Cass. Sez. III n. 31640 del 18 luglio 2019 (CC 31 mag 2019)
Pres. Andreazza Est. Scarcella Ric. Manna
Aria. Opere destinate alla difesa nazionale
Non è la natura ex se di “opera destinata alla difesa nazionale” dell’arsenale militare a determinare in assoluto l’esenzione (come del resto è comprovato dalla stessa previsione introdotta dal d. lgs. n. 183 del 2017 che estende l’applicabilità delle norme in tema di tutela dall’inquinamento atmosferico dettate dal d. lgs. n. 152 del 2006 nel caso in cui in uno stabilimento destinato alla difesa nazionale siano ubicati medi impianti di combustione), quanto, piuttosto, lo svolgimento di attività al suo interno finalizzate (esclusivamente, si intende) alla difesa e alla sicurezza del paese a giustificare la deroga di cui al combinato disposto degli artt. 272, comma quinto, TUA e 361, d. lgs. n. 66 del 2010, laddove dette attività siano svolte a favore di soggetti privati e per la manutenzione di navi non militari, nessuna giustificazione logico – giuridica vi è alla deroga.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza 10.09.2018, il tribunale del riesame di Messina rigettava l’istanza proposta nell’interesse del Manna e del Patti, avente ad oggetto il decreto 19.07.2018 emesso dal GIP/Tribunale di Messina, con cui è stato disposto il sequestro preventivo dei bacini di carenaggio attuati all’interno dell’arsenale militare di Messina; giova precisare, per migliore intelligibilità dell’impugnazione, che il sequestro in questione era stato disposto nei confronti degli attuali ricorrenti (nelle rispettive qualità di direttore dell’Arsenale militare di Messina, il Manna, e di Capo funzione sicurezza e qualità ambiente dello stabilimento, il Patti), a seguito dell’accertata violazione dei reati di scarico di acque reflue industriali senza autorizzazione contestato dal novembre 2015 sino all’attualità (capo a), di immissione in atmosfera senza autorizzazione (capo b), di inquinamento ambientale (capo c) e di getto pericoloso e danneggiamento (capi d) ed e) della rubrica).
2. Contro la ordinanza hanno proposto congiunto ricorso per cassazione gli indagati a mezzo del comune difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, cod. proc. pen., articolando undici motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deducono, con il primo motivo, violazione di legge processuale, in relazione all’art. 309, comma 10 e 324, cod. proc. pen. per mancato rispetto del termine di deposito dell’ordinanza.
In sintesi, si rileva che la camera di consiglio si è tenuta in data 25.01.2019 mentre il deposito della motivazione è intervenuto in data 25.01.2019, ossia 137 giorni dopo l’udienza camerale, in violazione del combinato disposto degli artt. 309, comma 10 e 324, cod. proc. pen. Il comma 7 di tale ultima disposizione processuale, infatti, richiamando il comma 10 dell’art. 309, comporta che il mancato rispetto del termine di trenta giorni previsto per il deposito dell’ordinanza determina la sanzione della perdita di efficacia della misura cautelare reale.
2.2. Deducono, con il secondo motivo, violazione della legge processuale, nullità ed inutilizzabilità dell’annotazione 12.06.2017, e relativamente all’ispezione 11.05.2017 in relazione agli artt. 244, 352 e 354, cod. proc. pen.
In sintesi, si premette che il decreto di sequestro preventivo fonda il fumus dei reati contestati essenzialmente sul contenuto di un’annotazione 12.06.2017 della Capitaneria di Porto relativa ad un’ispezione eseguita in data 11.05.2017, annotazione di cui l’ordinanza impugnata si è avvalsa nel motivare il rigetto della richiesta di riesame. Di tale atto viene eccepita la nullità ed inutilizzabilità perché eseguito in mancanza di un decreto motivato del PM. I giudici del riesame avrebbero omesso di fornire una motivazione “logicamente incompatibile”, atteso che l’atto in questione è stato denominato erroneamente quale “annotazione di servizio”, ma dal suo contenuto sarebbe possibile comprendere che si è trattato di un vero e proprio atto di ispezione dei luoghi e di perquisizione, con relativi rilievi fotografici, essendosi reso necessario, per la sua esecuzione, un accesso sui luoghi di lavoro non accessibili ai privati, previo attraversamento di una zona militare inibita normalmente al transito di chiunque. Quanto eseguito costituirebbe un atto irripetibile sotto l’aspetto della descrizione dei luoghi e di cose, suscettibile di essere acquisito al fascicolo per il dibattimento, determinando l’iscrizione nel registro degli indagati degli attuali ricorrenti. Il personale di PG avrebbe eseguito tale atto di iniziativa in assenza di convalida o su delega del PM, in assenza di un decreto autorizzativo o comunque delle garanzie previste per gli atti di p.g. su iniziativa garantiti. L’atto di PG è stato qualificato espressamente come “visita ispettiva” nel corpo di ciò che invece è stato qualificato come “annotazione”, rilevandosi in ricorso come tale “visita” non ha solo riguardato le officine, ma anche il bacino di carenaggio che si trova a distanza dalle prime, ciò al fine di verificare quanto contenuto in un esposto anonimo. In sostanza, si tratterebbe di un atto eseguito espressamente con la finalità di accertare tracce ed effetti materiali di reati indicati in tale esposto anonimo, di cui non v’è traccia agli atti del processo, eseguendo un’attività invasiva di quegli ambiti tutelati dalle norme in tema id perquisizioni ed accesso sui luoghi, sicchè lo stesso avrebbe dovuto essere garantito; in altri termini, laddove l’atto di ricerca ed assicurazione delle fonti di prova venga svolto in un ambiente lavorativo assimilabile ai luoghi tutelati dagli artt. 246 e 247, cod. proc. pen., come nel caso in un bacino di carenaggio dell’arsenale militare soggetto ad evidenti modificazioni, la natura dell’atto ispettivo assumerebbe le caratteristiche di irripetibilità. Gli indagati non sarebbero stati posti in condizione di difendersi, al fine di documentare che non si trattava di reflui ma di acque che rimanevano confinate all’interno della platea del bacino ed, altresì, che l’acqua di mare non andava ad interferire con quelli che sono stati ritenuti e qualificati senza alcuna indagine tecnica come “fanghi”, in tale atto è stata peraltro documentata un’attività oggetto proprio dell’atto di ricerca della prova, che, posto in essere l’11.05.2017, e documentato solo il 12.06.2017, si fornisce una descrizione dei luoghi tipica dell’atto ispettivo dei luoghi, non essendo dunque condivisibile quando argomentato sul punto dai giudici del riesame, laddove affermano che l’attività di p.g. sarebbe carente dei requisiti della norma in tema di ispezioni ex artt. 244 ss. cod. proc. pen., che dunque sarebbe stata posta in difetto delle garanzie procedurali di legge.
2.3. Deducono, con il terzo motivo, violazione di legge in relazione agli artt. 360 cod. proc. pen. e 220, disp. att. cod. proc. pen., per nullità degli accertamenti tecnici di campionamento, prelievo ed analisi e degli atti ad essi successivi.
In sintesi, si censura l’ordinanza per aver disatteso le doglianze difensive in merito all’inutilizzabilità dell’atto irripetibile costituito dal campionamento, prelievo e degli atti successivi. L’ordinanza, segnatamente, avrebbe omesso di motivare in merito all’eccezione riferita alla violazione dell’art. 360, cod.proc. pen., relativamente al fatto di non aver disposto e quindi omesso il conferimento dell’incarico peritale preceduto da regolare avviso alle parti, essendo stati svolti gli accertamenti tecnici irripetibili in violazione delle regole previste dall’art. 360 citato. In sostanza, su delega del Pm, la Capitaneria di porto avrebbe proceduto a tre distinti accertamenti tecnici irripetibili che avrebbero dovuto costituire oggetto di uno specifico e distinto atto di conferimento di incarico peritale e preceduti da avvisi specifici alle parti.
Si tratta, in primo luogo, dell’operazione tecnica di prelievo svolta dai sommozzatori del comando supporto logistico navale, che hanno raccolto acque e sedimenti in un ambiente marino soggetto ad inevitabili e continue modificazioni nel luglio 2017, nel marzo e nel luglio 2018, la Capitaneria di porto avrebbe quindi proceduto irritualmente, atteso che alla redazione di tutti i verbali di sopralluogo e campionamento non ha partecipato alcuno dei sommozzatori che hanno eseguito il prelievo ed il campionamento di acque e sedimenti marini, non risultando in alcun modo documentate le operazioni svolte durante i prelievi, non conoscendosi nemmeno i nomi di coloro che hanno svolto le operazioni tecniche definite irripetibili, donde la nullità ed inutilizzabilità di tali atti.
In secondo luogo, si tratta dell’accertamento tecnico operato dai tecnici dell’Arpa di Messina sulle acque per determinare i metalli.
In terzo luogo, si tratta dell’accertamento tecnico operato dai tecnici Arpa di Ragusa cui sarebbero stati trasferiti i campioni prelevati e che avrebbero fornito dati non determinabili dall’Arpa di Ragusa, non avendo tra l’altro quest’ultima partecipato alle operazioni di prelievo, campionamento e trasporto dei campioni, non essendo descritte nel verbale di accertamenti tecnici le operazioni svolte.
Orbene, si tratterebbe di atti esclusivi del PM e non delegabili a soggetti estranei a tale ufficio, pur essendo ipotizzabile la delega del prelievo del campione ad altra autorità, sempre che non si tratti di atto irripetibile. Nel caso delle acque e dei sedimenti marini, in virtù del fatto che si tratta di oggetti posto in luoghi soggetti a continue modifiche dell’ambiente esterno, determinate sia dall’opera dell’uomo che dalle condizioni climatiche e dalla natura, l’analisi del campione avrebbe natura irripetibile e non potrebbe rientrare nell’alveo dell’art. 370, cod. proc. pen.
Non sarebbe stato peraltro dato avviso di partecipazione al conferimento di detto incarico alle parti, in quanto l’avviso notificato non attiene al conferimento dell’incarico ma genericamente allo svolgimento di operazioni tecniche non specificate, dandosi per scontato che tale atto avrebbe potuto svolgersi in mancanza di un previo atto di conferimento di incarico nel contradditorio ex art. 360, cod. proc. pen. L’aver dato corso, quanto alle operazioni eseguite in data 17.07.2017, ad un mero avviso dello svolgimento di operazioni tecniche avrebbe svuotato di contenuto le garanzie sottese alla previsione dell’art. 360, cod. proc. pen., atteso che le operazioni tecniche preliminari sono consistite in un prelievo nel fondo del mare e non è stato possibile partecipare fattivamente con propri tecnici esperti nelle suddette operazioni di prelievo, laddove, ove ciò fosse stato possibile, la parte avrebbe incaricato una ditta munita di strumenti, quali un carotatore, idonei secondo le linee guida fornite da Ispra per svolgere tali tipi di operazioni. La garanzia di partecipare al conferimento dell’incarico, si sostiene, non potrebbe essere solo quella di assistere per conoscere il c.t. nominato, ma anche quella di conoscere i quesiti posti dal Pm al c.t., così da consentire alla difesa di essere posta nelle condizioni, all’atto del prelievo del campione o dell’analisi, di avanzare osservazioni e riserve e quindi approntare una difesa tecnica adeguata al tipo di attività che si intende svolgere. Richiamata giurisprudenza di questa Corte – segnatamente Cass. 27087/2008 e Cass. 23369/2002 -, si sostiene quindi che le attività di prelievo possono avere carattere amministrativo solo se non sussiste un soggetto formalmente indagato, laddove, nel caso di specie, alla data del 17.07.2017 gli attuali ricorrenti rivestivano già tale qualità in relazione al reato di cui all’art. 137 TUA. Proseguono i ricorrenti evidenziando che sia i prelievi e le operazioni svolte dal nucleo sommozzatori sui fondali, che quelle da svolte da Arpa Messina ed Arpa Ragusa sui campioni di materiali prelevati come le successive analisi dei campioni, rappresentano operazioni ed attività irripetibili, tenuto conto della natura dei materiali esaminati, soggetti ad alterazione organica in un breve arco di tempo, analisi che, una volta, eseguita, non può più essere ripetuta sugli stessi campioni poiché essi vengono distrutti dall’esecuzione dell’operazioni di analisi. Infine, si sostiene che l’affermazione contenuta nell’ordinanza impugnata secondo cui nei giorni 13.03, 17.07.2018 i prelievi svolti negli stessi punti indicati nel verbale nel primo prelievo del 17.07.2017 sarebbe contraddetta dai verbali e dai rapporti di prova successivi al prelievo del 17.07.2017, atteso che mentre nel primo verbale vengono riportati punti specifici dei prelievi, nei verbali successivi tali punti di prelievo non sarebbero stati riportati e le profondità sarebbero diverse, non essendosi peraltro provveduto ad effettuare i prelievi nei punti più esterni al bacino, come invece era stato rappresentato originariamente oralmente, e come era logicamente prevedibile, soprattutto nei punti posti a confine con altre installazioni svolgenti la medesima attività.
2.4. Deducono, con il quarto motivo, violazione di legge sotto il profilo della nullità per omesso avviso in ordine alla facoltà di nominare propri consulenti in ordine agli accertamenti tecnici irripetibili di luglio 2017 e di marzo 2018.
