Cass. Sez. III n. 3395 del 23 gennaio 2017 (Ud 23 nov 2016)
Presidente: Amoresano Estensore: Di Nicola Imputato: Tripoli
Caccia e animali.Distinzione tra uccellagione e generica cattura di uccelli
La distinzione tra uccellagione e generica cattura di uccelli non risiede nell'uccisione degli uccelli, ma nell'impiego di qualsiasi impianto, mezzo e metodo di cattura o di soppressione, in massa o non selettiva o che possa portare localmente all'estinzione di una specie
RITENUTO IN FATTO
1. Mario Tripoli ricorre per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza con la quale il tribunale di Termini Imerese lo ha condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi quattro di arresto ed euro 150,00 di ammenda, oltre che al pagamento delle spese processuali.
Al ricorrente è stato contestato, unitamente a Giovanni Ferrara nel frattempo deceduto, il reato (capo a) di cui agli artt. 110 e 727, comma 2, del codice penale perché, in concorso fra loro, detenevano animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di sofferenze, nello specifico n. 3 cardellini costretti in gabbie di piccole dimensioni collocate all'interno di una borsa chiusa riposta nel vano bagagli dell'autovettura nonché del reato (capo b) di cui agli articoli 110 del codice penale e 30 lettera e) Legge n. 157 del 1992, perché, in concorso fra loro, esercitavano l'uccellagione catturando esemplari di cardellini con l'uso di due gabbie, due reti in nylon, quattro bastoni con laccio posto ad una estremità, una spoletta artigianale ed una corda ed ancora del reato (capo c) di cui agli articoli 110 del codice penale e 4 legge 110 del 1975, perché, in concorso fra loro e senza giustificato motivo, portavano fuori dalla propria abitazione o delle appartenenze di essa n. due coltelli a serramanico con 7 e 6 cm di lama. In Ventimiglia di Sicilia, il 28 marzo 2012.
2. Per l'annullamento dell'impugnata sentenza il ricorrente solleva un unico complesso motivo di impugnazione, qui enunciato ai sensi dell'articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Con esso il ricorrente lamenta la violazione della legge penale per erronea o falsa applicazione dell'articolo 30, lettera e), Legge n. 157 del 1992 in riferimento al reato di cui al capo b) della rubrica (articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale).
Osserva che la condotta posta in essere (cattura di esemplari di cardellini con l'uso di due gabbie, due reti in nylon, quattro bastoni con laccio posto ad un'estremità, una spoletta artigianale ed una corda) esclude l'ipotesi di reato dell'uccellagione, posto che nel caso in esame andava contestata la fattispecie di minore entità che si configura nella mera cattura di uccelli. Ciò alla luce dell'attrezzatura rinvenuta in sede di perquisizione ed indicata nel capo d'accusa. Perché si configuri il reato di uccellagione assumono fondamentale importanza, secondo l'assunto del ricorrente, i mezzi, le modalità e gli strumenti utilizzati per la cattura dei volatili, con riferimento particolare all'uso di specifiche reti che per le loro caratteristiche consentono la cattura in massa di uccelli. L'uso di reti diverse di dimensioni più contenute rientra invece nell'ipotesi dell'esercizio della caccia con mezzi vietati, ovvero dell'attività della semplice cattura di uccelli, sanzionata dall'art. 30, primo comma, lettera h), della legge 157 del 1992.
Conclude, pertanto, chiedendo l'assoluzione con riferimento al reato di cui al capo b) dell'imputazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è parzialmente fondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.
2. Con fondamento il ricorrente deduce la violazione della legge penale con riferimento alla statuizione di condanna per il reato di uccellagione.
La Corte di cassazione ha affermato, anche recentemente, che la linea di demarcazione tra l'uccellagione e la caccia con mezzi vietati è rappresentata dalla possibilità, insita solo nella prima, che si verifichi un indiscriminato depauperamento della fauna selvatica a cagione delle modalità dell'esercizio venatorio e in considerazione della particolarità dei mezzi adoperati (ex multis, Sez. 3, n. 11350 del 10/02/2015, Ungaro, Rv. 262808).
Una lettura sistematica della legge n. 157 del 1992 consente di rintracciare, all'articolo 21, lettera v), una disposizione che pone un divieto assoluto di vendita a privati (e vieta la detenzione da parte di privati) di "reti da uccellagione", con ciò mettendosi in risalto che il legislatore ha voluto operare una significativa distinzione tra la cattura di uccelli mediante l'utilizzo di semplici reti con quella ove è previsto l'uso di reti definite "da uccellagione".
