Novità legislative – D. lgs. 7 luglio 2011, n. 121, recante disposizioni di “Attuazione della direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell'ambiente, nonché della direttiva 2009/123/CE, che modifica la direttiva 2005/35/CE, relativa all'inquinamento provocato dalle navi e all'introduzione di sanzioni per violazioni” – Disposizioni rilevanti per il settore penale.

Relazione Ufficio Massimario Corte di cassazione 3 agosto 2011

 

Rel. n. III/09/2011                                                    Roma,  agosto 2011

Novità legislative: D.lgs. 7 luglio 2011, n. 121  (Gazz. Uff. n. 177  del 1° agosto 2011)

OGGETTO: Novità legislative – D. lgs. 7 luglio 2011, n. 121, recante disposizioni di “Attuazione della direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell'ambiente, nonché della direttiva 2009/123/CE, che modifica la direttiva 2005/35/CE, relativa all'inquinamento provocato dalle navi e all'introduzione di sanzioni per violazioni” – Disposizioni rilevanti per il settore penale.

Rif. norm.: cod. pen., 727-bis e 733-bis; d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 25-undecies; d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 137, 256, 257, 258, 259, 260, 260-bis e 279; l. 7 febbraio 1992, n. 150, artt. 1 e 3-bis; l. 28 dicembre 1993, n.549, art. 3; d. lgs. 6 novembre 2007, n. 202, artt. 8 e 9; d. lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, art. 39.
Sommario: 1. Premessa - 2. Le nuove fattispecie previste dagli art. 727-bis e 733-bis c.p.: ragioni dell’introduzione. – 2.1 L’art. 727-bis cod. pen. – 2.2 L’art. 733-bis cod. pen. – 3. La responsabilità degli enti per i reati ambientali. – 3.1 I reati presupposto. – 3.2 I criteri di imputazione oggettiva e le sanzioni. – 3.3 La confisca. – 3.4 La modifica dell’art. 25-novies. – 4. Le modifiche al regime transitorio introdotte dal c.d. Quarto correttivo al T.U.A. (D.Lgs. n. 205 del 2010): la reviviscenza dell’art. 258 T.U.A.

1. Premessa. Con la pubblicazione del d. lgs. 7 luglio 2011, n. 121 si conclude, almeno per il momento, la questione del recepimento della direttiva comunitaria in materia di tutela penale dell’ambiente, varata dal legislatore comunitario per rafforzare la disciplina di contrasto contro i fenomeni di aggressione all’ambiente considerato nel suo complesso.
L’intervento del legislatore italiano arriva, però, con il consueto ritardo rispetto ai tempi imposti per il recepimento dalla normativa europea. L’obbligo di introdurre analoga tutela era stato originariamente previsto dalle decisioni quadro GAI 2003/80 e 2005/667, impugnate dalla Commissione Europea davanti alla Corte di giustizia dell’Unione per violazione dell’art. 47 T.U.E., in quanto basate su un fondamento normativo inappropriato. La Corte (sentenza 13 settembre 2005, causa C-176/039 e sentenza 23 ottobre 2007, causa C-440/05), accedendo alla tesi della Commissione, aveva annullato entrambe le decisioni quadro con la motivazione che queste avrebbero dovuto essere adottate sulla base giuridica del trattato CE (primo pilastro) e non del Trattato sull'Unione europea (terzo pilastro). Ne era dunque seguita la direttiva 2008/99/CE, che gli Stati membri dell’Unione avrebbero dovuto recepire entro il 26 dicembre 2010. L’art. 19 della legge comunitaria 2009 (l. 4 giugno 2010, n. 96) aveva, infatti, delegato il Governo ad adottare, entro il termine di nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi al fine di recepire le disposizioni della direttiva 2008/99/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, sulla tutela penale dell’ambiente e della direttiva 2009/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 ottobre 2009, che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni. I termini di recepimento delle due direttive erano fissati, rispettivamente, al 26 dicembre 2010 e al 16 novembre 2010. Poiché la legge n. 96/2010 era entrata in vigore in data 10 luglio 2010, il termine per l’esercizio della delega sarebbe scaduto in data 9 aprile 2011.
L'esercizio della delega è stato tempestivo, tenuto conto della proroga di novanta giorni contemplata nell’art. 1 della l. n. 96/2010 per il caso in cui il termine previsto per il parere delle Commissioni parlamentari (quaranta giorni dalla data di trasmissione) venisse a scadere nei trenta giorni precedenti il 9 aprile 2011 o successivamente. Il termine per il parere, infatti, richiesto l’8 aprile 2011 con relativa trasmissione dello schema di decreto, scadeva il 18 maggio 2011, sicché il termine per l'esercizio della delega risulta prorogato ex lege al 9 luglio 2011, con conseguente tempestività dell'emanazione del decreto legislativo in data 7 luglio 2011, giusta quanto disposto dall'art. 14, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, a nulla rilevando la successiva data di pubblicazione. Nessun problema di costituzionalità si pone, dunque, rispetto all’art. 76 Cost.
Ciò, tuttavia, potrebbe non bastare. Com’è noto, infatti, in riferimento alle direttive oggetto del decreto legislativo in esame, in data 26 gennaio 2011 la Commissione europea ha inviato all’Italia due lettere di messa in mora attraverso le quali ha contestato all’Italia il mancato recepimento sia della direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell'ambiente (p.i. 2011/0207), sia della direttiva 2009/123/CE che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi (p.i. 2011/0216). Il recepimento, tempestivo rispetto al termine per l’esercizio della delega, potrebbe tuttavia essere insufficiente per la Commissione Europea, non potendo escludersi che l’apertura della procedura di infrazione sfoci in un ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 258 del TFUE.
Venendo, in particolare, ai contenuti del nuovo decreto legislativo, già la Relazione illustrativa di accompagnamento al testo presentato dal Governo, sottolineava che, considerati i limiti di pena previsti dalla legge di delega, il recepimento della normativa comunitaria non potesse essere assicurato attraverso un completo ripensamento del sistema dei reati contro l’ambiente “potrà costituire oggetto di un successivo intervento normativo”. Ciò rappresenta, a ben vedere, un primo limite del testo di recepimento, posto che il legislatore si è limitato esclusivamente ad inserire nel decreto legislativo soltanto quelle disposizioni strettamente necessarie a garantire l’adempimento agli obblighi comunitari scaturenti dalla direttiva 2008/99/CE, senza invece riordinare, come pure era lecito attendersi, l’intera materia dei reati ambientali. Il legislatore delegato, stante la limitazione derivante dall’entità della pene previste dall’art. 2 della legge delega n. 96/2010, ha preferito dunque rinviare ad un successivo intervento normativo sul codice penale, al fine di un più completo ripensamento del sistema dei reati ambientali che recepisca più compiutamente la direttiva prevedendo come delitti (anziché contravvenzioni) le fattispecie di illecito di maggiore gravità.
Del resto, l’esigenza di rafforzare il sistema sanzionatorio introducendo sanzioni dotate di maggiore afflittività era stata già avvertita dal legislatore che, nel corso della precedente legislatura, conclusasi anzitempo nel 2008, aveva visto la presentazione del d.d.l. 24 aprile 2007 (recante “Disposizioni concernenti i delitti contro l’ambiente”) con cui si prevedeva, appunto, l’ambizioso inserimento di un autonomo Titolo VI-bis del Libro Secondo del Codice Penale dedicato ai «Delitti contro l'Ambiente».
La chiusura anticipata della legislatura non aveva consentito di raggiungere l’ambizioso quanto necessario obiettivo (come, del resto, nel silenzio più assoluto del legislatore, era rimasta lettera morta la delega conferita al Governo con l’art. 11, comma 1, lett. d), della L. 29 settembre 2000, n. 300 per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica anche in relazione alla commissione dei reati in materia di tutela dell'ambiente e del territorio).
Con riferimento alla direttiva 2009/123/CE, poi, la Relazione illustrativa del Governo considerava già sussistenti sanzioni adeguate al tenore della direttiva 2009/123/CE (artt. 8 e 9 D.Lgs. 202/2007), ritenendo pertanto non necessario alcun intervento di adeguamento dell’ordinamento nazionale. L’art. 4 del D.Lgs 6 novembre 2007, n. 202 prevede, infatti, che alle navi, salvo deroghe, sia vietato versare in mare le sostanze inquinanti inserite nell'allegato I (idrocarburi) e nell'allegato II (sostanze liquide nocive trasportate alla rinfusa) alla Convenzione Marpol, nonché causare lo sversamento di dette sostanze. L’art. 8 del predetto decreto (inquinamento doloso) stabilisce che, poi, il comandante di una nave, battente qualsiasi bandiera, nonché i membri dell'equipaggio, il proprietario e l'armatore della nave, nel caso in cui la violazione sia avvenuta con il loro concorso, che dolosamente violano le disposizioni dell'art. 4 sono puniti con l'arresto da sei mesi a due anni e con l'ammenda da euro 10.000 ad euro 50.000. L’art. 9 (inquinamento colposo) dello stesso decreto prevede che gli stessi soggetti, nel caso in cui la violazione sia avvenuta con la loro cooperazione, che violano per colpa le disposizioni dell'art. 4, sono puniti con l'ammenda da euro 10.000 ad euro 30.000. Se la violazione causa danni permanenti o, comunque, di particolare gravità, alla qualità delle acque, a specie animali o vegetali o a parti di queste, si applica l'arresto da sei mesi a due anni e l'ammenda da euro 10.000 ad euro 30.000. Il danno si considera di particolare gravità quando l'eliminazione delle sue conseguenze risulta di particolare complessità sotto il profilo tecnico, ovvero particolarmente onerosa o conseguibile solo con provvedimenti eccezionali.
Ciò spiega, conclusivamente, la ragione per la quale, in relazione alla direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente, il legislatore delegato abbia ritenuto necessario implementare l’attuale apparato sanzionatorio inserendo proprio le uniche fattispecie sanzionate dalla direttiva assenti nell’ordinamento interno, ossia quelle relative all’uccisione, distruzione, prelievo o possesso di esemplari di specie animali e vegetali selvatiche protette (art. 727-bis, c.p.) nonché alla distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito protetto (art. 733-bis, c.p.). Oltre ad alcune disposizioni previste dal codice penale come l’uccisione, il maltrattamento e abbandono di animali (artt. 544-bis, 544-ter e 727 c.p.), getto pericoloso di cose (art. 674 c.p.), danneggiamento del patrimonio archeologico, storico, artistico nazionale (art. 733 c.p.); distruzione o deturpamento di bellezze naturali (art. 734 c.p.); disastro ambientale (artt. 434 e 449 c.p.); avvelenamento di acque  (art. 439 c.p., punibile anche in forma colposa ex art. 452 c.p.), la gran parte delle fattispecie illecite previste dalla direttiva 2008/99/CE sono sanzionate da numerose leggi speciali. Tra queste, in particolare, le fattispecie penali contemplate dal cosiddetto codice dell’ambiente (D.Lgs 3 aprile 2006, n. 152), la L. 7 febbraio 1992, n. 150 concernente la disciplina dei reati relativi all'applicazione in Italia della convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione nonché, ancora, la legge 6 dicembre 1991, n. 394, ossia la legge quadro sulle aree protette.

