Cass. Sez. III n. 342 del 7 gennaio 2019 (Ud 25 ott 2018)
Pres. Ramacci Est. Reynaud Ric. Montanari
Urbanistica.Volumi tecnici e responsabilità penale

Non integra la contravvenzione di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, in difetto di permesso di costruire, dei cd. "volumi tecnici", cioè di quei volumi strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione alla quale si connettono, alla duplice condizione negativa che tali impianti non possano trovare ubicazione, per evidenti ragioni di funzionalità, entro il corpo dell'edificio asservito e che non vi sia sproporzione, in termini di ingombro, tra tali volumi e le esigenze effettivamente sussistenti

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 31 ottobre 2017, la Corte d’appello di Bologna ha confermato la pronuncia di condanna emessa in primo grado nei confronti dell’odierno ricorrente Gian Carlo Montanari in ordine al reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, per avere realizzato, senza permesso di costruire, una struttura di copertura di una preesistente piscina ed una casetta in legno quali descritte nell’imputazione.

2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

3. Con il primo motivo del ricorso si deduce violazione della norma incriminatrice in relazione all’art. 6, comma 1, lett. e quinquies), d.P.R. 380 del 2001, quale introdotto dall’art. 3, d.lgs. 222 del 2016 e applicabile retroattivamente ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., trattandosi di norma integrativa del precetto penale. In particolare, per la citata disposizione costituiscono interventi non assoggettati al rilascio del titolo abilitativo «le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali», e le opere oggetto di processo sarebbero riconducibili a tale categoria, anche in analogia ad alcuni manufatti (il gazebo ed il pergolato) indicati nel glossario delle attività di edilizia libera approvato ai sensi dell’art. 1, comma 2, d.lgs. 222 del 2016.

4. Con il secondo motivo si deducono violazione della norma incriminatrice in relazione all’art. 3, comma 1, lett. e.5), d.P.R. 380 del 2001, dell’art. 192 cod. proc. pen. e delle N.T.A. del R.U.E. del Comune di Sasso Marconi, nonché vizio di motivazione, per non essere state qualificate le opere come dirette a soddisfare esigenze temporanee – e quindi non assoggettate a permesso di costruire - in conformità alle previsioni del regolamento edilizio comunale, che al proposito considera le coperture mobili di spazi aperti senza indicare limiti volumetrici. Il casotto eretto a copertura degli impianti, poi, dovrebbe considerarsi un mero vano tecnico.

5. Con il terzo motivo si deducono violazione della norma incriminatrice in relazione all’art. 3, comma 1, lett. e.6), d.P.R. 380 del 2001 e vizio di motivazione, per non essere state qualificate le opere come pertinenze dell’edificio principale, benché il loro volume non eccedesse il 20% della volumetria di quello, adducendosi peraltro motivazioni illogiche e contraddittorie.

6. Con il quarto motivo si deducono violazione della norma incriminatrice in relazione all’atto di coordinamento sulle definizioni tecniche uniformi per l’edilizia e l’urbanistica adottato ai sensi degli artt. 16 l.reg. Emilia Romgna n. 20/2000  23 l.reg. Emilia Romagna n. 31/2002 e difetto di motivazione per non essere stato ritenuto quale vano tecnico la casetta in legno contenente gli impianti per il riscaldamento e la pulizia dell’acqua della piscina.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.    Il primo motivo di ricorso è inammissibile, trattandosi di violazione di legge non dedotta in grado di appello.
 Richiamando consolidati principi affermati con riguardo alla causa di inammissibilità di cui all’art. 606, comma 3, ult. parte, cod. proc. pen., deve ribadirsi che è inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca una violazione di legge se non si procede alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di appello, contenuto nella sentenza impugnata, che non menzioni la medesima violazione come doglianza già proposta in sede di appello, in quanto, in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve ritenersi proposto per la prima volta in cassazione, e quindi tardivo (Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, Ciccarelli e a., Rv. 270627; Sez. 2, n. 9028/2014 del 05/11/2013, Carrieri, Rv. 259066). Nella specie ciò non è stato fatto e per ciò solo il ricorso sarebbe inammissibile per genericità.
Deve aggiungersi che l’esame dell’atto d’appello e del verbale del giudizio di secondo grado ha consentito al Collegio di verificare che la violazione di legge non era stata effettivamente dedotta né nel primo (obiettivamente redatto prima dell’entrata in vigore della norma la cui inosservanza viene qui censurata) né, con motivi aggiunti oppure anche solo a verbale, in occasione del giudizio, quando la disciplina invocata era invece già da tempo in vigore, ciò che avrebbe consentito – ed imposto, per coltivarla nel prosieguo del procedimento - di sottoporre la questione al giudice di secondo grado. In casi similari, infatti, questa Corte ha sempre ritenuto che, non essendo invocabile l’art. 609, comma 2, ult. parte, cod. proc. pen., ricorra la causa di inammissibiilità del ricorso di cui al precedente art. 606, comma 3, ult. parte. (cfr., quanto alla causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., Sez. 3, n. 23174 del 21/03/2018, G, Rv. 272789; Sez. 5, n. 57491 del 23/11/2017, Moio, Rv. 271877; Sez. 3, n. 19207 del 16/03/2017, Celentano, Rv. 269913).