E' pacifico infatti che la legge 11 febbraio 1992, n. 157 distingue tra uccellagione e cattura di uccelli, nei cui confronti la caccia non è consentita, all'art. 30 lett. e), h). I due menzionati termini non trovano, però, una definizione precisa. A tal fine occorre fare riferimento alle direttive comunitarie (79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979; 85/411/CEE della Commissione del 3 25 luglio 1985; 91/244/CEE della Commissione del marzo 1991) alle convenzioni internazionali (Convenzione di Parigi del 18 ottobre 1950, resa esecutiva con legge 24 novembre 1978, n. 812; Convenzione di Berna del 19 settembre 1979, resa esecutiva con legge 5 agosto 1981, n. 503). La distinzione tra uccellagione e generica cattura di uccelli non risiede nell'uccisione degli uccelli, ma nell'impiego di qualsiasi impianto, mezzo e metodo di cattura o di soppressione, in massa o non selettiva o che possa portare localmente all'estinzione di una specie (Sez. 3, n. 2423 del 20/02/1997, Carlesso, Rv. 207635).
Nel caso in esame, come fondatamente lamenta il ricorrente, non è stata rinvenuta alcuna attrezzatura che evochi quella necessaria per esercitare l'uccellagione, posto che i cacciatori risultavano equipaggiati con semplici strumenti artigianali e rudimentali, utilizzati per catturare singoli esemplari di cardellini.
Peraltro, la perquisizione personale e veicolare operata nei confronti dei entrambi gli imputati aveva portato al sequestro penale di due gabbie di dimensioni molto contenute, circa 25x25x14 cm, incompatibili con l'astratta cattura di massa perché potevano ospitare al loro interno un limitatissimo numero esemplari.
E' anche fondato il rilievo secondo il quale il reato di uccellagione non può essere integrato quando per il numero e per le caratteristiche della fauna selvatica catturata nonché per l'attrezzatura rivenuta sia possibile ammettere, senza alcun dubbio, la predisposizione alla cattura di qualche singolo esemplare, con la conseguenza che non è configurabile il reato di uccellagione quando il materiale sequestrato sia inidoneo e del tutto incompatibile ai fini dell'integrazione di tale fattispecie di reato, proprio perché essa è diretta alla cattura di un numero indiscriminato di esemplari, ivi compresi quelli dei quali la cattura è vietata in modo assoluto, mentre la caccia con mezzi vietati è diretta alla cattura di singoli e specifici esemplari, fermo restando che costituisce uccellagione la cattura da uccelli con "reti da uccellagione" indipendentemente dal fatto che gli uccelli catturati siano abbattuti o mantenuti in vita.
Effettivamente, nel caso in esame, non risulta in alcun modo provata, e nemmeno in fatto contestata al ricorrente, una qualsivoglia ipotesi di abbattimento o di uccisione indiscriminata di esemplari di fauna selvatica, con la conseguenza che la condotta va riqualificata e il fatto di reato va individuato nella fattispecie di cui all'articolo 30, lettera h), della legge n. 157 del 1992.
3. Tuttavia, nulla consegue dalla riqualificazione dell'imputazione, neppure sotto il profilo del trattamento sanzionatorio (unica ragione che sostiene il concreto interesse al ricorso), perché la pena inflitta al ricorrente per tutti i reati in ordine ai quali egli ha riportato condanna è stata già determinata, pur considerando il più grave reato di uccellagione invece che di caccia con uso di mezzi vietati, in misura inferiore ad ogni possibile minimo edittale, dovendosi considerare che tra i reati contestati quello più grave va identificato nell'articolo 4 della legge 14 aprile 1975, n. 110 che prevede la pena dell'arresto da sei mesi a due anni e l'ammenda da 1000 a euro 10.000, laddove il ricorrente ha riportato una condanna alla pena di quattro mesi di arresto ed euro 150 di ammenda.
Orbene, tenuto conto che al ricorrente non sono state neppure concesse le attenuanti generiche e che, sul punto, nessun motivo di impugnazione è stato sollevato, la pena, come erroneamente determinata dai giudici del merito, non è suscettibile di ulteriori diminuzioni perché già commisurata in violazione dei minimi edittali.
Infatti, in tema di impugnazioni, il divieto di "reformatio in peius" così come esclude che, nel caso di impugnazione del solo imputato, il giudice dell'impugnazione possa rideterminare, in danno dell'imputato stesso, la pena già in precedenza commisurata al di sotto dei minimi edittali, sia pure nel caso in cui pronunci sentenza assolutoria per uno dei reati contestati o proceda alla derubricazione di uno di essi, allo stesso modo il divieto di "reformatio in peius" non è infranto dal giudice dell'impugnazione che, nel pronunciare sentenza parzialmente assolutoria per uno dei reati in continuazione o derubricando uno di essi, non provvede a ridurre la pena complessiva per aver il precedente giudice determinato la pena base in misura inferiore al minimo edittale, ciò in quanto l'obbligo imposto dall'art. 597, comma quarto, cod. proc. pen. presuppone che la pena da ridurre sia stata determinata in maniera legale, ovvero in misura eguale o superiore al minimo edittale (Sez. 3, n. 39882 del 03/10/2007, Costanzo, Rv. 238009).
Consegue, pertanto, il rigetto del ricorso nel resto.
P.Q.M.
Qualifica il fatto di cui al capo b) ai sensi dell'articolo 30, lettera h) legge 157 del 1992 e rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 23/11/2016