In sintesi, si sostiene che tutti gli avvisi eseguiti ex art. 360, cod. proc. pen. sarebbero inidonei ad assolvere alla funzione prevista dall’art. 360, cod. proc. pen., in quanto gli stessi conterrebbero solo una generica comunicazione che presso l’arsenale della Marina Militare di Messina sarebbero stati eseguiti dei prelievi/campionamenti di acque, fanghi e sedimenti marini. Difetterebbe un elemento essenziale, quale l’avviso circa la facoltà per le parti di nominare propri consulenti, ciò che avrebbe inficiato la validità degli atti stessi.
2.5. Deducono, con il quinto motivo, violazione di legge sotto il profilo della nullità per l’omesso avviso sulla prosecuzione delle operazioni tecniche.
In sintesi, si sostiene che nell’accertamento ex art. 360, cod. proc. pen. del 17.07.2017, non risulterebbe essere stato dato alcun avviso alle parti circa la prosecuzione delle operazioni tecniche, nonché dei tempi e dei modi degli accertamenti svolti da Arpa Ragusa.
2.6. Deducono, con il sesto motivo, violazione di legge sotto il profilo della nullità per omesso avviso al difensore circa lo svolgimento delle operazioni tecniche eseguite in data 21.03.2018.
In sintesi, si sostiene che, in relazione alle predette operazioni, sarebbe stato omesso l’avviso al difensore, essendo stato dato solo agli indagati, sebbene gli stessi fossero domiciliati presso il difensore di fiducia. Detta eccezione sarebbe stata genericamente rigettata, indicando le pagine degli avvisi, confondendo probabilmente l’avviso delle operazioni del 22.03.2018 con quelle del giorno precedente che sarebbe stato omesso. Detto avviso per le operazioni del giorno successivo sarebbe stato allegato e trasmesso dalla C.d.P. facendolo apparire per l’avviso delle operazioni del 21.03.2018, ma non si tratterebbe del medesimo avviso. Nessun avviso sarebbe stato dato alle parti quanto agli accertamenti tecnici irripetibili svolti presso altro laboratorio Arpa di Ragusa, e tale nullità si estenderebbe agli atti successivi ed in particolare all’esito delle operazioni del 21.03.2018, rendendole inutilizzabili.
2.7. Deducono, con il settimo motivo, violazione di legge sotto il profilo dell’insussistenza del fumus del reato di cui all’art. 137, d. lgs. n. 152/2006 e del periculum in mora, e correlato vizio di illogicità e contraddittorietà della motivazione.
In sintesi, si sostiene che il provvedimento genetico sarebbe affetto da nullità per l’errata valutazione giuridica in ordine alla sussistenza del fumus del reato di cui scarico abusivo di acque reflue industriali, contenendo l’ordinanza altresì evidenti contraddizioni ed illogicità dell’impianto motivazionale evidenziando contrasti rispetto alle risultanze documentali acquisite, nella specie rappresentate dal manuale di gestione ambientale, dall’istruzione operativa di gestione dei rifiuti 17.07.2017, dal protocollo operativo gestione Ambiente rifiuti e dalla relazione a firma del responsabile funzione sicurezza e ambiente, dott.ssa Urzì Brancati.
Dopo aver svolto una approfondita ricognizione della disciplina normativa susseguitasi nel corso degli anni in tema di inquinamento idrico, delle problematiche connesse alla nozione di scarico ed alla distinzione tra rifiuti liquidi e scarichi idrici e della relativa esegesi giurisprudenziale seguitane, sostiene la difesa dei ricorrenti che dall’ordinanza emergerebbero elementi di grande confusione e contraddittorietà in ordine al fumus circa l’esistenza di un sistema stabile di collettamento, la cui sussistenza sarebbe contraddetta dalle predette prove documentali, che dimostrerebbero l’avvenuto smaltimento del materiale raccolto durante la pulizia della platea di entrambi i bacini dell’Arsenale in conseguenza dell’entrata e dell’uscita delle unità navali oggetto dei lavori, atti che renderebbero manifesta l’insussistenza di tale sistema stabile di collettamento con il ritenuto corpo ricettore e la mancanza del nesso funzionale e diretto tra le acque reflue e il corpo ricettore.
Si afferma, in particolare, che il processo lavorativo svolgentesi all’interno del bacino di carenaggio in muratura escluderebbe ed impedirebbe la realizzazione di uno scarico di acque reflue industriali, non solo perché l’esito delle lavorazioni di carenaggio verrebbe trattato e gestito come rifiuto e in funzione del manuale di gestione ambientale ed essendo stato concepito nel manuale operativo un doppio sistema di confinamento del rifiuto prodotto all’interno dell’area di lavorazione.
Secondo la difesa dei ricorrenti, dunque, tale sistema di gestione impedirebbe “almeno sotto l’aspetto documentale” secondo la difesa dei ricorrenti, di ritenere sussistente il fumus del reato in questione, ciò che sarebbe stato ritenuto attraverso una motivazione contraddittoria ed illogica da cui sarebbe possibile evincere che i giudici del merito avrebbero ritenuto in realtà che gli esiti delle lavorazioni costituissero un rifiuto da smaltire. Al fine di sostenere tale tesi la difesa richiama il contenuto dei documenti che contraddirebbero quanto affermato dai giudici di merito, ossia: a) la relazione di gestione ambientale del maggio 2017 (da cui emergerebbe che, a livello di prescrizioni operative, il ciclo produttivo a bordo non prevede l’impiego di liquidi né la canalizzazione o il collettamento dei suddetti in maniera stabile od occasionale in un corpo ricettore e nelle acque superficiali); b) l’istruzione operativa di gestione rifiuti del 17.07.2017 (da cui emergerebbe che per la produzione di rifiuti in relazione alle lavorazioni svolte a bordo delle unità navali poste all’interno dei bacini di carenaggio, in muratura e/o galleggiante, la procedura di pulizia della platea sia eseguita sempre prima dell’allagamento dello stesso, almeno sin dall’insediamento dell’indagato Manna; sotto tale profilo, si osserva, se ad ultimazione dei lavori e prima di allagare il bacino vengono assicurate l’evaporazione dell’acqua dolce utilizzata e le attività di pulizia della platea del bacino, vi sarebbe dunque la certezza che nessun residuo di lavorazione può considerarsi immesso nelle acque superficiali sicchè sarebbe da escludersi il fumus del reato in questione o il pericolo che ciò possa avvenire in futuro; analogamente l’istruzione operativa per la gestione dei rifiuti del bacino galleggiante assicurerebbe le cautele necessarie a prevenire il pericolo di immissione nelle acque di superficie dei residui di lavorazione, che, nel caso concreto, vista la particolare conformazione della platea che presenta grigliati a contatto con il mare, prevedono l’utilizzo di teli di contenimento); c) il protocollo operativo gestione ambiente rifiuti facente parte del documento di qualità allegato alle singole commesse (da cui emergerebbe che le ditte esterne all’unità operativa dell’Arsenale operanti all’interno del cantiere, sono tenute a rispettare un preciso protocollo operativo, in merito alla modalità di gestione e di smaltimento dei rifiuti provenienti dalle lavorazioni da loro effettuate; sistema di gestione che avrebbe ricevuto anche la certificazione dell’autorità di controllo Rina sulla correttezza della gestione ambientale).
In definitiva, si sostiene che il tribunale del riesame avrebbe ignorato tali prove documentali, mettendo in dubbio che la procedura prevista fosse in concreto attuata, affermando che la p.g. avrebbe constatato la presenza di fanghi all’interno del bacino unitamente alla circostanza che alla data dell’11.05.2017 i registri di carico e scarico ed i formulari non fossero aggiornati e che, in tal occasione, nelle officine vi fossero rifiuti liquidi di lavorazione, in attesa di smaltimento, ciò che dimostrerebbe per i giudici del riesame che in concreto quanto previsto non fosse eseguito. Quanto affermato dai giudici del riesame sarebbe illogico e intrinsecamente contraddittorio perché il sistema di confinamento era idoneo ad impedire che gli esiti delle lavorazioni venissero convogliati nelle acque superficiali, nonché ancora contraddetto dalla relazione Urzì, responsabile addetto alla funzione sicurezza qualità ambiente, nonché dai documenti allegati al ricorso e supra descritti, da cui si evince che sarebbe stato concretamente eseguito lo smaltimento del materiale raccolto, durante la pulizia della platea dei bacini dell’Arsenale, galleggiante e di muratura, e dunque se risulta documentato lo smaltimento, conseguentemente dovrebbe ritenersi effettuata la raccolta del predetto materiale.
2.8. Deducono, con l’ottavo motivo, vizio di contraddittorietà della motivazione del decreto di sequestro e dell’ordinanza del tribunale del riesame e vizi derivati dalla distorta rappresentazione della Capitaneria di porto di Messina nelle relazioni ed annotazione di servizio.
In sintesi, ritiene la difesa dei ricorrenti che il GIP avrebbe erroneamente ritenuto nel caso in esame sussistente il fumus del reato di cui all’art. 137, TUA, desumendolo da quanto rappresentato nella relazione della Capitaneria di porto di Messina e dall’esito parziale delle analisi condotte sino a marzo 2018. Il decreto avrebbe motivato per relationem a tali atti, riportando passi della relazione ispettiva della Capitaneria di porto, e risulterebbe viziato in ragione delle evidenti inesattezze e rappresentazioni erronee operate dalla Capitaneria. In particolare, nel contestare il contenuto di quanto riportato sul punto, sostiene la difesa che doveva ragionevolmente escludersi che le acque di processo costituite da acqua dolce e non salata finissero nel corpo ricettore e, conseguentemente, andava escluso il fumus in ordine la fatto che le acque prelevate e rinvenute all’interno del bacino indicassero la presenza di uno scarico di acque reflue derivate dal processo lavorativo, poiché, da un lato, le lavorazioni si svolgono esclusivamente mediante l’impiego di acqua dolce e, dall’altro, l’acqua salata rinvenuta era il frutto delle modeste infiltrazioni delle murate del bacino e della barca porta ma non acqua di processo convogliata a mare. Ambedue queste pozzanghere d’acqua, nella ricostruzione operata dalla difesa, non defluivano verso un corpo recettore, ma erano stagnanti. La Capitaneria di porto non avrebbe quindi svolto alcun accertamento di natura tecnica sulla conformazione e sul funzionamento del bacino e sul punto l’annotazione 12.06.2017 sarebbe disancorata dalla realtà, al punto tale da riportare elementi di fantasia oltre errori ed imprecisioni fondamentali. A titolo esemplificativo, nel ricorso si descrive la procedura di pulizia della carena delle navi e l’errore di rappresentazione operato dalla Capitaneria di porto (v. pagg. 14/15 del ricorso) laddove si riferisce erroneamente che le lavorazioni alle carene prevedono l’utilizzo di solventi, circostanza che sarebbe stata “inventata”, in quanto in realtà nella fase di pulizia non sarebbero mai utilizzati solventi ma solo un getto di aria ed acqua ad alta pressione che avrebbe la funzione di eliminare la vegetazione che si forma sulla carena durante la permanenza in mare. Nel ricorso, poi, vengono individuate ulteriori contraddizioni ed illogicità del decreto rispetto alla relazione della Capitaneria, ad esempio laddove si parla di allaccio alla pubblica fognatura, in quanto la stessa risulterebbe inesistente. Dunque, a causa dei fatti “falsi” riportati al Pm in tale annotazione, il decreto risulterebbe affetto da illogicità, non avendo peraltro svolto alcun accertamento l’organo di p.g. che consenta di arguire che fanghi o liquami vengono immessi in pubblica fognatura o comunque sottoposti ad un processo di depurazione prima dell’immissione in fognatura o comunque vengono raccolti in canalette di scolo. Sarebbe poi falsa la circostanza della depurazione dei liquami prodotti nel bacino prima dell’immissione in fognatura, oltre ad essere in contrasto intrinseco con altra circostanza riportata nel decreto di sequestro, ossia che eliminati i fanghi, la platea deve essere risciacquata per eliminare le polveri rimaste prima di essere invasa dall’acqua di mare. Ulteriore profilo di contraddittorietà estrinseca e di illegittimità del decreto e dell’ordinanza, sarebbe rappresentato dall’aver richiamato al fine di descrivere il collettamento in fognatura, un disegno con frecce e didascalie, il tutto tacciato come frutto di invenzione, non esistendo alcuna condotta fognaria collegata con il bacino in muratura o che comunque collega le acque di processo o le acque di mare e la pubblica fognatura. Non sussisterebbe dunque alcun collettamento, diretto o indiretto, tra il bacino e la pubblica fognatura, né alcun collegamento tra la platea del bacino ed il mare, e per appurarlo sarebbe stato sufficiente eseguire un sopralluogo con tecnici della Marina Militare, essendo del resto desumibile dalle stesse dichiarazioni rese dai presenti al momento del sopralluogo del 2017. Da queste ultime emergeva che il processo lavorativo escludeva in maniera oggettiva e documentata la sussistenza di uno scarico di acque reflue industriali nonché l’immissione in acque superficiali delle acque di lavorazione. Analogamente, le censure si appuntano poi sulla questione dell’immissione delle acque di lavaggio in fognatura, osservandosi, nelle pagg. 17/18 del ricorso, che sarebbe destituito di fondamento quanto confusamente riportato dalla Capitaneria di porto circa il fatto che i reflui del processo lavorativo della pulizia della carena, i fanghi e/o i liquami, verrebbero in qualunque modo scaricati o comunque immessi in acque o in fognatura. Sarebbe, in particolare, destituita di fondamento la circostanza per cui, secondo lo schema del processo lavorativo ordinario, organizzato dalla struttura militare, le suddette acque di processo, vengono immesse in acque superficiali. Ancora, censure vengono svolte all’ordinanza laddove richiamando gli accertamenti Arpa sul