Consiglio di Stato, Sez. IV n. 5619 del 5 novembre 2012 .
Urbanistica.E’ legittimo il rigetto di sanatoria edilizia per immobile realizzato in fascia di rispetto di corso d’acqua pubblico ex R.D. 523/1904.

Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla lettera f) dell’art. 96, del regio decreto 25 luglio 1904, n. 523 è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria  (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 05619/2012REG.PROV.COLL.

N. 10315/2005 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10315 del 2005, proposto da:

Firpo Mirella, rappresentata e difesa dagli avv. Guido Francesco Romanelli, Luigi Piscitelli, con domicilio eletto presso Guido Francesco Romanelli in Roma, via Cosseria, 5;

contro

Comune di Genova, rappresentato e difeso dagli avv. Edda Odone, Gabriele Pafundi, Carlo Scaglia, con domicilio eletto presso Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14/4; Provincia di Genova, rappresentata e difesa dagli avv. Gabriele Pafundi, Roberto Giovannetti, con domicilio eletto presso Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, 14;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LIGURIA - GENOVA: SEZIONE I n. 01493/2004, resa tra le parti, concernente rigetto istanza di sanatoria edilizia capannone a uso artigianale.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Genova;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 ottobre 2012 il Cons. Giuseppe Castiglia e uditi per le parti gli avvocati Stefania Ionata (su delega di Guido Francesco Romanelli) e Gabriele Pafundi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

La signora Mirella Firpo è proprietaria di un capannone a uso artigianale nel comune di Genova, nei pressi del torrente Chiaravagna, per il quale ha presentato istanza di sanatoria edilizia. Ritenendo sussistente, anche sulla scorta di una nota della Provincia, un vincolo di inedificabilità assoluta in fascia di rispetto di corso d’acqua pubblico, l’Amministrazione comunale ha rigettato l’istanza.

Il ricorso con cui la signora Firpo ha quindi impugnato il diniego è stato respinto dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, Sezione I, con sentenza 28 ottobre 2004, n. 1493, che ha preliminarmente disatteso l’eccezione di difetto di giurisdizione in favore del Tribunale superiore delle acque pubbliche, formulata dalla Provincia.

Contro la sentenza la signora Firpo ha interposto appello, deducendo sotto vari profili la violazione di legge e l’eccesso di potere.

Il Comune e la Provincia di Genova si sono costituiti in giudizio per resistere all’appello.

Le parti hanno presentato memorie.

All’udienza pubblica del 23 ottobre 2012, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

DIRITTO

1. Con il primo motivo dell’appello, la signora Firpo contesta la sentenza di primo grado nella parte in cui afferma che l’analisi del tenore letterale dell’art. 96, lettera f), del regio decreto 25 luglio 1904, n. 523, confermerebbe la natura di vincolo inderogabile di inedificabilità ai sensi dell’art. 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, tale da precludere il rilascio della concessione in sanatoria.

L’appello osserva che:

il vincolo di tutela dei corsi d’acqua ex art. 96 del r.d. n. 523 del 1904 non corrisponderebbe ad alcuno dei tipi elencati dall’art. 33 della legge n. 47 del 1985;

esso farebbe comunque salva la diversa disciplina posta dalle normative locali;

il P.R.G. vigente al momento del diniego consentirebbe l’edificabilità anche nell’area dell’appellante;

il Comune avrebbe assentito numerosi interventi edilizi nella medesima zona.

1.1 Il motivo non è fondato.

L’art. 96 citato elenca una serie di “lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese”.

Come afferma costantemente la giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla lettera f) dell’art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass. civ., SS.UU., 30 luglio 2009, n. 17784) e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. V, 26 marzo 2009, n. 1814; Id., Sez. IV, 12 febbraio 2010, n. 772; Id., Sez. IV, 22 giugno 2011, n. 3781; Trib. Sup. acque pubbl., 15 marzo 2011, n. 35; ivi riferimenti ulteriori).

E’ ben vero che la lettera f) dell’art. 96, che qui viene in questione, commisura il divieto alla distanza “stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località” e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza “minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.

Senonché – come è stato più volte affermato in giurisprudenza – alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d’acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr. Cass. civ., SS. UU., 18 luglio 2008, n. 19813; Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2011, n. 2544).

