Cass. Sez. III n. 10083 del 16 marzo 2020 (UP 21 nov 2019)
Pres. Izzo Est. Reynaud Ric. Galiazzo
Urbanistica.Sospensione dell'azione penale e sanatoria
La sospensione dell'azione penale relativa alle contravvenzioni urbanistiche finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria, imposta dall'art. 45, comma 1, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 in relazione al precedente art. 36, comma 3, non può superare i sessanta giorni previsti da tale ultima disposizione, anche se l’iter amministrativo sia di fatto proseguito. Irrilevante, poi, è che sia mancato il preavviso di diniego, perché l'art. 10 bis legge 7 agosto 1990, n. 241 - che impone, prima dell'adozione di un provvedimento negativo, al responsabile del procedimento di comunicare all'istante i motivi ostativi all'accoglimento della domanda - non trova applicazione in tema di sanatoria edilizia, sicché il procedimento penale sospeso prosegue automaticamente in esito alla formazione del silenzio-rifiuto dopo l'inutile decorso del termine di sessanta giorni dalla richiesta
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 18 marzo 2019, la Corte d’appello di Lecce, ha parzialmente accolto gli appelli proposto dagli odierni ricorrenti, riducendo la pena inflitta e nel resto confermando la pronuncia con cui essi erano stati ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (T.U.E.), per aver realizzato alcune opere senza il necessario permesso di costruire.
2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore, hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, deducendo, con i primi due, connessi, motivi la violazione dell’art. 36, comma 3, T.U.E. ed vizio di motivazione per aver la Corte territoriale negato la richiesta sospensione del procedimento penale in attesa della definizione dell’iter amministrativo volto ad ottenere l’accertamento di conformità delle opere. Nonostante il decorso di 60 giorni dalla presentazione dell’istanza, il procedimento amministrativo era infatti ancora pendente, come dimostrato dalla documentazione prodotta in giudizio e non vagliata dalla Corte territoriale, sul punto incorsa in travisamento della prova per omissione.
Si sarebbe anche dovuto tener conto della mancata adozione da parte del Comune dei provvedimenti amministrativi di preavviso di diniego e di diniego previsti dalla l. 241/1990, di cui l’ente territoriale aveva invece fatto uso - con ciò dimostrando di non intendere avvalersi del provvedimento di diniego tacito di cui all’art. 36, comma 3, T.U.E. - in occasione della presentazione di analoga istanza di permesso di costruire in sanatoria in precedenza richiesto dai ricorrenti per le medesime opere. La mancata adozione di provvedimenti espressi con riguardo alla seconda istanza di sanatoria avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale ad una più penetrante valutazione circa la pendenza del procedimento amministrativo, ed essendo questa mancata la motivazione sul punto sarebbe manifestamente contraddittoria.
3. Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione della sentenza, anche con riferimento al travisamento per omissione di un dato probatorio decisivo, in ordine alla già intervenuta prescrizione del reato.
In primo luogo si lamenta che non era stata adeguatamente considerata, in relazione al suo reale contenuto, la documentazione prodotta, che attestava come le opere oggetto di contestazione fossero state eseguite nel lontano 1998, smentendo quanto invece affermato in sentenza circa la mancanza di prova che i documenti fossero riferibili proprio a quelle opere.
In secondo luogo, ci si duole dell’affermazione secondo cui il completamento delle opere sarebbe databile al 2016 allorquando vi sarebbe stata l’installazione degli infissi in vetro, trattandosi di dato smentito dalla stessa imputazione, che contesta come la veranda fosse dotata di “finestroni in vetro” già alla data dell’accertamento dell’8 maggio 2014.
4. Con il quarto motivo si deduce il vizio di mancanza assoluta di motivazione rispetto alla richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche, avanzata con il gravame per entrambi gli imputati ed in alcun modo considerata in sentenza.
5. Con l’ultimo motivo, in via subordinata, si segnala che, considerando quale dies a quo la data di accertamento indicata in imputazione, il reato si è prescritto in data 8 maggio 2019, con conseguente richiesta di annullamento della sentenza senza rinvio per tale causa.