2. Le nuove fattispecie previste dagli art. 727-bis e 733-bis c.p.: ragioni dell’introduzione. L’articolo 3 della direttiva 2008/99/CE prevede che le attività in esso descritte debbano essere previste come reato se poste in essere «intenzionalmente o quanto meno per grave negligenza» e quindi, secondo il nostro ordinamento penale, con dolo o colpa grave.
Allo stato attuale della nostra legislazione, solo alcuni reati ambientali previsti nel nostro ordinamento sono qualificabili come delitti e non come contravvenzioni e pertanto, non essendo altrimenti previsto, risultano punibili solo se commessi con dolo. Si tratta, in particolare: a) dell’art. 260 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti); b) dell’art. 260-bis, comma 6, d.lgs. n. 152/2006 (predisposizione di un falso certificato di analisi di rifiuti, utilizzato nell’ambito del SISTRI od inserimento di un certificato falso nei dati da fornire ai fini della tracciabilità dei rifiuti); c) dell’art. 260-bis, comma 8, d.lgs. n. 152/2006 (trasporto di rifiuti con una copia cartacea della scheda SISTRI – AREA Movimentazione fraudolentemente alterata);  d) dell’art. 260-bis, comma 7, d.lgs. n. 152/2006 (trasporto di rifiuti pericolosi in mancanza della copia cartacea della scheda SISTRI - AREA Movimentazione e, ove necessario sulla base della normativa vigente, con la copia del certificato analitico che identifica le caratteristiche dei rifiuti; uso di un certificato di analisi di rifiuti contenente false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti trasportati); e) dell’art. 209, comma 5, d.lgs. n. 152/2006 (falsità delle attestazioni contenute nell'autocertificazione e dei relativi documenti per il rinnovo delle autorizzazioni alle imprese in possesso di certificazione ambientale); f) dell’art. 258, comma 4, d.lgs. n. 152/2006 (false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti; uso di un certificato falso durante il trasporto).
Il Decreto legislativo di recepimento, dunque, si limita ad integrare il quadro dei reati contravvenzionali in materia ambientale previsti dal codice penale, prevedendo, inoltre, una specifica disciplina della responsabilità delle persone giuridiche derivante da reato ambientale. Le due uniche fattispecie penali di nuovo conio, ambedue di natura contravvenzionale, inserite nel codice penale sono, da un lato, l’art. 727-bis (Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette) e, dall’altro, l’art. 733-bis (Distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito protetto).