campione di materiale ferroso e/o scarto di lavorazione prelevato dal fondo del bacino in muratura, evidenziavano concentrazione di metalli tali per cui, ove trattati come rifiuti, gli stessi avrebbero dovuto essere trattati come rifiuti pericolosi. La circostanza, secondo l’ordinanza, risulta documentalmente provata dalla relazione del funzionario alla sicurezza, qualità ed ambiente Ing. Urzì nonché dall’esame congiunto dei formulari riportanti i codice CER 12016* e 150202* con l’all. 2 che certifica la caratterizzazione chimica dei rifiuti effettuata annualmente. La stessa ordinanza ammetterebbe che la procedura prevista fosse tecnicamente idonea ma ritiene che non fosse stata attuata, asserzione che sarebbe smentita però dal fatto che a sovraintendere le operazioni circa il corretto trattamento dei rifiuti vi è un ufficiale di commessa pe rogni nave che entra nel bacino di carenaggio che attesta quanto realizzata. Ulteriore profilo di censura investe l’ordinanza impugnata non essendosi posta il problema della corretta individuazione circa la provenienza di acque, fanghi e sedimenti prelevati in data 17.07.2017 e l’aggiornamento del 24.03.2018. Dopo aver descritto le operazioni che vengono eseguite all’interno del bacino di carenaggio per la pulizia della nave, sostiene la difesa dei ricorrenti che le procedure di accesso e fuoriuscita della nave dal bacino consentirebbero di ritenere “altamente probabile” (pag. 19 del ricorso) che le acque ed i sedimenti prelevati il 17.07.2017 con il bacino vuoto e senza alcun processo lavorativo in corso provenissero in realtà dall’esterno per effetto del trascinamento delle correnti, del flusso di acqua e sedimenti generato dall’apertura della barca porta e delle manovre di uscita dell’unità navale, che a sua volta, con l’azione delle eliche, genera pur sempre una rimescita dei materiali del fondo marino che finiscono depositati all’interno della platea, una volta svuotato nuovamente il bacino dall’acqua di mare. Peraltro, i prelievi delle colonne di acqua eseguiti a distanza di 20 gg. dall’uscita della nave consentirebbero di ritenere che i risultati delle analisi non siano minimamente riconducibili al processo lavorativo svolto nell’arsenale e che tali risultati non siano comparabili con quelli successivi. Altra doglianza riguarda poi il tema dei campionamenti delle acque all’interno del bacino in muratura, effettuati in data 17.07.2017, le cui risultanze avrebbero dato esito positivo solo per la presenza di rame oltre i limiti di legge, superamento cui non potrebbe essere attribuita alcuna rilevanza giuridica in quanto l’art. 137, TUA e la tab. 3 allegato 5, Parte III, del TUA si riferiscono solo a scarichi di acque superficiali mentre i valori riscontrati sarebbero stati rinvenuti in acque giacenti, stagnanti, dentro l’area di lavorazione, dunque non si trattava di acque scaricate in mare né in alcun modo stabilmente collegate con il mare, peraltro rilevandosi che si trattava di acqua salata, dunque necessariamente proveniente dall’esterno, come confermato dall’esame granulometrico. Dovendosi pertanto ritenere che, in mancanza di elementi contrari, sia stata eseguita la pulizia della platea prima della fuoriuscita della nave e dell’allagamento del bacino, apparirebbe evidente come le tracce di rame rinvenute nell’acqua salata all’interno del bacino vuoto non potrebbero appartenere al processo lavorativo eseguito nell’arsenale sull’ultima commessa, ma proverrebbero certamente dall’esterno a causa dell’allagamento, delle correnti marine e di quelle correnti generate dalle manovre di fuoriuscita della nave prima della richiusura della barca porta. Ciò sarebbe confermato dalle risultanze documentali, essendo emerso che i lavori che avevano interessato la nave MESSINA erano stati eseguiti dal 21.06 al 3.07.2017 e che, quindi, rispetto alla data del sopralluogo (17.07.2017) erano trascorse due settimane. Dunque, la riferibilità delle risultanze degli accertamenti della p.g. alla lavorazione in questione sarebbe il frutto di congetture della Capitaneria di porto, non essendo stato svolto alcun accertamento di natura tecnica, come del resto rilevabile dalla stessa documentazione fotografica scattata in occasione del sopralluogo in cui si vede come i residui di lavorazione si trovassero su una carriola, a dimostrazione che dopo l’uscita della nave si era proceduto alla pulizia del bacino, procedendosi poi a raccogliere il materiale generato dall’uscita della nave in big-bags e smaltito direttamente, come risulterebbe dai formulari e registri e dalla documentazione allegata dall’Ing. Urzì. Peraltro, quanto ai risultati dei prelievi delle colonne d’acqua nei punti antistanti il bacino di carenaggio documentati nella relazione Arpa del 5.09.2017, si contesta l’affermazione che i parametri di piombo e rame fossero “significativi”, atteso che solo il superamento dei limiti tabellari ha rilevanza giuridica, laddove quelli rilevati, in realtà, come emergerebbe dalla relazione del dott. Aricò, rientrerebbero nei limiti di legge, smentendo quanto affermato. Ne discenderebbe, dunque, che tutti i campioni di acqua prelevati in data 17.07.2017 non potrebbero aver causato inquinamento o modificato la catena alimentare umana e, comunque, le condizioni di prelievo sarebbero tali da escludere il fumus che i metalli di rame, piombo e zinco ivi presenti, provenissero da un processo lavorativo generato nell’arsenale. Inoltre, quanto ai campioni di acqua di mare prelevati in data 21.03.2018, finalizzati alla ricerca di idrocarburi e metalli pesanti avrebbero dato esito favorevole agli indagati, atteso che mentre non era stata riscontrata la presenza di tracce dei primi, quanto ai secondi la loro presenza era in quantità assolutamente inferiore ai limiti di legge. Altro profilo, ancora, che smentirebbe la tesi accusatoria, discende dalla comparazione delle risultanze analitiche dei campioni di fanghi e sedimenti eseguiti tra il luglio 2107 ed il luglio 2018, posto che non solo la presenza dei metalli oggetto di ricerca è decrescente, ma anche che la presenza dell’arsenico nei campioni di sedimento analizzati il 17.07.2017, dimostrerebbe in maniera inequivocabile che, trattandosi di composto normalmente utilizzato in agricoltura, lo stesso non apparteneva la processo lavorativo dell’arsenale, donde le tracce di acqua e sedimenti rinvenute in tale data non apparterrebbero al ciclo di produzione dell’arsenale militare. Quanto sopra, quindi, escludere non solo il reato di cui all’art. 137 TUA, ma anche quello di inquinamento ambientale, dimostrando invece che le pratiche e le condotte cautelative adottate dal Manna avrebbero contribuito ad un miglioramento delle condizioni ambientali. Ultimo profilo di doglianza, infine, investe le metodiche di prelievo e campionamento dei sedimenti, in quanto non eseguite con mezzi idonei e con metodologia errata, in particolare perché il prelievo istantaneo ed il campionamento della colonna d’acqua in mare non sarebbe di alcun ausilio, posto che le acque marine soprattutto nello stretto di Messina sono soggette alle correnti le cui intensità coincidono con le fasi lunari, arrivando in alcuni giorni a raggiungere picchi di almeno 6 km/h in assenza di venti. Sarebbe quindi irrilevante un prelievo singolo della colonna d’acqua a distanza di 8 e 4 mesi, oltre a considerare l’alterazione della temperatura, dovendosi richiamare quanto disposto dal D.M. 471/1999, all. 2 che individua il numero minimo di sondaggi da effettuare in funzione della superficie del sito da investigare. In definitiva, tenuto conto delle osservazioni che precedono, nonché del fatto che nel giro di poche centinaia di metri vi sono due impianti industriali, oltre ad una serie di installazioni, apparirebbe evidente come il fumus non sia ravvisabile, né tantomeno il periculum in mora, derivante dalla libera disponibilità del bacino.
2.9. Deducono, con il nono motivo, violazione di legge in relazione all’art. 133, d. lgs. n. 152 del 2006 e correlato vizio di omessa motivazione, con richiesta di annullamento del decreto di sequestro perché il fatto non costituisce reato.
Si sostiene che, nel caso di specie, ricorrerebbe l’ipotesi meno grave di cui all’art. 133 TUA e non quella di cui all’art. 137, TUA. In sostanza, si sarebbe trattato di immersione in mare dei materiali indicati dall’art. 109 TUA, trattandosi di acqua salmastra, come evidenziato dalle analisi sulla composizione dell’acqua. Tutti gli accertamenti sulla granulometria delle acque interne al bacino in muratura, svolte da Arpa Ragusa, avrebbero dimostrato che si trattava di acqua salata proveniente non già dal processo lavorativo svolto in Arsenale che prevedrebbe l’uso esclusivo di acqua dolce, ma dall’infiltrazione dalle murate del bacino e dalla barca porta.
2.10. Deducono, con il decimo motivo, violazione di legge in relazione all’art. 452-bis, cod. pen., e correlato vizio di contraddittorietà della motivazione del decreto di sequestro e dell’ordinanza impugnata, con richiesta di annullamento del decreto perché il fatto non costituisce reato.
Si sostiene che il reato di inquinamento ambientale sarebbe fondato su un quadro indiziario contraddittorio, atteso che, sotto un profilo logico, se in linea di ipotesi il rame è un inquinante di tipo conservativo, permanendo per molto tempo nell’ambiente, non sarebbe risolutivo l’affermazione del GIP secondo cui la contaminazione non appare circoscritta all’area portuale in quanto con le correnti possono essere contaminate anche le aree marine limitrofe aventi destinazioni diverse da quella portuale, ad esempio balneare. In sostanza, si afferma, sarebbe vero anche il contrario, ossia che un residuo di metalli o di altro contaminante proveniente da altra località possa essere trasportato nel bacino di carenaggio a seguito del suo allagamento. Non sarebbe poi supportata da alcun accertamento svolto nelle acque dei fondali che si estendono oltre le aree portuali l’affermazione secondo cui la contaminazione avrebbe interessato dette acque, atteso che il nucleo sommozzatori avrebbe eseguito i controlli solo nei punti prossimi ai bacini di carenaggio astenendosi dal procedere nei punti più a largo e soprattutto nei punti a confine con altri cantieri o installazioni militari a dx e a sx del bacino, nonostante le indicazioni verbalmente fornite all’inizio delle operazioni e poi disattese, né alcun accertamento su acque o sedimenti sarebbe stato condotto in ambito portuale più esteso o in altro luogo di balneazione. Si aggiunge, poi, che gli stessi prelievi del nucleo sommozzatori della Capitaneria e dell’Arpa nel 2017 e nel 2018 non sarebbero confrontabili tra loro, poiché detti prelievi non sarebbero avvenuti negli stessi punti del prelievo precedente, come sarebbe evincibile dal confronto dei verbali delle operazioni e dei rapporti di prova. L’Arpa poi avrebbe erroneamente attribuito un valore di significatività ai prelievi sulle colonne di acqua, ma sulla scorta delle complessive analisi condotte potrebbe affermarsi che non sarebbe possibile ritenere ragionevolmente sussistente il fumus di uno squilibrio funzionale e strutturale dell’ecosistema ambientale marino circostante. Sotto un profilo prognostico, si osserva, il deterioramento significativo e la compromissione dell’ambiente marino non possono ritenersi altamente probabili, in ragione del fatto che tutte le disposizioni a scopo preventivo e cautelativo disposta, non ultima la sostituzione della barca porta con una rinnovata e la previsione di utilizzo a partire dalla commessa in corso di esecuzione sulla nave VILLA di RFI di un sistema di pulizia della carena attraverso un dispositivo che provvede all’aspirazione diretta del getto d’aria ed acqua unitamente al residuo della lavorazione, escluderebbero il periculum di aggravio delle condizioni esistenti.
2.11. Deducono, con l’undicesimo motivo, violazione di legge in relazione agli artt. 272, comma 5, 279, TUA e degli artt. 233 e 361, d. lgs. n. 66/2010, con richiesta di annullamento del decreto di sequestro per insussistenza del reato di emissioni in atmosfera o perché il fatto non costituisce reato.
Si sostiene, in sintesi, che le attività di manutenzione, riparazione e modifica delle unità navali è regolata dalla normativa speciale di cui al d. lgs. n. 66/2010, in deroga alle norme del TUA, che troverebbe applicazione indipendentemente dal proprietario pubblico o privato, civili o militare, dell’unità navale oggetto die lavori, trattandosi di normativa speciale che si rivolge alla struttura militare nel suo complesso ed in particolare agli stabilimenti destinati alla difesa nazionale. Poiché, in base al combinato disposto degli artt. 272, comma 5, TUA e 233/361, d. lgs. n. 66/2010, l’arsenale militare non è soggetto al titolo I, parte V, TUA, non sarebbe configurabile il reato di emissioni in atmosfera senza autorizzazione previsto dal TUA, atteso che il combinato disposto di tali norme esclude la necessità di dotarsi di autorizzazioni, nel presupposto che il regime di prescrizioni che normalmente accompagna le autorizzazioni viene garantito dagli ordini e prescrizioni imposte in ambito militare, non operando alcun distinguo in ordine al destinatario finale dell’attività svolta dall’impianto o alla natura pubblica o privata, militare o civile, del proprietario del bene oggetto di prestazione d’opera. A sostegno di quanto sopra, rileva che la stessa città metropolitana di Messina, direzione ambiente, ossia l’ente amministrativo tenuto al rilascio dell’autorizzazione ritenuta necessaria dal GIP, ha ribadito con nota 13.06.2018 che l’arsenale militare di Messina non sia in alcun modo soggetto al rilascio della suddetta autorizzazione integrata ambientale per le emissioni in atmosfera.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è infondato.