6. Con memoria trasmessa lo scorso 19 novembre la difesa dei ricorrenti ha segnalato che con provvedimento emesso il precedente 14 novembre – allegato in copia - il Comune ha comunicato che la richiesta di sanatoria poteva essere accolta previa trasmissione della documentazione contestualmente richiesta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I primi due motivi di ricorso sono manifestamente infondati, alla luce della chiarissima disciplina normativa, essendo irrilevanti – e dunque, prive di specificità - le circostanze in fatto dedotte in ricorso a sostegno del dedotto vizio motivazionale, così come le allegazioni contenute nella memoria difensiva poco sopra citata.
1.1. L’art. 45, comma 1, T.U.E., infatti, impone la sospensione dell’azione penale «finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all’articolo 36» e quest’ultima disposizione, al terzo comma, sancisce che «sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata». Esattamente, dunque, la sentenza impugnata argomenta il rigetto della richiesta di sospensione osservando che, essendo stata questa presentata il 4 agosto 2017, era abbondantemente decorso il termine entro il quale s’intende formato il silenzio-rifiuto che legittima l’istante all’impugnazione in sede giurisdizionale amministrativa, senza che il processo penale debba necessariamente essere sospeso. Del tutto irrilevante – dunque – è la mancata considerazione che, pur decorso il suddetto termine, il procedimento amministrativo sia di fatto proseguito, poiché se la sua decorrenza non impedisce all’autorità comunale di pronunciare il provvedimento di sanatoria (Sez. 3, n. 17954 del 26/02/2008, Termini, Rv. 240233), ciò non esclude la doverosa prosecuzione del procedimento penale.
Ed invero, posto che il combinato disposto delle due citate norme prevede la sospensione dell’azione penale limitatamente ad un procedimento amministrativo destinato a concludersi nel termine massimo di sessanta giorni, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale, in rapporto al principio di obbligatorietà dell’azione penale sancito nell’art. 112 Cost., dell’identica normativa urbanistica disciplinante il rilascio della concessione edilizia in sanatoria ai sensi degli artt. 22, primo comma, e 13, secondo comma, l. 28 febbraio 1985, n. 47, aveva disatteso l’interpretazione datane dai giudici a quibus. Secondo costoro, la sospensione necessaria del processo penale doveva estendersi anche oltre il termine dei sessanta giorni, addirittura sino alla fase del procedimento giurisdizionale amministrativo in cui si contesti la legittimità del mancato accoglimento dell’istanza di sanatoria (quanto meno sino alla pronuncia del T.A.R.). Per contro, la Corte costituzionale aveva rilevato che se la sospensione limitata al procedimento amministrativo per un massimo di sessanta giorni giustifica il danno inerente al ritardato svolgimento del processo penale, poiché la conclusione del (breve) iter in senso favorevole al richiedente conduce all’immediata definizione del giudizio penale, «il bloccare ulteriormente le attività processuali penali per tempi generalmente imprevedibili (…) non solo incrementerebbe il danno al quale s’è accennato ma rischierebbe di renderlo irreversibile, senza, peraltro, alcuna garanzia sull’esito dei procedimenti giurisdizionali (…) il blocco delle attività processuali penali “per lunghi tempi” non può non violare il principio di cui all’art. 112 Cost., che, invece, la breve, necessaria sospensione dell’azione penale, di cui al primo comma dell’art. 22, sicuramente non lede» (Corte cost., sent. 31 marzo 1988, n. 370, che ha pertanto concluso per l’infondatezza della questione sollevata, osservando che «tra due interpretazioni d’una legge ordinaria dev’essere preferita quella che non solleva dubbi di legittimità costituzionale»).