2.1. L’art. 727-bis cod. pen. Il nuovo art. 727-bis cod. pen. punisce diverse tipologie di condotte illecite nei confronti di specie animali e vegetali selvatiche protette ovvero: a) la condotta di chi, fuori dai casi consentiti, uccide, cattura o detiene esemplari appartenenti ad una specie selvatica protetta, sanzionandole in via alternativa con l’arresto da 1 a 6 mesi o con l’ammenda fino a 4.000 euro (comma 1); b) la condotta di chi, fuori dai casi consentiti, distrugge, preleva o detiene esemplari appartenenti ad una specie vegetale selvatica protetta, prevedendo un’ammenda fino a 4.000 euro (comma 2). Il legislatore delegato, peraltro, adeguandosi alle previsioni della direttiva comunitaria (art. 3, par. 1, lett. f) della direttiva n. 2008/99/CE), esclude la configurabilità del reato nei casi in cui l'azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie.
La disposizione appare particolarmente importante in quanto, anzitutto, chiarisce che le fattispecie penali sono state configurate tenendo conto di come il bene protetto non sia tanto il singolo esemplare, quanto lo «stato di conservazione della specie». Ciò, in altri termini, comporta l’inapplicabilità delle sanzioni penali previste (e, quindi, esclude che il reato in esame sia configurabile) ove la condotta vietata abbia ad oggetto un solo esemplare appartenente ad una specie animale o vegetale selvatica protetta. A ritenere diversamente, infatti, la nuova fattispecie violerebbe il principio di proporzionalità della pena e, oltre a non essere conforme ai principi di delega, finirebbe per introdurre un trattamento sanzionatorio più rigoroso rispetto a quanto richiesto dalla stessa direttiva comunitaria.
Il rischio di un’applicazione estesa della fattispecie anche a condotte aventi ad oggetto un solo esemplare, oltre a realizzare una non consentita estensione analogica in malam partem, criminalizzerebbe comportamenti il cui disvalore sociale sia poco rilevante. Se a ciò si aggiunge, poi, anche l’applicazione della disciplina del d.lgs. n. 231/2001 (essendo stato inserito l’art. 727-bis c.p. nel catalogo dei reati presupposto), ne deriverebbe un impatto sanzionatorio in concreto esorbitante rispetto alla reale portata offensiva della fattispecie. Tanto la direttiva che la legge delega, infatti, prevedono il ricorso alla sanzione penale quale extrema ratio e cioè solo per fatti di particolare gravità, che espongono a pericolo o danneggiano lo stato di conservazione di una specie animale o vegetale selvatica protetta, incidendo su una quantità non trascurabile di esemplari, tali da giustificare l’applicazione di sanzioni penali quali quelle indicate dall’art. 2, comma 1, lett. c) della l. n. 96/2010 (ammenda fino a 150.000 euro ed arresto fino a 3 anni , in via alternativa o congiunta; ammenda alternativa all’arresto per le infrazioni che espongono a pericolo o danneggiano l’interesse protetto; arresto congiunto ad ammenda per infrazioni che recano un danno di particolare gravità).
Pare dunque corretta la costruzione della nuova fattispecie che prevede condotte la cui offensività è tale da giustificare la punibilità anche a titolo di colpa lieve (non avendo la novella scelto di limitare la rilevanza penale della fattispecie alle sole ipotesi di colpa grave) e la cui gravità richiede la sanzione penale dell’arresto alternativa all’ammenda (comma 1), nel rispetto del principio di proporzionalità della pena.
Se le predette osservazioni valgono con riferimento alla previsione del comma 1, non altrettanto può dirsi con riferimento alla fattispecie prevista dal comma 2.
Ed infatti, la disposizione del nuovo art. 727-bis, comma 2, cod. pen. introduce una fattispecie a condotta plurima punita con la sola pena dell’ammenda, mentre l’art. 2, comma 1, lett. c), della legge di delega (legge n. 96/2010) dispone che sono previste sanzioni penali, nei limiti dell’ammenda fino a 150.000 euro e dell’arresto fino a tre anni, in via alternativa o congiunta. Il principio e criterio direttivo, dunque, sembrerebbe essere stato violato dal legislatore delegato.
Venendo, più nello specifico, ad analizzare la struttura della nuova fattispecie, è indubbio che si versi in presenza di un reato a condotta plurima, essendo ravvisabile una pluralità di azioni illecite nell'ambito di un solo reato, in una sorta di progressione criminosa. E’, infatti, evidente che la condotta meno grave tra quelle contemplate (detiene, comune sia al comma 1 che al comma 2) si pone in rapporto di consequenzialità logica, in termini di offensività, rispetto a quella intermedia (cattura: coma 1; preleva: comma 2) che, a sua volta, costituisce un minus rispetto a quella maggiormente offensiva (uccide: comma 1; distrugge: comma 2).
Ciò, tuttavia, comporta un duplice ordine di problemi.
Anzitutto, potrebbe suscitare qualche perplessità l’accorpamento in un unico comma di condotte caratterizzate da un grado crescente di gravità dell’offesa rispetto al bene giuridico tutelato. Non a caso, il testo dell’art. 727-bis, cod. pen. originariamente trasmesso ad aprile 2011 alle Camere dal Governo, era diversamente strutturato, in quanto la norma prevedeva una suddivisione in più commi a ciascuno dei quali corrispondeva una delle condotte alternative oggi accorpate nel comma 1 (per le specie animali) e nel comma 2 (per le specie vegetali) ed a cui, soprattutto, corrispondeva una diversa risposta sanzionatoria gradualmente crescente con l’irrobustirsi del grado di offesa al bene oggetto di tutela penale.
Non è chiara, quindi, la ragione per la quale si sia optato per l’accorpamento delle condotte costruendo un'unica fattispecie a condotta plurima, che parifica l’entità della risposta sanzionatoria a fronte di una crescente gradualità dell’offesa al medesimo bene giuridico. Un indizio, in realtà, può essere tratto dai lavori parlamentari ed, in particolare, dal parere espresso dall’VIII^ Commissione Ambiente della Camera che sottolineava l’opportunità di procedere ad una riduzione delle sanzioni penali previste dal testo originario, anche ai fini di una loro armonizzazione con le sanzioni penali già vigenti nell’ordinamento nazionale (il riferimento era alle sanzioni previste dalla l. 11 febbraio 1992, n. 157 recante “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”), allo scopo di garantire il mantenimento di un elevato livello di tutela ambientale e, in particolare, della fauna selvatica protetta.
In secondo luogo, poi, l’accorpamento in un unico comma delle diverse condotte, pone un problema di eventuale assorbimento delle singole fattispecie tra loro in rapporto di alternatività formale, con esclusione di un possibile concorso materiale, quantomeno limitatamente ad alcune di esse.
Ed infatti, da un lato, appare ipotizzabile un concorso tra le condotte più gravi (uccide: comma 1; distrugge: comma 2) e le fattispecie gradatamente meno offensive contemplate alternativamente in ciascuno dei due commi, posto che l’uccisione o la distruzione sono suscettibili di concorrere con le condotte che implicano l’impossessamento della specie, animale o vegetale, selvatica protetta, potendo configurarsi un assorbimento nelle condotte più gravi di quelle meno offensive solo ove l’uccisione o la distruzione sia posta in essere impossessandosi dell’oggetto materiale, a titolo definitivo (cattura: coma 1; preleva: comma 2) o provvisorio (detiene, comune sia al comma 1 che al comma 2); dall’altro, invece, tale concorso non appare ipotizzabile tra la condotta intermedia e la meno grave condotta offensiva consistente nella “detenzione”, posto che non si può “catturare” (esemplari di specie animali selvatiche protette) o “prelevare” (esemplari di specie vegetali selvatiche protette) se non previamente detenendo tali esemplari.
Procedendo, dunque, ad analizzare la caratteristiche strutturali della nuova fattispecie, è evidente, anzitutto, come il bene giuridico oggetto di tutela penale diretta sono le specie animali o vegetali selvatiche protette. La nuova fattispecie è stata collocata tra le «contravvenzioni concernenti la polizia amministrativa sociale» e, in particolare, tra quelle concernenti "la polizia dei costumi".
Ciò che il legislatore ha inteso tutelare penalmente, modificabile da parte dell'uomo e, quindi, offendibile attraverso le condotte descritte dai due commi dell'art. 727-bis c.p., è la necessità di preservare lo stato di conservazione di una specie animale o vegetale selvatica protetta da condotte umane che, incidendo su una quantità "non trascurabile" di esemplari, lo espongano a pericolo o lo danneggino.
La corretta individuazione del bene giuridico e, correlativamente, dell'oggetto materiale del reato, richiede necessariamente all'interprete uno sforzo esegetico che trascende la formulazione della fattispecie. Ed infatti, l'art. 1 del decreto legislativo in esame (che, peraltro, inspiegabilmente colloca nell'art. 733-bis, comma 2, cod. pen. il richiamo definitorio alla nozione di "specie animali o vegetali selvatiche protette") non aiuta molto, limitandosi ad un mero rinvio agli allegati alle direttive comunitarie di riferimento.
In particolare, il richiamo riguarda, da un lato, la direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (c.d. direttiva «Habitat») e, dall'altro, la direttiva 2009/147/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 30 novembre 2009, concernente la conservazione degli uccelli selvatici (c.d. direttiva «Uccelli»). La direttiva 92/43/CE, denominata direttiva «Habitat», mira a contribuire alla conservazione della biodiversità negli Stati membri definendo un quadro comune per la conservazione degli habitat, delle piante e degli animali di interesse comunitario. La direttiva «Habitat» stabilisce la rete Natura 2000. Tale rete è la più grande rete ecologica del mondo ed è costituita da zone speciali di conservazione designate dagli Stati membri a titolo della presente direttiva. Inoltre, essa include anche le zone di protezione speciale istituite dalla direttiva «Uccelli», ossia la direttiva 2009/147/CE. Gli allegati I e II della direttiva contengono i tipi di habitat e le specie la cui conservazione richiede la designazione di zone speciali di conservazione. Alcuni di essi sono definiti come tipi di habitat o di specie «prioritari» (che rischiano di scomparire). L’allegato IV elenca, invece, le specie animali e vegetali che richiedono una protezione rigorosa.
L'art. 733-bis cod. pen., comma 2, come detto, richiama «ai fini dell'applicazione dell'articolo 727-bis del codice penale» proprio l'allegato IV della direttiva «habitat», che contiene una lunga elencazione delle specie protette (si rinvia, per comodità di consultazione, al testo della G.U.U.E. L 206 del 22.7.1992, pag. 7 ss.). L'individuazione del bene giuridico richiede, poi, la necessità di specificare cosa debba intendersi per «stato di conservazione di una specie». Anche in questo caso, in assenza di un'indicazione legislativa, viene ancora in ausilio dell'interprete la direttiva «habitat» che, all'art. 1, dopo aver definito come «conservazione» il complesso delle misure necessarie per mantenere o ripristinare gli habitat naturali e le popolazioni di specie di fauna e flora selvatiche in uno stato soddisfacente (lett. a), definisce come «Stato di conservazione di una specie» l'effetto della somma dei fattori che, influendo sulle specie in causa, possono alterare a lungo termine la ripartizione e l'importanza delle sue popolazioni nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato (lett. i).
La medesima direttiva, poi precisa quando tale stato di conservazione potrà essere considerato "soddisfacente" (ossia, quando i dati relativi all'andamento delle popolazioni della specie in causa indicano che tale specie continua e può continuare a lungo termine ad essere un elemento vitale degli habitat naturali cui appartiene; quando l'area di ripartizione naturale di tale specie non è in declino né rischia di declinare in un futuro prevedibile; quando, infine, esiste e continuerà probabilmente ad esistere un habitat sufficiente affinché le sue popolazioni si mantengano a lungo termine), definizione, peraltro, non nuova nel nostro ordinamento in quanto già inserita nel T.U.A. e, precisamente, all'art. 302, comma 1, contenuto nella Parte VI^ dedicata alla disciplina del danno ambientale.
Analogamente, il già citato art. 733-bis, comma 2, cod. pen. rinvia all'allegato I della direttiva 2009/147/CE, per l'individuazione degli uccelli protetti.
Tale direttiva (che, com'è noto, sostituì la direttiva 79/409/CEE, del 2 aprile 1979, detta prima direttiva «Uccelli», importante perché rappresenta il primo documento legislativo dell'Unione europea concernente la natura ed oggetto di richiamo da parte dell'art. 2, lett. b), della direttiva 2008/99/CE), venne varata rilevandosi come per molte specie di uccelli viventi naturalmente allo stato selvatico, nel territorio degli Stati membri, si registrava una diminuzione. Per invertire questa tendenza l'Unione europea ha adottato un regime generale che vieta le pratiche che rappresentano una minaccia per la conservazione delle specie di uccelli (uccidere e catturare gli uccelli, distruggere i nidi, raccogliere le uova, ecc.). Le misure di protezione istituite prevedono anche l'assegnazione di zone di protezione speciale (ZPS) per gli uccelli minacciati e per gli uccelli migratori che sono oggetto di misure di protezione e di gestione degli habitat (allegato I). Tali zone sono situate nell’area di distribuzione naturale degli uccelli e possono comprendere le aree di riproduzione, di muta e di svernamento e le zone in cui si trovano le stazioni lungo le rotte di migrazione. Le zone di protezione speciale (ZPS) costituiscono, insieme alle zone speciali di conservazione (ZSC) della direttiva «Habitat» (92/43/CEE), la rete europea Natura 2000 dei siti ecologici protetti. Orbene, analogamente a quanto già detto a proposito dell'Allegato IV della direttiva 92/437CE, anche l'allegato I della direttiva «Uccelli» contiene una corposa elencazione di tutte le specie di uccelli viventi naturalmente allo stato selvatico nel territorio europeo degli Stati membri la cui conservazione è oggetto di protezione (si rinvia in proposito al testo della G.U.U.E. l 20 del 26.1.2010, pagg. 7–25).
Ne discende, conclusivamente, che per l'individuazione del  bene giuridico e dell'oggetto materiale della nuova fattispecie contemplata dall'art. 727-bis cod. pen., è necessario fare riferimento agli allegati di cui alla predette direttive nonché alla definizione di stato di conservazione della specie come in precedenza descritto.
Quanto al soggetto attivo, trattasi di reato comune, potendo rendersi responsabile di una delle condotte vietate «chiunque».
Per quanto concerne, poi, l'individuazione delle condotte vietate, si è già detto in precedenza del rapporto di crescente intensità dell'offesa tra le condotte alternative descritte sia nel primo che nel secondo comma dell'art. 727-bis cod. pen. L'elencazione delle stesse, peraltro, riproduce pressoché integralmente le infrazioni che, in base all'art. 3, lett. f) della direttiva 2008/99/CE, ciascuno Stato membro deve adoperarsi a reprimere penalmente «qualora siano illecite e poste in essere intenzionalmente o quanto meno per grave negligenza»: "l’uccisione, la distruzione, il possesso o il prelievo di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette, salvo i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie".
Le uniche differenze riguardano, in particolare, l'inserimento, al comma 1 dell'art. 727- bis cod. pen., della condotta consistente nel «catturare» esemplari appartenenti ad una specie animale selvatica protetta, peraltro riconducibile alla più lata nozione di «prelievo» contemplata nella direttiva, riferibile indifferentemente sia alle specie animali che vegetali selvatiche protette; dall'altro, la condotta consistente nel «detenere» esemplari appartenenti ad una specie animale o vegetale selvatica protetta (che implica un rapporto qualificato con quest'ultima),  al posto della più generica definizione di «possesso» contemplata nella direttiva comunitaria.
La condotta di “uccidere”, riprende una nozione non nuova essendo già stata evocata in passato nella fattispecie contemplata dall'art. 544-bis cod. pen. (uccisione di animali) introdotta dalla l. 20 luglio 2004, n. 189 cui si deve l'inserimento nel Libro II° del codice penale del Tit. IX-bis che disciplina i delitti contro il sentimento degli animali.
Le più gravi ipotesi del comma 1 e 2 (uccisione o distruzione) sono a forma libera, potendo assumere rilevanza qualsiasi comportamento umano, attivo od omissivo, che abbia causato la morte degli esemplari di specie animali selvatiche protette o la distruzione di esemplari di specie vegetali selvatiche protette. Trattasi, per ambedue i commi dell'art. 727-bis cod. pen., di fattispecie che configurano reati istantanei che si consumano nel momento e nel luogo in cui viene posta in essere l'azione di uccidere (esemplari di specie animali selvatiche protette) o distruggere (esemplari di specie vegetali selvatiche protette).
Le condotte consistenti nella cattura o detenzione (quanto agli esemplari di specie animali selvatiche protette) e quelle di prelievo o detenzione (quanto agli esemplari di specie vegetali selvatiche protette), qualora dette condotte tipiche si protraggano nel tempo, possono assumere invece carattere permanente.
L'art. 727-bis cod. pen contempla fattispecie di danno o pericolo concreto diversamente da quanto normalmente avviene nelle altre contravvenzioni in materia ambientale. In entrambe le ipotesi, poi, trattandosi di contravvenzioni, il tentativo non è configurabile. Non è pertanto punibile chi compie atti idonei e diretti in modo non equivoco a porre in essere una delle condotte tipiche, se l'azione non si compie o l’evento di danno non si produce.
Entrambe le ipotesi contravvenzionali contemplate dall'art. 727-bis cod. pen. possono essere realizzate, indifferentemente con dolo o con colpa.
Le condotte descritte alternativamente al comma 1 e 2, peraltro, sono punibili "fuori dai casi consentiti". L'inciso è stato inserito al fine di rendere evidente l'esclusione della punibilità in tutti i casi in cui le condotte indicate siano riconducibili all'applicazione di disposizioni di legge. Tra queste possono contemplarsi, ad esempio, le deroghe previste dall'art. 16 della direttiva 92/43/CE: a) per proteggere la fauna e la flora selvatiche e conservare gli habitat naturali; b) per prevenire gravi danni, segnatamente alle colture, all'allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico e alle acque e ad altre forme di proprietà; c) nell'interesse della sanità e della sicurezza pubblica o per altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica, e motivi tali da comportare conseguenze positive di primaria importanza per l'ambiente; d) per finalità didattiche e di ricerca, di ripopolamento e di reintroduzione di tali specie e per operazioni di riproduzione necessarie a tal fine, compresa la riproduzione artificiale delle piante; e) per consentire, in condizioni rigorosamente controllate, su base selettiva ed in misura limitata, la cattura o la detenzione di un numero limitato di taluni esemplari delle specie di cui all'allegato IV, specificato dalle autorità nazionali competenti.
La configurabilità del reato, inoltre, è esclusa ove «l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie». L'inciso, introducendo un'ipotesi di irrilevanza penale del fatto, riproduce fedelmente la previsione contemplata dall'art. 3, lett. f), della direttiva 2008/99/CE. Tuttavia, l'individuazione dei casi di irrilevanza penale costituirà uno dei motivi di maggiore difficoltà in sede applicativa, richiamandosi il legislatore a concetti di dubbia definibilità oggettiva. Basti pensare, ad esempio, ai concetti, indeterminati e generici, di «quantità trascurabile» e di «impatto trascurabile», di difficile definizione. Il riferimento ad un criterio numerico potrebbe essere insoddisfacente. Ed invero, se – come già visto in precedenza – deve escludersi la configurabilità del reato quando l'oggetto materiale di una delle condotte alternativamente previste ricada su un solo esemplare, la rilevanza penale del fatto deve necessariamente fare i conti con il concetto di trascurabilità riferito sia alla quantità di esemplari che all'impatto sullo stato di conservazione della specie. Non potrebbe escludersi, quindi, che ove la condotta ricada su un numero limitato di esemplari di una specie, magari in via di estinzione, la stessa possa essere considerata non trascurabile quantitativamente o per l'impatto sul suo stato di conservazione.
La genericità della formulazione non aiuterà certamente sotto il profilo applicativo, potendo porsi il problema di rispetto del principio di tassatività e determinatezza della fattispecie ex art. 25 Cost. Un ausilio all’interprete può, peraltro, provenire indirettamente dal Codice ambientale che, nello stabilire, al comma 1 dell'art. 302, in presenza di quali presupposti lo stato di conservazione di una specie è considerato favorevole, può consentire all'interprete di valutare se l'azione abbia o meno un impatto trascurabile sul predetto stato; diversamente, più difficile sarà quantificare la "trascurabilità" in relazione alla specie presa in considerazione, per le ragioni esplicitate in precedenza. Unico appiglio, peraltro insoddisfacente, può essere il riferimento all'origine semantica dell'aggettivo, che definisce come trascurabile ciò di cui si può non tener conto, sinonimo di irrilevante, minimo, insignificante: insomma così esiguo da poter essere ignorato.
Quanto poi ai rapporti con altre figure di reato, l'art. 727-bis cod. pen. contiene una clausola espressa di sussidiarietà per il caso che il fatto costituisca più grave reato, la quale dovrebbe essere sufficiente a risolvere soprattutto l’eventuale concorso con il delitto di uccisione di animali, previsto dall'art. 544-bis cod. pen., superando le difficoltà altrimenti generate dalla diversità dei beni giuridici tutelati dalle due norme incriminatrici e dall’apparente specialità reciproca tra le rispettive fattispecie.