4. Seguendo l’ordine suggerito dalla struttura dell’impugnazione proposta, devono essere anzitutto esaminati i primi sei motivi, con cui vengono svolte censure di natura processuale che, proprio perché tali, consentono a questa Corte di esercitare le funzioni di giudice del fatto. E’ infatti pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che in tema di impugnazioni, allorché sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, un "error in procedendo" ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c)- cod. proc. pen., la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può accedere all'esame diretto degli atti processuali, che resta, invece, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e)- del citato articolo, quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione (per tutte: Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001 - dep. 28/11/2001, Policastro e altri, Rv. 220092).
5. Tanto premesso, il primo è manifestamente infondato.
Ed invero, le Sezioni Unite di questa Corte hanno già chiarito che nel procedimento di riesame avverso i provvedimenti di sequestro, il rinvio dell'art. 324, comma settimo, cod. proc. pen., alle disposizioni contenute nell'art. 309, comma decimo, cod. proc. pen., deve intendersi tuttora riferito alla formulazione originaria del predetto articolo; ne deriva che sono inapplicabili le disposizioni - introdotte nel predetto comma decimo dalla legge 8 aprile 2015, n. 47 - relative al termine perentorio per il deposito della decisione ed al divieto di rinnovare la misura divenuta inefficace (Sez. U, n. 18954 del 31/03/2016 - dep. 06/05/2016, Capasso, Rv. 266790; in senso conforme, Sez. 3, n. 52157 del 27/06/2018 - dep. 20/11/2018, Reniero, che ha altresì ritenuto manifestamente infondata in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 324 comma 7 e 309, comma 10, cod. proc. pen. laddove per l'ordinanza del tribunale del riesame di misure cautelari reali non prevede un termine per il deposito oltre il quale l'ordinanza perde efficacia, e non si ritiene applicabile il termine di trenta giorni, previsto invece in caso di riesame delle misure cautelari personali).
6. Il secondo motivo è inammissibile perché generico e manifestamente infondato.
6.1. E’ anzitutto affetto da genericità per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella ordinanza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi le identiche doglianze difensive svolte nel motivo di riesame (che, vengono, per così dire “replicate” in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elementi di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
6.2. Lo stesso è inoltre da ritenersi manifestamente infondato, atteso che il tribunale del riesame ha spiegato le ragioni per le quali ha disatteso le identiche doglianze difensive esposte nell’istanza. A pag. 2 dell’ordinanza, in particolare, il tribunale del riesame rileva come l’annotazione di p.g. del 12.06.2017 dà conto espressamente di un “sopralluogo” effettuato dagli operanti a seguito di delega di indagini, successivo all’arrivo di un esposto anonimo. La circostanza che nel corpo dell’annotazione la p.g. verbalizzi di aver proceduto ad una ispezione visiva delle officine in alcun modo vale a qualificare per i giudici del riesame detta attività delegata come formale atto ispettivo, previsto dall’art. 244, cod. proc. pen., essendo carente l’attività di p.g. in concreto posta in essere dei requisiti previsti dalla norma richiamata.
Trattasi di motivazione che non può essere censurata. Dall’esame del contenuto dell’atto in questione, allegato al ricorso, emerge chiaramente che lo stesso è stato qualificato dalla p.g. operante, su delega del PM a seguito della presentazione di un esposto anonimo di cui vengono riportati gli estremi nell’atto 12.06.2017, come “annotazione di polizia giudiziaria”. Deve premettersi a tal proposito, che detta annotazione segue una delega di indagini del PM conseguente ad iscrizione del predetto anonimo a mod. 46. Ora, come è noto, ai sensi dell’art. 333, comma 3, c.p.p. la denuncia anonima non è notizia di reato e la stessa deve essere iscritta a mod. 46 e il relativo fascicolo deve contenere solo tale scritto. La verifica della fondatezza della denuncia anonima finalizzata alla ricerca della notizia di reato può essere svolta dalla PG o dal PM mediante atti non invasivi. Anche se, in linea generale, può affermarsi che lo svolgimento di indagini tese alla verifica della fondatezza della denuncia anonima è rimesso all'iniziativa del PM e della PG, deve però rilevarsi che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto doverosa la verifica di un esposto anonimo (Sez. 5, n. 4329 del 28/10/2008 - dep. 30/01/2009, P.G. in proc. Chiocci e altro, Rv. 242944). In relazione ai poteri di indagine del PM, la giurisprudenza di questa Corte esclude l’utilizzabilità di strumenti invasivi quali perquisizioni, sequestri ed intercettazioni (v. ad es., Sez. 6, n. 36003 del 21/09/2006 - dep. 27/10/2006, Macrì, Rv. 235279), ma si è tuttavia chiarito che gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l'attività di iniziativa del P.M. e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi estremi utili per l'individuazione di una "notitia criminis" (Sez. 6, n. 34450 del 22/04/2016 - dep. 04/08/2016, Morico, Rv. 267680).
6.3. Orbene, alla luce di quanto sopra, dall’esame del contenuto della predetta “annotazione di p.g.”, emerge all’evidenza come la polizia giudiziaria delegata si sia limitata ad effettuare (a prescindere dalla terminologia impiegata di “ispezione visiva”, ciò che ha determinato le critiche difensive alla legittimità dell’atto) un sopralluogo presso lo stabilimento dell’arsenale militare marina di Messina, operando appunto la c.d. ispezione visiva sia delle officine che dei bacini di carenaggio, dando atto di quanto dichiarato dalle persone presenti (peraltro precisandosi da parte dei giudici del riesame, a pag. 3, che le dichiarazioni rese dal ricorrente Manna riportate dal p.g. nel corpo della medesima annotazione, e verbalizzate in assenza di garanzie difensive, fossero del tutto irrilevanti, non essendosene pertanto tenuto conto, visionando documentazione esibita ed acquisendo i fascicoli delle navi entrate nei due bacini, di cui viene fornita una dettagliata descrizione). Seguiva poi una spiegazione del sistema di funzionamento di un bacino di carenaggio e la descrizione di quanto notato nel corso del sopralluogo circa la presenza di rifiuti. L’atto proseguiva poi nel descrivere quanto osservato nel corso di un secondo sopralluogo successivamente eseguito, in cui si dava atto della spontanea consegna di ulteriore documentazione, da cui scaturiva la redazione di un PVC avendo accertato violazioni amministrative. L’atto, infine, risulta corredato da fotografie che ritraggono lo stato dei luoghi.
Appare quindi evidente come le attività svolte dalla p.g. nell’atto in questione, a prescindere dalla sua denominazione, da un punto di vista contenutistico non rientrino tra quelle vietate dalla legge in esecuzione di un atto di delega conseguente alla presentazione di un anonimo. Non si è infatti proceduto ad alcun atto “invasivo” rientrante tra i tipici mezzi di ricerca della prova, atteso che si procedeva a seguito della presentazione di un esposto anonimo, in una fase nella quale dunque erano in corso indagini tese alla verifica della fondatezza della denuncia anonima, attuate attraverso il conferimento di una delega alla polizia giudiziaria allo svolgimento di un sopralluogo risoltosi nella osservazione e descrizione dello stato dei luoghi, anche attraverso rilievi fotografici, che non può essere assimilato ad una ispezione dei luoghi ex art. 244, cod. proc. pen., atteso che oggetto dell'ispezione risulta principalmente essere l'accertamento delle "tracce" e degli "altri effetti materiali del reato", laddove, diversamente, nel caso in esame, la p.g. si è limitata esclusivamente ad un’attività di osservazione descrittiva dello stato dei luoghi.
Nè, peraltro, può ritenersi che sia sufficiente a qualificare come “invasivo” l’atto computo, la circostanza che siano stati acquisiti alcuni documenti spontaneamente esibiti dai soggetti presenti, atteso che, come già affermato da questa Corte si tratta di atto d'indagine atipico posto in essere nell'esercizio dei poteri alla stessa riconosciuti dagli artt. 55 e 348 cod. proc. pen. e per il cui compimento non è richiesta l'assistenza del difensore (Sez. 2, n. 4176 del 15/12/2010 - dep. 04/02/2011, Greco, Rv. 249206, relativamente ad un atto di acquisizione da parte della polizia giudiziaria di una scheda telefonica spontaneamente consegnata dall'imputato anche se effettuata in assenza del suo legale).
Ne discende, conclusivamente, la manifesta infondatezza del motivo proposto.
7. Anche il terzo motivo, al pari del precedente, è inammissibile.
7.1. Anzitutto è affetto da genericità per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella ordinanza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi le identiche doglianze difensive svolte nel motivo di riesame (che, vengono, per così dire “replicate” in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elementi di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. Ed invero, va ribadito che è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
7.2. Lo stesso è inoltre da ritenersi manifestamente infondato, atteso che il tribunale del riesame ha spiegato le ragioni per le quali ha disatteso le identiche doglianze difensive esposte nell’istanza. A pag. 3 dell’ordinanza, in particolare, quanto alla pretesa violazione dell’art. 360, cod. proc. pen., in relazione all’attività di campionamento delle acque marine e dei sedimenti e di successiva analisi da parte del personale Arpa, si evidenzia come l’attività tecnica di analisi dei campioni di in laboratorio non sia di per sé irripetibile non comportando la distruzione del campione stesso. Quanto, invece, al prelievo dei campioni sia in data 17.07.2017 che in data 21.03.2018, la relativa attività era stata qualificata dallo stesso PM come accertamento tecnico irripetibile e preceduto dagli avvisi di legge, presenti nel fascicolo, corredati dalle relative notifiche, individuandone anche la collocazione all’interno del medesimo alle pagg. 661 e ss. e 834 e ss. (salvo quanto si dirà oltre in relazione al sesto motivo).
7.3. Si tratta di motivazione che, pure nella sinteticità del suo apparato, soddisfa quanto normativamente richiesto, essendo peraltro del tutto corretta alla luce della documentazione in questione.
7.4. Anzitutto, premesso che nessuna inutilizzabilità dei risultati determina la scelta del PM di delegare gli accertamenti tecnici alla PG anche ad un c.t. (essendo stato affermato che in tema di indagini preliminari, la scelta del pubblico ministero di delegare un accertamento tecnico alla polizia giudiziaria, ex art. 370 cod. proc. pen., anziché procedere alla nomina di un consulente tecnico, ex artt. 359 o 360 cod. proc. pen., non determina l'inutilizzabilità dei risultati, purché siano comunque rispettate le garanzie previste a tutela dell'indagato: Sez. 1, n. 52872 del 12/10/2018 - dep. 23/11/2018, P, Rv. 275058), osserva il Collegio, quanto alla delega indagini ex art. 370, cod. proc. pen., conferita dai pubblici ministeri peloritani alla p.g. si legge come il relativo atto datato 6.07.2017 avesse un oggetto determinato e chiaro, ossia: 1) quello di verificare quali navi fossero oggetto di manutenzione all’interno dei cantieri dell’azienda a partire dall’inizio del 2016 sino all’attualità, precisando quale tipo di lavori fossero stati eseguiti, quali registri avrebbero dovuto essere tenuti; 2) precisare quali fossero la ditte esterne svolgenti attività all’interno dell’arsenale, specificando il tipo di attività svolta, la documentazione da tenere, il titolo in forza del quale svolgessero tale attività, acquisendo ogni documentazioni utile relativa; 3) eseguire insieme con ARPA dei prelievi di acque e/o fanghi nelle zone oggetto di interesse, individuate nel bacino di carenaggio e zone limitrofe, al fine di verificarne le caratteristiche, precisando in relazione a tali attività, che trattandosi di accertamenti tecnici irripetibili, gli stessi avrebbero dovuto essere compiuti nel rispetto delle regole di cui all’art. 360, cod. proc. pen., con rituale e tempestivo avviso alle parti, ossia gli indagati nominativamente indicati e i loro difensori, della data di inizio delle operazioni e della facoltà di farsi assistere da difensore di fiducia e di nominare c.t. di parte. Nello stesso corpo della delega di indagine, i pubblici ministeri specificavano altresì, che ove le indagini delegate fossero state in tutto o in parte subdelegate, nell’atto di subdelega si sarebbe dovuto precisare che gli esiti delle indagini avrebbero dovuto essere rimessi solo alla p.g. delegata, con il compito di riferire al PM con un’unica relazione conclusiva nel termine massimo di trenta giorni dalla ricezione dell’atto di delega.
7.5. Orbene, avuto riguardo alle censure svolte nel ricorso, osserva il Collegio come l’atto di delega conferito non presenti i vizi di legittimità rilevati, atteso che l’ufficio del PM correttamente ha proceduto a delegare alla p.g. gli atti indicati ai precedenti punti 1, 2 e 3, trattandosi di una delega che rispettava i requisiti indicati dall’art. 370, comma primo, cod. proc. pen., in particolare rientrando sicuramente le attività di cui ai punti 1 e 2 nelle “attività di indagine” cui si riferisce la norma processuale, e, altrettanto indubbiamente, rientrando gli atti indicati nel punto 3 tra gli “atti specificamente delegati”, tra cui la norma ricomprende anche atti particolarmente incisivi sulla posizione dell’indagato, quali gli interrogatori ed i confronti cui partecipi l’indagato in stato di libertà, con l’assistenza necessaria del difensore.