Questa conclusione interpretativa – salvo un risalente precedente contrario (Sez. 3, n. 3190 del 13/02/1989, Falabella, Rv. 180665) – è stata seguita da tutta la successiva giurisprudenza di legittimità e avallata anche dalle Sezioni unite (cfr. Sez. U, n. 4154 del 27/03/1992, Passerotti, Rv. 190245; più di recente, Sez. U, n. 15427 del 31/03/2016, Cavallo, Rv. 267042, in motivazione; Sez. 3, n. 24245 del 24/03/2010, Chiariello, Rv. 247692; Sez. 3, n. 22823 del 26/02/2003, Barbieri, Rv. 225293). Del resto - si osserva nella motivazione di una pronuncia che conferma il consolidato orientamento - «il termine assolve ad una duplice funzione: da un lato, conferisce certezza all’aspettativa del privato consentendogli le opportune iniziative di tutela e, dall’altro, evita la sospensione del processo sine die» (Sez. 3, n. 10205 del 18/01/2006, Solis e a., Rv. 233671, in motivazione). Al di là della discrezionale facoltà del giudice, da motivarsi specificamente in relazione al prevedibile imminente rilascio della sanatoria, di accordare un rinvio del processo, su richiesta di parte e con conseguente sospensione del termine di prescrizione (cfr. Sez. U, n. 15427 del 31/03/2016, Cavallo, Rv. 267042), deve pertanto ribadirsi il principio secondo cui la sospensione dell'azione penale relativa alle contravvenzioni urbanistiche finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria, imposta dall'art. 45, comma 1, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 in relazione al precedente art. 36, comma 3, non può superare i sessanta giorni previsti da tale ultima disposizione, anche se l’iter amministrativo sia di fatto proseguito.
1.2. Del pari irrilevante, poi, è che sia mancato il preavviso di diniego, dovendo qui parimenti ribadirsi il principio secondo cui l'art. 10 bis legge 7 agosto 1990, n. 241 - che impone, prima dell'adozione di un provvedimento negativo, al responsabile del procedimento di comunicare all'istante i motivi ostativi all'accoglimento della domanda - non trova applicazione in tema di sanatoria edilizia, sicché il procedimento penale sospeso prosegue automaticamente in esito alla formazione del silenzio-rifiuto dopo l'inutile decorso del termine di sessanta giorni dalla richiesta (Sez. 3, n. 6670 del 20/12/2011, dep. 2012, Barreca, Rv. 252443).
1.3. Da ultimo, con riguardo alla lettera del 14 novembre 2019 a firma del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Arnesano, depositata con la memoria difensiva, la stessa dimostra soltanto che il procedimento di sanatoria è tuttora in corso e che il permesso di costruire non è ancora stato rilasciato, essendo necessaria la produzione della ulteriore documentazione richiesta ed il pagamento dell’oblazione prevista dall’art. 36, comma 2, T.U.E. Nessun rilievo può dunque riconoscersi a tale documento, tanto meno l’effetto estintivo del reato che, per l’art. 45, comma 3, T.U.E., esige il rilascio del permesso in sanatoria.
2. Il terzo motivo di ricorso è infondato, sotto entrambi i profili dedotti.
2.1. Quanto all’omessa considerazione del “reale contenuto” della documentazione prodotta, la doglianza non attiene al travisamento per omissione di un dato probatorio che, se decisivo, integra gli estremi della motivazione manifestamente illogica censurabile in sede di legittimità, ma all’interpretazione della prova documentale ed alla valutazione del suo contenuto, attività che rientra nell’esclusiva attribuzione del giudice di merito e che è insindacabile in sede di legittimità se non illogicamente motivata. Il ricorrente attesta del tutto genericamente il travisamento del contenuto della documentazione, non riproducendone in ricorso neppure il testo, né analizzandolo per dedurre specificamente le ragioni del lamentato vizio. Il ricorso per cassazione che deduca il travisamento (e non soltanto l'erronea interpretazione) di una prova decisiva, ovvero l'omessa valutazione di circostanze decisive risultanti da atti specificamente indicati, impone invece di verificare l'eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall'assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto, ovvero di verificare l'esistenza della decisiva difformità (Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702; v. anche Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012, dep. 2013, Maggio, Rv. 255087).
La sentenza, del resto, argomenta in modo non illogico – e non specificamente contestato – da un lato, che la documentazione potrebbe semmai riferirsi ad una sola delle tre opere abusive contestate in imputazione (il porticato) e non vi è neppure prova che non si riferisca invece ad altre costruzioni legittimamente eseguite nel medesimo sito; d’altro lato, che proprio con riguardo alla veranda-porticato l’attività edilizia di completamento risultava protratta in epoca successiva, essendosi nel 2013 edificati dei parapetti in muratura e nel 2016 completata l’installazione degli infissi vetrati.
