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La vita quotidiana degli operatori giuridici tra tecnicismi astratti e saggezza pratica*

Non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta della verità.

T

Karl Popper.

Se dovessi proporre un’immagine che descriva la condizione del giurista, nello svolgimento della sua attività quotidiana di consulente legale degli operatori economici, non saprei trovarne nessuna più adeguata di questa: la corda di uno strumento musicale.

Come la corda musicale stabilisce un collegamento tra il ponticello e le chiavi e vibra, rispettando le leggi dell’armonia solo se sottoposta alla giusta tensione, così il giurista si trova ad essere, per naturale inclinazione, l’elemento di raccordo tra due entità spesso distanti, per finalità e metodi: il mondo dell’impresa ed il mondo delle norme. Ma solo se il giurista riesce a stabilire la giusta tensione tra queste due entità l’armonia, sia nell’Impresa che al suo esterno, può essere garantita.

Al di là dei paragoni musicali, ritengo che il giurista, ed in particolare il giurista d’impresa, sia sottoposto spesso a tensioni rilevanti che lo spingerebbero a far prevalere, a seconda della convenienza del momento, le esigenze dell’imprenditore, solitamente allergico a quelli che un luogo comune dei nostri tempi definisce "lacci e lacciuoli", ovvero le previsioni generali e astratte fissate dal legislatore (anche se in questo caso è facile pensare che non avrebbe un lungo futuro nella sua funzione aziendale). Pertanto le concrete necessità dell’operatore giuridico spesso spingerebbero a cercare soluzioni alternative alle norme che, garantendo un rispetto formale delle parole della legge, ne violino lo spirito ed i contenuti. Ma, chi è abituato alle cose giuridiche, sicuramente ricorderà come la sapientia iuris dei Romani definiva la condotta in frode alla legge in rapporto all’agire meramente illecito: Contra legem facit qui id facit quod lex prohibet, in fraudem, vero, qui salvis legis verbis, sententiam eius circumvenit.

In realtà i problemi che si agitano dietro le formule giuridiche non sono mai scolpiti nel marmo ma assumono forme mutevoli e si ricoprono di toni cangianti.

Quindi, se il giurista vuole svolgere un ruolo utile ed essenziale all’interno di un’organizzazione umana, sia essa un’azienda o un’istituzione, deve saper individuare un punto di equilibrio tra gli interessi apparentemente confliggenti di colui che agisce e di colui che controlla. Spesso la bussola che il giurista d’impresa utilizza per ritrovare la strada in questo oscuro percorso è rappresentata da quella branca del diritto che va tecnicamente sotto il nome di "analisi economica del diritto". Ma la tecnica non è tutto ed anche il giurista, come ogni essere umano, dovrebbe sforzarsi di utilizzare gli strumenti che ha a disposizione con intelligenza e sensibilità.

Proprio per questa considerazione a mio avviso il vero punto di equilibrio, che consente di sopportare la tensione generata dal "conflitto naturale" tra esigenze pratiche e leggi, risiede in una virtù etica assai difficile da raggiungere ma assai semplice da descrivere. E’ quella che Aristotele chiamava "Phrònesis" e che in termini colloquiali possiamo definire come la saggezza del caso pratico. Per il giurista essa si identifica nella capacità di cogliere l’esatto significato della norma e di adattarlo, con armonia, al caso concreto. La "Phrònesis" - osservava Aristotele nell’Etica Nicomachea - si pone in stretta correlazione con la "Technè", cioè con la tecnica, che è l’insieme delle conoscenze attraverso le quali si risolvono i problemi concreti. Credo che il giurista, soprattutto nei suoi rapporti professionali con le Imprese, debba percorrere questa strada e diventare un pratico di Phrònesis se vuole evitare che i problemi concreti diventino degli ostacoli quotidiani ed insormontabili.

In quest’opera di mediazione il giurista può ritrovare tutta intera la sua dignità e la sua valenza sociale: in tale prospettiva, l’attività interpretativa cessa di essere una mera operazione tecnica, soggetta anch'essa alle norme che l’ordinamento mette a disposizione di chi voglia attribuire significato certo alle parole che esprimono la volontà del legislatore e dei contraenti. Come ci ha ricordato in una mirabile monografia Natalino Irti, l’interpretazione deve basarsi non solo sul "Testo" ma anche sul "Contesto" nel quale l’oggetto dell’analisi si immerge. Così il giurista non deve mai dimenticare di essere parte di un organismo sociale e che la sua funzione essenziale è quella di inquadrare, in base ai principi dell’ordinamento, nelle categorie giuridiche, le forze sociali, spesso in conflitto, per garantire la convivenza pacifica dei consociati: per usare una formula classica ne cives ad arma veniant.