2.2. L’art. 733-bis cod. pen.   La seconda fattispecie penale di nuova introduzione, è quella che punisce la «distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto».
Valgono per tale fattispecie, come subito si vedrà, sostanzialmente le medesime considerazioni già svolte a proposito dell'art. 727-bis cod. pen. L'illecito contravvenzionale, in particolare, punisce con la pena dell'arresto fino a 18 mesi e con l'ammenda non inferiore ad € 3000 «Chiunque, fuori dai casi consentiti, distrugge un habitat all'interno di un sito protetto o comunque lo deteriora compromettendone lo stato di conservazione». Il comma 3 della disposizione in esame, infine, aggiunge che «Ai fini dell'applicazione dell'art. 733-bis del codice penale per "habitat all'interno di un sito protetto" si intende qualsiasi habitat di specie per le quali una zona sia classificata come zona a tutela speciale a norma dell'art. 4, paragrafi 1 o 2, della direttiva 79/409/CE, o qualsiasi habitat naturale o un habitat di specie per cui un sito sia designato come zona speciale di conservazione a norma dell'art. 4, paragrafo 4, della direttiva 92/437CE».
Analizzando la struttura dell'illecito di nuovo conio, è possibile cogliere sia le analogie che le differenze rispetto all'altra fattispecie già oggetto di commento. Il legislatore, al pari di quanto avvenuto per l'art. 727-bis, introduce un reato contravvenzionale per reprimere penalmente, qualora sia illecita e posta in essere intenzionalmente o quanto meno per grave negligenza, «qualsiasi azione che provochi il significativo deterioramento di un habitat all’interno di un sito protetto» (art. 3, lett. h), direttiva 2008/99/CE). L'illecito penale frutto dell'operazione di trasposizione della direttiva ricalca, pressoché integralmente, la previsione contenuta nell'atto comunitario. Il legislatore delegato ha inteso, in particolare, tradurre la formula "provocare il significativo deterioramento di un habitat all'interno di un sito protetto"  nelle due condotte descritte dall'illecito penale: a) la distruzione dell'habitat; b) il deterioramento dell'habitat, che ne comprometta lo stato di conservazione.
Nel tentativo di garantire il rispetto dei principi di tassatività e determinatezza della specie, sicuramente posti in crisi dalla richiamata previsione contenuta nella direttiva comunitaria – riferita com’è alla sfuggente e generica nozione di «significativo deterioramento» - il legislatore delegato, in sede di stesura definitiva del testo, ha modificato l'originario costrutto della fattispecie che richiedeva, ai fini della configurabilità dell'illecito, la distruzione o il deterioramento «in modo significativo» dell'habitat. La soppressione dell'inciso - richiesta dalle competenti Commissioni parlamentari in sede di espressione del prescritto parere sul testo, in quanto l'inciso avrebbe reso la fattispecie non sufficientemente determinata e di difficile applicazione -, a ben vedere, non sortisce l'effetto sperato, in quanto, nonostante l'operazione di revisione cui il testo è stato sottoposto, rimane comunque di assai difficile determinazione la soglia di concretizzazione dell'offesa al bene giuridico tutelato la cui individuazione, come già visto a proposito della fattispecie di cui all'art. 727-bis, richiede la necessità di specificare cosa debba intendersi per «stato di conservazione di un habitat».
La collocazione sistematica della nuova fattispecie fra "le contravvenzioni concernenti l'attività sociale della P.A.", tutela l'interesse dello Stato al mantenimento dello stato di conservazione di un habitat, ossia quello, di rilevanza costituzionale, relativo alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche sul territorio italiano, che trova il parametro costituzionale di riferimento sia nell'art. 9 Cost., che nell'art. 117 Cost., il quale obbliga l’Italia ad esercitare la potestà legislativa nel rispetto dei "vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario…" ed, in particolare, dalle direttive comunitarie che contribuiscono a definire l'habitat oggetto di protezione penale. Ciò comporta, anzitutto, l'obbligo per l'interprete di individuare, ai fini dell'esatta delimitazione dell'ambito applicativo della fattispecie, cosa debba intendersi per «habitat all'interno di un sito protetto» oggetto di tutela penale.
Il termine habitat deriva dal latino habitāre (terza persona, singolare, presente) e significa letteralmente “abita”. Sta a indicare la “casa”, il luogo fisico, l’ambiente in cui la popolazione di una specie vive e in cui dispone di tutte le risorse necessarie a svilupparsi, di condizioni climatiche ottimali per la sua sopravvivenza e di risorse nutritive per il suo sostentamento. L’habitat può riferirsi, altresì, al luogo in cui è più probabile imbattersi in un determinato organismo in quanto vi sono le condizioni fisiche favorevoli ad un suo insediamento.
Nella definizione originariamente elaborata di habitat, il concetto era riferito alle "condizioni fisiche che circondano una specie, o popolazione di specie, o raduno della specie, o comunità" (Frederic E. Clements - Victor E. Shelford, Bio-Ecology, John Wiley & Sons, New York, 1939).
In generale oggi il termine è inteso nell’accezione di condizioni ambientali ideali per la vita di una determinata pianta o animale. In ecologia, la definizione di habitat può avere un’accezione più ampia nel biotopo, un habitat condiviso cioè da più specie. Un bioma è, invece, l'insieme della flora e fauna che vivono in un habitat ed occupano una certa geografia (v., per maggiori approfondimenti: http://www.ecologiae.com/habitat/25338/).
Sotto il profilo giuridico, il legislatore delegato, al comma 3 della norma citata, rinvia alle definizioni contenute nelle direttive richiamate, viene anzitutto in ausilio dell'interprete la direttiva «habitat» (direttiva 92/43/CE) che, all'art. 1, dopo aver definito come «conservazione» il complesso delle misure necessarie per mantenere o ripristinare gli habitat naturali e le popolazioni di specie di fauna e flora selvatiche in uno stato soddisfacente (lett. a), definisce come «stato di conservazione di un habitat naturale» (art. 1, lett. e), l'effetto della somma dei fattori che influiscono sull'habitat naturale in causa, nonché sulle specie tipiche che in esso si trovano, che possono alterare a lunga scadenza la sua ripartizione naturale, la sua struttura e le sue funzioni, nonché la sopravvivenza delle sue specie tipiche nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato.
La complessità della determinazione della nuova fattispecie penale, peraltro, discende dal fatto che il legislatore delegato, nel tentativo di renderne più chiaro l'ambito di applicazione, richiama (comma 3) una definizione ampia di "habitat", precisando (si fa per dire) che per habitat all'interno di un sito protetto si intende, da un lato, «qualsiasi habitat di specie per le quali una zona sia classificata come zona a tutela speciale a norma dell'art. 4, paragrafi 1 o 2, della direttiva 79/409/CE» e, dall'altro, «qualsiasi habitat naturale o un habitat di specie per cui un sito sia designato come zona speciale di conservazione a norma dell'art. 4, paragrafo 4, della direttiva 92/437CE».
Per quanto concerne il primo punto, è quindi necessario per l'interprete accertare, per l’appunto, cosa si intenda per habitat. Nel silenzio del legislatore, occorre riferirsi ancora una volta alla citata direttiva «Habitat» che, tuttavia, non evoca un unico concetto di habitat, ma tre diversi a cui corrispondono altrettante definizioni: a) habitat naturali; b) habitat naturali di interesse comunitario; c) tipi di habitat naturali prioritari.
Quanto alla definizione sub a), sono da considerarsi «habitat naturali» le zone terrestri o acquatiche che si distinguono grazie alle loro caratteristiche geografiche, abiotiche e biotiche, interamente naturali o seminaturali; sono, invece, da considerarsi come «habitat naturali di interesse comunitario» gli habitat che, nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato: 1) rischiano di scomparire nella loro area di ripartizione naturale; 2) hanno un'area di ripartizione naturale ridotta a seguito della loro regressione o per il fatto che la loro area è intrinsecamente ristretta; 3) costituiscono esempi notevoli di caratteristiche tipiche di una o più delle nove regioni biogeografiche seguenti: alpina, atlantica, del Mar Nero, boreale, continentale, macaronesica, mediterranea, pannonica e steppica; c) infine, sono definiti «tipi di habitat naturali prioritari», i tipi di habitat naturali che rischiano di scomparire nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato e per la cui conservazione la Comunità ha una responsabilità particolare a causa dell'importanza della parte della loro area di distribuzione naturale compresa nel territorio di cui sopra.
L'individuazione di tali tipologie di habitat è contenuta nell'allegato I alla direttiva 92/43/CE. Richiamando l'art. 733-bis, oltre l'habitat naturale, anche l'habitat di specie, è dunque necessario riferirsi alla definizione di «habitat di una specie», contenuta all'art. 1, lett. f) della citata direttiva «Habitat» che definisce come tale l'ambiente definito da fattori abiotici e biotici specifici in cui vive la specie in una delle fasi del suo ciclo biologico.
Ciò, tuttavia, non è sufficiente, in quanto l'ambito di applicazione della fattispecie penale richiede che l'habitat, naturale o di specie, oggetto di protezione penale, sia altresì riferibile ad un sito designato come ZSC, ossia come Zona Speciale di Conservazione ai sensi dell'art. 4, § 4, della direttiva medesima.
La relativa definizione è contenuta all'art. 1, lett. l), della direttiva 92/43/CE, che individua come tale «un sito di importanza comunitaria designato dagli Stati membri mediante un atto regolamentare, amministrativo e/o contrattuale in cui sono applicate le misure di conservazione necessarie al mantenimento o al ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente, degli habitat naturali e/o delle popolazioni delle specie per cui il sito è designato». Ciò impone, a sua volta, di individuare cosa debba intendersi per «stato di conservazione "soddisfacente"» di un habitat naturale.
Ancora una volta, viene in aiuto la direttiva 02/43/CE, che definisce come «soddisfacente» (art. 1, lett. e), quando: 1) la sua area di ripartizione naturale e le superfici che comprende sono stabili o in estensione; 2) la struttura e le funzioni specifiche necessarie al suo mantenimento a lungo termine esistono e possono continuare ad esistere in un futuro prevedibile; 3) lo stato di conservazione delle specie tipiche è soddisfacente ai sensi della lett. i), lettera il cui contenuto è già stato analizzato a proposito della determinazione dell'oggetto materiale dell'altra fattispecie di cui all'art. 727-bis cod. pen.
Ma nemmeno questo è sufficiente. Infatti, la designazione delle zone speciali di conservazione avviene, secondo la complessa procedura delineata dalla direttiva (art. 4), in tre tappe. Secondo i criteri stabiliti dagli allegati, ogni Stato membro redige un elenco di siti che ospitano habitat naturali e specie animali e vegetali selvatiche. In base a tali elenchi nazionali e d’accordo con gli Stati membri, la Commissione adotta un elenco di siti d’importanza comunitaria per ognuna delle nove regioni biogeografiche dell’UE (la regione alpina, la regione atlantica, la regione del Mar Nero, la regione boreale, la regione continentale, la regione macaronesica, la regione mediterranea, la regione pannonica e la regione steppica). Entro un termine massimo di sei anni a decorrere dalla selezione di un sito come sito d’importanza comunitaria, lo Stato membro interessato designa il sito in questione come zona speciale di conservazione. Nel caso in cui la Commissione ritenga che un sito che ospita un tipo di habitat naturale o una specie prioritaria non sia stato inserito in un elenco nazionale, la direttiva prevede l’avvio di una procedura di concertazione tra lo Stato membro interessato e la Commissione. Qualora la concertazione non porti a un risultato soddisfacente, la Commissione può proporre al Consiglio di selezionare il sito come sito di importanza comunitaria.
La Corte di Giustizia dell'UE, chiamata a pronunciarsi su una domanda di domanda di pronuncia pregiudiziale promossa dal Consiglio di Stato, vertente sull'interpretazione di alcuni articoli della direttiva del Consiglio 21 maggio 1992, 92/43/CEE (tratta vasi di una controversia che opponeva una società italiana al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ed alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, in merito all'annullamento, disposto dall'amministrazione aggiudicatrice, di una gara d'appalto relativa a lavori di dragaggio e di scarico di sedimenti in una cassa di colmata in ambito portuale), ha peraltro precisato che le misure di salvaguardia da questa previste all'art. 6, nn. 2/4, si impongono soltanto in relazione ai siti che siano iscritti, nell'elenco di quelli selezionati come SIC adottato dalla Commissione UE secondo la procedura prevista dall'art. 21 della direttiva; per quanto riguarda i siti atti ad essere individuati quali SIC, compresi negli elenchi nazionali trasmessi alla Commissione, e segnatamente i siti ospitanti tipi di habitat naturali prioritari o specie prioritarie, la Corte di Giustizia ha inoltre precisato gli Stati membri sono tenuti, in forza della direttiva 92/43, ad adottare misure di salvaguardia idonee, con riguardo all'obiettivo di conservazione contemplato da quest'ultima, a salvaguardare il pertinente interesse ecologico rivestito dai detti siti a livello nazionale (Corte Giustizia UE, Sez. 2, sentenza 13 gennaio 2005, in proc. n. C-117/03).
Limitando l'attenzione al nostro Paese, rilevano dunque: a) la regione biogeografica alpina, che comprende il territorio delle Alpi e degli Appennini; b) la  regione biogeografica continentale; c) la regione biogeografica mediterranea. L'elenco dei SIC «italiani», per quanto di interesse, è attualmente contenuto, quanto alla regione sub a), nella Decisione 2010/42/UE della Commissione, del 22 dicembre 2009, che adotta, ai sensi della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, un terzo elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica alpina (G.U.U.E. L 30 del 2.2.2010, pagg. 1–42); quanto alla regione sub b), nella Decisione 2010/44/UE della Commissione, del 22 dicembre 2009, che adotta, ai sensi della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, un terzo elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica continentale (G.U.U.E. L 30 del 2.2.2010, pagg. 120–321); infine, quanto alla regione sub c), nella Decisione 2010/45/UE della Commissione, del 22 dicembre 2009, che adotta, ai sensi della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, un terzo elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea (G.U.U.E. L 30 del 2.2.2010, pagg. 322–402). In ciascuna delle richiamate Decisioni vi è, in particolare, una corposa elencazione dei SIC "italiani" inseriti in un'apposita tabella che riporta le seguenti informazioni:
- A: codice del SIC, composto da nove caratteri, di cui i primi due rappresentano il codice ISO dello Stato membro;
- B: denominazione del SIC;
- C: * = presenza nel SIC di almeno un tipo di habitat naturale e/o specie prioritari a norma dell'articolo 1 della direttiva 92/43/CEE;
- D: superficie del SIC in ettari o lunghezza in km;
- E: coordinate geografiche del SIC (latitudine e longitudine).
Il comma 3 dell'art. 733-bis cod. pen., come visto, fornendo una definizione alternativa di «habitat all'interno di un sito protetto», richiama sia la direttiva habitat che la direttiva 79/409/CE (c.d direttiva «Uccelli»). La direttiva 79/409/CEE, del 2 aprile 1979, come si è già detto, è stata il primo documento legislativo dell'Unione europea concernente la natura. Essa, pur essendo oggetto di specifico richiamo al comma 3 dell'art. 733-bis cod. pen., è stata però abrogata ed oggi sostituita dalla Direttiva 2009/147/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 novembre 2009, concernente la conservazione degli uccelli selvatici (G.U.U.E. L 20 del 26.1.2010), entrata in vigore il 15 febbraio 2010. Le modifiche apportate sono tuttavia di pura forma. La direttiva «Uccelli» ha stabilito per la prima volta un regime generale per la protezione di tutte le specie di uccelli viventi naturalmente allo stato selvatico nel territorio dell’Unione. Questo riconosce anche che gli uccelli selvatici, tra cui molti uccelli migratori, sono patrimonio comune degli Stati membri dell’UE e che la loro conservazione, per risultare efficace, richiede una cooperazione a livello globale. Ciò, impone, quindi all'interprete di tener conto anche del contenuto della nuova direttiva 2009/147/CE, posto che il testo normativo rinvia ai fini dell'applicazione della nuova fattispecie penale "anche" alla nozione di habitat di specie per la quale una zona sia classificata come ZTS  ai sensi dell'art. 4, §§ 1 o 2, della richiamata direttiva «Uccelli».
Gli Stati membri, in base a tale direttiva, sono tenuti ad istituire zone di protezione speciale (ZPS) per le specie minacciate di estinzione e per gli uccelli migratori (allegato I). Tali zone sono situate nell’area di distribuzione naturale degli uccelli e possono comprendere le aree di riproduzione, di muta e di svernamento e le zone in cui si trovano le stazioni lungo le rotte di migrazione. Le zone di protezione speciale (ZPS) costituiscono, insieme alle zone speciali di conservazione (ZSC) della direttiva «Habitat» (92/43/CEE), la rete europea Natura 2000 dei siti ecologici protetti.
Per quanto concerne la normativa italiana, cui deve fare riferimento l'interprete nell'opera di determinazione della fattispecie incriminatrice dell'art. 733-bis cod. pen., conclusivamente, il richiamo è alle seguenti disposizioni: a) D.M. ambiente e tutela del territorio 3 settembre 2002 "Linee guida per la gestione dei siti Natura 2000" (G.U. 24 settembre 2002, n. 224); b) d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 "Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche" (G.U. 23 ottobre 1997, n. 248), come modificato dal d.P.R. 12 marzo 2003, n. 120 (G.U. n.124 del 30 maggio 2003); c) D.M. ambiente e tutela del territorio e del mare 14 marzo 2011 (G.U. 4 aprile 2011, n. 77, S.O. n. 90) contenente il "Quarto elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica alpina in Italia ai sensi della Direttiva 92/43/CEE"; d) D.M. ambiente e tutela del territorio e del mare 14 marzo 2011 (G.U. 4 aprile 2011, n. 77, S.O. n. 90) contenente il "Quarto elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica mediterranea in Italia ai sensi della Direttiva 92/43/CEE"; e) D.M. ambiente e tutela del territorio e del mare 14 marzo 2011 (G.U. 4 aprile 2011, n. 77, S.O. n. 90) contenente il "Quarto elenco aggiornato dei siti di importanza comunitaria per la regione biogeografica continentale in Italia ai sensi della Direttiva 92/43/CEE"; f) D.M. ambiente e tutela del territorio e del mare 17 ottobre 2007 (G.U. 6 novembre 2007, n. 258) recante "Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS)", come da ultimo modificato dal D.M. ambiente e tutela del territorio e del mare 22 gennaio 2009 (G.U. 10 febbraio 2009, n. 33); g) D.M. ambiente e tutela del territorio e del mare 19 giugno 2009 (G.U. 9 luglio 2009, n. 157) contenente l' "Elenco delle zone di protezione speciale (ZPS) classificate ai sensi della Direttiva 79/409/CEE".
La complessa opera di delimitazione dell'ambito applicativo della fattispecie penale, prosegue poi con l'analisi della struttura della fattispecie che, quanto al soggetto attivo, configura un reato comune, essendo individuato il soggetto agente in «chiunque» pone in essere una delle condotte tipiche individuate dalla fattispecie incriminatrice e cioè a) la distruzione dell'habitat; b) il deterioramento dell'habitat, compromettendone lo stato di conservazione.
Se, almeno in astratto, è agevole individuare quando si ha distruzione di un habitat all'interno di un sito protetto, giacchè si avrà distruzione quando l'habitat sia completamente soppresso, più complicato è individuare quando possa ritenersi integrata la fattispecie in presenza di una condotta di deterioramento dell'habitat che ne comprometta lo stato di conservazione.
Un'utile indicazione in proposito può senz'altro provenire dalla giurisprudenza formatasi a proposito del delitto di danneggiamento (art. 635 cod. pen.), reato che include tra le condotte in cui può alternativamente oggettivarsi l'azione proprio quella di «deteriorare» cose mobili od immobili. In tal senso, si è affermato che si ha «deterioramento» tutte le volte in cui una cosa venga resa inservibile, anche solo temporaneamente, all'uso cui è destinata, non rilevando, ai fini dell'integrazione della fattispecie, la possibilità di reversione del danno, anche se tale reversione avvenga non per opera dell'uomo, ma per la capacità della cosa di riacquistare la sua funzionalità nel tempo (Cass. Sez. 4, n. 9343 del 21 ottobre 2010, dep. 9 marzo 2011, V., rv 249808).
Per meglio comprendere, tuttavia, l'ambito applicativo della fattispecie, può essere maggiormente utile rifarsi alla disciplina in tema di danno ambientale (art. 299 ss. T.U.A.), in particolare ove si prevede (art. 300, comma 2) che «ai sensi della direttiva 2004/35/CE costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato: a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria di cui alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante norme per la protezione della fauna selvatica, che recepisce le direttive 79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979; 85/411/CEE della Commissione del 25 luglio 1985 e 91/244/CEE della Commissione del 6 marzo 1991 ed attua le convenzioni di Parigi del 18 ottobre 1950 e di Berna del 19 settembre 1979, e di cui al d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357, recante regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche, nonché alle aree naturali protette di cui alla legge 6 dicembre 1991, n. 394, e successive norme di attuazione».
Ai fini della configurabilità del reato in esame, dunque, può essere utile parametro normativo di riferimento, oltre il citato art. 300  del D.Lgs. n. 152/2006, anche la previsione contenuta nell’art. 301 T.U.A., secondo cui «Lo stato di conservazione di un habitat naturale è considerato favorevole quando: a) la sua area naturale e le zone in essa racchiuse sono stabili o in aumento; b) le strutture e le funzioni specifiche necessarie per il suo mantenimento a lungo termine esistono e continueranno verosimilmente a esistere in un futuro prevedibile; e c) lo stato di conservazione delle sue specie tipiche è favorevole, ai sensi del comma 1», che, come già visto in precedenza, riproduce pedissequamente l'art. 1, lett. i) della direttiva 92/43/CE.
Ove, infatti, la condotta abbia determinato l’alterazione dello “stato di conservazione dell’habitat naturale”, potrà ritenersi che vi sia stato un deterioramento che ne abbia compromesso lo stato di conservazione (espressione più aderente al dato normativo rispetto all'originario testo, che si riferiva al concetto sfuggente di deterioramento "in modo significativo"), tale da integrare la fattispecie penale dell’art. 733-bis c.p. Ne consegue, quindi, che ove sia provata la “distruzione” o il “deterioramento che abbia compromesso lo stato di conservazione” dell’habitat così inteso, si avrà: a) l’applicazione della sanzione penale (congiunta) carico del contravventore persona fisica; b) l’eventuale applicazione della sanzione pecuniaria a carico dell’Ente cui è imputabile la responsabilità ai sensi del d.lgs. n. 231/2001; c) infine, scatterà l’obbligo dell’effettivo ripristino, a spese del contravventore, della precedente situazione e, in mancanza, quello di adottare le misure di riparazione complementare e compensativa di cui alla direttiva 2004/35/CE (art. 311, co. 2, T.U.A.).
Deve, inoltre, ricordarsi che il predetto art. 311 prevede che l’obbligazione risarcitoria è posta a carico di «chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte». I presupposti della responsabilità risarcitoria sono dunque assai simili a quelli che determinano la responsabilità penale per la violazione dell’art. 733-bis.
Il legislatore delegato, peraltro, ad ulteriore delimitazione della rilevanza penale del fatto, ha inserito nel testo l'inciso «fuori dai casi consentiti». In altri termini, si prevede espressamente l'esclusione della punibilità in tutti i casi in cui le condotte siano riconducibili all'applicazione di disposizioni di legge e, in particolare, di quelle in materia di valutazione di incidenza contemplate dall'art. 5 del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 recante il "Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche", come da ultimo modificato dal d.P.R. 12 marzo 2003, n. 120.
Il reato di distruzione o deterioramento di habitat, pur avendo natura  contravvenzionale, non è reato formale di pericolo presunto, ma di danno (distruzione dell'habitat) o di pericolo concreto (deterioramento con compromissione dello stato di conservazione dell'habitat). Ha, inoltre, carattere istantaneo con effetti permanenti.
La fattispecie in esame, inoltre, non avendo natura delittuosa ma contravvenzionale, è punibile apparentemente anche a mero titolo di colpa, ancorchè le condotte vietate sembrino presentare una struttura tipicamente dolosa.
Essendo posta a tutela di un bene giuridico particolarmente rilevante, il legislatore delegato, in linea con le direttive contenute nella delega, ha irrobustito la risposta sanzionatoria prevedendo la pena congiunta dell'arresto unitamente a quella dell'ammenda, così rendendo non oblabile l'illecito in esame. Valgono, inoltre, le medesime considerazioni già espresse con riferimento all'art. 727-bis quanto alla non configurabilità del tentativo. Non è pertanto punibile chi compie atti idonei e diretti in modo non equivoco a porre in essere una delle condotte tipiche, se l'azione non si compie o l’evento non si verifica.
Quanto, infine, ai rapporti con altre figure di reato, la configurazione della fattispecie prevista dall'art. 733-bis, in astratto sembra porre potenziali problemi di sovrapposizione con quella oggetto del delitto di danneggiamento (art 635 cod. pen., soprattutto in riferimento all’ipotesi aggravata di cui al cpv. n. 5) e con quella di disastro ambientale, doloso e colposo (artt. 434, comma 2, e 449 cod. pen.: per l'individuazione degli elementi costitutivi di tale delitto, v. Sez. 5, n. 40330 dell'11 ottobre 2006, P., rv 236295; Sez. 3, n. 9418 del 16 gennaio 2008, A., rv 239160).