2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Premesso che il regolamento edilizio comunale non può ovviamente derogare alla disciplina di fonte statale, penalmente sanzionata, che assoggetta determinate opere al previo rilascio del permesso di costruire – sicché la Corte territoriale non era tenuta a rendere specifica motivazione per confutare l’opinione espressa dal consulente della difesa Brini circa il fatto che, a suo giudizio, il RUE del Comune di Sasso Marconi avrebbe consentito la realizzazione di quelle opere pur in assenza di permesso – la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto la necessità di quel titolo edilizio e le censure al proposito svolte in ricorso circa l’applicabilità della deroga prevista dall’art. 3, comma 1, lett. e.5), d.P.R. 380 del 2001 sono generiche e manifestamente infondate. Proprio la disposizione invocata dal ricorrente, invero, conferma la correttezza del giudizio reso dal giudice d’appello.
Quanto alla copertura della piscina, richiamando consolidata giurisprudenza, la sentenza impugnata ha giustamente escluso che si trattasse di opera destinata a  soddisfare esigenze meramente temporanee, posto che la copertura – e lo stesso ricorrente sostanzialmente lo riconosce – era stata realizzata, e veniva in concreto utilizzata, stagionalmente, tutti gli anni, durante i mesi meno caldi. Di fatti, in materia edilizia, al fine di ritenere sottratta al preventivo rilascio del permesso di costruire la realizzazione di un manufatto, l'asserita precarietà dello stesso non può essere desunta dal suo carattere stagionale, ma deve ricollegarsi - a mente di quanto previsto dall'art. 6, comma secondo, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, come emendato dall'art. 5, comma primo, D.L. 25 marzo 2010, n. 40 (convertito, con modificazioni, nella l. n. 73 del 2010) - alla circostanza che l'opera sia intrinsecamente destinata a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee, e ad essere immediatamente rimossa al venir meno di tale funzione (Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e a.,  Rv. 267759; Sez. 3, n. 34763 del 21/06/2011, Bianchi, Rv. 251243). Contrariamente a quanto opina il ricorrente, peraltro, la giurisprudenza formatasi in materia di opere stagionali ha sempre riguardato casi analoghi a quello di specie, vale a dire opere destinate ad essere ciclicamente utilizzate (mediante installazione e successivo smontaggio) in talune stagioni dell’anno.
Quanto al manufatto in legno, non v’è dubbio – e neppure il ricorrente lo contesta – che si trattasse di struttura permanente, sicché proprio in base alla disposizione evocata dal ricorrente (che riguarda, tra l’altro, «l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere…utilizzati come…depositi, magazzini e simili») deve concludersi per la natura di intervento di nuova costruzione assoggettato al permesso di costruire. Quanto al fatto che  si tratterebbe di mero “vano tecnico che non fa superficie utile” se ne dirà più oltre analizzando l’ultimo motivo che tale questione specificamente prospetta.