In mancanza di una difforme disciplina sul punto specifico nel P.R.G. dell’epoca, deve ritenersi non sussistere una normativa locale derogatoria di quella generale, alla quale dunque occorre fare riferimento.

Neppure giova alla tesi, infine, il richiamo alla presenza in zona di altri manufatti, trattandosi di circostanza che, genericamente affermata più che effettivamente dimostrata, andrebbe comunque esaminata con riguardo ai singoli casi concreti.

2. Il secondo motivo richiama la legge regionale 28 gennaio 1993, n. 9, che, nel sostituire le disposizioni del r.d. n. 523 del 1904, affida la tutela dei corsi d’acqua a un sistema di piani e solo in salvaguardia prevede distanze minime, consentendone espressamente la deroga con autorizzazione dell’autorità competente in materia di polizia idraulica. La sentenza avrebbe equivocato il motivo del ricorso di primo grado, che invocava la normativa regionale per mettere in evidenza come il diniego del Comune si fondasse su un presupposto normativo non più applicabile alla fattispecie, affermando invece che l’Amministrazione non avrebbe potuto concedere comunque la deroga attesa l’esiguità della distanza della costruzione rispetto al torrente.

2.1 Il motivo non ha pregio.

L’art. 26 della legge regionale n. 9 del 1993 stabilisce un regime transitorio destinato a valere sino all’approvazione dei piani di bacino.

In particolare:

indica le opere e le attività che, nei corsi d’acqua pubblici, non sono autorizzabili in relazione alla loro rilevanza o impatto ambientale (comma 1);

elenca gli interventi specificamente vietati, con limitate possibilità di deroghe (comma 2);

permette eccezioni ai divieti di cui ai commi precedenti, attribuendo un potere autorizzatorio all’autorità competente in materia di polizia idraulica (commi 3 e 3 bis).

Nel caso di specie, non è contestato che il torrente sulla sponda del quale si trova il manufatto sia un “corso d’acqua arginato” (nulla obietta al riguardo l’appellante nella memoria di replica del 1° ottobre scorso) e ricada dunque nella previsione della lettera c) del comma 2. Poiché in tal caso la distanza per le nuove edificazioni è posta a dieci metri, la disciplina finisce per coincidere con quella dell’art. 96, lettera f), più volte citato. La normativa regionale, lungi dal sostituire quella nazionale - come avverrebbe, ai sensi dell’art. 34 della legge regionale n. 9 del 1993, in caso di contrasto - sostanzialmente non escludono contrasta con quella, cosicché non è illegittimo il provvedimento del Comune nella parte in cui richiama quella nazionale a fondamento del diniego.

All’inverso, anche ad ammettere, in via di semplice ipotesi, l’applicabilità alla fattispecie della lettera b) del comma 2 dell’art.26 ricordato, in luogo del comma c), sarebbe palesemente assurdo dichiarare illegittimo il diniego medesimo sulla base di (quella che può essere tutt’al più) una mera svista, quando è indubbio che il manufatto è posto direttamente sull’argine del torrente e non rispetta dunque la distanza minima di tre metri prevista dalla disposizione. Nello stato di fatto, il diniego di sanatoria era comunque atto dovuto: mancando un concreto potere di scelta dell’Amministrazione, il diniego stesso, in applicazione del principio di conservazione degli atti, non potrebbe perciò essere annullato.

Né queste conclusioni possono essere contraddette sulla base del contenuto della nota comunale del 1° marzo 2004, che, così isolatamente considerata, appare di difficile valutazione e sembra comunque estranea al procedimento in discussione.

3. Il terzo motivo dell’appello censura la disparità di trattamento e la contraddittorietà rispetto ad altre situazioni analoghe, risolte favorevolmente, che il T.A.R. avrebbe potuto accertare mediante acquisizione documentale.

3.1 Il motivo non è fondato.

Come rilevato sub 1.1, l’asserita disparità di trattamento è genericamente affermata e non effettivamente dimostrata dalla parte privata, che non adempie all’onere probatorio che su di essa grava.