3.La responsabilità degli enti per i reati ambientali. Indubbiamente la più rilevante novità introdotta dal d. lgs. n. 121/2011 è quella dell’inserimento dei reati ambientali (rectius: di alcuni reati ambientali) nei cataloghi dei reati presupposto della responsabilità degli enti previsti dal d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Come già ricordato l’art. 11, lett. d) della l. 29 settembre 2000, n. 300 (la legge delega del d. lgs. n. 231/2001) aveva inserito alcuni illeciti ambientali nell’elenco dei reati presupposto. Il legislatore delegato aveva però preferito non dare seguito sul punto alla delega, ritenendo opportuno un periodo di metabolizzazione della nuova forma di responsabilità da parte delle imprese prima di estenderla anche a fattispecie di ampio impatto sul mondo produttivo. Né la successiva introduzione nel d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 all’art. 192, comma 4, dell’ambigua previsione per cui in materia di rifiuti «qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori  o  rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli  effetti  del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed  i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo  le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231» è in qualche modo valsa a configurare la responsabilità da reato degli enti in materia ambientale difettando, come riconosciuto dalla giurisprudenza, nella suddetta disposizione tanto la tipizzazione degli illeciti, quanto quella delle sanzioni applicabili alle persone giuridiche (v. Sez. III, n. 41329 del 7 ottobre 2008, dep. 6 novembre 2008, Galipò, rv 241528).
Come spesso accaduto in passato, l’occasione per superare l’impasse l’ha creata l’ineludibile necessità di corrispondere agli obblighi comunitari. Infatti le direttive 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente e 2009/123/CE sull’inquinamento provocato dalle navi hanno entrambe imposto agli Stati membri dell’Unione di estendere alle persone giuridiche la responsabilità per i reati ambientali commessi a loro vantaggio.
In tale prospettiva l’art. 19 della l. 4 giugno 2010, n. 96 (legge comunitaria 2009) ha così delegato il Governo al recepimento delle due direttive, prevedendo specificamente l’estensione delle disposizioni del d. lgs. n. 231/2001 agli illeciti ambientali dalle stesse contemplati. La novella in commento rappresenta dunque l’attuazione della suddetta delega, ancorché va subito sottolineato come la stessa sia intervenuta oltre il termine indicato nelle menzionate direttive per il loro recepimento (tanto che il 26 gennaio 201 la Commissione ha messo in mora l’Italia per il mancato recepimento delle due direttive).
Tralasciando per ora la direttiva sugli scarichi inquinanti delle navi, va evidenziato che quella sulla tutela penale dell’ambiente, all’art. 3, impone agli Stati membri di sanzionare penalmente una serie di comportamenti posti in essere intenzionalmente o con grave negligenza, nella maggior parte dei casi selezionati solo in quanto effettivamente dannosi o pericolosi per l’incolumità delle persone o per l’ambiente. Le fattispecie prese in considerazione dal legislatore comunitario riguardano: a) gli scarichi, l’emissione e l’immissione illeciti di sostanze e radiazioni ionizzanti; b) la raccolta, il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti, nonché il controllo sui siti di smaltimento dopo la loro chiusura; c) la spedizione di rifiuti; d) l’esercizio di impianti pericolosi; e) la produzione, lavorazione, trattamento, uso, conservazione, deposito, trasporto, importazione, esportazione e smaltimento di materiali nucleari ed altre sostanze radioattive; f) l’uccisione, la istruzione, il possesso e il prelievo di specie animali e vegetali protette; g) il commercio di esemplari di specie animali o vegetali protette; h) il deterioramento di habitat all’interno di siti potetti; i) la produzione, importazione, esportazione ed immissione sul mercato di sostanze che riducono lo strato di ozono. Infine, all’art. 4, la direttiva impone altresì di qualificare penalmente anche i comportamenti di favoreggiamento od istigazione a commettere intenzionalmente le condotte sopra descritte.
In riferimento alle menzionate fattispecie, come accennato, la direttiva (all’art. 6) richiede altresì che le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili se i reati vengono commessi a loro vantaggio e dai loro vertici apicali ovvero dai soggetti sottoposti alla loro autorità, ma in questo caso a causa della carente sorveglianza posta in essere sull’operato dei medesimi. Il successivo art. 7 infine richiede che alle stesse persone giuridiche vengano applicate, se dichiarate responsabili, sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, lasciando impregiudicata la natura di tali sanzioni.

