ove non siano commiste ad altri reflui prodotti dall’attività antropica, non costituiscono uno “scarico” soggetto alla disciplina del D.Lgs. 152/2006). Tuttavia si deve segnalare una modificazione introdotta con la nuova definizione di acqua reflua industriale dall’art. 74 lettera h) del D.Lgs. 152/2006. Mentre infatti nel regime del D.Lgs. 152/1999 le acque di dilavamento sembravano apparentemente escluse dalla nozione di scarico anche ove si fosse trattato di acque che avessero raccolto sostanze inquinanti provenenti da insediamenti industriali, la nuova disciplina ridefinisce le acque reflue industriali come “qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connesse con le attività esercitate nello stabilimento”. La nuova definizione, come la precedente, esclude dalle acque reflue industriali quelle meteoriche di dilavamento, precisando però che devono intendersi per tali anche quelle contaminate da sostanze o materiali non connessi con quelli impiegati nello stabilimento. Sembrerebbe perciò che quando le acque meteoriche siano, invece, contaminate da sostanze impiegate nello stabilimento, non debbano più essere considerate come “acque meteoriche di dilavamento”, con la conseguenza che dovrebbero essere considerate reflui industriali. In particolare, mentre in precedenza appariva evidente l’intento del legislatore di espungere il più possibile dal D.Lgs. 152/1999 le acque meteoriche in mancanza di apposita disciplina regionale e, stante il chiaro tenore letterale delle norma, non pareva più possibile l’equiparazione delle acque di dilavamento (seppure contaminate) delle aree esterne di un’azienda alle acque industriali, con il D.Lgs. 152/2006 le acque di dilavamento contaminate dall’attività produttiva tipica dell’insediamento da cui provengono sembrano doversi ritenere assimilate a quelle industriali, e quindi soggette al relativo regime normativo. Inoltre con il decreto legislativo n. 152 del 2006 sono state modificate sia la definizione di scarico che quella d’inquinamento. Per quanto concerne la definizione scarico è stato eliminato il riferimento alla “ immissione diretta tramite condotta”(cfr. art. 74 lettere ff decreto legislativo n. 152 del 2006). L’articolo 185 primo comma lettera b) del decreto legislativo citato precisa, infatti, che non rientrano nel capo d’applicazione della disciplina dei rifiuti “gli scarichi idrici esclusi i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue”. Questo collegio, nonostante il mancato riferimento nella definizione di scarico all’immissione tramite condotta e nonostante qualche imprecisione terminologica, ritiene che si possa escludere un ritorno allo scarico indiretto che era previsto dall’articolo I lettera a) della legge Merli e che non è stato riproposto nel decreto legislativo n. 152 del 2006. Quindi anche in base al citato decreto legislativo per scarico si deve intendere l’immissione nel corpo recettore tramite condotta o comunque tramite un sistema dl canalizzazione anche se non necessariamente costituito da tubazioni. Tale interpretazione si impone, sia per evitare i contrasti e le incertezze sorte in passato sulla nozione di scarico, sia perché attualmente è all’esame del Governo uno schema di decreto correttivo, emanato in base all’articolo 1 comma 6 della legge delega 15 dicembre 2004 n 308, in forza del quale sono consentite modificazioni ed integrazioni del decreto legislativo n. 152 del 2006 da emanarsi entro due anni dall’approvazione del decreto stesso, dirette a ripristinare la precedente nozione di scarico con il riferimento all’immissione diretta tramite condotta ed a sostituire la lettera h) dell’articolo 74 per quanto riguarda la definizione di acque reflue industriali. Pertanto anche sotto la vigenza del decreto legislativo dianzi citato la linea di confine tra la disciplina sulle acque e quella sui rifiuti è ancora quella delineata da questa Corte a partire dalla sentenza delle Sezioni unite n. 19 del 1995, Forina fino a quella più recente n. 8890 del 2005, Gios.

Quindi il reato contestato, per la mancanza di una condotta o comunque di una canalizzazione, non è configurabile né in base al decreto legislativo n. 152 del 1999 né in base a quello del 2006 mentre potrebbe essere configurabile un eventuale abbandono di rifiuti liquidi qualora dovesse emergere che le acque meteoriche di dilavamento mescolandosi con il carburante producevano rifiuti liquidi, dei quali la ditta intendeva disfarsi, riconducibili all’attività svolta su quel piazzale dalla società. Ma trattasi di una mera ipotesi che non risulta riscontrata.

Alla stregua delle considerazioni svolte l’ordinanza impugnata va annullata con riferimento all’astratta configurabilità del reato di cui all’articolo 59 del decreto legislativo n. 152 del 1999. Il giudice del rinvio ai fini dell’ipotizzabilità di tale reato dovrà tenere conto dei principi sopra enunciati in ordine alla nozione di scarico che, anche in base al decreto legislativo n. 152 del 2006, non può considerarsi diversa da quella indicata nell’articolo 2 lettera bb) del decreto legislativo n. 152 del 1999, come modificato dal decreto legislativo n. 258 del 2000. In ordine agli altri reati, il tribunale del rinvio dovrà comunque tenere conto delle puntualizzazioni e precisazioni contenute nella motivazione, le quali, pur non escludendo la configurabilità astratta degli altri reati ipotizzati, tuttavia l’attenuano.

Il motivo relativo alle esigenze cautelari si deve ritenere assorbito dovendo il tribunale riesaminare, sia pure in parte, l’astratta configurabilità dei reati. In ogni caso a prescindere dalla configurabilità dei reati, il sequestro potrebbe essere mantenuto solo nell’ipotesi in cui la causa del potenziale inquinamento, che il tribunale assume essere stato constatato, non sia stata nel frattempo eliminata.