3. E’ inammissibile anche il terzo motivo di ricorso.
Premesso che la qualificazione della pertinenza – come già fatto nell’atto d’appello – viene in ricorso illustrata soltanto con riguardo alla copertura della piscina, è ben vero che due degli argomenti utilizzati nella sentenza impugnata per disattendere la doglianza non sono persuasivi (il fatto che la struttura potesse avere una molteplicità di utilizzi e che avesse un valore di mercato, inteso nel senso di costo), ma il terzo argomento è di per sé sufficiente ed assolutamente logico. Va dunque richiamato il principio, ripetutamente affermato da questa Corte, circa il difetto di specificità, con violazione dell’art. 581 cod. proc. pen., del ricorso per cassazione che si limiti alla critica di una sola delle rationes decidendi poste a fondamento della decisione, ove siano entrambe autonome ed autosufficienti (Sez.  3, n. 2754 del 06/12/2017, dep. 2018, Bimonte, Rv. 272448;  Sez. 3, n. 30021 del 14/07/2011, F., Rv. 250972; Sez. 3, n. 30013 del 14/07/2011, Melis e Bimonte, non massimata) e, sotto altro angolo visuale, negli stessi casi, il difetto di concreto interesse ad impugnare, in quanto l'eventuale apprezzamento favorevole della doglianza non condurrebbe comunque all’accoglimento del ricorso (Sez. 6, n. 7200 del 08/02/2013, Koci, Rv. 254506).
 La sentenza, infatti, esclude giustamente la natura pertinenziale del manufatto in considerazione delle sue consistenti dimensioni («la copertura infatti era lunga circa 19 m. e larga circa 9 con un’altezza variabile dai 2,60 m ai 3,60 m»). Trattandosi, dunque, di opera che occupa una superficie di 170 mq. per un’altezza media superiore ai 3 metri (per oltre 500 mc.) il giudizio di merito è tutt’altro che illogico ed è aderente alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, che ha sempre richiesto, perché possa parlarsi di pertinenza, che il manufatto abbia ridotte dimensioni (cfr., ex multis, Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e a., Rv. 253064; Sez. 3, n. 37257 del 11/06/2008, Alexander, Rv. 241278). Al proposito, le allegazioni del ricorrente sono manifestamente infondate e non si confrontano con la sentenza impugnata (è fuor di luogo commentare il rilievo secondo cui, quando la struttura è “impacchettata” nei mesi di non utilizzo, essa occupa solo alcuni metri).
Quanto al fatto che l’opera non supererebbe il 20% dell’edificio principale, il rilievo è generico (non sono neppure indicate le dimensioni di detto edificio) ed è comunque irrilevante. Dalla previsione di cui all’art. 3, comma 1, lett. e.6), d.P.R. 380 del 2001, che considera interventi di nuova costruzione assoggettati a permesso di costruire, tra l’altro, quelli «che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale», non può ricavarsi, a contrario, che laddove tale soglia non sia superata, il manufatto, pur destinato a servizio di quello principale, sia da qualificarsi pertinenza non soggetto a tale regime, essendo pur sempre necessario, come richiesto dalla consolidata giurisprudenza, che esso abbia dimensioni oggettivamente ridotte. Diversamente opinando, si finirebbe – tradendo la ratio della disciplina normativa – per escludere dal previo controllo dell’ente comunale interventi di trasformazione del territorio di sicuro impatto urbanistico per l’oggettiva consistenza (quale certamente è quello in esame) sol perché funzionali ad edifici di enormi dimensioni (ciò che, nella specie, non è invece stato neppure provato).

4. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
Deve osservarsi, in primo luogo, che la disciplina regionale di cui il ricorrente lamenta la violazione non riguarda in alcun modo il titolo edilizio necessario per realizzare determinate opere, né, peraltro, potrebbe farlo – in difetto di specifica previsione della legge statale – essendo quest’ultima una disciplina che rileva ai fini dell’applicazione della legge penale, riservata all’esclusiva competenza del legislatore statuale (art. 117, secondo comma, lett. l, Cost.). Si tratta invece – come emerge dal contenuto e dalla stessa titolazione dell’Atto di coordinamento tecnico adottato in forza delle disposizioni regionali richiamate (atto di coordinamento sulle definizioni tecniche uniformi per l’urbanistica e l’edilizia, e sulla documentazione necessaria per i titoli abilitativi edilizi) – di una disciplina di carattere squisitamente tecnico volta ad uniformare, in ambito regionale, tra l’altro, le modalità di calcolo e di verifica concernenti gli indici e i parametri edilizi. Soltanto in quest’ambito, dunque, rileva il punto 20 delle allegate Definizioni Tecniche Uniformi, laddove precisa che i vani tecnici che ospitano qualsivoglia impianto tecnologico dell’edificio non costituiscono superficie utile né accessoria e non tratta il tema del titolo edilizio richiesto per la loro realizzazione.
In secondo luogo, non è manifestamente illogica la motivazione della sentenza impugnata laddove esclude comunque natura di vano tecnico alla casetta in legno abusiva oggetto d’imputazione, sul rilievo che la stessa ha caratteristiche («ampia oltre 12 m quadri, di altezza variabile da metri 2,40 a metri 4, dotata di due porte di accesso di notevoli dimensioni e di finestre») incompatibili con la semplice necessità di contenere le pompe per il funzionamento della piscina e la caldaia per il riscaldamento dell’acqua. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte – che di regola ha affrontato il tema in rapporto alla nozione di pertinenza urbanistica, in ricorso peraltro non specificamente affrontato -  sono "volumi tecnici" quelli strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione (serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda), che non possono trovare allocazione, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche (Sez. 3, n. 22255 del 28/04/2016, Casu, Rv. 267289-01). Con particolare riguardo al profilo qui in disamina, si è affermato che, in tema di reati edilizi, non integra la contravvenzione di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, in difetto di permesso di costruire, dei cd. "volumi tecnici", cioè di quei volumi strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione alla quale si connettono, alla duplice condizione negativa che tali impianti non possano trovare ubicazione, per evidenti ragioni di funzionalità, entro il corpo dell'edificio asservito e che non vi sia sproporzione, in termini di ingombro, tra tali volumi e le esigenze effettivamente sussistenti (Sez. 3, n. 14281 del 04/02/2016, Mocetti, Rv. 266394 – 01). Come si è detto, la sentenza impugnata esclude motivatamente la sussistenza di tale ultima condizione e non presta pertanto il fianco a censure di sorta.

5. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità,  consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., oltre all'onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di €. 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 25 ottobre 2018.