3.1. I reati presupposto. Nel recepire la direttiva, il legislatore delegato, per configurare le ipotesi di responsabilità degli enti per illeciti ambientali, ha selezionato alcune figure di reato già previste dall’ordinamento penale, nonché quelle introdotte all’uopo dalla novella (e cioè quelle di cui agli artt. 727-bis e 733-bis cod. pen.) e ritenute corrispondere al catalogo richiamato dalla normativa sovranazionale alla quale la legge delega aveva pedissequamente rinviato in proposito.
E’ stato così inserito all’art. 25-undecies del d. lgs. n. 231/2001 un nuovo catalogo di reati presupposto della responsabilità degli enti che ricomprende, oltre a quelle di nuovo conio già menzionate, le seguenti fattispecie:
a) scarico non autorizzato di acque reflue industriali contenenti sostanze pericolose e scarico delle medesime sostanze in violazione delle prescrizioni imposte con l’autorizzazione (rispettivamente art. 137, commi 2 e 3, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); scarico di acque reflue industriali in violazione dei limiti tabellari (art. 137, comma 5, primo e secondo periodo, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); violazione dei divieti di scarico al suolo, nelle acque sotterranee e nel sottosuolo (art. 137, comma 11, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); scarico in mare da parte di navi ed aeromobili di sostanze di cui è vietato lo sversamento (art. 137, comma 13, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); raccolta,  trasporto, recupero,  smaltimento,  commercio  ed  intermediazione di rifiuti in mancanza  della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione (art. 256, comma 1, lett. a) e b), d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); realizzazione o gestione di una discarica non autorizzata  (art. 256, comma 3, primo e secondo periodo, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione alla gestione di una discarica o alle altre attività concernenti i rifiuti (art. 256, comma 4, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); miscelazione non consentita di rifiuti (art. 256, comma 5, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); deposito temporaneo presso il luogo di produzione di rifiuti sanitari pericolosi (art. 256, comma 6, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152);inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali e delle acque sotterranee ed omissione della relativa comunicazione agli enti competenti (art. 257, commi 1 e 2, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); predisposizione od uso di un falso certificato di analisi dei rifiuti (art. 258, comma 4 e art. 260-bis, commi 6 e 7, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); traffico illecito di rifiuti (art. 259, comma 1, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); violazioni del sistema di controllo sulla tracciabilità dei rifiuti (art. 260-bis, comma 8, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152); inquinamento atmosferico (art. 279, comma 5, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152);   
b) importazione, esportazione, trasporto ed uso illeciti di specie animali e commercio di piante riprodotte artificialmente (art.1, commi 1 e 2 e art. 2, commi 1 e 2, l. 7 febbraio 1992, n. 150); falsificazione o alterazione di certificazioni e licenze ed uso di certificazioni e licenze falsi o alterati per l’importazione di animali (art. 3-bis, l. 7 febbraio 1992, n. 150);
c) violazione delle disposizioni sull’impiego delle sostanze nocive per lo strato di ozono (art. 3, comma 6, l. 28 dicembre 1993, n.549);
d) sversamento doloso in mare da navi di sostanze inquinanti (art. 8, commi 1 e 2, d. lgs. 6 novembre 2007, n. 202); sversamento colposo in mare da navi di sostanze inquinanti (art. 9, commi  1 e 2, d. lgs. 6 novembre 2007, n. 202).
In realtà, nella sua primigenia formulazione, l’art. 2 dello schema di decreto legislativo contemplava tra i reati presupposto della responsabilità degli enti anche numerose altre fattispecie incriminatrici previste dal codice dell’ambiente e in particolare quelle concernenti l’autorizzazione integrata ambientale di cui all’art. 29-quattuordecies del d. lgs. n. 152/2006, nonchè quelle previste nello stesso decreto dai commi 1, 4, 7, 8, 9, 12 e 14 dell’art. 137 in materia di inquinamento idrico e quelle contenute nei commi 1, 2, 3, 4 e 6 dell’art. 279 in materia di emissioni. In altre parole il progetto originario prevedeva un più generalizzato coinvolgimento delle persone giuridiche nel sistema di repressione degli illeciti ambientali penalmente rilevanti, mentre il testo definitivamente approvato ha compiuto scelte di gran lunga più selettive e non tutte facilmente comprensibili.
Apparentemente la causa del revirement del legislatore delegato va ricercata nei pareri espressi dalle competenti commissioni parlamentari sullo schema del decreto legislativo, nei quali ripetutamente lo stesso legislatore delegato è stato invitato a circoscrivere il catalogo dei reati presupposto, espungendone quelli ad oggetto violazioni di natura meramente formale.
Il Parlamento ha formulato gli illustrati rilievi rifacendosi ai limiti posti dalla direttiva sulla tutela penale dell’ambiente agli obblighi di incriminazione imposti agli Stati membri. Come già accennato, infatti, l’elenco degli illeciti predisposto dall’art. 3 della direttiva (e richiamato nel successivo art. 6) contempla soprattutto – ancorchè non solo – fattispecie caratterizzate da un evento di danno o di pericolo concreto. Infatti nelle menzionate ipotesi la soglia di rilevanza penale fissata dal legislatore comunitario coincide con la causazione della morte o di lesioni gravi alle persone ovvero di danni rilevanti alla qualità del suolo, dell’aria e delle acque o, ancora, alla fauna e alla flora ovvero con la determinazione del pericolo di causazione di tali eventi. In tal senso, dunque, il Parlamento ha ritenuto che l’obbligo di configurare la responsabilità da reato delle persone giuridiche imposto dalla direttiva dovesse considerarsi per l’appunto circoscritto agli illeciti più gravi e caratterizzati sul piano dall’effettiva lesione dei beni giuridici oggetto di tutela.
In proposito va peraltro ribadito come la tutela penale dell’ambiente nel nostro ordinamento sia storicamente affidata soprattutto ad un sistema di contravvenzioni che nella maggior parte dei casi hanno ad oggetto fattispecie di pericolo astratto. In tale prospettiva ridurre l’area di responsabilità delle persone giuridiche alle violazioni effettivamente lesive di beni giuridici – nel senso che il concetto assume nei pareri delle commissioni parlamentari – e contemporaneamente corrispondere ai vincoli comunitari si è rivelato obiettivo assai arduo. Ed infatti, il legislatore delegato ha optato per un compromesso che soddisfa solo in parte il parere delle commissioni e altrettanto parzialmente le prescrizioni della direttiva.
In tal senso potrebbe apparire ad esempio discutibile l‘aver escluso dal catalogo dei reati presupposto le contravvenzioni dell’art. 29-quattuordecies del codice dell’ambiente, atteso che le attività dei soggetti tenuti a dotarsi ed a rispettare l’autorizzazione integrata ambientale sono per definizione assai pericolose per l’ambiente. Non di meno appare incomprensibile la scelta di configurare la responsabilità degli enti solo per lo scarico di acque reflue industriali contenenti sostanze pericolose, escludendo dal catalogo la contravvenzione di cui al primo comma dell’art. 137 dello stesso codice, atteso che lo scarico di sostanze anche non intrinsicamente pericolose ma in quantitativi rilevanti è condotta idonea a determinare un grave danno all’ambiente. Infine contraddittoria risulta la mancata inclusione nel catalogo della contravvenzione di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti di cui al successivo art. 256, comma 2, atteso che tale disposizione espressamente contempla tra gli autori propri del reato addirittura «i rappresentanti di enti».
Ed in tal senso non è nemmeno chiaro il criterio seguito nella selezione operata in sede di stesura del testo definitivo della novella, atteso che, ad esempio, è stata mantenuta la responsabilità delle persone giuridiche per violazioni eminentemente formali come quella, ad esempio, dell’ottavo comma dell’art. 260-bis del d. lgs. n. 152/2006 ad oggetto le violazioni del sistema di tracciabilità dei rifiuti.
Ma senza dubbio l‘esclusione operata dalla novella destinata a suscitare maggior clamore riguarda le fattispecie di causazione di un disastro ambientale riconducibili agli artt. 434 e 449 cod. pen. (v. in proposito Sez. III, n. 9418 del 16 gennaio 2008, dep. 29 febbraio 2008, Agizza rv 239160) e quelle di avvelenamento di acque destinate all’alimentazione di cui agli artt. 439 e 452 dello stesso codice.
Infatti non è agevole comprendere la ragione per cui le persone giuridiche siano chiamate, come ricordato in precedenza, a rispondere anche di illeciti meramente formali, ma non degli eventi più gravi in cui possono esitare comportamenti dolosi e colposi tenuti nel loro interesse e correlati all’inquinamento delle acque, dell’aria e del suolo. Non solo, l’elezione da parte della direttiva europea delle conseguenze dannose o pericolose per gli essere umani a criterio di selezione dei fatti da sanzionare penalmente e per i quali configurare la responsabilità da reato rende evidente come i reati contro l’incolumità pubblica integrabili attraverso condotte dannose per l‘ambiente fossero candidati ideali all’inserimento nel nuovo catalogo introdotto dalla novella nel d. lgs. n. 231/2001.
Sotto altro profilo va infine evidenziato che alcuni dei reati inseriti nel suddetto catalogo sono dei delitti dolosi. E‘ il caso, ad esempio, di quelli concernenti le falsità legate al certificato di analisi di rifiuti e al trasporto di rifiuti pericolosi di cui agli artt. 258, comma 4 e 260-bis del codice dell’ambiente ovvero di quello previsto dall’art. 3-bis, comma 1, l. n. 150/1992 in tema di assenza o falsificazione di dichiarazioni per l’importazione di animali.
La circostanza potrebbe in ipotesi costituire un ulteriore punto di attrito con le disposizioni della direttiva, la quale espressamente richiede la criminalizzazione non solo di comportamenti dolosi, ma altresì di quelli posti in essere «quanto meno per grave negligenza». Posto che l’art. 6 della stessa direttiva impone la responsabilità delle persone giuridiche per tutti i reati ambientali previsti dal precedente art. 3, la limitazione di tale responsabilità, in alcuni casi, alle sole fattispecie dolose (e la stessa mancata previsione di fattispecie colpose con il medesimo oggetto) potrebbe per l’appunto integrare una violazione della normativa comunitaria.
In realtà le incriminazioni di cui si tratta non sembrano appartenere al novero di quelle imposte dalla direttiva 2008/99/CE, riguardando fattispecie poste a tutela di funzioni e solo indirettamente dell’ambiente e la cui soglia di rilevanza penale è comunque posta non già sul confine del pericolo concreto, come apparentemente richiesto dalla norma comunitaria, bensì su quello del pericolo astratto. In tal senso, sembrerebbe potersi dunque ritenere che la configurazione in tali casi della responsabilità degli enti in riferimento esclusivamente a condotte dolose non violi le prescrizioni del legislatore sopranazionale.
Analoga questione potrebbe porsi per il delitto di “associazione” finalizzata al traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260 del d. lgs. n. 152/2006. In realtà, anche in questo caso, la peculiarità del fatto incriminato – intrinsecamente incompatibile con l’imputazione colposa – e la sua mancata specifica considerazione nella direttiva sembrano escludere l’ipotizzabilità di una violazione della medesima.