Con particolare riferimento agli atti indicati (ossia “eseguire insieme con ARPA dei prelievi di acque e/o fanghi nelle zone oggetto di interesse, individuate nel bacino di carenaggio e zone limitrofe, al fine di verificarne le caratteristiche”), è indubbio che tali atti ben potevano essere oggetto di delega cumulativa – senza cioè alcuna necessità di specifico conferimento di autonomo “incarico” come invece sostiene la difesa dei ricorrenti – in quanto ne veniva specificata la tipologia (prelievo), l’oggetto (acque e/o fanghi), il luogo di esecuzione (bacino di carenaggio e zone limitrofe) e la finalità (verificarne le caratteristiche), dovendosi a tal fine rilevare che, a salvaguardia delle garanzie difensive, lo stesso atto di delega raccomandava che tali operazioni venissero svolte nelle forme garantite ex art. 360, cod. proc. pen.
Né, peraltro, può eccepirsi – come invece parrebbe fare la difesa dei ricorrenti – la indelegabilità di tali operazioni a soggetti non operanti nella giurisdizione dell’ufficio del PM delegante, quale l’Arpa di Ragusa, atteso che l'art. 370, comma primo, cod. proc. pen., non pone limiti territoriali allo svolgimento delle indagini delegate (v., in tal senso: Sez. 1, n. 2902 del 18/06/1993 - dep. 24/07/1993, Turiano, Rv. 194622).
7.6. Quanto, poi, alle censure relative alla violazione delle garanzie difensive in relazione all’avviso degli accertamenti tecnici irripetibili ex art. 360, cod. proc. pen., la risposta è già stata fornita correttamente dall’ordinanza impugnata.
Ed invero, esaminando l’avviso di svolgimento degli accertamenti tecnici irripetibili sottoscritto dal 1° M.llo La Porta in data 13.07.2017, lo stesso, nel richiamare la delega di indagini sopra descritta, oltre a riportare i nominativi dei soggetti indagati e dei loro difensori ed i reati all’epoca ipotizzati (art. 137, TUA), avvisava i predetti che il 17.07 successivo dalle ore 9, presso lo stabilimento dell’arsenale Marina Militare di Messina e nelle aree limitrofe, sarebbero stati eseguiti “prelievi /campionamenti di acque, fanghi e sedimenti marini, al fine di verificarne le caratteristiche”. Ancora, quanto all’avviso di svolgimento degli accertamenti tecnici irripetibili sottoscritto dal 1° M.llo La Porta in data 9.03.2018, lo stesso, nel richiamare la delega di indagini sopra descritta, oltre a riportare i nominativi dei soggetti indagati e dei loro difensori ed i reati all’epoca ipotizzati (art. 137, TUA; art. 279, TUA), avvisava i predetti che in data 21.03.2018 a partire dalle ore 9,00 presso lo stabilimento dell’Arsenale Marina Militare di Messina e nelle aree limitrofe, sarebbero stati eseguiti dei “prelievi/campionamenti di acque, fanghi e sedimenti marini, al fine di verificarne le caratteristiche”. Infine, quanto all’avviso di svolgimento degli accertamenti tecnici irripetibili sottoscritto dal 1° M.llo La Porta in data 22.03.2018, lo stesso, nel richiamare la delega di indagini sopra descritta, oltre a riportare i nominativi dei soggetti indagati e dei loro difensori ed i reati all’epoca ipotizzati (art. 137, TUA), avvisava i predetti che presso il laboratorio della struttura territoriale di Messina sarebbero state eseguite “le analisi finalizzate alla determinazione della granulometria, dei metalli nei sedimenti, del parametro idrocarburi pesanti sui campioni di acque, di sedimenti dei campioni/prelievi di acque, fanghi e sedimenti marini, eseguiti in data 21.03.2018 presso lo stabilimento Arsenale Marina Militare di Messina”, precisando che il laboratorio avrebbe dato inizio alle attività analitiche alle ore 9,30 del 26.03.2018 presso i locali del medesimo laboratorio, specificandosi che “le analisi finalizzate alla determinazione dei parametri metalli nei campioni di acque sarebbero state eseguite con inizio in tempi congrui, da altro laboratorio Arpa Sicilia”, che avrebbe provveduto a determinate le modalità per informare le parti dell’avvio delle indagini analitiche.
Alla luce delle risultanze processuali, le doglianze difensive non hanno pregio, atteso che gli avvisi ex art. 360, cod. proc. pen. notificati alle parti ed ai difensori (salvo quanto si dirà infra a proposito del sesto motivo) specificavano le operazioni che avrebbero dovuto essere svolte nelle date indicate, donde risultano del tutto rispettate le garanzie difensive sottese a tali atti, non potendosi certo dolere i ricorrenti del fatto di non aver partecipato fattivamente mediante propri tecnici esperti, atteso che la tipologia dell’attività che avrebbe dovuto essere svolta, in quanto dettagliatamente indicata (v. supra) avrebbe certamente consentito alle parti avvisate di poter provvedere alla nomina di propri consulenti chiamati ad assistere alle operazioni oggetto degli accertamenti tecnici irripetibili oggetto di delega da parte del PM.
7.7. Del tutto priva di pregio, poi, è la doglianza relativa alla asserita violazione dell’art. 220, disp. att. cod. proc. pen., atteso che, non pur essendovi alcun dubbio che in tale fase si procedesse a carico di soggetti indagati, il tribunale del riesame ha dato atto che l’analisi dei campioni di materiale prelevato non comportando la distruzione del campione non può essere considerata irripetibile. Ora – a prescindere dal rilievo che tale ultima affermazione è espressione di un giudizio di fatto e che viene contrastata dalla difesa dei ricorrenti attraverso argomentazioni, v. pagg. 5/6 del ricorso, che imporrebbero a questa Corte di svolgere un giudizio di fatto, ossia accertare se l’analisi di “quei” campioni oggetto delle attività di prelievo “garantite” non potessero essere ripetute sui campioni in quanto, in base all’affermazione difensiva, detti campioni verrebbero distrutti dall’esecuzione delle operazioni di analisi, donde, trattandosi di una censura in fatto, la stessa non sarebbe valutabile da questa Corte perché non ritagliata sulla specificità dei materiali oggetto delle attività di analisi – le doglianze difensive potrebbero comunque essere limitate alle attività analitiche conseguenti alle operazioni eseguite in data 17.07.2017, atteso che, invece, per quanto concerne le analisi eseguite nell’anno successivo, è lo stesso atto 22.03.2018 ad indicare data e luogo di svolgimento delle analisi, demandando invece ad altro laboratorio di Arpa Sicilia “le analisi finalizzate alla determinazione dei parametri metalli nei campioni di acque”. Ma, come dianzi evidenziato, nel caso di specie, non emergono elementi (che solo un’indagine tecnica, di naturale peritale potrebbe consentire di affermare, indagine tuttavia incompatibile con il giudizio di sola legittimità di questa Corte) da cui possa ritenersi con assoluta certezza che l’analisi dei campioni delle acque e dei materiali oggetto delle operazioni di prelievo/campionamento “garantite” determinasse la distruzione dei predetti campioni, donde, allo stato, deve ritenersi non efficacemente contrastata l’affermazione contenuta nell’ordinanza impugnata secondo cui l’analisi dei campioni delle acque marine e dei sedimenti eseguita successivamente al 17.07.2017 non costituisse accertamento tecnico irripetibile, non essendovi elementi per poter escludere che detti campioni conservino nel tempo le intrinseche caratteristiche, potendo ove necessario, essere sottoposti a nuovo esame.
7.8. Quanto, infine, al presunto contrasto esistente tra l’affermazione contenuta nell’ordinanza e i verbali e rapporti di prova successivi al prelievo del 17.07.2017, secondo cui i prelievi e campionamenti eseguiti nel 2018 non sarebbero stati eseguiti negli stessi punti e alle stesse profondità di quelli svolti nel luglio 2017, cui si aggiunge la doglianza di mancata esecuzione delle predette attività di campionamento/prelievo nei punti più esterni al bacino, si tratta di censura con cui si deduce, in sostanza, il vizio di travisamento probatorio per asserita contraddittorietà esterna, vizio come è noto non deducibile in questa sede di legittimità, essendo circoscritto il giudizio di cui all’art. 325, cod. proc. pen. alla sola violazione di legge, tra cui non rientra il vizio di motivazione sotto il profilo del travisamento probatorio. Questa Corte ha già più volte affermato che in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di "violazione di legge" per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell'art. 325, comma primo, cod. proc. pen., rientrano la totale mancanza di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise norme processuali, ma non l'illogicità o la incompletezza di motivazione le quali non possono denunciarsi nel giudizio di legittimità nemmeno tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell'art. 606 stesso codice, posto che questo richiede la "mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità" della motivazione (tra le tante: Sez. 5, n. 8434 del 11/01/2007 - dep. 28/02/2007, Ladiana ed altro, Rv. 236255). Ed, essendo il vizio di travisamento della prova nella forma della cosiddetta contraddittorietà processuale, denunciabile con il ricorso per cassazione, solo a norma dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. (v. ad esempio: Sez. 6, n. 8342 del 18/11/2010 - dep. 02/03/2011, P.G. in proc. Greco, Rv. 249583), lo stesso non può essere sindacato da questa Corte ex art. 325, cod. proc. pen.
8. Il quarto motivo è parimenti inammissibile.
Sul punto, osserva il Collegio, risulta che l’atto di delega ex art. 370, cod. proc. pen. conteneva l’indicazione alla p.g. delegata di informare le parti della facoltà di farsi assistere da difensori e della facoltà di nominare propri consulenti, mentre in alcuno degli avvisi ex art. 360, cod. proc. pen. è presente l’indicazione alle parti della facoltà di nominare propri consulenti.
Tuttavia, si tratta di nullità di ordine generale a regime intermedio (Sez. 3, n. 46715 del 11/10/2012 - dep. 03/12/2012, Fichera, Rv. 253992), che non rientrando tra le ipotesi di cui all’art. 609, comma secondo, cod. proc. pen. (ossia questione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, qual è ad esempio una nullità assoluta o una questione di inutilizzabilità), avrebbe dovuto essere eccepita davanti al giudice del riesame non per la prima volta in sede di legittimità.
Ed è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che in tema di misure cautelari, non è possibile prospettare in sede di legittimità motivi di censura non sollevati innanzi al tribunale del riesame, ove essi non siano rilevabili d'ufficio (da ultimo: Sez. 2, n. 11027 del 20/01/2016 - dep. 16/03/2016, Iuliucci, Rv. 266226).
9. Anche il quinto motivo è inammissibile.
Ed invero, non è configurabile alcuna nullità nel caso in cui, dopo l'avviso ritualmente notificato alle parti relativamente a giorno, ora e luogo fissati per l'inizio delle attività di accertamento tecnico irripetibile, venga omessa una ulteriore comunicazione formale alle parti circa il giorno e l'ora di prosecuzione delle operazioni, gravando sui difensori l'onere di procurarsi le necessarie informazioni o personalmente o attraverso la presenza di un proprio consulente di parte.
10. Quanto al sesto motivo, la censura è parzialmente fondata ma dall’accoglimento della stessa non ne discende l’annullamento del provvedimento impugnato.
Ed invero, alla luce della doglianza difensiva, questa Corte, chiamata a risolvere una questione di violazione della legge processuale, avendo il potere-dovere di accedere agli atti in quanto giudice del “fatto processuale” oggetto di censura (Sez. U, n. 42792 del 28/11/2001, Policastro e altri, cit.), nel riscontrare la mancanza della notifica al difensore Avv. G. Currò dell’avviso di accertamenti tecnici irripetibili datato 9.03.2018, ha disposto a mezzo cancelleria di verificare presso la Capitaneria di Porto di Messina se agli atti di tale organo di p.g., delegata all’espletamento delle attività, risultasse anche la notifica al predetto difensore dell’atto datato 9.03.2018. L’organo di p.g., con nota pervenuta a mezzo PEC in data 25.05.2018, ha riferito che effettivamente nessuna notifica dell’avviso di accertamenti tecnici irripetibili datato 9.03.2018 fosse stata eseguita al difensore Avv. G. Currò, aggiungendo che “su disposizioni dell’Autorità Giudiziaria di Messina, si procedette ad emettere un nuovo avviso datato 10.07.2018 per ulteriori prelievi effettivamente eseguiti in data 13.07.2018”, precisando come tale ultimo avviso venne notificato agli interessati, compreso il predetto difensore, in data 10.07.2018, curando di allegare a tale comunicazione copia del predetto avviso 10.07.2018 e delle relate di notifica PEC ai difensori.
10.1. Alla luce di quanto sopra, pertanto, versandosi in un’ipotesi di nullità generale a regime intermedio tempestivamente eccepita (come da costante giurisprudenza, essendo già stato affermato che l'omissione dell'avviso all'indagato, alla persona offesa e ai difensori di accertamenti irripetibili integra un'ipotesi di nullità di ordine generale a regime intermedio, che deve essere eccepita prima della deliberazione della sentenza di primo grado: Sez. 1, n. 28459 del 23/04/2013 - dep. 02/07/2013, Ramella, Rv. 256105), l’eccezione difensiva è sicuramente corretta, ma, come anticipato, ciò non determina quale conseguenza né l’annullamento dell’ordinanza né la caducazione del provvedimento genetico.