Ciò premesso, è noto che, in tema di reati edilizi, la valutazione dell'opera ai fini della individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione deve riguardare la stessa nella sua unitarietà, senza che sia consentito considerare separatamente i suoi singoli componenti (Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo, Rv. 270256), così che, in virtù del concetto unitario di costruzione, la stessa può dirsi completata solo ove siano terminati i lavori relativi a tutte le parti dell'edificio, con la conseguenza che la permanenza del reato di costruzione in difetto del permesso di costruire cessa con la realizzazione totale dell'opera in ogni sua parte (Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014, dep. 2015, Prevosto e aa., Rv. 263339). In secondo luogo, deve ribadirsi il risalente e corretto principio secondo cui, ai fini del decorso del termine di prescrizione del reato, l’ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 46215 del 03/07/2018, N., Rv. 274201; Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura, Rv. 251424; Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153), anche per le parti che costituiscono annessi dell'abitazione (Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali, Rv. 246221).
2.2. Questa ricostruzione del fatto – che, senza contestazione, la sentenza attesta essere fondata sulle risultanze di una perizia stragiudiziale redatta nell’interesse dell’imputata e prodotta in atti – non è certo incompatibile con la formulazione dell’imputazione, sia perché la stessa non esclude che le vetrate, pur eventualmente già in parte presenti al momento dell’accertamento del 2014, siano state successivamente “completate”, sia perché, nei reati permanenti, la permanenza si interrompe solo nel momento in cui la situazione antigiuridica viene meno per fatto volontario dell'obbligato o per altra causa, oppure con la pronuncia della sentenza di primo grado, qualora la condotta si protragga nel corso del procedimento penale, in relazione a situazioni in cui il capo d'imputazione faccia riferimento solo alla data di accertamento del reato (Sez. 1, n. 47034 del 23/04/2018, Moriconi, Rv. 274368). In particolare – secondo il consolidato orientamento di questa Corte che va qui ribadito - la permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado (Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, Sullo, Rv. 260498; Sez. 3, n. 38136 del 25/09/2001, Di Zenzo, Rv. 220351).
Essendosi la consumazione protratta sino al 2016, il reato non era dunque prescritto al momento della sentenza impugnata, né lo è oggi.
3. Il quarto motivo di ricorso è invece fondato, risultando del tutto omessa la motivazione sulla richiesta di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche per entrambi gli imputati, circostanze che – come ricorda la sentenza impugnata al foglio 3 – erano state espressamente richieste. La sentenza nulla dice al proposito e non offre nemmeno spunti per ritenere una implicita valutazione di segno negativo, perché riduce la pena inflitta in primo grado. Non può dunque richiamarsi il principio secondo cui la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche deve ritenersi disattesa con motivazione implicita allorché sia adeguatamente motivato il rigetto della richiesta di attenuazione del trattamento sanzionatorio, fondata su analogo ordine di motivi (Sez. 1, n. 12624 del 12/02/2019, Dulan, Rv. 275057).
4. Non essendo il reato prescritto, la sentenza impugnata deve pertanto essere annullata limitatamente al giudizio sulla concedibilità delle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Lecce.
I ricorsi, nel resto complessivamente infondati, debbono essere altrimenti rigettati.
Ai sensi dell’art. 624, comma 1, cod. proc. pen., essendo il giudizio di rinvio limitato al solo trattamento sanzionatorio, va dichiara l’irrevocabilità dell’accertamento di penale responsabilità (cfr., ex multis, Sez. 1, ord. n. 33154 del 15/05/2019, Chirico, Rv. 277226; Sez. 1, n. 43824 del 12/04/2018, Milito, Rv. 274639;), con conseguente irrilevanza di cause di estinzione del reato eventualmente sopravvenute (Sez. 6, n. 12717 del 31/01/2019, Cintoi, Rv. 276378; Sez. 4, n. 114 del 28/11/2018, dep. 2019, Malventi, Rv. 274828; Sez. 2, n. 4109 del 12/01/2016, Serafino, Rv. 265792).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente le attenuanti generiche con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Lecce.
Rigetta i ricorsi nel resto.
Visto l’art. 624 cod. proc. pen. dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine alla affermazione della penale responsabilità degli imputati.
Così deciso il 21 novembre 2019.