3.2. I criteri di imputazione oggettiva e le sanzioni. Nel configurare la responsabilità degli enti per i reati ambientali il d. lgs. n. 121/2011 non detta speciali disposizioni derogatorie della parte generale del d. lgs. n. 231/2001. Pertanto, le persone giuridiche sono chiamate a rispondere dell’illecito amministrativo conseguente alla consumazione nel loro interesse o vantaggio dei reati ambientali indicati nell’art. 25-undecies del decreto quando vengono commessi dai vertici apicali dell’ente ovvero dai soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza di questi ultimi.
Come già evidenziato, peraltro, la maggior parte dei reati presupposto inseriti nel nuovo catalogo sono delle contravvenzioni caratterizzate, sotto il profilo soggettivo, tanto dal dolo che dalla colpa. Si ripropongono, dunque, i dubbi già sorti in passato, in occasione della configurazione della responsabilità per i delitti contro la vita e l’incolumità personale commessi con violazione della normativa antinfortunistica (art. 25-septies d. lgs. n. 231/2001), circa la compatibilità dei criteri di imputazione oggettiva alla persona giuridica con la configurazione colposa dei reati presupposto.
Infatti, come già ricordato, l’art. 5 del decreto richiede che il reato tipizzato nei cataloghi venga consumato nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Tanto il concetto di interesse quanto quello di vantaggio presentano peraltro una evidente sintonia con l’imputazione all’ente di illeciti dolosi consumati nel suo ambito, mentre assai più problematica appare la loro effettiva capacità a fungere da indici di collegamento tra il medesimo ente e gli illeciti colposi.
Sul punto la dottrina si è sforzata di elaborare soluzioni interpretative in grado di scongiurare lo spettro della disapplicazione del d. lgs. n. 231/2001 in riferimento agli illeciti colposi pur configurati dal medesimo come presupposto della responsabilità da reato. Soluzioni alternativamente orientate ad accentuare il ruolo del parametro del “vantaggio” (sotto il profilo del risparmio dei costi connessi agli obblighi cautelari la cui violazione è posta a fondamento del rimprovero) ovvero all’obiettivizzazione della nozione di “interesse” - finora valorizzata nel confronto con reati presupposto dolosi soprattutto nel senso del volontario perseguimento ex ante dell’utilità dell’ente da parte dell’autore dell’illecito penale, quale, cioè, movente esclusivo o concorrente della sua condotta (cfr. Sez. II, n. 3625 del 20 dicembre 2005, dep. 30 gennaio 2006, D’Azzo, rv 232957) – o comunque incentrate sulla necessità di correlare l’interesse dell’ente alla condotta volontariamente posta in essere dall’agente e non già all’evento colposamente cagionato, ovvero sul rapporto di immedesimazione organica tra persona giuridica e soggetto che abbia agito nella veste qualificata considerata dall’art. 5 del d. lgs. n. 231/2001.
Non è questa la sede per approfondire oltre l’argomento, ma è comunque opportuno segnalare come i reati presi in considerazione dalla novella siano quasi tutti di pura condotta (fa eccezione, ad esempio, quello di cui all’art. 257 d. lgs. n. 152/2006) e non di evento, come quelli contemplati dal citato art. 25-septies. In tale prospettiva, la scelta di non riconfigurare i summenzionati parametri di imputazione e la circostanza che la maggior parte dei nuovi reati presupposto selezionati siano delle contravvenzioni, la cui condotta tipica è indifferentemente sorretta dal dolo e dalla colpa, potrebbero dover essere letti come indici della volontà del legislatore di interpretare il concetto di interesse in senso oggettivo e di correlare quest’ultimo per l’appunto alla condotta tenuta dall’agente qualificato nell’ambito dell’attività svolta per conto dell’ente.
Quanto alle sanzioni configurate a carico dell’ente, il legislatore delegato si è avvalso della facoltà conferitagli nella legge delega di non ricorrere necessariamente alle sanzioni interdittive previste dal d. lgs. n. 231/2001. L’applicazione di tali sanzioni – per una durata fissata dalla novella nella misura non superiore ai sei mesi - è stata infatti riservata soltanto ai casi in cui i reati da cui scaturisce la responsabilità dell’ente siano quelli previsti, rispettivamente, dall’art. 137, commi 2, 5 secondo periodo, e 11 d. lgs. n. 152/2006, dall’art. 256, comma 3 d. lgs. n. 152/2006; art. 260 d. lgs. n. 152/2006 e dagli artt. 8, commi 1 e 2, e 9, comma 2 l. n. 202/2007. Solo in tali ipotesi, dunque, sarà possibile applicare alla persona giuridica le medesime sanzioni in via cautelare ai sensi degli artt. 45 e ss. del d. lgs. n. 231/2001 (v. in proposito Sez. II, n. 10500 del 26 febbraio 2007, dep. 12 marzo 2007, D’Alessio, rv 235845).
La novella ha previsto anche l’applicazione della sanzione più grave tra quelle previste dal d. lgs. n. 231/2001 e cioè quella dell’interdizione definitiva dall’esercizio dall’attività di cui all’art. 16, ma solo nell’ipotesi in cui l’ente o una sua attività organizzativa vengano stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire od agevolare la commissione dei reati di “associazione” finalizzata al traffico illecito di rifiuti o di sversamento in mare doloso di materie inquinanti.
La sanzione pecuniaria è invece prevista in relazione a tutte le ipotesi per cui è stata configurata la responsabilità degli enti. La stessa è stata diversamente articolata in proporzione alla ritenuta diversa gravità dei reati presupposto cooptati nel catalogo di cui all’art. 25-undecies. In tal senso la cornice edittale più significativa prevista dalla novella risulta dunque quella riservata alle attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260, comma 1 del codice dell’ambiente e la cui forbice è compresa tra il minimo di quattrocento e quello di ottocento quote, che, una volta determinato il valore della singola quota ai sensi dell’art. 10 d. lgs. n. 231/2001, comporta in ipotesi l’irrogabilità di una sanzione pecuniaria massima pari ad 1.239.200 euro.
In realtà le soglie massime edittali previste in relazione ai più comuni reati presupposto in materia ambientale presi in considerazione dalla novella sono meno severe, variando mediamente tra le centocinquanta e le duecentocinquanta quote e comportando dunque l’irrogabilità di sanzioni che, sempre nella loro massima entità, possono variare al più tra i 232.250 e i 387.250 euro.