Il ricorrente si è infatti limitato ad eccepire la nullità dell’atto in questione per l’omesso avviso, senza tuttavia individuare né esplicitare quali conseguenze derivassero da tale violazione sul vincolo cautelare apposto a quanto sequestrato.
Il provvedimento di sequestro preventivo attinge, infatti, il bene (nella specie, l’Arsenale militare) al fine di evitare che i reati oggetto di accertamento siano portati a conseguenze ulteriori, a prescindere dalla certa individuazione delle responsabilità individuali di coloro che sono formalmente sottoposti ad indagine.
Pacifico infatti è nella giurisprudenza di questa Corte che in tema di sequestro preventivo, la verifica del cosiddetto "fumus" del reato non può estendersi fino a far coincidere l'esame con un vero e proprio giudizio di colpevolezza, dovendo restar fuori dall'indagine il complesso degli elementi di valutazione che concorrono ai fini dell'accertamento della responsabilità dell'indagato, ed essendo sufficiente la semplice enunciazione, che non sia manifestamente arbitraria, di un'ipotesi di reato, in relazione alla quale si appalesi, almeno allo stato, la necessità di escludere la libera disponibilità della cosa pertinente a quel reato, stante il pericolo che siffatta libera disponibilità possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato (Sez. 6, n. 25056 del 26/04/2004 - dep. 03/06/2004, Cottone ed altro, Rv. 229274; da ultimo, Sez. 1, n. 18491 del 30/01/2018 - dep. 27/04/2018, Armeli, Rv. 273069). Alla stregua di quanto sopra, pertanto, se la accertata nullità è destinata ad esplicare i suoi effetti nella sede di merito in relazione alla posizione soggettiva degli indagati il cui difensore non è stato avvisato (atteso che l’omesso avviso relativo alle operazioni campionamento del 21.03.2018, si riverbera sulla legittimità delle operazioni analitiche eseguite il 26.03.2018, donde rientrerà nel compito del giudice di merito operare la verifica se gli elementi acquisiti siano idonei a sorreggere il quadro indiziario a carico dei due indagati difesi dall’Avv. Currò, emendati da quelli attinti dalla declaratoria di nullità), diversamente tale nullità non ha effetto diretto né sul provvedimento genetico né sull’ordinanza impugnata, i quali, nella loro materialità giuridica, restano del tutto integri pur in presenza di una nullità che abbia interessato uno degli atti di indagine, tenuto conto, peraltro, della circostanza per la quale detti atti sono comunque tenuti ad esplicare integralmente i propri effetti anche nei confronti di altro soggetto, pure indagato, non proponente ricorso per cassazione, la cui posizione individuale non è accomunabile a quella degli attuali ricorrenti, ciò che pertanto esclude qualsiasi effetto caducatorio.
10.2. Nel resto, il motivo è infondato.
Ed infatti, quanto alla circostanza che l’avviso 9.03.2018 sia stato notificato a mani degli indagati, nonostante elettivamente domiciliati presso il difensore di fiducia, non è ravvisabile alcuna nullità atteso che la notificazione eseguita "a mani proprie" dell'imputato, pur in presenza di un'elezione di domicilio, è valida dovunque essa avvenga, in quanto costituisce la forma più sicura per portare l'atto a conoscenza del destinatario (Sez. 1, n. 9544 del 26/09/2017 - dep. 02/03/2018, Pezzoni, Rv. 272309).
Quanto, invece, alla censura di omesso avviso alle parti in ordine agli accertamenti tecnici irripetibili svolti presso altro laboratorio Arpa di Ragusa, trattasi di censura generica, non documentando la parte – né emergendo con chiarezza dagli atti valutabili e trasmessi all’esame di questa Corte – se e quali attività rientranti tra gli accertamenti tecnici irripetibili siano stati effettivamente eseguite presso l’Arpa di Ragusa.
11. Il settimo motivo è generico e manifestamente infondato.
11.1. E’ anzitutto affetto da genericità per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella ordinanza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi le identiche doglianze difensive svolte nel motivo di riesame (che, vengono, per così dire “replicate” in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elementi di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. Ed invero, come già ricordato in precedenza, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
11.2. Lo stesso è inoltre da ritenersi manifestamente infondato, atteso che il tribunale del riesame ha spiegato le ragioni per le quali ha disatteso le identiche doglianze difensive esposte nell’istanza. Alle pagg. 3/5 dell’ordinanza, infatti, i giudici danno puntualmente conto delle ragioni per cui hanno ritenuto configurabile il fumus, oltre del reato di cui all’art 137, TUA, anche delle ulteriori ipotesi di reato oggetto di imputazione cautelare, nonché delle ragioni della sussistenza del periculum in mora, peraltro confutando le argomentazioni difensive svolte in sede di riesame. In particolare, si legge nell’ordinanza impugnata che il fumus dei reati contestati secondo la delibazione sommaria propria della presente fase incidentale cautelare, era emerso dalle attività di indagine fino a quel momento svolte. In particolare, si dà atto nel provvedimento impugnato che, come rilevato dalla p.g. operante in sede di primo accesso all'interno del bacino in muratura sito nell'arsenale in data 11 maggio 2017, mentre erano in corso i lavori dì manutenzione dì un traghetto privato, all'interno della struttura erano presenti in grandi quantità "fanghi" provenienti dalla lavorazione effettuata sullo scafo (vv. immagini nn. 4, 5 e 6 di cui alla documentazione fotografica allegata all'annotazione di p.g.) e contemporaneamente una presenza ugualmente corposa di acqua di mare proveniente per pressione idrostatica dalle tenute della c.d. "barca porta".
La prospettazione accusatoria, secondo cui i predetti scatti delle lavorazioni sullo scafo, contenenti necessariamente agenti inquinanti, fossero destinati ad essere scaricati in mare, in assenza di un sistema di adeguato filtraggio, sia nella fase di inevitabile ingresso di acqua marina dalle tenute della barca porta nel corso della lavorazione sia al termine delle operazioni di manutenzione allorquando veniva allagato il bacino per rimettere il natante in galleggiamento, è stata ritenuta assolutamente fondata dai giudici del riesame. Ed invero, si legge nell’ordinanza, che tale contaminazione dell'acqua, continua e non occasionale, in considerazione delle modalità di gestione degli scarti della lavorazione, fosse in astratto riconducibile al concetto di "scarico industriale" non pare dubitabile per il Collegio cautelare, pur in assenza di una vera e propria tubatura di collegamento tra il rifiuto ed il corpo recettore. Sul punto, osserva il tribunale, la stessa giurisprudenza citata dalla difesa (Sez. 3, n. 24118 del 28/03/2017 - dep. 16/05/2017, Saligari, Rv. 270305, secondo cui in tema di inquinamento idrico, ai fini della integrazione del reato di cui agli artt. 124, comma primo, e 137, comma primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, costituisce scarico non autorizzato di acque reflue industriali qualsiasi immissione delle stesse in un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, dovendosi escludere dalla nozione di scarico contenuta nella lett. ff) dell'art. 74, comma primo, dello stesso decreto il solo rilascio di reflui che non comporti alcun contatto fisico tra il refluo e tale corpo ricettore) corrobora piuttosto che smentire tale convincimento, atteso che nella parte motiva del citato arresto si legge che per aversi "scarico" in senso giuridico occorre la necessaria fisica immissione del rifiuto nel corpo recettore che, nel caso di specie, è certamente sussistente.
11.3. I giudici del riesame hanno poi confutato l’argomentazione difensiva secondo cui la descrizione delle operazioni di manutenzione degli scafi all'interno del bacino sarebbe stata equivocata dalla p.g. che l'avrebbe descritta in maniera inesatta. Sul punto il tribunale del riesame rileva che la prospettazione difensiva è volta, da una parte, a sostenere che nessun tipo di rifiuto deriverebbe dal processo di manutenzione, essendo l'attività di pulizia dello scafo prima di procedere alla verniciatura condotta esclusivamente con acqua dolce a pressione, tramite apparecchiature c.d. "idropulitrici", senza l'impiego né di sabbia né di solventi, e non avendo la stessa la finalità di scrostare la precedente vernice, ma solo la vegetazione marina. I giudici ritengono non persuasiva tale tesi, essendo logico ritenere che le operazioni di "pulizia" di scafi con vernice sicuramente già scrostata (da che la necessità della manutenzione) producano scarti di lavorazione contenenti agenti inquinanti, componenti delle vernici stesse, inevitabilmente destinati, se non adeguatamente trattati, a contaminare l'ambiente marino.
11.4. Il tribunale del riesame passa poi ad esaminare la documentazione che, invece, secondo la difesa nei motivi del ricorso in questa sede di legittimità, i giudici del riesame avrebbero ignorato, ciò destituendo quindi di fondamento la censura di travisamento per omissione contestata (peraltro, come vedremo, non denunciabile in questa sede ex art. 325, cod. proc. pen.). Si legge, infatti, nell’ordinanza impugnata che la tesi difensiva secondo cui, sulla scorta della relazione di gestione ambientale e della istruzione operativa di gestione rifiuti relative all'anno 2017 che il ciclo manutentivo sarebbe eseguito esclusivamente "a secco", con produzione di rifiuti solidi, smaltiti come tali, non solo in parte smentisce la precedente, ma contrasta con le emergenze investigative. Ed invero, si legge nel provvedimento impugnato che, all'atto del sopralluogo, la presenza dei fanghi all'interno del bacino è stata appurata e fotografata dagli operanti.
La circostanza che gli stessi fossero smaltiti "a secco" quali rifiuti speciali e la contaminazione, sia dell'acqua in entrata dalla "barca porta", sia all'atto dell'allagamento del bacino, fosse esclusa dalla costante pulizia degli scarti nel corso delle attività di lavorazione non può dirsi comprovata. Sul punto i giudici del riesame, con argomentazione del tutto logica ed immune da vizi, ritengono infatti altamente dubitabile che tale procedura pur teoricamente prevista, fosse in concreto attuata, affermazione che non è frutto di valutazione congetturale ma basata su elementi documentali. Ed infatti, si legge nell’ordinanza, dall'annotazione di p.g. del 12 giugno 2017 emerge che al momento del primo sopralluogo dell'11 maggio 2017, i registri di carico e scarico dei rifiuti ed i relativi formulari fossero aggiornati solo alla data del 31 gennaio 2017, mentre all'atto del sopralluogo del 1° giugno 2017, gli operanti appuravano che il registro era stato aggiornato, ma solo fino al 28 marzo 2017, tanto che procedevano ad elevare una formale contestazione al riguardo. Inoltre, in occasione del primo sopralluogo venivano notati all'interno delle officine rifiuti liquidi di lavorazione, stoccati in attesa dì smaltimento. Infine, la relazione di gestione ambientale da cui discenderebbe l'adozione della richiamata procedura "a secco", benché datata maggio 2017, era consegnata agli operanti solo al momento del secondo sopralluogo dì giugno.
A ciò andava aggiunto, che: a) già in data 24 marzo 2017, come risulta dalla missiva e-mail acquisita al momento dell'accesso di p.g. (all. 7, p. 308 del fascicolo processuale) il ricorrente Manna aveva richiesto informazioni circa la possibilità di installare sistemi di filtraggio industriali, a riprova della circostanza che acque di scarto di lavorazione fossero prodotte all'interno dei bacini e che le stesse finissero in mare; b) ancora, si evidenzia come la stessa difesa aveva evidenziato come il Manna avesse innovato le precedenti procedure, installando un nuovo impianto filtrante nel bacino in muratura e prevedendo l'esclusivo utilizzo di macchine idropulitrici a recupero di acqua.
Quanto sopra corrobora il convincimento dei giudici del riesame che il precedente sistema non fosse efficiente dal punto di vista della tutela ambientale. Nel siffatto contesto, puntualizzano i giudici del riesame, che la contaminazione marina appurata dai tecnici dell'ARPA sui campioni prelevati fosse riconducibile alle attività dell'Arsenale non è dubitabile e prive di efficacia persuasiva si appalesano le doglianze difensive relative alla pluralità di potenziali soggetti che avrebbero potuto sversare in mare le medesime sostanze inquinanti. Ne discende, per il tribunale, che a fronte di una gestione dei rifiuti condotta con le modalità evidenziate fosse del tutto ragionevole ricondurre l'anomala concentrazione di inquinanti alle attività dell’Arsenale, tant’è che la stessa relazione ARPA deIl'11 maggio 2018 (pp. 864 e ss. del fascicolo) aveva evidenziato la coincidenza tra i metalli rinvenuti nelle acque di mare prossime ai bacini gestiti dall' Arsenale e le acque prelevate all'interno del bacino interno, evidenziando altresì come nella parte finale dei canali di raccolta acque fossero collocate panne assorbenti, del tutto inadeguate a supplire ad un adeguato sistema di filtraggio.
11.5. Orbene, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze della difesa dei ricorrenti appaiono del tutto prive di pregio, in quanto si risolvono non solo in censure puramente contestative ed in fatto, ma tradiscono in realtà il “dissenso” sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per una presunta violazione di legge e per un vizio motivazionale con cui, in realtà, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte.