Per il conseguimento di questo risultato, di fronte allo sfuggente rapporto tra conoscenza e realtà, mi sembra quanto mai essenziale per il giurista fare propria quell’attitudine che è stata così bene descritta da uno dei maggiori esponenti dell’epistemologia contemporanea, Karl Popper il quale, con la semplicità che solo ai Grandi è consentita, osservava: "... penso che vi sia solo una via di accesso alla scienza – o alla filosofia: imbattervi in un problema, vederne la bellezza e innamorarvene; sposarlo, e convivere felicemente con esso, finché morte non vi separi- a meno che non incontriate un altro e ancor più affascinante problema, o a meno che, in verità, non ne otteniate la soluzione. Ma anche se riuscite a trovare una soluzione, potreste poi scoprire, con vostra delizia, l’esistenza di un’intera famiglia di incantevoli, anche se forse difficili, figli del problema, per il cui benessere potreste lavorare, con uno scopo, fino alla fine dei vostri giorni".

Solo se il giurista sa mettere l’armamentario tecnico, che la scienza del diritto offre, a disposizione della saggezza pratica può contribuire a risolvere i problemi ed essere davvero utile all’interno dell’organizzazione sociale nella quale opera. Il tecnicismo astratto non deve prevalere sulla saggezza pratica. Quindi il giurista per primo deve sempre tener presente che il diritto non è affatto una scienza formalistica ma, piuttosto, formalizzata. E deve, alla luce di questa consapevolezza, opporsi all’atteggiamento di chi equipari rozzamente l’uomo di legge ad un tecnico che si limita a mettere in bella copia e con gli svolazzi delle clausole di stile i contenuti che altri ha definito. A chi assume questo atteggiamento nei confronti dei giuristi (e sappiamo che sono in tanti a pensarla così, soprattutto all’interno delle Imprese) andrebbe fatto osservare che il diritto ha una sua precisa ragione d’essere come valore e che non può essere semplicemente agitato come vessillo di comodo o come "capro espiatorio" cui attribuire la responsabilità dell’incapacità degli uomini d’affari di trovare la giusta soluzione per il caso concreto.

Ma preliminarmente è necessario che il giurista sciolga con decisione il dilemma che è posto alla radice stessa della sua esistenza e che lo interpone spesso nel conflitto tra tecnicismo e saggezza pratica. In caso contrario, per dirla riprendendo l’immagine iniziale, la corda musicale, anziché vibrare armonicamente, si spezzerà.

Un filosofo tedesco che agli inizi del secolo si occupò dell’allora nascente rapporto tra tecnica e cultura, Walter Bejamin, osservò che tra il mondo contemporaneo della tecnologia e l’universo simbolico della mitologia esistono forti corrispondenze. Confortato da questa suggestiva ricostruzione, mi piace ricordare, a chi voglia seguire con me gli spunti di riflessione offerti dalla cultura classica, il mito di Icaro, nel quale ritrovo espressi, con straordinaria precisione, i rischi connessi all’uso disinvolto delle abilità tecniche. Icaro, animato da una cieca fiducia nella tecnica, non prestò ascolto ai consigli di suo padre Dedalo, il quale invece era condotto dalla saggezza pratica. Quindi prese il volo con le sue ali strabilianti ma fragilmente attaccate al corpo con la cera, si avvicinò troppo al sole e cadde, inabissandosi nel Mar Egeo.

A mio parere anche questo mito classico può essere un buon viatico per tentare la difficile sintesi tra la "legge nei libri " e la "legge in azione", che rappresenta per il giurista lo stesso teorema irrisolto che per il matematico è costituito dalla quadratura del cerchio.

Ma c’è poi una condizione umana che il giurista si trova a dover affrontare quotidianamente in quest’opera di traduzione delle norme attraverso la saggezza del caso pratico. Il contatto tra "mondo delle idee" e "mondo delle cose" è forse l’aspetto più qualificante della vicenda professionale del giurista e questo raccordo tra mondi a prima vista lontanissimi, lo si è già osservato, rischia di generare tensione.

Questa è la realtà effettuale con la quale il pratico del diritto, in particolare, deve fare i conti. Eppure......viene in mente quanto osservava Niccolò Machiavelli, in una bellissima lettera all’amico Francesco Vettori,, nel descrivere la sua vita durante l’esilio nella campagna fiorentina, dopo aver dipinto la sua attività quotidiana, fatta di liti e di avvilimenti morali, con questi foschi colori: "..io mi ingaglioffo per tutto il dì.[....]..e [...]...nascono mille contese e infiniti dispetti di parole ingiuriose." Ma "venuta la sera, mi ritorno in casa, ed entro nel mio scrittoio; ed in sull’uscio mi spoglio quella vesta cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antichi huomini..".

Sembra allora di poter dire che il dialogo tra i due mondi, apparentemente lontanissimi, della pratica e del pensiero consente di trovare dentro di noi le forze per realizzare quello in cui crediamo e ci spinge a riflettere sulla ragione profonda delle cose.

Così, ritenendo che riflettere aiuta a vivere meglio e permette di rafforzare le ragioni che giustificano l’agire stesso dell’uomo, credo sia essenziale che il giurista , tanto più quando si cimenti con le ferree leggi economiche dell’Impresa, sappia ritagliare tra le strettoie delle norme ed dei cavilli interpretativi uno spazio per il pensiero ed i concetti. Sono convinto, infatti, che un buon metodo per affrontare la realtà sia quello di mettersi di fronte ai problemi reali, ponendosi delle domande.