Peraltro, anche se la prova fosse data, questa non gioverebbe all’appellante. Infatti, il provvedimento di diniego di condono edilizio costituisce espressione di potere vincolato rispetto ai presupposti normativi richiesti e dei quali deve farsi applicazione, con la conseguenza che in ordine al medesimo non possono venire in rilievo profili di eccesso di potere quali la disparità di trattamento, propri dell'esercizio del potere discrezionale: l’eventuale rilascio del condono registratosi in analoghi casi di abusi non condonabili, e quindi suscettibili di annullamento giurisdizionale o amministrativo, non può di per sé legittimare la pretesa a identico trattamento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 14 aprile 2010, n. 2105; Id., Sez. IV, 24 febbraio 2011, n. 1235).

4. Il quarto motivo dell’appello contesta che il vincolo sia stato imposto prima della realizzazione dell’opera. Ciò perché:

gli interventi sull’immobile successivi al 1920 (data dell’apposizione del vincolo) non avrebbero comportato scavi o fabbriche nuove, tali da incidere sul regime della acque;

non sarebbe dimostrato che il torrente Chiaravagna fosse inserito nell’elenco delle acque pubbliche. Su questa censura il giudice di primo grado avrebbe omesso di pronunziarsi.

4.1 Nessuna delle due articolazioni del motivo è fondata.

Premesso che non è contestato che l’apposizione del vincolo risalga al 1920, non ha pregio la prima, perché la stessa appellante ammette che “nel 1919 il terreno venne concesso alla Cooperativa Costruzioni Metalliche e Navali, che vi installò una tettoia ad uso officina. Successivi interventi, gli ultimi dei quali furono eseguiti negli anni ’50 ed ultimati presumibilmente nel 1960, hanno attribuito al manufatto la conformazione attuale”.

La conformazione attuale del manufatto è attestata dalla perizia giurata in atti, dalla quale appare trattarsi di un vero e proprio capannone industriale, strutturalmente ben diverso da una semplice tettoia, eseguito nel 1960.

4.2 Quanto poi all’ulteriore profilo, esso è smentito dalla circostanza che la nota della Provincia di Genova del 20 marzo 1997, espressamente richiamata dal provvedimento di diniego, dichiara che il torrente Chiaravagna è iscritto al n. 42 del primo elenco delle acque pubbliche della Provincia stessa dal 18 gennaio 1920.

5. Con il quinto motivo, l’appellante censura la sentenza impugnata nella parte in cui, rispetto alla motivazione del provvedimento di diniego, considera sostanzialmente irrilevante il richiamo al piano di bacino stralcio del torrente, in via di approvazione.

Il richiamo a un presunto contrasto avrebbe invece acquisito rilievo determinante alla luce della nuova normativa della Regione Liguria, prima ricordata, che rinvia ai piani di bacino e, nelle more, pone una disciplina transitoria.

Il contrasto, peraltro, sarebbe smentito dalla documentazione in atti.

Inoltre l’eventuale contrasto sarebbe irrilevante in sede di valutazione della sanabilità di un’opera ex art. 31 della legge n. 47 del 1985, essendo il piano posteriore all’opera; la sanatoria ex art. 31 prescinderebbe comunque dalla conformità agli strumenti urbanistici; il piano, comunque, non è stato ancora approvato; il richiamo al piano dimostrerebbe che la determinazione del Comune si sarebbe formata sulla base di elementi estranei al potere esercitato.

5.1 La censura non ha fondamento.

Come ha correttamente rilevato il T.A.R., nell’economia della decisione di diniego il piano di bacino è indicato ad adiuvandum, al solo fine di attestare anche de futuro la rilevanza del vincolo.

Non ha poi rilievo il richiamo all’art. 31 della legge n. 47 del 1985, posto che – come prima detto – nella fattispecie trova applicazione l’art. 33, dal quale discende l’esclusione dalla sanatoria dell’opera in questione.

6. Il sesto motivo fa leva sulla nota della Provincia, richiamata dal Comune nel provvedimento impugnato. Non sarebbe chiaro quale peso avrebbe dato il Comune a tale nota; condividendo comunque i contenuti (vincolo di inedificabilità assoluta; qualificazione del torrente come acqua pubblica; contrasto con il piano in itinere) di un atto viziato per le ragioni esposte nei motivi prima richiamati, il diniego sarebbe affetto anche da illegittimità derivata.