La configurabilità del fumus del reato di cui all’art. 137, TUA è stata infatti oggetto di puntuale e dettagliata motivazione, dianzi illustrata, laddove invece le contestazioni difensive che si fondano su un’asserita illogicità e contraddittorietà esterna della motivazione rappresentano doglianze, come già esposto in precedenza, non deducibili in questa sede di legittimità, essendo circoscritto il giudizio di cui all’art. 325, cod. proc. pen. alla sola violazione di legge, tra cui non rientra il vizio di motivazione sotto il profilo del travisamento probatorio. Perdono, quindi di spessore argomentativo tutte le critiche rivolte alla motivazione dell’ordinanza impugnata, che, peraltro, non solo ha mostrato di tener conto della documentazione che secondo la difesa dei ricorrenti sarebbe stata invece ignorata, ma ha anche confutato puntualmente, con argomentazioni dettagliate e fondate su elementi probatori in atti, le censure difensive, dunque valutando gli elementi forniti dalla difesa, così assolvendo in maniera corretta alla funzione di garanzia attribuitagli dal vigente codice di rito.
12. L’ottavo motivo è inammissibile perché deduce vizi non denunciabili a norma dell’art. 325, cod. proc. pen.
Le doglianze della difesa dei ricorrenti appaiono invero del tutto prive di pregio, in quanto si risolvono non solo in censure puramente contestative ed in fatto, ma tradiscono in realtà il “dissenso” sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la ordinanza impugnata e tacciandola per una presunta violazione di legge e per un vizio motivazionale con cui, in realtà, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte.
La configurabilità del fumus del reato di cui all’art. 137, TUA è stata infatti oggetto di puntuale e dettagliata motivazione, dianzi illustrata, laddove invece le contestazioni difensive che si fondano su un’asserita illogicità e contraddittorietà esterna della motivazione (censurando ex se le attività investigative svolte, la metodologia di campionamenti e prelievi, la riferibilità “logica” delle risultanze alle attività di lavorazione svolte all’interno del bacino di carenaggio, tutte questioni che investono all’evidenza il merito del giudizio), le quali rappresentano doglianze, come già esposto in precedenza, non deducibili in questa sede di legittimità, essendo circoscritto il giudizio di cui all’art. 325, cod. proc. pen. alla sola violazione di legge, tra cui non rientra il vizio di motivazione sotto il profilo del travisamento probatorio (che, si osserva, nel caso di specie, non sarebbe nemmeno rilevabile, atteso che ad essere travisato non è il contenuto degli atti su cui i giudici del merito fondano il loro giudizio, quanto, piuttosto, la realtà dei fatti rappresentata dall’organo di p.g. delegato, che avrebbe riportato dati e descritto una situazione non rispondente al vero e comunque errata, ciò che si risolve nel c.d. vizio di travisamento del fatto). Perdono, quindi di spessore argomentativo tutte le critiche rivolte alla motivazione dell’ordinanza impugnata, che, peraltro, non solo ha mostrato di tener conto della documentazione che secondo la difesa dei ricorrenti sarebbe stata invece ignorata, ma ha anche confutato puntualmente, con argomentazioni dettagliate e fondate su elementi probatori in atti, le censure difensive, dunque valutando gli elementi forniti dalla difesa, così assolvendo in maniera corretta alla funzione di garanzia attribuitagli dal vigente codice di rito.
Deve, conclusivamente, ribadirsi che i limiti della cognizione della Corte di cassazione, anche in relazione ai provvedimenti riguardanti l'applicazione di misure cautelari, devono essere individuati nell'ambito della specifica previsione normativa contenuta nell'art. 325 cod. proc. pen. E’ esclusa, dunque, non solo la possibilità di rilevare vizi di motivazione che non rientrino tra quelli sussumibili nel vizio di violazione di legge, unico deducibile ex art. 325, cod. proc. pen. (vizi che non ricorrono nella fattispecie in esame), ma anche la possibilità di una verifica della rispondenza delle argomentazioni poste a fondamento della decisione impugnata alle acquisizioni processuali o di una "rilettura" degli elementi di fatto, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze delle indagini.
12.1. Quanto, poi, agli unici vizi ascrivibili, seppure con sforzo interpretativo, ad una violazione di legge, rileva il Collegio quanto segue.
12.2. Anzitutto, che non ha pregio la censura difensiva secondo cui la disciplina in materia di scarichi idrici non si applicherebbe alle acque “stagnanti”, atteso che la parte III^ del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 153, costituisce il corpo normativo organico in tema di tutela delle acque dall'inquinamento, avendo per oggetto, tra l'altro, la disciplina degli scarichi di qualsiasi tipo, pubblici e privati, in tutte le acque superficiali e sotterranee, interne e marine, sia pubbliche che private, nonché in fognature, sul suolo e nel sottosuolo. Le norme contenute in tale legge, quindi, si riferiscono anche a quelle particolari forme di scarico dei reflui di un insediamento che consistono nello stoccare i residui liquidi in ambienti chiusi (come ad esempio, è un bacino di carenaggio, in cui l’acqua ristagna al suo interno dopo l’allagamento ed al fine di effettuare le operazioni di pulizia), per poi conferirli a terzi autorizzati allo smaltimento. Ne discende, pertanto, la manifesta infondatezza di tale profilo di doglianza (v., peraltro, con riferimento alla configurabilità del reato anche in ipotesi di stoccaggio di rifiuti allo stato liquido in vasche a tenuta stagna: Sez. 3, n. 21045 del 06/04/2004 - dep. 05/05/2004, Pozzali, Rv. 229296).
12.3. Quanto, infine, all’ulteriore censura “in diritto”, costituita dalle metodiche di campionamento impiegate (campionamento istantaneo) che non avrebbero garantito la corretta rappresentatività dello scarico, è sufficiente, da un lato, rilevare come in tema di campionamento delle acque, ai fini della tutela dall'inquinamento, deve essere esclusa la nullità o l'inutilizzabilità del relativo verbale quando sia adottato un campionamento istantaneo invece di quello medio senza espressa menzione nel verbale delle ragioni della scelta (Sez. 3, n. 11431 del 14/10/1994 - dep. 17/11/1994, Brugnolo, Rv. 200514), ma soprattutto, dall’altro, che la asserita mancanza di rappresentatività di tale metodica sarebbe fondata su una mera deduzione dei ricorrenti data non solo dalla distanza cronologica dei prelievi eseguiti e dalla variabilità delle condizioni climatiche, ma soprattutto dal dato suggestivo e fattuale, rappresentato dalla circostanza che “le acque marine soprattutto nello stretto di Messina sono soggette alle correnti le cui intensità coincidono con le fasi lunari, arrivando in alcuni giorni a raggiungere picchi di almeno 6 km/h in assenza di venti”, elemento certamente non valutabile da questa Corte, attingendo la deduzione svolta una valutazione di merito.
Né, infine, ha pregio il richiamo all’allegato 2 del D.M. n. 471/1999, circa la metodologia da seguire per le attività di campionamento, atteso che tale allegato, che fissa le “Procedure di riferimento per il prelievo e l'analisi dei campioni”, nel descrivere i criteri generali, stabilisce espressamente che gli stessi “si applicano ad ogni fase di indagine, campionamento e analisi da svolgere per la caratterizzazione dei siti inquinati”, e dunque non sono applicabili al campionamento delle acque reflue, applicandosi per queste ultime le indicazioni sulle metodiche di prelievo e campionamento del refluo, contenute nell'allegato 5 alla Parte II^ del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152.
13. Il nono motivo è manifestamente infondato, atteso l’erroneo richiamo da parte della difesa dei ricorrenti alla norma di cui all’art. 109, d. lgs. n. 152/2006, cui rinvia il disposto dell’art. 133, TUA.
Ed invero, è pacifico che l'art. 109, d.lgs. n. 152/2006 (cd. codice dell'ambiente), consente l'immersione in mare di materiale derivante da attività di escavo e di posa in mare di cavi e condotte, distinguendo la diversa tipologia di materiale e la natura dell'intervento, ed ha sottoposto ad autorizzazione l'immersione di tali materiali solo quando sia dimostrata, nell'ambito dell'istruttoria, l'impossibilità tecnica o economica del loro utilizzo ai fini di ripascimento o di recupero, ovvero lo smaltimento alternativo. Nel caso sottoposto all’esame di questa Corte, diversamente, difettano i presupposti di applicabilità della previsione di cui all’art. 109 citato, atteso che non si è trattato di immersione in mare di materiale derivante da attività di escavo e di posa in mare di cavi e condotte, ma di attività diversa, consistente nello “scarico” di rifiuti liquidi derivanti da attività di manutenzione delle navi, svolte all’interno del bacino di carenaggio dell’arsenale militare di Messina, attività che nulla hanno a che fare dunque con l'immersione in mare di materiale derivante da attività di escavo e di posa in mare di cavi e condotte. Peraltro, si aggiunga, la tesi difensiva dà per provato un elemento che, allo stato, risulta essere stato adeguatamente disatteso dagli atti processuali, ossia che le acque in questione non provenissero dall’attività svolta all’interno dell’arsenale, non rilevando, come detto, la circostanza che si trattasse di acque salmastre.
14. Il decimo motivo è inammissibile perché generico e manifestamente infondato.
14.1. E’ anzitutto affetto da genericità per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella ordinanza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi le identiche doglianze difensive svolte nel motivo di riesame (che, vengono, per così dire “replicate” in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elementi di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. Ed invero, è stato già ricordato che è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
14.2. Lo stesso è inoltre da ritenersi manifestamente infondato, atteso che il tribunale del riesame ha spiegato le ragioni per le quali ha disatteso le identiche doglianze difensive esposte nell’istanza. A pag. 5 dell’ordinanza, in particolare, ha ritenuto sussistere, nei limiti della valutazione richiesta in sede riesame, anche il reato di cui al capo C) della rubrica, essendo sufficiente ai fini dell'emissione del decreto di sequestro preventivo "un'alta probabilità di cagionare una compromissione o un deterioramento, signiflcativ! e mlsurabili, dei beni tutelati, in considerazione della natura e dalla durata nel tempo degli scarichi abusivi" (Cass., sez, III, n. 52436 del 06/07/2017), probabilità ritenuta dai giudici del riesame nella specie certamente sussistente, in considerazione della tipologia, numero di lavorazioni e periodo di contestazione (dal novembre 2015).
14.3. Al cospetto di tale apparato argomentativo, il motivo presta il fianco dunque anche al giudizio di manifesta infondatezza, atteso che le doglianze della difesa dei ricorrenti appaiono del tutto prive di pregio, in quanto si risolvono non solo in censure puramente contestative ed in fatto, ma tradiscono in realtà il “dissenso” sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la ordinanza impugnata e tacciandola per una presunta violazione di legge e per un vizio motivazionale con cui, in realtà, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte.
La configurabilità del fumus del reato di cui all’art. 452-bis. cod. pen., è stata infatti giustificata attraverso una motivazione, che pur nella sinteticità del suo apparato argomentativo, è logicamente e giuridicamente corretta, laddove invece le contestazioni difensive che si fondano su un’asserita illogicità e contraddittorietà esterna della motivazione (censurando ancora una volta ex se le attività investigative svolte e la metodologia dei prelievi eseguiti sul fondale marino e la mancata esecuzione di prelievi nei punti che si estendono oltre le aree portuali, pongono questioni che investono all’evidenza il merito del giudizio), le quali rappresentano doglianze, come già esposto in precedenza, non solo manifestamente infondate, ma anche non deducibili in questa sede di legittimità, essendo circoscritto il giudizio di cui all’art. 325, cod. proc. pen. alla sola violazione di legge, tra cui non rientra il vizio di motivazione sotto il profilo del travisamento probatorio (che, si osserva, nel caso di specie, non sarebbe nemmeno rilevabile, atteso che ad essere travisato non è il contenuto degli atti su cui i giudici del merito fondano il loro giudizio, quanto, piuttosto, la realtà dei fatti rappresentata dall’organo di p.g. delegato, che avrebbe riportato dati e descritto una situazione non rispondente al vero e comunque errata, ciò che si risolve nel c.d. vizio di travisamento del fatto).
Deve, conclusivamente, ribadirsi che i limiti della cognizione della Corte di cassazione, anche in relazione ai provvedimenti riguardanti l'applicazione di misure cautelari, devono essere individuati nell'ambito della specifica previsione normativa contenuta nell'art. 325 cod. proc. pen. E’ esclusa, dunque, non solo la possibilità di rilevare vizi di motivazione che non rientrino tra quelli sussumibili nel vizio di violazione di legge, unico deducibile ex art. 325, cod. proc. pen. (vizi che non ricorrono nella fattispecie in esame), ma anche la possibilità di una verifica della rispondenza delle argomentazioni poste a fondamento della decisione impugnata alle acquisizioni processuali o di una "rilettura" degli elementi di fatto, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze delle indagini.
14.4. Quanto, poi, alla asserita insussistenza del periculum del reato in questione, i giudici del riesame forniscono anche una adeguata e corretta motivazione sul punto, individuandolo nella necessità di evitare che la gestione dei bacini avvenga senza il controllo assicurato dal custode nominato in fase esecutiva, con probabilità di aggravamento e protrazione delle conseguenze dei reati. In particolare, si legge nell’ordinanza impugnata come, atteso il mancato rispetto della normativa ambientale, nessuna rassicurazione promana circa la spontanea osservanza in capo agli indagati delle corrette procedure di gestione dei rifiuti prodotti, aggiungendosi altresì che il mantenimento della cautela, peraltro, è sostanzialmente privo di effetti pregiudizievoli per le attività dell'arsenale, essendo stato il sequestro disposto, appunto, con facoltà di utilizzo, benché sotto il controllo del custode.