Spesso le buone letture aiutano a generare dubbi attraverso i quali è possibile acquisire maggiore coscienza di sè. Così, suggerendo un percorso di lettura che dovrebbe essere congeniale a quanti si occupano di diritto, ricordo che chi voglia capire cosa vuol dire essere un giurista consapevole nella società contemporanea ha a sua disposizione l’alto magistero intellettuale che promana intatto dalle stimolanti pagine che Giovanni Tarello ci ha lasciato a proposito del rapporto tra il ceto dei giuristi e l’elaborazione delle politiche del diritto da parte del legislatore. Questi scritti richiedono una riflessione ed un approfondimento perchè lì si ritrova in radice il significato autentico del ruolo del professionista del diritto in una compagine sociale.

Ma da questo punto di vista anche la grande letteratura offre spunti di riflessione che meritano di essere raccolti. Come osserva il protagonista de "La coscienza di Zeno", il romanzo italiano che per certi versi meglio descrive la crisi dell’uomo moderno: " è un modo comodo di vivere quello di credersi grande, di una grandezza latente". E per il giurista questa "grandezza latente" significa rifiutare ogni contatto problematico con le questioni concrete; significa, cioè, rinchiudersi nel mondo delle norme che in questa maniera, seguendo un’ardita assonanza, si trasformerebbe nel mondo delle forme, prive di contenuto e di rapporti con la vita. Ed il rifiuto a confontarsi con la realtà è uno dei classici vizi che vengono rimproverati all’uomo di legge, il quale solitamente utilizza gli strumenti tecnici in suo possesso per assicurarsi il distacco dalla concretezza delle questioni che dovrebbe, invece, affrontare e gestire. Basterebbe pensare all’uso, spesso strumentale, del linguaggio giuridico da parte di certi uomini di legge per rendersene conto.

In ogni caso, per uscire dal formalismo, gli appelli alla correttezza intellettuale e gli inviti a cogliere la vera essenza dei rapporti giuridici hanno come fine ultimo la nascita di una maggior consapevolezza del giurista rispetto alla sua reale funzione sociale.

Mi sembra che abbia colto nel segno Stefano Rodotà quando ha osservato che i cambiamenti sociali possono veramente compiersi solo se sono accompagnati dalla piena coscienza degli strumenti giuridici che vengono impiegati per realizzarli e che al diritto non può essere riservata soltanto una oscura ed neutra funzione tecnica. Infatti il diritto, se ha senso proporre una definizione sintetica per un fenomeno sociale tanto sterminato, è essenzialmente cultura, cioè è consapevolezza e gestione equilibrata dei rapporti tra gli uomini, siano essi individui o collettività organizzate. E questo vale tanto più in un epoca come quella attuale, caratterizzata dallo straordinario progresso che i mezzi tecnici offrono alla collettività ed all’individuo. A questo proposito, appoggiandomi alla salda sponda concettuale offertami da Vittorio Frosini, ricordo che " il giurista continua ad assolvere alla funzione che gli è propria di responsabilità della grande trama collettiva delle azioni nella società civile, del collegamento fra il singolo e la comunità, e se il giurista deve vivere nel suo tempo e servirsi della tecnologia che ad esso è propria, l’età tecnologica ha pure essa bisogno dell’opera del giurista, della sua technè e del suo logos".

Con questo spirito, personalmente affronto la mia attività professionale quotidiana. Anche perchè, orgogliosamente, sono convinto che i veri problemi che il giurista è chiamato ad affrontare e risolvere sono, intimamente, questioni che attengono alla coscienza sociale.

Credo, anzi, che in questa visione dovremmo tutti sforzarci di ricordare la lezione che ci viene da uno dei Padri della nostra Carta Costituzionale, Piero Calamandrei, il quale fu, con straordinaria armonia, un limpido giurista ed un politico appassionato. Egli osservava, a proposito dei criteri che devono condurre l’attività dell’uomo di legge nel rito del processo: "occorre conoscere il perché umano e sociale di ogni vicenda processuale, saperla collocare nel nostro tempo, vederla storicamente".

Credo che la grandezza di una lezione morale consista proprio nella sua universalità e nella sua capacità di superare i rigidi steccati che spesso separano i diversi gruppi professionali. Ed allora, leggendo in controluce, con gli occhi rispettosi dell’allievo, l'"Elogio dei giudici scritto da un avvocato", fondamentale scritto del Maestro Fiorentino, mi sembra di poter azzardare che il destinatario del suo elogio sia, in ultima analisi, il Giurista, inteso come depositario della Phrònesis.

Marco Maglio *

* Avvocato -

Presidente della Commissione per la Legislazione e l’Autodisciplina di AIDiM(Associazione Italiana per il Direct Marketing). Responsabile dell’Ufficio legale di Selezione dal Reader’s Digest S.p.A.