Su tale motivo il T.A.R. avrebbe omesso di pronunciare.

6.1 Poiché a dar conto della legittimità della nota valgono le considerazioni svolte prima a proposito del diniego comunale, il vizio di illegittimità derivata evidentemente non sussiste.

7. Il settimo motivo ripropone le censure di difetto di motivazione istruttoria e contraddittorio, mancata comunicazione di avvio del procedimento, anche in relazione all’interesse consolidato dell’appellante, mancata acquisizione del parere della commissione edilizia.

7.1 Neppure questo motivo è fondato:

il diniego appare ampiamente motivato (peraltro il vincolo di inedificabilità, nei fatti accertato, è un fattore assolutamente insuperabile rispetto al rilascio della sanatoria; la situazione di abuso che ne deriva non può costituire fondamento di alcuna pretesa tutelabile per il privato);

la comunicazione dell’avvio del procedimento non era necessaria, trattandosi di procedimento a istanza di parte (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. VI, 8 giugno 2010, n. 3624) e di provvedimento a contenuto vincolato, rispetto al quale l’interessata non avrebbe potuto apportare alcun contributo partecipativo (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. IV, 7 settembre 2011, n. 5028; Id, Sez. IV, 17 settembre 2012, n. 4925);

non era necessario il parere della commissione edilizia. La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione a edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria, il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma, tutt'al più, facoltativo, al fine di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 3 agosto 2010, n. 5156; Id., Sez. IV, 6 luglio 2012, n. 3969; ivi riferimenti ulteriori). Che nella specie non sussistessero particolari condizioni, tali da rendere complessa o difficoltosa la valutazione del Comune, è circostanza già emersa nel corso della disamina dei precedenti motivi dell’appello; dunque, non v'erano spazi per poter invocare utilmente l'intervento dell'organo consultivo collegiale.

8. L’appello ripropone, infine, un motivo aggiunto formulato in primo grado e in quella sede giudicato tardivo e comunque infondato nel merito.

In tesi, il Comune, nel corso dell’istruttoria, sarebbe giunto alla conclusione che il vincolo in questione fosse da ricondursi alla tipologia prevista dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985.

L’appello contesta anzitutto la dichiarata tardività (la nota comunale rivolta alla Provincia, di cui si discute, avrebbe dovuto essere resa disponibile all’interessata). Sottolinea poi il contrasto tra premessa istruttoria e provvedimento conclusivo del procedimento, che vizierebbe l’atto di diniego. Censura infine i comportamenti di Comune e Provincia, ritenuti contraddittori, in quanto l’uno avrebbe richiesto un parere ex art. 32 della legge n. 47 del 1985 e l’altra avrebbe reso una pronuncia non pertinente; da ciò deriverebbe una manifesta illogicità e incongruità. Il T.A.R. avrebbe omesso di valutare quest’ultimo profilo.

8.1 Il motivo non è fondato.

In disparte la questione relativa all’ammissibilità del motivo aggiunto, va detto che la nota comunale va correttamente interpretata nel senso di porre l’alternativa tra l’applicabilità alla domanda di sanatoria dell’art. 32 o dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985. Alternativa che la Provincia, visti gli elenchi delle acque pubbliche, ha necessariamente sciolto nel senso della inedificabilità assoluta e quindi della impossibilità di sanatoria dell’opera.

9. Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello è infondato e va perciò respinto.

Le spese seguono la soccombenza, conformemente alla legge, e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata.

Condanna la parte appellante a corrispondere al Comune di Genova gli importi di euro 5.000,00 (cinquemila/00) per onorari e euro 1.500,00 (millecinquecento/00) per spese, oltre agli accessori di legge; alla Provincia di Genova gli importi di euro 5.000,00 (cinquemila/00) per onorari e euro 1.500,00 (millecinquecento/00) per spese, oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 ottobre 2012 con l'intervento dei magistrati:

Paolo Numerico, Presidente

Sergio De Felice, Consigliere

Raffaele Greco, Consigliere

Diego Sabatino, Consigliere

Giuseppe Castiglia, Consigliere, Estensore

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 05/11/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)