Peraltro, aggiunge questo Collegio, le deduzioni difensive, tendendo ad escludere la configurabilità del fumus, si fondano su circostanze fattuali successive ai fatti per i quali si procede (si fa’ infatti riferimento ad interventi di adeguamento che sarebbero intervenuti in fase successiva, come si desume dal richiamo ad operazioni di pulizia della carena di nave diversa, oggetto di una successiva commessa), la cui idoneità ai fini dell’esclusione del predetto periculum implica evidentemente accertamenti tecnici certo non richiedibili a questa Corte, donde la deduzione è priva di rilievo in questa sede di pura legittimità.
15. Resta, infine, da esaminare l’undicesimo motivo, che il Collegio ritiene complessivamente infondato.
15.1. Tale motivo è sicuramente generico per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella ordinanza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi le identiche doglianze difensive svolte nel motivo di riesame (che, vengono, per così dire “replicate” in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elementi di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. E non può che ribadirsi quanto già affermato in precedenza, ossia che è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
15.2. Lo stesso è inoltre da ritenersi infondato, atteso che il tribunale del riesame ha spiegato le ragioni per le quali ha disatteso le identiche doglianze difensive esposte nell’istanza. A pag. 5 dell’ordinanza, in particolare, il giudice del riesame ha ritenuto sussistente il reato di cui al capo B), attesa la comprovata assenza di autorizzazioni alle immissioni in atmosfera. Al riguardo, ha osservato il tribunale del riesame, l'argomentazione spesa dal G.l.P. per ritenere inapplicabile al caso di specie la disciplina derogatoria di cui all'art. 272, comma quinto, d. lgs. n. 152/06 è altamente persuasiva. L'esenzione dal rispetto della normativa in materia ambientale prevista anche per le opere destinate alla difesa nazionale non va applicata nell'ipotesi di svolgimento di attività non propriamente militari, ma di tipo privatistico, quali nel caso in questione, la manutenzione di natanti di società private di navigazione.
Rispetto a tale argomentazione, assolutamente condivisibile, nessuna censura espressa, rileva il tribunale del riesame, è stata sollevata dalla difesa, che si è limitata a ribadire l'esistenza della normativa in deroga.
15.3. Ancora una volta, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze della difesa dei ricorrenti appaiono del tutto prive di pregio, in quanto non colgono nel segno.
La configurabilità del fumus del reato di cui all’art. 279, TUA è stata infatti oggetto di puntuale motivazione dal primo giudice e dal giudice del riesame, dianzi illustrata, laddove invece le contestazioni difensive si risolvono nella mera reiterazione della tesi giuridica, adeguatamente confutata dai giudici di merito, circa l’inapplicabilità della disciplina ordinaria in tema di autorizzazione alle immissioni in atmosfera all’installazione militare de qua.
15.4. Sul punto, deve invero confermarsi la correttezza della soluzione giuridica cui sono pervenuti i giudici di merito. Ed infatti, è ben vero che, da un lato, l’art. 272, comma quinto, TUA afferma che “Il presente titolo non si applica agli stabilimenti destinati alla difesa nazionale, fatto salvo quanto previsto al comma 5-bis…” (comma che prevede invece che sono invece soggetti ad autorizzazione gli stabilimenti destinati alla difesa nazionale in cui sono ubicati medi impianti di combustione e che l’autorizzazione dello stabilimento prevede valori limite e prescrizioni solo per tali impianti) e che, dall’altro, l’art. 361, D. lgs. 15/03/2010, n. 66, con norma speculare stabilisce che “Ai sensi dell'articolo 272, comma 5, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, il titolo I della parte V del citato decreto, relativo alla prevenzione e limitazione delle emissioni in atmosfera di impianti e attività, non si applica agli impianti destinati alla difesa nazionale”. Tuttavia, è altrettanto vero che - a prescindere dalla constatazione per cui non risponde del tutto al vero l’affermazione per cui non sarebbero soggetti ad autorizzazione gli stabilimenti destinati alla difesa nazionale (stante la previsione del comma 5-bis, norma che in relazione ai fatti accertati sarebbe entrata in vigore successivamente, essendo stata introdotta dal D.lgs. 15 novembre 2017, n. 183, ma che, comunque, attesa la natura permanente del reato di emissione senza autorizzazione (tra le tante, v.: Sez. 3, n. 192 del 24/10/2012 - dep. 07/01/2013, Rando, Rv. 254335), ove nello stabilimento militare in questione fossero ubicati medi impianti di combustione (circostanza che non emerge dagli atti valutabili da questa Corte e che andrebbe pertanto accertata in sede di merito), dovrebbe ritenersi configurabile per il periodo successivo all’entrata in vigore del d. lgs. n. 183 del 2017, deve in ogni caso rilevarsi che la tesi difensiva, secondo cui il combinato disposto di tali norme escluderebbe la necessità di dotarsi di autorizzazioni alle emissioni in atmosfera (nel presupposto che il regime di prescrizioni che normalmente accompagna le autorizzazioni viene garantito dagli ordini e prescrizioni imposte in ambito militare, non operando alcun distinguo in ordine al destinatario finale dell’attività svolta dall’impianto o alla natura pubblica o privata, militare o civile, del proprietario del bene oggetto di prestazione d’opera), oltre ad essere contraria ad ogni logica (in quanto tende a sostenere che lo svolgimento di attività lavorativa conto terzi da parte di committenti privati, come avvenuto nel caos in esame, escluda l’applicabilità della normativa “ordinaria” sol perché detta attività di manutenzione venga svolta all’interno di un’installazione militare), è smentita dalla stessa normativa applicabile.
15.5. Ed infatti, deve anzitutto essere richiamato il disposto dell’art. 45, d. lgs. n. 66 del 2010 che espressamente stabilisce che “gli stabilimenti e gli arsenali militari, organi di produzione e di lavoro a carattere industriale del Ministero della difesa, per il supporto tecnico e logistico delle Forze armate, assolvono di massima, nei limiti e con le modalità stabilite dalle norme del codice e del regolamento, i seguenti compiti: a) produzione di mezzi e materiali; b) riparazioni, manutenzioni e trasformazioni di mezzi e materiali non eseguibili presso gli organi logistici di forza armata; c) conferimento di commesse esterne, con tutte le conseguenti attività di controllo e collaudo; d) studio ed esperienze; realizzazione di prototipi; e) analisi, studio e controllo in materia di costi e prezzi anche ai fini di un'azione calmieratrice dei prezzi di mercato; f) formazione e aggiornamento ai diversi livelli e per specialità del personale tecnico dipendente dal Ministero della difesa”. Il comma secondo aggiunge, poi, che “gli stabilimenti e arsenali militari, inoltre, concorrono allo studio, nel rispettivo settore, dello sviluppo di attività industriali di particolare interesse militare e della loro eventuale conversione ai fini della produzione bellica”. L’art. 233, d. lgs. n. 66 del 2010, nell’individuare le “opere destinate alla difesa nazionale a fini determinati”, prevede al comma primo che “Ai fini urbanistici, edilizi, ambientali e al fine dell’affidamento ed esecuzione di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, sono opere destinate alla difesa nazionale le infrastrutture rientranti nelle seguenti categorie: (omissis); f) stabilimenti e arsenali; (omissis).
15.6. Orbene, al fine di fornire soluzione giuridica alla questione, occorre correttamente intendersi sulla locuzione “opere destinate alla difesa nazionale”, in cui rientrano gli arsenali militari, presupposto della deroga applicazione della normativa ambientale in questione. Sul punto, in assenza di riferimenti giurisprudenziali espressi, un ausilio interpretativo può trarsi dal consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, formatosi con riferimento alla disciplina delle opere eseguite all’interno di basi, impianti o installazioni militari. A tal proposito, l’orientamento è nel senso che sono considerate infrastrutture militari e quindi “opere destinate alla difesa militare”, anche gli alloggi di servizio per il personale militare (C.d.S., Sez. IV, 28 agosto 2001, n. 4543; 28 ottobre 1999, n. 1638; 25 giugno 1983, n. 470) con la conseguenza, tra l’altro, che esse non sono soggette alla richiesta di rilascio di concessione edilizia. Il primo profilo di criticità che presenta la materia rimane tuttora, nonostante le decisioni intervenute e le specifiche norme emanate, anche di recente, quello dell’esatto significato da attribuire al concetto di “opera destinata alla difesa militare”, locuzione affine a quella utilizzata dall’art. 233, d. lgs. n. 66 del 2010 (“opere destinate alla difesa nazionale”), la cui corretta interpretazione è di ausilio anche per la soluzione della questione giuridica controversa.
Orbene, il discriminare le opere militari (ovvero “opere destinate alla difesa nazionale”, come nel caso qui esaminato), da quelle che tali non sono, ha una sua indubbia importanza proprio in considerazione della normativa di favore di cui le prime hanno usufruito e tuttora - seppur in parte - continuano a godere. Nel nostro ordinamento esiste, come visto, una definizione in termini normativi e generali di opere destinate alla difesa nazionale, quella fornita dall’art. 233 citato, norma che - quanto meno fino all’entrata in vigore del Regolamento per i lavori del Genio Militare, approvato con D.P.R. 19.4.2005 n. 170, oggi abrogato dall'articolo 136, comma 1, lettera b) del D.P.R. 15 novembre 2012, n. 236 (attuale Regolamento recante disciplina delle attività del Ministero della difesa in materia di lavori, servizi e forniture, a norma dell'articolo 196 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163) – ha consentito di disporre di un’elencazione più o meno completa di esse.
L’individuazione di tali opere, come emerge dalla lettura dell’elenco dettato dall’art. 233, d. lgs. n. 66 del 2010, è stata effettuata con particolare rigore dal legislatore e risulta ispirata dalla ricerca di un nesso teleologico che le ricolleghi alle esigenze di “difesa” del Paese. Esigenze di difesa che, ovviamente, non sono solo quelle necessarie in caso di guerra, ma, più in generale, sono tutte quelle finalizzate ad assicurare la sicurezza esterna e interna dello Stato. E ciò indipendentemente dal soggetto che realizzi l’opera, Ministero della Difesa o altra amministrazione.
Principio questo efficacemente precisato dalla Corte Costituzionale che ha infatti escluso che possa, ai fini dell’individuazione di tale tipologia di opere, considerarsi sufficiente il solo criterio soggettivo, “cioè la natura militare dell’Amministrazione interessata ai lavori”, essendo viceversa necessaria la contestuale presenza di specifiche caratteristiche oggettive - teleologiche, finalizzate proprio alla difesa e alla sicurezza del paese (Corte cost., sentenza n. 150 dell’1.4.1992).
Tale precisazione è rilevante, in quanto se è ben vero che la natura di “opera destinate alla difesa nazionale” dell’arsenale militare non può essere posta in discussione, è tuttavia altrettanto vero che quando, all’interno del medesimo, siano svolte attività che – mutuando l’espressione impiegata dal Giudice delle Leggi – per le loro specifiche caratteristiche oggettive - teleologiche, appaiono evidentemente non finalizzate proprio alla difesa e alla sicurezza del paese (qual è pacificamente, l’attività di manutenzione di navi non militari, come nel caso di specie, ove ad essere manutenuta era una nave di una compagnia privata di navigazione), viene a mancare proprio il presupposto giuridico che consente di ritenere “derogabile” la disciplina ordinaria, ossia la finalizzazione dell’attività alla difesa nazionale. In altri termini, laddove all’interno di un’installazione militare come quella in esame vengano svolte attività di prestazione di servizi a soggetti privati dette attività non possono certamente essere considerate come finalizzate alla difesa e alla sicurezza del paese, difettando in toto un nesso teleologico tra l’attività di manutenzione di una nave di proprietà di una compagnia privata e la difesa nazionale, donde corretta risulta l’affermazione dei giudici del riesame per i quali l'esenzione dal rispetto della normativa in materia ambientale prevista anche per le opere destinate alla difesa nazionale non va applicata nell'ipotesi di svolgimento di attività non propriamente militari, ma di tipo privatistico, come nel caso in questione. Non è dunque la natura ex se di “opera destinate alla difesa nazionale” dell’arsenale militare a determinare in assoluto l’esenzione (come del resto è comprovato dalla stessa previsione introdotta dal d. lgs. n. 183 del 2017 che estende l’applicabilità delle norme in tema di tutela dall’inquinamento atmosferico dettate dal d. lgs. n. 152 del 2006 nel caso in cui in uno stabilimento destinato alla difesa nazionale siano ubicati medi impianti di combustione), quanto, piuttosto, lo svolgimento di attività al suo interno finalizzate (esclusivamente, si intende) alla difesa e alla sicurezza del paese a giustificare la deroga di cui al combinato disposto degli artt. 272, comma quinto, TUA e 361, d. lgs. n. 66 del 2010, laddove, come nel caso in esame, dette attività siano svolte a favore di soggetti privati e per la manutenzione di navi non militari, nessuna giustificazione logico – giuridica vi è alla deroga.
Anche tale motivo, pertanto dev’essere ritenuto privo di pregio.
16. I ricorsi devono essere, complessivamente, rigettati.
Segue la condanna di ciascun ricorrente ex art. 616, cod. proc. pen. al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 31 maggio 2019