3.3. La confisca. L’art. 25-undecies non detta disposizioni speciali in tema di confisca del prezzo e del profitto del reato presupposto, rinviando pertanto implicitamente alla disciplina generale contenuta negli artt. 9 e 19 del d. lgs. n. 231/2001. Scelta che risulta coerente con le previsioni della legge delega che espressamente ha imposto l’applicazione della misura ablativa in relazione ai reati ambientali.
Pertanto deve ritenersi sempre applicabile la confisca dei proventi del reato a titolo di sanzione principale ed anche nella forma per equivalente.
Diverso è il problema della concreta possibilità di individuare un profitto da sottoporre alla sanzione ablativa (non sembra invece porsi analogo problema con riguardo al prezzo del reato, sempre agevolmente identificabile).
Quello del profitto confiscabile nei reati ambientali è in realtà profilo raramente affrontato dalla giurisprudenza, che si è invece occupata in qualche occasione della definizione del profitto in quanto fine che caratterizza il dolo specifico del reato di cui all’art. 260 del codice dell’ambiente. E sul punto la Suprema Corte ha avuto ripetutamente modo di chiarire come il profitto perseguito dall'autore del delitto menzionato possa consistere anche nella semplice riduzione dei costi aziendali (v. Sez. IV, n. 28158 del 2 luglio 2007, dep. 16 luglio 2007, p.m. in proc. Costa, rv 236907, nello stesso senso Sez. III, n. 40838 del 6 ottobre 2005, dep. 10 novembre 2005, p.m. in proc. Fradella, rv 232351).
Se alcuni dei reati presupposto, attesa la segnalata natura formale dei medesimi, non appaiono idonei nemmeno in astratto a produrre un “profitto” in tal senso inteso, non v’è dubbio che altri – come ad esempio quello previsto dall’art. 260 citato, nel quale il movente economico, come ricordato, è addirittura eletto ad elemento costitutivo del dolo specifico – sono invece perfettamente in grado di procurare un immediato vantaggio economico di tal natura all’ente nel cui interesse vengono commessi.
Pur tenendo conto del diverso contesto in cui il principio è stato affermato, è legittimo allora chiedersi se lo stesso possa essere utilizzato anche per definire la nozione di profitto oggetto di confisca. Se cioè tale profitto possa essere identificato con i costi “risparmiati” attraverso la violazione della normativa ambientale, quantomeno in relazione ai reati consumati nell’ambito dell’attività d’impresa.
Infatti è l’aggiramento dei costi imposti all’impresa dalle restrizioni in materia ambientale e non altro a costituire, nella maggior parte dei casi, l’effettivo vantaggio di natura patrimoniale generato dalla consumazione degli illeciti di cui si tratta, atteso che quanto ricavato dall’eventuale realizzazione dell’illecito nell’interesse di altri soggetti più correttamente deve essere classificato come prezzo del reato.
In genere la giurisprudenza è apparsa in passato assai prudente e comunque oscillante in merito alla riconoscibilità del risparmio di spesa come profitto confiscabile, ma più di recente le stesse Sezioni Unite della Cassazione sembrano aver ammesso, in linea astratta, l’ablazione del risparmio ottenuto grazie alla condotta criminosa (Sez. Un., n. 26654 del 27 marzo 2008, dep. 2 luglio 2008, Fisia Impianti spa, in motivazione).
In realtà l’unico vero ostacolo a concentrare la sanzione ablativa anche sul risparmio di spesa sembra costituito dall’effettiva realizzazione del medesimo al momento della confisca. Infatti, come osservato nella menzionata pronunzia delle Sezioni Unite, tale risparmio si realizza effettivamente solo nel momento del conseguimento di un ricavo «non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere». In tale prospettiva, dunque, il reato ambientale correlato all’attività d’impresa è in grado di determinare un risparmio catalogabile come “profitto” solo nel momento in cui quest’ultima realizza i proventi della sua attività lecita in misura superiore a quella che i costi “ambientali”, se sostenuti, gli avrebbe consentito.
Sembrerebbe dunque da escludersi la possibilità di procedere in un momento anteriore alla confisca (o ancor prima al sequestro a fini di confisca) di quello che costituisce solo un profitto “futuro” non ancora effettivamente acquisito se non addirittura una mera aspettativa di profitto, men che meno nelle forme della confisca (o del sequestro) per equivalente.

3.4 La modifica dell’art. 25-novies. Il d. lgs. n. 121/2011 ha fornito, ancora, al legislatore l’occasione per rimediare al disarmante errore compiuto nella numerazione dei cataloghi dei reati presupposto al momento dell’attuazione della Convenzione di Merida sulla corruzione.
Come si ricorderà la l. 3 agosto 2009, n. 118 aveva inserito nel d. lgs. n. 231/2001 l’art. 25-novies, configurandovi la responsabilità degli enti per il reato di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 377-bis c.p.). Peraltro, soltanto un mese prima, la l. 23 luglio 2009, n.99 aveva già introdotto il medesimo articolo, dedicandolo invece ai reati in materia di violazione del diritto d’autore.
In definitiva per due anni hanno convissuto due articoli 25-novies dal contenuto autonomo senza che intervenisse alcuna rettifica. Situazione paradossale che solo la mancata attivazione di procedimenti per i menzionati reati presupposto ha evitato grottesche conseguenze. Come accennato, la novella ha finalmente provveduto a sanare l’errore ed in tal senso ha provveduto a rinumerare l’art. 25-novies relativo all’art. 377-bis c.p. come 25-decies.

4. Le modifiche al regime transitorio introdotte dal c.d. Quarto correttivo al T.U.A. (D.Lgs. n. 205 del 2010): la “reviviscenza” dell’art. 258 T.U.A. Con il D.M. 22 dicembre 2010 (G.U. 28/12/2010, n. 302), seguito, da ultimo, dal D.M. 26 maggio 2011 (si v. oltre), è stata prorogata “a scaglioni” l'entrata in vigore del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI). Le precedenti regole su registri e formulari sono state dunque prorogate.
Questa proroga attiene, però, solo al regime di tracciabilità e non riguarda ovviamente anche l’originario sistema delle sanzioni, compromesso dalle recenti modifiche apportate all’art. 258 d. lgs. n. 152/2006. Come si ricorderà, infatti, il nuovo testo dell’articolo menzionato, così come modificato dall'articolo 35 del d.lgs. n. 205/2010, in relazione alla violazione degli obblighi di comunicazione, di tenuta dei registri obbligatori e dei formulari ha introdotto un regime sanzionatorio amministrativo particolarmente afflittivo nei confronti dei soggetti che, pur non essendo obbligatoriamente tenuti ad aderire al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI), omettano di tenere ovvero tengano in modo incompleto il registro di carico e scarico.
Il novellato comma 4 dell’art. 258 contemplava, in particolare, le sanzioni a carico delle imprese che raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi e che non aderiscono, su base volontaria, al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti. Le stesse, ove effettuino il trasporto di rifiuti senza il formulario di cui all'art. 193 ovvero indichino nel formulario stesso dati incompleti o inesatti sono puniti con sanzione amministrativa pecuniaria.
Il d. Lgs. n. 205/2010 aveva reso più intelligibile la previsione, già contemplata dal previgente comma 4 dell’art. 258, che stabiliva l’applicazione della pena di cui all'art. 483 cod. pen. nei confronti di chi, nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti, fornisce false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti e a chi fa uso di un certificato falso durante il trasporto.
La novella, però, aveva sorprendentemente soppresso l’inciso, contenuto sempre nel previgente comma 4 dell’art. 258 da cui dipendeva la penale rilevanza delle condotte ad oggetto i rifiuti pericolosi. Ciò aveva comportato l’apparente – e probabilmente non voluta -depenalizzazione della condotta consistente nel trasportare rifiuti pericolosi senza il formulario di identificazione ovvero nell’indicare nel formulario stesso dati incompleti o inesatti riferiti al trasporto dei suddetto rifiuti pericolosi.
Con il d.Lgs. n. 121/2011, il legislatore delegato sembrerebbe aver ora tentato di porre rimedio alla svista, modificando l’art. 39 del d.lgs. n. 205/2010, dedicato alla disciplina transitoria delle modifiche apportate all’art. 258 del codice dell’ambiente.
In particolare, l’art. 4, comma 2, lett. b) del decreto, inserendo un nuovo comma 2-bis nell’art. 39, prevede l’applicazione delle sanzioni previste dal citato art. 258 nella previgente formulazione nei confronti dei soggetti od imprese di cui all’art. 188-ter, commi 1, 2, 4 e 5  del codice dell’ambiente e cioè quelli tenuti obbligatoriamente o facoltativamente ad iscriversi al SISTRI nonché per i Comuni, gli  enti  e  le  imprese  che gestiscono i rifiuti urbani del territorio della Regione Campania. In particolare, dette sanzioni, secondo la novella, dovrebbero essere applicate in caso di inadempimento degli obblighi previsti dagli articoli 190 (tenuta dei registri di carico e scarico) e 193 (tenuta del F.I.R., ossia del formulario di identificazione dei rifiuti) del d.Lgs. n. 152/2006.
Il legislatore delegato, nel delimitare il campo di applicazione della norma transitoria, precisa peraltro che l’applicazione del regime sanzionatorio previsto dall’art. 258 ante novella del 2010 si applica «fino alla decorrenza degli obblighi di operatività del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI)».
Orbene, il richiamo operato dal comma 2-bis dell’art. 39, come novellato, ai soggetti così indicati, il riferimento agli obblighi dettati dall’art. 190 e 193 TUA. ma, soprattutto, l’integrale e generico riferimento alle “relative sanzioni” previste dall’art. 258 “vecchio” testo (quindi, sia penali che amministrative), sembrerebbe voler determinare la (ri)penalizzazione delle condotte di trasporto di rifiuti pericolosi senza il formulario di identificazione e di indicazione nel formulario stesso di dati incompleti o inesatti, descritte nel comma 4 dell’art. 258.
Peraltro ciò non sembra sufficiente – in ossequio al principio di legalità ed ai suoi corollari in tema di successione di leggi penali nel tempo – ad elidere l’effetto retroattivo per tutti i fatti commessi sino al 25 dicembre 2010 determinato dell’abolitio criminis inavvertitamente posta in essere dal d.Lgs. n. 205/2010. Infatti la modifica della norma transitoria non è in grado di provocare la “reviviscenza” dell’illecito penale anche in relazione ai fatti pregressi alla novella, limitandosi a conferire rilevanza penale solo a quelli commessi successivamente all’entrata in vigore del d.Lgs. n. 121/2011.
Poiché, però, secondo il comma 2-bis dell’art. 39, l’applicazione delle “vecchie” sanzioni dell’art. 258 si applica «fino alla decorrenza degli obblighi di operatività del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI)», rileva, ai fini dell’individuazione del dies ad quem, quanto previsto dall’art. 1 del D.M. 26 maggio 2011 (recante la “Proroga del termine di cui all'articolo 12, comma 2, del decreto 17 dicembre 2009, recante l'istituzione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti” G.U. 30 maggio 2011 n. 124) che, in merito all’entrata in vigore del SISTRI, prevede un meccanismo a tappe e, precisamente:
- al 1° settembre 2011 [comma 1]:
a) per i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma 1, lettera a) TU SISTRI] che abbiano più di 500 dipendenti,
b) per le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi [ex art. 184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA], che hanno più di 500 di-pendenti,
c) per le imprese e gli enti che raccolgono o trasportano rifiuti speciali a titolo professionale (c.d. "trasportatori professionali) autorizzati per una quantità annua complessivamente trattata superiore a 3.000 tonnellate;
d) per i soggetti di cui all'art. 3, comma 1, lettere c) e d) del TU SISTRI (stimati in circa 5.000 impianti).
- sempre al 1° settembre 2011 [comma 6]:
- per i soggetti di cui all'art. 3 del TU SISTRI, non menzionati nei commi da 1 a 5 dell'art. 1, D.M. 26 maggio 2011, nonché per i soggetti di cui all'art. 4 del TU SISTRI.
- al 1° ottobre 2011 [comma 2]:
a) per i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano da 251 a 500 dipendenti,
b) per le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi [ex art. 184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA] che hanno da 251 a 500 di-pendenti,
c) per i Comuni, gli enti e le imprese che gestiscono i rifiuti urbani della regione Campania;
- al 2 novembre 2011 [comma 3]:
a) i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano da 51 a 250 dipendenti,
b) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi [ex art. 184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA], che hanno da 51 a 250 dipen-denti.
- al 1° dicembre 2011 [comma 4]:
a) i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano da 11 a 50 dipendenti,
b) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi [ex art. 184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA], che hanno da 11 a 50 dipendenti,
c) le imprese e gli enti che raccolgono o trasportano rifiuti speciali a titolo professionale (i c.d. "trasportatori professionali") che sono autorizzati per una quantità annua complessivamente trattata fino a 3.000 tonnella-te (stimati in un numero di circa 10.000);
- al 2 gennaio 2012 [comma 5]:
- per i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano fino a 10 dipendenti.
La l. 12 luglio 2011, n. 106 ha previsto, poi, che il termine del 2 gennaio 2012 stabilito per l’avvio del SISTRI per i produttori di rifiuti (ex art. 3, comma 1, lettera a), TU SISTRI) che abbiano fino a dieci dipendenti sia prorogato ad una data non antecedente al 1° giugno 2012, termine «da individuare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, nei modi di cui all'articolo 28, comma 2, del regolamento di cui al decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 18 febbraio 2011, n. 52».
L’applicazione delle sanzioni (sia amministrative pecuniarie che, per quanto di interesse, penali) previste dal previgente art. 258, cesserà dunque, per i soggetti indicati in precedenza, secondo lo scadenzario di cui sopra.

Redattori: Luca Pistorelli, Alessio Scarcella


Il vice direttore
(Domenico Carcano)